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Joachim Fest

La Disfatta
Gli ultimi giorni di Hitler e la fine del Terzo Reich
Der Untergang, 2002
Nella storia recente non c'è avvenimento catastrofico che possa
essere paragonato alla fine del Terzo Reich germanico nel 1945. Mai in
precedenza il tracollo di un impero aveva comportato la perdita di tante
vite umane, la distruzione di tante città, la devastazione di interi
territori. Non furono solo gli orrori inevitabili di una sconfitta,
accentuati dal potere distruttivo delle guerre moderne. Nell'agonia che
cancellò l'impero, quando ormai tutti sapevano che la guerra era
perduta, compreso il Führer, sembra fosse all'opera una forza
deliberata che portò alla distruzione un intero paese. Dal suo bunker
Hitler stesso diede ordine di demolire tutte le infrastrutture necessarie
alla continuazione della vita.
In La disfatta. Gli ultimi giorni di Hitler e la fine del Terzo Reich
Joachim Fest ricostruisce l'apocalisse tedesca, che condusse un esercito
e un intero popolo a eseguire fino all'ultimo ordini di cui avrebbero
potuto comprendere la follia e l'insensatezza.
Joachim Fest è nato a Berlino nel 1926. Studioso del Reich e
biografo di Hitler, è stato a lungo direttore editoriale della «Frankfurter
Allgemeine». Tra i suoi libri, Garzanti ha pubblicato La libertà difficile
(1992), Il sogno distrutto (1996), Obiettivo Hitler (1996), Speer
(2000), e riproposto con una nuova prefazione la monumentale
biografia Hitler (1999).
Introduzione

Nella storia recente non c'è avvenimento catastrofico che possa


essere paragonato alla fine del Terzo Reich nel 1945. Mai in
precedenza il tracollo di un impero aveva comportato la cancellazione
di tante vite umane, la distruzione di tante città, la devastazione di
interi territori. A ragione Harry L. Hopkins, consigliere di entrambi i
presidenti statunitensi durante la guerra, evocò di fronte alle macerie di
Berlino un'immagine della storia antica: la distruzione di Cartagine.
Quello che passarono e soffrirono coloro che vissero quei giorni non
furono solo gli orrori inevitabili d'una sconfitta, accentuati dal potere
distruttivo delle guerre moderne. Sembrò piuttosto che nell'agonia che
cancellò l'impero di Hitler fosse all'opera una forza deliberata che fece
di tutto non solo perché la sua tirannia cessasse, ma perché addirittura
affondasse con lui l'intero paese. Hitler aveva detto, fin da quando era
andato al potere, e poi di continuo ripetuto, che non avrebbe mai
capitolato; e nei primi giorni del 1945 aveva ribadito al suo aiutante di
campo della Luftwaffe: «Sì, noi potremo andare a picco. Ma
trascineremo con noi un mondo».
Hitler sapeva da tempo che la guerra era perduta. Le sue prime
ammissioni risalgono al novembre del 1941. Però continuò a disporre
di una forza sufficientemente rovinosa. Dietro agli appelli alla
resistenza e alle sollecitazioni alla difesa a oltranza degli ultimi mesi
non si può non cogliere una specie di tono di giubilo, come quello per
esempio che erompe dallo sfogo di Robert Ley al cospetto della
devastazione di Dresda: «Tiriamo quasi un sospiro di sollievo! Ora è
finita! Ora non saremo più distratti dai [...] monumenti della cultura
tedesca!». Goebbels parlò per parte sua delle «mura infrante di una
prigione», ora «ridotte a un ammasso di rovine». Lo stesso Hitler, fin
dal novembre del 1944 e poi di nuovo con il cosiddetto «ordine
neroniano» del 19 marzo 1945, aveva dato disposizione che fossero
demolite tutte le infrastrutture necessarie alla continuazione della vita:
gli stabilimenti industriali e gli impianti di distribuzione e di
approvvigionamento, le strade, i ponti, perfino le fognature, così che
all'avversario non cadesse in mano altro che un «deserto di civiltà».
Hitler passò gli ultimi mesi della guerra nel bunker che aveva fatto
allestire agli inizi degli anni Quaranta. Da lì, da quasi dieci metri sotto
terra, manovrò armate da tempo battute e disgregate e diede l'avvio a
«battaglie decisive» che non si sarebbero mai combattute. Di Claus
Schenk von Stauffenberg, l'attentatore del 20 luglio 1944, si ricorda
l'osservazione che fece alla vista del quartier generale del Führer
sepolto sotto tonnellate di cemento armato: «Hitler nel bunker! questo
è il vero Hitler!». In effetti, il misto di freddezza, di apocalittica
volontà di distruzione e di pathos melodrammatico che connotano le
decisioni prese da Hitler negli ultimi tempi rivelano molto dei tratti più
vistosi del suo carattere; nulla, meglio del comportamento di quelle
settimane in cui si isolò totalmente dal mondo, consente di capire fino
in fondo gli impulsi e le spinte interiori che governarono la sua
esistenza. Nell'imminenza della fine, questo atteggiamento trovò la sua
ultima (e massima) espressione: l'odio per il mondo intero,
l'irrigidimento nei modelli mentali precocemente acquisiti,
quell'inclinazione alle scelte e alle decisioni impensabili che lo aveva
per tanto tempo aiutato a passare di successo in successo. E gli era
rimasta ancora la possibilità di inscenare, in modo perfino più
grandioso di quanto avesse mai immaginato, uno dei grandi spettacoli
ai quali aveva mirato per tutta la sua vita.
Per capire gli avvenimenti (e il quadro in cui si verificarono) occorre
tener presente l'incontestata autorità che Hitler continuò a esercitare
nonostante le infermità concordemente descritte da tutti gli osservatori.
A momenti si ha addirittura l'impressione che il suo aspetto malato ed
emaciato, e il palese sforzo che gli costava trascinarsi per quegli
ambienti sotterranei, abbiano addirittura reso più impressionanti le sue
apparizioni. In ogni caso, quasi nessuno osò contraddirlo. Durante i
quotidiani esami della situazione bellica, i generali esperti e gli
ufficiali pluridecorati che si radunavano attorno a lui rimanevano muti
e con i volti volutamente inespressivi. Eseguirono imperterriti le
disposizioni che furono loro date benché ne avessero perfettamente
comprese la follia e l'insensatezza.
Nel libro si offrirà, a sostegno di queste e di alcune altre
considerazioni, una fitta e non di rado sconcertante e costernante serie
di esempi, difatti e di decisioni, che conferirono agli avvenimenti una
singolare drammaticità. Tanto più stupefacente è la «luce incerta» che
avvolge gli eventi accaduti all'interno del bunker del Führer.
L'espressione è dello storico inglese Hugh R. Trevor-Roper, autore
della prima, affidabile ricostruzione degli Ultimi giorni di Hitler, come
suona il titolo della sua cronaca pubblicata fin dal 1946. Nel frattempo,
però, questa luce non è diventata molto più chiara. Solo sulla questione
delle circostanze e del modo in cui Hitler si uccise esistono a dir poco
quattro testimonianze, diverse e contraddittorie, rese da persone del
suo più stretto entourage. Lo stesso si può affermare a proposito della
fine che fecero i corpi del dittatore e della moglie (sposata la notte
precedente), così come dell'«assalto» che i russi sostengono di aver
dato alla Cancelleria del Reich e di altri avvenimenti ancora.
L'incertezza dei dati disponibili dipende in parte dal fatto che le
indagini storiche, comprese quelle di Trevor-Roper, cominciarono
soltanto diversi mesi dopo gli avvenimenti, quando i più importanti
testimoni erano spariti nel caos della guerra o erano stati fatti
prigionieri dai sovietici, ed erano quindi irraggiungibili. Numerosi
sottufficiali e graduati delle ss che facevano parte della guarnigione
della Cancelleria, ma anche ufficiali della Wehrmacht, impegnati nella
difesa di Berlino, nonché il personale del bunker e perfino i dentisti di
Hitler tornarono in Germania soltanto nel 1955, dopo una famosa visita
dell'allora cancelliere tedesco Konrad Adenauer a Mosca.
Ci si ritrovò così improvvisamente ad avere a disposizione un
notevole numero di persone che avrebbero potuto fornire informazioni
di prima mano su quello che è indubbiamente uno degli eventi più
clamorosi e ricchi di conseguenze della storia tedesca. Però l'occasione
di interpellarli andò perduta. Né l'avvenimento in sé, né coloro che ne
erano stati in un modo o nell'altro partecipi riuscirono a suscitare, in
quel momento, particolare interesse. Le ragioni furono diverse.
Fra queste va sicuramente annoverata la percezione dello sfacelo del
Reich come una catastrofe nazionale. Sennonché la nazione, allora,
non esisteva più, e il concetto di «catastrofe» cadde vittima, con
l'accentuarsi della distanza temporale, d'una delle tante e cavillose
discussioni tedesche. Molti percepirono nel termine catastrofe il valore
di «destino ineluttabile» e di «diniego di colpa», come se ciò che era
successo fosse per così dire caduto da una nube temporalesca,
affacciatasi inopinatamente nel cielo della storia tedesca. Inoltre il
concetto di catastrofe non comprendeva quello di liberazione, che nel
frattempo si volle immediatamente pensato e compreso in ogni
considerazione che riguardasse gli eventi del 1945.
Questo fu un primo complesso di motivi che produssero la strana
indifferenza dinanzi al problema della ricerca e dell'accertamento delle
fonti relative a quegli eventi. Soltanto alcuni giornalisti esperti di
inchieste di natura storica (per lo più di origine anglosassone) si
occuparono dell'argomento a partire dagli anni Sessanta, e
interpellarono anche le persone presenti ai fatti. Un ruolo importante lo
ebbe anche la nuova impostazione della ricerca storica che proprio in
quel tempo cominciò a scoprire l'importanza delle strutture nel
processo storico e a considerare quindi per dirla in parole semplici
molto più importanti le connessioni e le condizioni sociali che i fatti in
sé. L'elementare bisogno di richiamare alla mente e di delineare i nudi
fatti, che pure è, o dovrebbe essere all'inizio di ogni valutazione
storica, fu da allora malvisto e bandito come «non scientifico»; e lo
stesso atteggiamento investì anche la tecnica espositiva.
Contemporaneamente ogni argomento storico d'un qualche taglio
drammatico si trovò esposto a discredito, come se la sua narrazione
dovesse necessariamente scadere in una specie di romanzo giallo. Più
in generale, la tendenza a essere attratti solo dall'indagine minuta e
settoriale (tendenza che è maggioritaria tra gli storici dell'attuale
generazione) induce a sottrarsi all'esame dei contesti maggiori, tanto
più se questi sono carichi di elementi di tensione. Ma è un bene che,
almeno ogni tanto, il cronista metta da parte la lente d'ingrandimento.
Perché anche l'assemblaggio, la connessione, il momento in cui ogni
parte si combina con le altre ha la sua importanza e consente di
acquisire elementi di conoscenza che nessuna osservazione dettagliata
può fornire.
La ricostruzione degli avvenimenti da me condotta è stata scritta
proprio con questo intento. Lo spunto mi è stato offerto da un
contributo sul tema del «Bunker del Führer» che ho elaborato circa un
anno e mezzo fa per un'opera collettiva, Deutsche Erinnerungsorte
(Luoghi tedeschi del ricordo), edita a cura di Etienne François e Hagen
Schulze. Il saggio, necessariamente breve (e comprensivo fra l'altro
della storia del palazzo della Cancelleria del Reich nella berlinese
Wilhelmstrasse), si è limitato alla descrizione dell'ultimo giorno della
vita di Hitler nonché, per pochi accenni, degli eventi che lo seguirono.
Quando il libro è uscito, sono pervenute agli autori parecchie
richieste di persone che volevano sapere da quale pubblicazione si
potesse acquisire un quadro anche solo sommario del crollo del Reich.
Soltanto in quel momento ho fatto caso che, eccettuate poche
esposizioni nel frattempo superate per alcuni aspetti particolari, non c'è
praticamente testo che prospetti i terribili avvenimenti di quelle
settimane alla luce delle nozioni e delle informazioni più recentemente
acquisite. Lo stesso discorso vale per ciò che accadde dopo, quando, a
sipario già calato e assecondando certi capricci della storia, alcune
scene della sanguinosa tragedia continuarono a essere recitate sul
proscenio.
Gli autori citati alla fine di questo libro (e le loro opere, in quella
sede anche in parte brevemente riassunte) hanno spesso ampliato in
misura considerevole la conoscenza dello svolgimento dei fatti. Però
mancava e manca tuttora un quadro d'assieme che tenga conto non solo
del corso degli eventi ma anche di alcuni importanti aspetti secondari e
dei retroscena. La descrizione dei fatti non vuole né può costituire, a
sua volta, altro che un impulso ad approfondire. Perciò la definisco
«abbozzo storico». In quattro capitoli, di tipo espositivo, illustro gli
avvenimenti turbolenti di quei giorni, marcati dall'incombere
ineludibile della sciagura, nonché il mondo del bunker e quello della
capitale tedesca che stava irrimediabilmente affondando nel vortice
della distruzione. Fra i capitoli, sono inseriti quattro più brevi momenti
di riflessione che riprendono altrettanti temi dettati dal procedere degli
avvenimenti.
Sono indispensabili, gli uni come gli altri, per la comprensione di
quei quattordici terribili giorni. Se uno dei compiti della storiografia è
quello di offrire l'immagine di uno squarcio di vita vissuta, nel caso
dello sfacelo deliberatamente voluto e avviato da Hitler e assecondato
dai servili eccessi di zelo di tanti altri, troppi, dovrebbe corredarsi
anche d'una prospettiva la più vasta possibile. Non dovrebbe trascurare
le decisioni del Führer, ormai fuori d'ogni logica raziocinante insieme
con i motivi che le dettarono , né la paura e il terrore che ne
scaturirono. Inoltre dovrebbe ricostruire la confusione mentale ed
emotiva in cui la maggior parte dei protagonisti si era smarrita, senza
trascurare i momenti di sinistra comicità che a tratti affiorano e paiono
quasi «impietrire l'orrore». Infine, la ricostruzione dovrebbe consentire
di cogliere, anche se solo per vaghi accenni, la tragica e sventurata
insensatezza che emerge dall'irresistibile furia distruttrice di cui questa
storia consiste.
Un paese in extremis: di questo parlano le pagine che seguono. E,
necessariamente, anche delle circostanze che produssero quella
situazione e ne consentono la comprensione.
1. L'inizio della battaglia

Erano le 3 del mattino quando, nel cielo ancora notturno, alcuni


bengala salirono a illuminare di rosso la testa di ponte presso Küstrin.
Dopo un attimo di silenzio angoscioso, esplose il tuono che fece
tremare la pianura dell'Oder fin oltre Francoforte. Come azionate da
mani spettrali, presero a urlare le sirene in alcuni tratti del fronte fino a
Berlino , cominciarono a squillare i telefoni e i libri caddero dagli
scaffali. Era il 16 aprile del 1945 e l'Armata Rossa iniziò quel giorno la
battaglia, gettando nella mischia venti armate con due milioni e mezzo
di soldati, più di quattromila mortai e pezzi d'artiglieria da campagna
nonché centinaia e centinaia di «organi di Stalin» con una frequenza di
trecento canne per chilometro. Ovunque, attorno alle località di
Letschin, Seelow, Friedersdorf e Dolgelin, si levarono enormi colonne
di fuoco che formarono come una parete di lampi, di brandelli di terra
sollevati dalle esplosioni, di detriti che volavano in tutte le direzioni.
Intere foreste si incendiarono e alcuni dei superstiti ricordarono in
seguito gli uragani ardenti che spazzarono la campagna trasformando
tutto in fuoco, polvere e cenere.
Dopo mezz'ora quel fragore infernale cessò repentinamente, e per
alcuni secondi subentrò un silenzio mozzafiato, rotto soltanto dal
crepitare del fuoco e dall'ululare del vento. Poi, sopra le linee
sovietiche, si accese, come un dito puntato verticalmente nel cielo, il
raggio di luce di un faro, che diede il segnale per l'accensione di altri
centotrentaquattro proiettori disposti a duecento metri di distanza l'uno
dall'altro e puntati orizzontalmente in direzione del campo di battaglia.
I fasci di luce abbagliante scoprirono un paesaggio profondamente
sconvolto e si esaurirono appena qualche chilometro più in là, sulle
alture di Seelow, che costituivano l'obiettivo operativo del giorno del
comandante in capo del primo fronte bielorusso, il maresciallo Georgij
K. Zukov. L'ordine con cui fu dato inizio alla battaglia diceva:
«Annientare il nemico lungo il tragitto più breve alla volta di Berlino,
prendere la capitale della Germania fascista e issare sopra di essa la
bandiera della vittoria!».
Il teatrale spettacolo a base di luci, che era stato discusso dagli stati
maggiori sovietici come l'«arma miracolosa» di Zukov, si rivelò un
errore che costò innumerevoli vite. Nonostante qualche obiezione, il
maresciallo si era fermamente attenuto alla decisione di «abbagliare»
sino a paralizzarlo e a renderlo incapace di combattere un avversario
stordito, disorientato e scoraggiato dal precedente cannoneggiamento
tambureggiante, così da poter travolgere e prendere al primo attacco le
alture che erano alle spalle dei tedeschi, alte una trentina di metri e
inframmezzate da avvallamenti. Tuttavia la fitta cortina di fumo e di
vapori, che il fuoco delle artiglierie aveva steso sulla pianura, non
catturò e assorbì soltanto la luce dei fari, ma fece sì che gli attaccanti si
trovassero a vagare sempre più disorientati in quell'oscurità lattiginosa.
Inoltre risultò che il comando supremo sovietico aveva completamente
sottovalutato l'impraticabilità del terreno accidentato e paludoso,
intersecato da una fitta rete di canali e di fossati che erano per di più,
data la stagione, gonfiati dalle piene primaverili. Autocarri pieni di
soldati, trattori e mezzi pesanti d'ogni specie si impantanarono,
affondarono lentamente e dovettero infine essere abbandonati.
La mossa dalle conseguenze più efficaci risultò quella fatta dal
generale Gotthard Heinrici, comandante del gruppo d'armate Weichsel
(Vistola), il quale, ben conoscendo per diretta esperienza le tattiche
predilette dai comandanti delle truppe russe, aveva deciso poco prima
dell'inizio della battaglia di arretrare le linee difensive avanzate, tanto
che la pioggia di fuoco si era abbattuta prevalentemente su una fascia
di territorio sguarnita di truppe. Per questo, quando le unità di fanteria
avversarie, trascinate e scortate da un massiccio schieramento di carri
armati, uscirono dalla nebbia urlando a gole spiegate e con le bandiere
al vento, i difensori, pur di consistenza numerica molto inferiore e
radunati in unità spesso raccogliticce, non dovettero far altro che
aspettare che quelli si avvicinassero abbastanza per mettersi poi a
sparare, quasi senza neppure mirare, nel mucchio confuso delle ombre.
Contemporaneamente, centinaia di pezzi della Flak l'artiglieria
contraerea tedesca aprirono il fuoco con le canne ad alzo zero non
appena si delinearono nella foschia le silhouette dei folti reparti di
mezzi corazzati. Quando infine venne il giorno, l'assalto risultò
respinto con perdite rilevantissime per gli attaccanti.
Zukov, oltre al primo, commise poi subito dopo anche un secondo
errore. Deluso ed esasperato dall'insuccesso, esposto anche alle
pressioni di uno Stalin evidentemente irritato, ordinò di modificare
l'originario piano offensivo e di gettare immediatamente nello scontro
anche due grandi unità corazzate che erano state tenute di riserva e che
attendevano nelle retrovie. Predisposte originariamente per il momento
in cui fosse stata aperta nello sbarramento difensivo tedesco una
breccia sufficientemente grande, avanzarono ora verso il campo di
battaglia intasato dove non fecero altro che aumentare e moltiplicare la
confusione alle spalle delle truppe combattenti. Le unità corazzate si
aprirono un varco lungo strade ingombre e in mezzo a reparti
disorientati, impedirono che le artiglierie potessero essere spostate e
dislocate altrove, tagliarono le vie di rifornimento e di
approvvigionamento. Lanciate inoltre nello scontro senza alcun
coordinamento, produssero un caos irrimediabile che comportò presto
la paralisi totale delle operazioni sovietiche. Uno dei comandanti
operativi di Zukov, il generale Vassili I. Ciuikov, annotò la sera del 16
aprile che le unità sovietiche non avevano compiuto le missioni loro
affidate e che in alcuni casi non erano riuscite a «progredire di un solo
passo». Il piano di prendere Berlino il quinto giorno dopo l'inizio
dell'offensiva era già fallito.
Nel quartier generale di Hitler, situato nel profondo bunker scavato
sotto l'area della Cancelleria del Reich, l'attacco era atteso da giorni, in
condizioni di spirito in cui la febbrile impazienza si mescolava a una
narcotica rassegnazione. Bastarono le prime notizie sui successi della
battaglia di contenimento per far balenare confuse speranze di vittoria,
ben presto esaltate a parole fino a dimensioni assolutamente irreali. A
ogni buon conto, Hitler diede disposizioni per predisporre alla difesa (a
Berlino) il quartiere degli edifici governativi e soprattutto l'intera zona
attorno alla Cancelleria, dislocando artiglieria anticarro e mortai, e
scavando ovunque trincee e postazioni di tiro. Nel pomeriggio emanò
un «ordine del giorno per i combattenti sul fronte orientale» che
bollava la furia devastatrice del «mortale nemico giudaico-bolscevico»
ed esprimeva la certezza che l'assalto dell'Asia si sarebbe dissanguato
«anche stavolta [...] alle porte della capitale del Reich». «Voi soldati
che combattete all'Est sapete che sorte incombe soprattutto sulle donne
e sui bambini tedeschi. Mentre vecchi, uomini e bambini saranno
uccisi, le donne e le ragazze saranno degradate al rango di prostitute da
caserma. E quanti sopravviveranno saranno messi in marcia alla volta
della Siberia».
L'Armata Rossa aveva raggiunto la linea creata dal fiume Oder già
nel corso dell'offensiva di gennaio, superandolo anche in più punti nei
pressi di Küstrin, circa trenta chilometri a nord di Francoforte. Durante
la prosecuzione di quei combattimenti i sovietici erano riusciti a
costituirsi una testa di ponte larga una quarantina di chilometri e
profonda in alcuni tratti fino a dieci che rappresentava un'incombente
minaccia per tutta la «postazione dei Nibelunghi» fino al fiume Neisse.
Soltanto ai primi di marzo i tedeschi avevano cominciato a scavare
trincee a Berlino e attorno alla città, nonché ad allestire sbarramenti
anticarro e postazioni fortificate. Tuttavia, quando gli attacchi delle
unità sovietiche erano momentaneamente cessati, l'approntamento di
questo sistema difensivo sia pure di fortuna era stato
incomprensibilmente interrotto. La responsabilità risaliva anche allo
stesso Hitler, il quale si era via via incaponito sempre più nel voler
difendere la città di Francoforte sull'Oder, ordinando che nessun
reparto fosse distolto da quel settore del fronte. «Resistere o morire!»
fu lo slogan martellante che concluse immancabilmente ognuno degli
innumerevoli ordini e appelli alla resistenza rivolti a quelle truppe.
Di fronte alle forze sovietiche erano schierati il Lvi corpo corazzato
del generale Helmuth Weidling e soprattutto, spostata un po' più verso
sud, la 9a armata del generale Theodor Busse. Il generale Heinrici, del
cui gruppo d'armate le due unità facevano parte, aveva inutilmente
richiamato l'attenzione sul pericolo che fossero circondate in caso di
successo di uno sfondamento da parte di Zukov, e inoltre aveva anche
fatto più volte presente che la resistenza avrebbe potuto essere soltanto
breve. La mancanza di una fanteria già esperta, di munizioni e di
rifornimenti d'ogni genere, e soprattutto l'infinita stanchezza delle
truppe avrebbero rapidamente comportato la fine di ogni resistenza.
Tuttavia, l'incrollabile convinzione di Hitler che la volontà bastasse per
compensare qualsiasi inferiorità materiale, almeno per determinati
momenti, aveva fatto riaffiorare in certuni, assieme ad alcune tronfie
quanto mai mantenute promesse di Göring, Dönitz o Himmler, la
fiducia a lungo sepolta e soltanto dallo stesso Hitler artificiosamente
coltivata. Alla fine, per fermare le armate e i corpi motorizzati di
Zukov, a bordo di autobus furono mandati di rinforzo al fronte alcuni
battaglioni del Volkssturm, la milizia popolare raccogliticcia
dell'ultima ora, formata di vecchi e di ragazzini. Sennonché, mentre la
radio stava ancora annunciando che «migliaia di berlinesi» avevano
raggiunto il fronte «assieme alle loro unità», per una parte di loro
l'impiego bellico era già finito. I caccia russi, che erano padroni dello
spazio aereo attorno alla città, avevano localizzato alcune colonne di
veicoli a metà strada e le avevano distrutte con pochi attacchi a volo
radente.
Le previsioni di Heinrici si verificarono fin troppo puntualmente.
Zukov, dopo aver ricomposto il suo schieramento, lo riportò all'attacco
all'imbrunire, e lo fece stavolta con un'irruenza anche maggiore perché
nel frattempo aveva saputo che il suo rivale nel settore meridionale del
fronte, il maresciallo Ivan S. Konev, aveva manovrato le sue truppe
con maggiore successo. Konev non solo era riuscito a superare in più
di centotrenta punti lo sbarramento costituito dal fiume Neisse, e ad
aprire così all'offensiva sovietica i varchi per lo sfondamento decisivo,
ma si era anche convinto di avere ora buoni argomenti a sostegno della
richiesta, più volte avanzata, di partecipare alla conquista di Berlino e
di contendere all'ultimo momento a Zukov l'ambito trofeo della
vittoria. Cominciò così una gara silenziosa, alimentata anche dalle
malignità di Stalin sul conto di quello Zukov che, da suo beniamino,
era divenuto nel frattempo un personaggio molto meno amato.
Quando, durante uno dei loro incontri, Konev aveva chiesto al dittatore
l'assenso per dirottare verso nord l'ala destra del suo schieramento,
oltre Lübben e Luckenwalde, lungo una direttrice che l'avrebbe portata
in pochi giorni, presso Zossen, a ridosso del confine della città di
Berlino, Stalin gli aveva domandato se il maresciallo sapeva che a
Zossen c'era «il quartier generale della Wehrmacht». Al secco «Sì!» di
Konev, la risposta di Stalin era stata: «Va bene. Sono d'accordo. Faccia
pure avanzare verso Berlino le sue due armate corazzate».
Più a nord, nel settore centrale del fronte dell'Oder, le truppe di
Zukov raggiunsero finalmente, verso mezzanotte, le prime case di
Seelow. Per qualche tempo le sorti della battaglia fra le alture disposte
a forma di ferro di cavallo, sembrarono sospese. Poi però le unità della
Wehrmacht, d'una consistenza sino a dieci volte inferiore a quella degli
avversari e formate non di rado da riservisti e da truppe raccogliticce,
irrimediabilmente fiaccate, si erano via via disunite e dissolte. Heinrici
era inoltre sempre più preoccupato che le truppe di Konev, che stavano
avanzando impetuosamente, potessero spuntare improvvisamente alle
sue spalle e circondare la 9a armata. Il giorno seguente, quando lo
raggiunse la notizia che sulle creste delle alture di Seelow si era data
alla fuga in preda al panico una delle sue formazioni d'élite, una
divisione di paracadutisti, chiese che lo mettessero in comunicazione
con il bunker del Führer.
Sennonché, come già tante altre volte, le sue obiezioni, pur
prospettate con insistenza, andarono a infrangersi contro una totale
incomprensione. La proposta di spostare almeno una parte delle truppe
dislocate attorno alla fortezza di Francoforte sull'Oder per tamponare
alcune falle, ormai larghe chilometri, che si erano aperte altrove nel
sistema difensivo, incontrò un freddo quanto netto rifiuto. E quando,
non molto tempo dopo, chiese al generale Krebs, nominato da poco
capo di stato maggiore generale, l'autorizzazione a ritirare le sue
formazioni, dall'altra parte della linea telefonica non venne che
l'appena percettibile, sgomento suono di un respiro affannoso. Poi
Krebs disse: «Hitler non si dirà mai d'accordo. Tenga tutte le sue
posizioni!».
Il 19 aprile l'intera catena di colline, da Seelow su su fino a Wriezen,
era in mano russa, e il territorio circostante, che un viaggiatore aveva
descritto neanche cent'anni prima come un qualcosa che rammentava
«lontani paesi meravigliosi [...], tutto pace, colore, profumo», era
ridotto a uno squallido e anonimo mondo di crateri. Da quel momento i
resti del fronte difensivo tedesco crollarono, un segmento dopo l'altro,
nel corso di combattimenti di posizione che costarono pesanti perdite.
Secondo fonti sovietiche, gli attaccanti pagarono la battaglia con oltre
30.000 morti, ma calcoli più attendibili sono arrivati a stabilire che i
caduti russi furono circa 70.000, mentre la parte tedesca ci rimise
12.000 uomini. Tuttavia, da quel momento, Berlino distò per i russi
anche meno di 70 chilometri, e lungo la strada verso la capitale tedesca
non esisteva più un fronte compatto, ma soltanto alcuni presidi sparsi
qui e là e pochi villaggi, boschi o piccole alture difese da singole unità.
Due giorni dopo soltanto, sparate dall'artiglieria pesante portata
rapidamente in prima linea, le prime granate esplosero
sull'Hermannplatz di Berlino, causando fra gli inconsapevoli passanti e
fra gli acquirenti in fila davanti ai grandi magazzini Karstadt un
orribile massacro.
Quasi una settimana prima le truppe americane avevano raggiunto
l'Elba nei pressi di Barby e vi si erano attestate. «Berlino non è più un
obiettivo militare», aveva detto il comandante in capo degli
statunitensi, generale Eisenhower, all'attonito comandante sul campo
delle truppe: era stato concordato che la città spettasse ai russi, e quindi
per loro la guerra nella parte settentrionale della Germania doveva
considerarsi conclusa. Negli stessi giorni il feldmaresciallo Model,
dopo aver sistematicamente respinto tutte le ripetute offerte di
capitolazione, aveva ordinato ai suoi di cessare i combattimenti nella
sacca della Ruhr e aveva sciolto il suo gruppo d'armate. Oltre 300.000
soldati e 30 generali tedeschi erano finiti prigionieri degli alleati.
«Secondo lei», domandò Model al suo capo di stato maggiore,
«abbiamo fatto tutto il possibile per giustificare il nostro
comportamento agli occhi della storia? C'è dell'altro da fare?». Poi,
dopo un breve momento in cui il suo sguardo si era perso nel vuoto,
aveva aggiunto: «In passato i condottieri vinti si avvelenavano». Di lì a
poco Walter Model avrebbe seguito il loro esempio.
Da settimane Hitler si sentiva perseguitato dalla sventura: una linea
difensiva dopo l'altra aveva ceduto ai colpi degli avversari, a
cominciare dalla grande offensiva dell'Armata Rossa in Ungheria, dalla
sollevazione delle bande partigiane di Tito, dalla caduta delle fortezze
di Kolberg e di Königsberg, fino alle mille minori ma non meno
terribili notizie di disfatta che erano quotidianamente arrivate. Vi si
erano aggiunti i contrasti con il generale Guderian, capo di stato
maggiore generale nel frattempo sostituito, e con l'ostinato Speer che,
alla fine di marzo, si era perfino rifiutato di sperare in una
«prosecuzione della guerra con prospettive di successo». «Tutt'attorno
a me è tradimento», aveva allora commentato Hitler, «soltanto la
sfortuna mi è rimasta fedele... la sfortuna e Blondi, il mio cane
pastore».
La successione delle comunicazioni infauste era parsa interrompersi
una sola volta, la sera del 13 aprile, quando Goebbels gli aveva
telefonato e, con il fiato mozzo e la voce incrinata, aveva esclamato
all'apparecchio: «Mi congratulo con lei, mio Führer! Nelle stelle è
scritto che la seconda metà di aprile costituirà per noi il momento della
svolta. Oggi è venerdì 13 aprile!». Poi aveva comunicato che il
presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt era morto e, nel
corso della riunione di generali, ministri e pezzi grossi del partito,
immediatamente convocata, le speranze da tempo svanite erano tornate
ancora una volta a fiorire fra congiunzioni planetarie, ascendenti e
transiti astronomici e astrologici. Con un fascio di fogli nella mano
tremante, Hitler era corso dall'uno all'altro per mostrare i bollettini
delle agenzie e per dire con l'enfasi del vecchio facilmente esaltabile:
«Ecco! Non lo volevate credere! Chi ha ragione adesso?». E aveva
ricordato il «miracolo» di casa Brandenburg, quello che nel 1762
aveva salvato Federico il Grande: il miracolo, aveva continuato a
sostenere, si stava ripetendo! «La guerra non è perduta! Legga!
Roosevelt è morto!».
Come era capitato tante altre volte nella sua vita, pareva che anche
stavolta la provvidenza si volesse dimostrare magnanima con lui,
schierandosi al suo fianco proprio all'ultimo secondo. Per anni aveva
tentato di convincere il suo entourage che il «repellente concubinato»
delle potenze avversarie si sarebbe prossimamente infranto, e che
l'Inghilterra e gli Stati Uniti, prima del momento estremo del non
ritorno, avrebbero infine riconosciuto in lui il combattente e
vessillifero della civiltà contro la barbarie orientale. La morte di
Roosevelt, così aveva sostenuto, era l'agognato segnale dell'imminente
rovesciamento delle alleanze (della fine, in pratica, della guerra sul
fronte occidentale), e per un paio d'ore nel bunker aveva regnato
un'atmosfera di allegria, in cui le sensazioni d'averla scampata bella si
erano mescolate alla fiducia e a una nuova aspettativa di vittoria. Poi
però, nel corso della notte, quando tutti i miraggi si erano dissolti, le
angosce momentaneamente rimosse erano tornate a irrompere negli
animi di tutti, specialmente quando era arrivata la notizia che l'Armata
Rossa aveva conquistato Vienna. Alla fine, come raccontò uno dei
presenti, Hitler si era abbandonato «esausto, come liberato e nello
stesso tempo stordito, sulla sua poltrona; l'impressione che dava era
quella di un uomo disperato». Di fatto la morte del presidente
Roosevelt non ebbe alcuna influenza sulla prosecuzione della guerra.
In gennaio, dopo il fallimento della controffensiva delle Ardenne,
Hitler era tornato a Berlino e si era sistemato, inizialmente, nella
Nuova Cancelleria. Ben presto, però, i continui attacchi aerei lo
avevano sloggiato di lì e indotto a trasferirsi nel bunker sotterraneo
dove, secondo il giudizio di molti osservatori, era tornato finalmente a
essere sé stesso.
I complessi di paura che lo avevano dominato per tutta la vita si
erano manifestati nuovamente fin dal 1935 quando, pochi mesi dopo la
nomina a cancelliere, aveva dato incarico di procedere a una serie di
lavori di ristrutturazione della Cancelleria del Reich e aveva chiesto,
fra le installazioni indispensabili, la realizzazione di rifugi sotterranei.
Quanto questo bisogno fosse per lui ossessivo emerge anche dal fatto
che, nel corso delle conversazioni su temi d'architettura con Albert
Speer, non aveva fatto altro che «progettare bunker, sempre nuovi
bunker». Già il salone delle feste che fece allestire nel 1935
dall'architetto Leonhard Gall, nel parco dietro gli uffici della
Cancelleria, aveva compreso un rifugio antiaereo con una copertura
spessa circa due metri e mezzo, che fu in seguito rafforzata con un
ulteriore strato di un metro di cemento. Tre anni dopo, quando Albert
Speer aveva cominciato i lavori di costruzione della Nuova
Cancelleria, vi erano stati aggiunti altri, estesi rifugi. Negli scantinati
dell'edificio erano state ricavate, per tutta la lunghezza della Voss-
Strasse, più di novanta celle rivestite di cemento armato che erano state
collegate con il bunker sotto il salone delle feste con un corridoio
sotterraneo lungo circa ottanta metri.
Poi, però, la catastrofe invernale davanti a Mosca, alla fine del 1941,
aveva nuovamente risvegliato i timori di Hitler, tanto da fargli apparire
insufficiente anche questo pur esteso sistema di ambienti sotterranei
fortificati. Benché i suoi eserciti occupassero in quel periodo
l'immenso territorio compreso fra Stalingrado, Hammerfest e Tripoli,
nel 1942 aveva incaricato l'ufficio di Speer di progettare un nuovo
sistema di catacombe collocato un altro paio di metri più in basso del
precedente e da collegare al sistema di rifugi già esistente (chiamato,
da allora, l'«ante-bunker»). Doveva comprendere una mensa per i più
stretti collaboratori di Hitler, alcune stanze di soggiorno e da letto,
inoltre la cucina e le camere per il personale di servizio:
complessivamente sedici ambienti. E così, nel parco-giardino dietro la
Cancelleria del Reich, con i suoi alberi antichi e i silenziosi viali dai
quali solo poche generazioni prima Bettina von Arnim aveva scritto a
Goethe di trovarsi «in un paradiso», avevano fatto di nuovo irruzione
le squadre di operai che avevano abbattuto gli alberi, accumulato
materiali da costruzione e tonnellate di tondino di ferro, installato
betoniere e si erano poi messe all'opera. Agli inizi del 1945 il
sotterraneo cubo di cemento del bunker del Führer era in ampia misura
pronto, però i lavori erano proseguiti ancora per qualche tempo
soprattutto per la realizzazione, tutt'attorno, di trinceramenti, casematte
e torri di guardia, e nell'aprile del 1945 non si erano ancora conclusi.
Nei rifugi sotto la Nuova Cancelleria erano sistemati gli alloggi
dell'entourage di Hitler: quelli del potente segretario Martin Bormann e
quelli del suo ultimo capo di stato maggiore, generale Hans Krebs, con
i suoi collaboratori; poi quelli del generale Burgdorf e del pilota
personale di Hitler, generale Hans Baur, oltre che del Gruppenführer
generale di divisione delle ss Hermann Fegelein che fungeva nel
quartier generale del Führer da rappresentante di Himmler; infine, di
un'innumerevole quantità di altri ufficiali, per non parlare delle
segretarie di Hitler, del personale di guardia, degli attendenti, di
radiotelegrafisti, cartografi e altri ancora. In una parte dei locali era
stato allestito un ospedale di fortuna, altri erano stati adattati in modo
da poter fungere da ricovero d'emergenza per famiglie rimaste senza
alloggio a causa dei bombardamenti, donne incinte e circa duecento
bambini. Il numero di queste persone crebbe poi di giorno in giorno
sino a un insopportabile affollamento.
Il cosiddetto «ante-bunker» era collegato al «bunker del Führer» da
una larga scala a chiocciola che scendeva nelle profondità del suolo.
Non ci sono pervenute notizie certe sullo spessore della copertura. La
soletta con le fondamenta, spessa due metri, era situata circa dodici
metri sotto il livello del giardino, tre metri di spazio erano assorbiti dai
tratti intermedi in cui erano sistemati gli impianti di aerazione e di
condizionamento oltre che altre tubature e cavi, e quindi lo spessore di
quattro metri da più fonti menzionato come quello della copertura
dovrebbe essere più o meno esatto. Con una frase indimenticabile
Konrad Heiden, il primo biografo di Hitler, aveva descritto fin
dall'inizio degli anni Trenta la natura intima del Führer e di tutto il suo
movimento (fatta d'una mistura di pathos, magniloquenza e
aggressività) come un insieme di «vanterie di individui in fuga». Ora,
con il rintanarsi di Hitler nel bunker sotterraneo e con gli incitamenti
alla vittoria che continuò a lanciare da laggiù, l'osservazione che era
parsa a molti insensata e contraddittoria venne a coincidere con la
realtà.
Il più interrato «bunker del Führer» comprendeva all'incirca venti
piccoli ambienti spartanamente ammobiliati, con la sola eccezione
costituita dal corridoio davanti alla serie delle stanze private di Hitler,
che era corredato di alcuni dipinti, d'un divano imbottito e di un paio di
vecchie poltrone. Dal corridoio si accedeva, fra l'altro, alla sala delle
riunioni in cui si svolgevano gli esami della situazione bellica: per
avere un'idea del senso opprimente e angoscioso di affollamento che vi
dominava, basti pensare che in quel rettangolo di circa quattordici
metri quadrati, attorno al tavolo con le carte, si ammucchiarono più
volte al giorno e spesso per parecchie ore fino a venti persone.
Anche le due stanze che costituivano l'alloggio di Hitler erano
modestamente arredate. Sopra il divano era appesa una natura morta di
origine fiamminga e, sopra la scrivania, in una cornice ovale, c'era un
ritratto di Federico il Grande di fronte al quale Hitler rimaneva a volte
seduto a meditare e come se intrattenesse muti dialoghi con il re. Ai
piedi del letto c'era una cassaforte in cui Hitler conservava i documenti
personali; in un angolo, esattamente come a suo tempo nel quartier
generale (la «tana del lupo») di Rastenburg, era appoggiata una
bombola d'ossigeno che lo sollevava della continua, tormentosa
preoccupazione di poter rimanere un giorno senza sufficiente aria da
respirare, specialmente se si fosse verificato un guasto dei macchinari
azionati da motori diesel che rifornivano il bunker di luce, calore e aria
fresca.
Dal soffitto di ogni stanza pendevano lampadine nude che gettavano
una luce fredda su tutte le facce e rendevano ancora più percettibile la
spettralità del mondo in cui tutti si muovevano. Quando, nei giorni
prossimi alla fine, veniva ogni tanto a mancare l'acqua, si diffondeva
specialmente dall'ante-bunker un lezzo insopportabile: un misto delle
esalazioni dei motori diesel ininterrottamente in funzione, di penetrante
odore di urina e di traspirazioni umane. In alcuni dei corridoi di
collegamento con il settore più profondo del bunker c'erano
pozzanghere oleose, e per qualche tempo si dovette razionare l'acqua
potabile. Diversi testimoni hanno riferito che quell'atmosfera di
ristrettezza, cemento e luce artificiale si ripercuoteva in modo
opprimente sugli umori, e Goebbels confidò al suo diario che evitava
quegli ambienti il più possibile per non cadere in preda a uno «stato
d'animo desolante». Non è dunque priva di valide ragioni la
supposizione che anche quell'ambiente isolato sotto terra abbia in
qualche modo influenzato e contribuito al formarsi di decisioni in cui
armate di fantasmi si radunavano per operazioni d'attacco che non
avvennero mai, e si avviavano battaglie di accerchiamento che
scaturivano soltanto dalla fantasia.
Chi sembrava maggiormente e più palesemente provato dalla vita in
quella grotta a dieci metri di profondità era proprio Hitler. La pelle
cadente (già evidente da anni), i lineamenti del volto, negli ultimi
tempi sempre gonfi, e le occhiaie incavate che gli annerivano la faccia
divennero più che mai marcati. Si muoveva lungo le pareti del bunker
profondamente ingobbito, con movimenti stranamente serpeggianti,
come in cerca di appigli, e alcuni fra i più attenti degli osservatori ne
trassero l'impressione di una decrepitezza drammaticamente esibita per
trarne maggiori effetti. Per la prima volta Hitler manifestò anche segni
di trasandatezza. Gli indumenti, prima sempre inappuntabili, erano ora
coperti di macchie di cibo, aveva briciole di dolce negli angoli della
bocca e ogni volta che, durante l'esame della situazione, teneva gli
occhiali con la sinistra, la montatura tintinnava lievemente contro il
ripiano del tavolo. A momenti, come colto in fallo, li metteva da parte,
perché il tremore ininterrotto del braccio contraddiceva la sua
convinzione che bastasse una risoluta volontà per venire a capo di
tutto. «Anche se mi trema la mano», aveva detto a una delegazione di
vecchi combattenti, «e se anche un giorno dovesse mettermisi a
tremare la testa, il mio cuore non tremerà mai».
Un ufficiale di stato maggiore ha descritto con queste parole l'aspetto
di Hitler in quelle settimane: «Sapeva di aver perduto e di non avere
più la forza per nasconderlo. Offriva di sé, fisicamente, un'immagine
terribile. Si trascinava faticosamente e pesantemente dal suo alloggio
fino alla sala delle riunioni del bunker, il busto chino in avanti,
tirandosi dietro le gambe. Non aveva più il senso dell'equilibrio; se,
durante quel breve tragitto (dai venti ai trenta metri), qualcuno lo
fermava, doveva sedersi su una delle panche appositamente allineate
lungo le pareti oppure aggrapparsi all'interlocutore [...]. Aveva gli
occhi iniettati di sangue; benché tutti gli scritti a lui destinati fossero
battuti con le apposite «macchine da scrivere per il Führer» dotate di
lettere tre volte più grandi di quelle normali, riusciva a leggere solo
usando occhiali dalle lenti molto forti. Dagli angoli della bocca gli
gocciolava spesso la saliva...».
Giorno dopo giorno come alcuni notarono peggiorarono anche le
condizioni mentali e spirituali di Hitler. Quando, per lo più verso le 6
del mattino, tornava dai notturni esami della situazione, piombava
seduto su un divano per dettare a una delle segretarie le disposizioni
per il giorno seguente. Non appena quella entrava nella stanza, lui si
alzava faticosamente ha riferito una di loro «e poi ricadeva esausto sul
sofà; un domestico gli sollevava i piedi e glieli poggiava su uno
sgabello. Rimaneva lì, completamente apatico, preso da un solo
pensiero: [...] la cioccolata e il dolce. La sua voglia di dolce era
diventata addirittura morbosa. Mentre prima mangiava al massimo tre
fette di dolce, ora si faceva porgere tre volte il piatto pieno». Un'altra
segretaria ha lamentato, nei suoi ricordi, la spesso vistosa monotonia
della conversazione dell'Hitler di quei giorni: «Lui che prima aveva
discusso con passione di tutti gli argomenti, non parlava nelle ultime
settimane altro che di cani e di addestramento di cani, di problemi di
dieta e della stupidità e malvagità del mondo».
Solo in presenza di visitatori sapeva uscire dall'ottundimento mentale
e ritrovare la forza suggestiva e la capacità di convincere
l'interlocutore. Spesso si rifaceva a un ricordo, oppure al nome di un
valoroso comandante o a qualche altra altisonante insignificanza per
far coraggio a sé stesso e all'ospite, e fantasticava sulla base di pochi
banali spunti sull'esistenza di imponenti e crescenti schieramenti di
truppe in procinto di lanciarsi in una battaglia decisiva per le sorti della
guerra alle porte della «sua» capitale. I russi, a sentir lui, impegnavano
nei combattimenti solo «razziatori», e la loro presunta superiorità non
sarebbe stata altro che «il più grande bluff dai tempi di Gengis Khan».
Quindi, di volta in volta, veniva a parlare delle «armi miracolose» che
avrebbero impresso una svolta alla guerra e svergognato tutti i
pusillanimi.
Malgrado il rapido deterioramento delle forze fisiche e mentali,
Hitler ritenne di non dover cedere neppure allora la direzione delle
operazioni belliche. Nonostante tutto continuò a sorreggerlo un misto
di spirito di missione e di tensione della volontà, rafforzato inoltre da
una grande diffidenza, che lo induceva a sospettare che i suoi generali
volessero umiliarlo o addirittura farlo narcotizzare dal suo medico
personale dottor Morell e quindi allontanare da Berlino. Benché fosse
nel complesso distaccato e ben padrone di sé stesso, esplodeva a volte
in preda a furiosi attacchi d'ira. In una circostanza, schiumante di
rabbia, con i pugni levati e tremando in tutto il corpo, fu sul punto di
avventarsi sul suo capo di stato maggiore, generale Guderian, che poi
in effetti licenziò negli ultimi giorni di marzo.
Attorno a lui si estesero, in misura crescente, il silenzio e il vuoto.
Più d'una volta questo o quell'altro inquilino del bunker lo vide risalire
faticosamente la stretta scala che portava all'uscita verso il giardino,
ma poi fermarsi a metà strada, esausto, fare dietrofront e, come gli
accadeva spesso, raggiungere il lavatoio che era a metà del corridoio,
dove c'era anche il ricovero per i cani. E lì si fermava a lungo, con
un'espressione stranamente distesa, a giocare con la sua femmina di
cane lupo e con i cinque cuccioli di cui l'animale si era sgravato ai
primi di aprile.
Fuori, al di là delle spesse mura di cemento armato, regnavano
l'arbitrio e il capriccio crudele d'una guerra che si stava esaurendo nella
stanchezza, nella mancanza di ogni cosa e nella paura delle
rappresaglie. Ormai nessuna delle frasi roboanti, che l'apparato
propagandistico del regime ininterrottamente lanciava nell'etere,
poteva mascherare la realtà delle cose e scacciare il continuo e
angosciante terrore che la situazione suscitava. I residui di ciò che
erano stati un tempo i princìpi di fede, onore e fedeltà continuavano
ancora a conseguire i loro effetti su una minoranza, ma alla larga
massa il pathos di quelle formule da tempo non suggeriva altro che
sinistre sensazioni di sconforto. Chi aveva conservato lucidità o l'aveva
riacquistata dinanzi all'avvicinarsi della fine imminente, non voleva più
ascoltare gli slogan inneggianti alla difesa e le citazioni a base di
bastioni e di baluardi nelle quali il Reich amava profilarsi come l'eroe
solitario che si contrapponeva ai nuovi cavalieri dell'Apocalisse
costituiti dall'ebraismo mondiale, dal bolscevismo e dalla plutocrazia.
Né facevano presa i motti che inneggiavano alla fortuna e al valore di
chi sapeva morire al suo posto, e che celebravano ancora una volta
quell'idealizzato disprezzo per la vita che aveva in passato esercitato
tanta e oscura forza di attrazione sul carattere dei tedeschi. I fronti che
cedevano ovunque, l'insufficienza dei mezzi di difesa e i diuturni,
infiniti orrori rendevano chiaramente percettibile la vacuità di quei
proclami. «La vendetta è la nostra virtù! L'odio è il nostro dovere!»
diceva uno di quegli appelli alla difesa. «Coraggiosi e fedeli, fieri e
caparbi, noi trasformeremo le nostre fortificazioni nelle fosse comuni
delle orde sovietiche... Sappiamo anche noi, come voi tutti, che l'ora
che precede il sorgere del sole è sempre la più buia. Questo pensate
quando, durante i combattimenti, il sangue vi scorrerà sugli occhi e si
farà buio attorno a voi. Qualunque cosa possa ancora accadere, la
vittoria sarà nostra. Morte ai bolscevichi! Evviva il Führer!».
Da quando Hitler, poco dopo l'inizio della grande offensiva
sovietica, aveva ordinato di gettare tutte le forze disponibili sul fronte
orientale e di difendere Berlino sul fronte dell'Oder, all'interno della
città e attorno a Berlino non c'erano quasi più truppe esperte e
sufficientemente equipaggiate. Il generale Hellmuth Reymann,
nominato comandante di piazza di quella Berlino che era stata
dichiarata il 1o febbraio caposaldo da difendere a ogni costo,
continuava a ripetere di aver bisogno di almeno 200.000 soldati già
temprati dal fuoco delle battaglie. Invece non disponeva nemmeno
della metà, ed erano reparti messi insieme a casaccio con ciò che
restava di un'unità di carristi, e formati inoltre dal reggimento della
guardia municipale, da compagnie assemblate con militari delle armi
più svariate, nonché da circa quaranta battaglioni del Volkssturm,
costituiti in prevalenza da pensionati e da 4.000 Hitlerjungen
adolescenti, spesso soltanto ragazzini. Reymann disponeva infine di
alcuni reparti di genieri nonché del personale delle batterie della
contraerea dislocate nella città. Le formazioni di ss e della polizia di
stanza a Berlino erano invece sottratte al suo comando.
Alle richieste di rinforzi fatte da Reymann, Hitler replicò di volta in
volta affermando che c'erano truppe, carri armati e munizioni
sufficienti per fronteggiare un'eventuale battaglia attorno a Berlino.
Ma l'aspetto peggiore era costituito dal fatto che non vi fu mai, in
nessun momento, un piano preciso per la difesa della città. Ciò che
avrebbe richiesto un lungo e provato coordinamento dovette essere
precipitosamente improvvisato di volta in volta. Inoltre Reymann si
trovò continuamente coinvolto nelle dispute per le competenze di
comando. A volte gli arrivavano disposizioni dal comando supremo
della Wehrmacht guidato dal feldmaresciallo Keitel, altre dal capo di
stato maggiore generale Krebs oltre che, in alcuni momenti, anche dal
generale Heinrici. In più lo stesso Hitler interrompeva di continuo, e
con improvvisi quanto lunatici suggerimenti, la trasmissione degli
ordini, tanto che il comandante del settore difensivo comprendente la
città di Berlino non ebbe mai ben chiaro ciò che si pretendeva da lui.
Il totale caos organizzativo era accentuato anche da Goebbels, il
quale, nella veste di Gauleiter di Berlino, ricopriva pure l'ufficio di
commissario nazionale per la difesa. L'assertore della «guerra totale»,
che aveva di volta in volta fallito dinanzi alle resistenze incontrate da
ogni parte, vedeva ora profilarsi l'opportunità di imporre finalmente la
sua volontà, tanto più che aveva da poco ottenuto l'approvazione di
Hitler per la costituzione di battaglioni formati da donne. Quando
furono discusse le questioni che riguardavano la costruzione e l'uso di
postazioni belliche, insistette gelosamente nell'affermare di essere
l'unico responsabile della difesa della città. Significativamente,
considerava anche Reymann un subordinato e fece in modo che, per
ogni colloquio, il comandante militare dovesse presentarsi a rapporto
da lui, nel suo ufficio. Il groviglio di competenze contraddittorie, il
continuo ricambio delle persone, l'incrociarsi e sovrapporsi confuso di
interventi sulle disposizioni da dare, oltre che l'impossibilità di riuscire
a capir bene di quali forze e mezzi si potesse disporre: tutto ciò fece sì
che la difesa della città fosse più ostacolata che agevolata.
Occorre aggiungere poi che Goebbels, senza tenere minimamente
conto dei provvedimenti adottati dai militari, impartì «ordini difensivi»
suoi e che, solo per fare un esempio, volle presiedere ogni lunedì un
«grande consiglio di guerra», chiamando a parteciparvi tutti i
comandanti dei reparti di stanza nella città, gli ufficiali superiori delle
ss e della polizia, il primo borgomastro, il questore della capitale del
Reich e infine anche i più influenti rappresentanti delle industrie. Ogni
giorno sguinzagliava inoltre «squadre di cattura» con il compito di
rastrellare persone da arruolare in tutte le aziende e gli uffici. I numeri
con i quali poté alla fine vantarsi non fecero però più impressione a
nessuno, benché fosse riuscito a trasformare il mucchio di borghesi
spauriti sui quali aveva messo le mani in alcuni reggimenti di individui
impazienti e smaniosi di combattere «per il Führer e per la patria».
Mancava di tutto: non c'erano sufficienti carri armati, né pezzi
d'artiglieria, né armi individuali, né combustibili, né macchinari per
allestire fortificazioni. Nel Tiergarten, uno dei parchi di Berlino, unità
del Volkssturm si esercitarono a combattere strisciando sul terreno
mentre tutt'attorno, nascosti dietro cespugli, altri «combattenti»
imitavano il rumore delle mitragliatrici picchiando con bastoni su
barattoli vuoti. Altrove si impiegavano rotoli di cartone per addestrare
le reclute all'uso del Panzerfaust, l'arma individuale anticarro dei
tedeschi, oppure si allestivano barricate nelle strade utilizzando pietre
della pavimentazione stradale, veicoli sventrati dai bombardamenti
aerei, reti metalliche per letti e rottami di ogni genere. Ogni milite del
Volkssturm, e sempre che disponesse di un fucile, ebbe in dotazione
cinque pallottole che risultarono però per lo più inutilizzabili: mentre le
armi erano prevalentemente di fabbricazione tedesca o ceca, quelle
cartucce provenivano dall'Italia, dalla Francia e da altri paesi che
avevano combattuto con o contro la Germania. Nel complesso, e senza
contare i fucili da caccia e da competizione sportiva che la popolazione
aveva dovuto consegnare alle autorità, questi «combattenti» per la
difesa di Berlino furono armati di quindici diversi tipi di fucili nonché
di munizioni provenienti da una pressoché innumerevole quantità di
fabbriche. Nulla si combinava con nulla. Quello che i tedeschi
offrirono nella drammatica circostanza fu lo spettacolo emblematico
della totale disorganizzazione.
E infatti capitò che reparti del Volkssturm o della Wehrmacht
fossero incamminati lungo l'una o l'altra delle grandi arterie di
scorrimento della città per andare a difendere questo o quell'altro
sobborgo, mentre, contemporaneamente, marciavano loro incontro
lungo l'altro lato della stessa strada altri reparti chiamati invece
all'interno della città per difendere l'aeroporto di Tempelhof oppure il
porto fluviale occidentale, prossimo al centro cittadino. Il generale
Reymann fece sapere che chiunque fosse stato dichiarato inidoneo al
servizio militare attivo poteva lasciare la città. Contemporaneamente
Goebbels fece affiggere su ogni portone un proclama in cui si
affermava che «per ordine del Führer [...] tutti gli uomini d'età
compresa fra i 15 e i 70 anni» dovevano presentarsi «senza eccezione»
ai centri di reclutamento. «Chiunque tentasse vilmente di nascondersi
nei rifugi antiaerei», concludeva il messaggio, «sarà tradotto dinanzi a
una corte marziale e condannato a morte».
Indefessi, rimasero all'opera soprattutto i tecnici della propaganda.
Giorno dopo giorno, come Goebbels vantò con freddo cinismo, fecero
sfilare davanti alla popolazione spaurita «il miglior cavallo della loro
stalla»: l'orrore descritto in ogni dettaglio della «bolscevizzazione
dell'intera Europa», con contorno di montagne di cadaveri, di donne
stuprate e di bambini scannati. Bormann, per parte sua, aggiunse che
«questa solfa» si poteva e si doveva riproporre «in varianti sempre
nuove» perché le sconvolgenti immagini avrebbero sicuramente
destato la più risoluta volontà combattiva e forse addirittura
scompaginato la coalizione avversaria.
Da quando, dalla metà di aprile, tutti i quotidiani di Berlino furono
costretti a cessare le pubblicazioni, il compito di far circolare notizie fu
assunto dalla propaganda, la quale continuò a seminare mirati «si dice»
per illudere la popolazione. I successi degli alleati, si fece sapere un
giorno attribuendo la notizia a una «fonte sicura», non erano altro che
un espediente tattico del Führer il quale aveva deliberatamente
consentito ai nemici di penetrare a fondo nel cuore della Germania
onde poterli poi più facilmente ed efficacemente annientare «con armi
e bagagli» all'ultimo minuto. Oppure si fecero circolare indiscrezioni
secondo le quali il generale Krebs si sarebbe messo in contatto con i
russi per rammentare al dittatore sovietico i tempi in cui lo stesso
Krebs era stato addetto militare presso l'ambasciata tedesca a Mosca
(Stalin lo aveva pubblicamente abbracciato e perfino baciato): a
quest'avance uno Stalin commosso avrebbe risposto rievocando lo
spirito della «fratellanza d'armi» di allora. Contemporaneamente fece il
giro della città una voce attribuita a un «esperto militare» secondo cui i
bombardamenti aerei subiti per tanti anni con impotente disperazione
si stavano rivelando, in quell'ora decisiva, la fortuna di Berlino, perché
avevano oggettivamente temprato la città preparandola al
«combattimento ravvicinato» che l'aspettava: nelle lotte casa per casa,
come la storia militare d'ogni tempo dimostrava, i difensori erano
sempre stati superiori agli attaccanti. Si vociferò anche di sommergibili
con «siluri stratosferici» che avrebbero raso al suolo New York,
nonché di «granate di ghiaccio» capaci di sprigionare micidiali nuvole
di nebbia corrosiva. La popolazione oppose a queste stravaganti
chiacchiere un crescente, non di rado anche più incisivo scetticismo.
La propaganda, diceva un diffuso argomento, era come l'orchestra di
bordo che, in mancanza di altri e più efficaci rimedi, suona allegri e
incoraggianti motivetti sulla nave che sta affondando.
Un quadro più reale della situazione esistente e dello stato d'animo
dominante si desume dall'attività dei tribunali di guerra mobili (e
motorizzati) che battevano intanto instancabilmente le vie della città,
perquisendo case, aziende e cumuli di rovine in cerca di veri o supposti
disertori. Bastava un minimo sospetto perché chi era ritenuto
«traditore» fosse immediatamente fucilato o impiccato. Il 15 febbraio
1945, per ordine di Hitler, erano stati istituiti tribunali speciali
competenti per tutti i reati in grado di «compromettere l'efficienza
bellica e lo spirito combattivo tedesco», composti da un giudice penale,
da un rappresentante del partito e da un ufficiale delle ss o della
Wehrmacht. Dieci giorni dopo Himmler aveva a sua volta formato una
«rete di tribunali dello stato d'emergenza» e, di lì a poco, il 9 marzo,
era stata istituita una «corte marziale volante» agli ordini del generale
Rudolf Hübner che riceveva le sue direttive personalmente da Hitler.
Sembrò insomma che un minimo di fiducia potesse essere ricostituito
soltanto ricorrendo alla minaccia di sanzioni.
Intanto, però, gli informatori del servizio di sicurezza comunicarono
verso la metà di aprile che la fiducia della maggior parte della
popolazione nella guida politica e militare del paese stava «franando».
Sempre più funzionari e incaricati di pubblici uffici stavano
eclissandosi, ovvero, per dirla con le parole del furibondo Goebbels,
«si dissolvono nell'aria», e non c'era da fare più affidamento neppure
sulle strutture del partito nazionalsocialista. Fin dalla metà di marzo, la
popolazione sempre più indignata aveva dovuto assistere, specialmente
nei quartieri periferici, all'esibizione di dozzine di impiccati lasciati
appesi agli alberi, ai lampioni e a volte, come elemento aggiuntivo di
dissuasione, alle barricate e agli sbarramenti anticarro.
Comprensibilmente, mancano cifre precise che offrano le dimensioni
reali di questo massacro. Valutazioni caute parlano di circa mille
condanne a morte eseguite a Berlino in questi modi sbrigativi durante i
tre ultimi mesi che precedettero la capitolazione. Alcuni comandanti
militari erano talmente sdegnati da queste selvagge procedure che,
come il generale Hans Mummert, comandante della divisione
corazzata «Müncheberg», diedero ordine alle loro truppe di contrastare
eventualmente con l'uso delle armi l'operato dei tribunali speciali.
La sconfitta era ormai palesemente suggellata, e quella che stava
continuando era una guerra al di là della sua fine. Eppure, ovunque,
balenarono ancora illusorie speranze. La situazione ricordava il
«crepuscolo degli dèi» delineato dal poema mitologico Edda, come
scrisse a Martin Bormann sua moglie Gerda: «I giganti e i nani, il lupo
Fenris e il serpente Mitgard, tutte le potenze del male [...] si avventano
sul ponte degli dèi [...]. La fortezza degli dèi vacilla e tutto sembra
perduto. Poi però ecco levarsi una fortezza nuova, più bella d'ogni
precedente, e Baldur torna a vivere». Quella battuta da Gerda Bormann
fu una delle più diffuse vie di fuga per allontanarsi dalla realtà verso i
luoghi comuni della mitologia. Ma erano diversivi illusori, destinati a
durar poco e a spegnersi presto, perché non potevano distogliere più di
tanto dagli scenari delle rovine delle città incendiate, delle colonne di
profughi che intasavano le strade, del caos ovunque dilagante, e dalla
tenacia paziente e inarrestabile con cui gli alleati conquistavano e
occupavano, avanzando dall'Est come dall'Ovest, parti sempre
maggiori del paese. La resistenza stava visibilmente crollando. Qui e
là, esauste, si aggiravano senza meta unità militari in fase di
dissoluzione che nessun ordine del Führer riusciva più a raggiungere.
Hitler disponeva ormai solo di alcune postazioni esterne alla città,
fanaticamente fedeli, e di una zona sempre più ridotta attorno alla
capitale.
Eppure, in quanto accadde negli ultimi giorni della guerra, sembrò
operare un'energia disperata che mirava a trasformare la sconfitta in
catastrofe. Se non dovessimo vincere, aveva dichiarato Hitler già
all'inizio degli anni Trenta durante una delle sue divagazioni
fantastiche sulla guerra imminente, «pur affondando, trascineremo con
noi nel tracollo mezzo mondo». Ora si accingeva a realizzare la sua
profezia.
2. Conseguenza o catastrofe: Hitler nella storia tedesca

E' una questione che da allora non ha smesso di presentarsi: se la fine


fosse prevedibile o meno, e se, dietro lo charme delle antiche facciate
prussiane degli storici palazzi allineati lungo la Wilhelmstrasse, non
fosse già ravvisabile il paesaggio desertico della distruzione (insieme
con i blocchi di cemento del bunker del Führer). Oppure se Hitler
debba essere visto come un prodotto quasi obbligato della storia del
paese, tanto da essere, per così dire secondo una famosa frase dello
storico Friedrich Meinecke , una logica conseguenza delle vicende
germaniche ben più che una catastrofe tedesca.
L'ondata di entusiasmo popolare sia pure prodotta da una regia ricca
d'inventiva e costantemente alimentata che accompagnò le fasi della
presa del potere da parte di Hitler svigorisce a prima vista tutte le
asserzioni che vorrebbero ravvisare in quell'evento un «incidente»
della storia. E' ben vero che, nonostante tutto il giubilo, le fiaccolate, le
adunate oceaniche e le manifestazioni notturne con la cornice di falò
che fecero parte dell'immagine della primavera del 1933, furono anche
e ugualmente ben percettibili sensazioni d'incertezza, e che per
parecchio tempo ancora si aggirò nella popolazione il dubbio che il
paese si fosse abbandonato, affidandosi a quegli «uomini nuovi», a una
folle o quanto meno poco rassicurante avventura. D'altra parte, però, la
violenza onnitravolgente con cui quegli uomini nuovi penetrarono in
tutti i posti-chiave della politica ebbe una disorientante capacità di
convinzione. La repubblica di Weimar apparve ben presto a molti
soltanto come un episodio, e non ci fu ricordo né moto di pietà a
rendere difficile l'addio a quell'esperienza. Come obbedendo a una
parola d'ordine, dopo tanti anni di statalismo fallito, emerse in una
maggioranza rapidamente crescente la volontà di cominciare da capo,
spazzando via ogni perplessità. Contemporaneamente il nuovo ordine,
che assunse ben presto chiari contorni, si arricchì non solo di seguaci e
di motivazioni (nonostante le molte e volgari insulsaggini che si
propalavano), ma perfino di prospettive future come i suoi portavoce
non si stancavano di gridare.
Furono queste circostanze, concomitanti alla presa del potere da
parte di Hitler e del nazionalsocialismo, a favorire l'impressione che i
tedeschi, dopo anni di coatto adattamento alla democrazia, allo stato di
diritto e ai valori «occidentali», fossero tornati allora, in un certo senso,
a sé stessi e quindi a quel ruolo scandaloso che, a memoria d'uomo, si
riteneva avessero sempre recitato in Europa.
Le prime interpretazioni storiche postbelliche degli eventi hanno
spesso costruito lunghe trafile d'antenati a partire da Arminio il
Cherusco (l'ex ufficiale romano che sconfisse nel 9 d.C., nella foresta
di Teutoburgo, le legioni di Roma guidate da Publio Quintilio Varo),
passando per gli imperatori medioevali e Federico il Grande, e poi giù
giù fino a Bismarck. E lungo queste «genealogie» hanno ritenuto di
incontrare, passo dopo passo, un latente hitlerismo ante-Hitler. Il
risultato di queste riflessioni, comunque si guardassero le cose, era che
non sarebbero esistiti nella storia tedesca avvenimenti o personaggi
«innocenti». Perfino negli idilli piccolo-borghesi dell'«ante-marzo»
ovvero del periodo compreso fra il congresso di Vienna e l'anno delle
rivoluzioni, il '48, che nell'area tedesca avvennero appunto di marzo
questi interpreti della storia hanno colto forme di sottomissione servile
e di ristrettezza mentale, e a un occhio esperto non potrebbe sfuggire la
riposta, sottesa volontà della nazione di far valere nel mondo, ed
eventualmente anche contro il mondo, una sua particolare missione. Il
romanticismo tedesco non sarebbe stato altro, secondo questa
concezione, che un'espressione, celata sotto immagini
ingannevolmente delicate, di un'inclinazione alla crudeltà e all'odio
universale, di una nostalgia «involutiva», la nostalgia del ritorno «nelle
foreste», in cui così pareva questo strano popolo sarebbe stato da
sempre più a suo agio che nel mondo del progresso civile, delle
costituzioni e dei diritti dell'uomo. L'esponente delle ss Reinhard
Heydrich, intento a suonare il violino e tutto preso dalla magia di una
Sonata di Schubert, è così diventato per un certo periodo addirittura
una specie di cliché rappresentativo del tedesco tout court.
Queste interpretazioni (per lo più superficiali e sommarie) del
carattere e della storia dei tedeschi si sono, nel complesso, liquidate
prevalentemente da sé. Perché alla fin fine non facevano che dare
ragione a posteriori alla tesi nazionalsocialista secondo cui Hitler era
non solo l'erede legittimo della Prussia e dell'impero voluto da
Bismarck, ma anche l'uomo destinato a portare a compimento la storia
tedesca. Senza risposta è invece rimasta la questione, analizzata nel
frattempo da innumerevoli ricerche, sulle possibili linee di
collegamento tra la storia tedesca e Hitler e il suo bagaglio ideologico,
e che possono aver portato alla sua ascesa, o almeno averla favorita.
Alla ricerca delle prove di queste connessioni si sono inseguite
tracce che risalgono a lungo nel tempo, sino a perdersi da qualche parte
nella nebbia della storia. E così ecco chi ha puntato il dito sul distacco
dalla realtà del pensiero filosofico tedesco e, insieme, su un
presuntuoso concetto di cultura che disprezza la politica e non
l'ammette in ogni caso nei suoi ranghi. E poi, ancora, ecco le schegge
illiberali insite nelle strutture sociali, i riflessi condizionati ravvisabili
nell'adeguarsi acritico alla volontà delle autorità statali, nonché la
natura reazionaria, non di rado trucemente ostentata, delle élite del
potere dominante, la cui preminenza sarebbe rimasta a tal punto
incontestata da impedire alla borghesia tedesca di sviluppare una
coscienza del proprio ruolo. Questa e altre peculiarità ancora si è
affermato avrebbero portato al formarsi di una tradizione di disciplina
sociale da sempre inserita in uno stato di attesa pretotalitario.
Aggiungendovi poi le risapute debolezze delle istituzioni politiche del
paese, risulterebbe comprensibile la predisposizione specificamente
tedesca a farsi sedurre da carismatiche figure di «Führer»: parola che
ricordiamolo vuol dire guida, conduttore, duce. Premessa di tutto ciò
ovviamente sarebbe sempre stato il fatto che gli imperativi che
provenivano da quei contesti avrebbero assecondato le tendenze
predilette dal pensiero tedesco: da un lato uno spirito del tempo nutrito
dalle difficoltà momentanee e da vari complessi d'accerchiamento;
dall'altro, l'inclinazione a elevare ogni questione contingente a una
decisione sui massimi sistemi, e a caricare ogni evento politico di
contenuti mitologici.
Indubbiamente una buona parte di queste e di altre considerazioni,
che hanno portato a protratte dispute soprattutto nel dibattito attorno
alla cosiddetta «via particolare» seguita dalla Germania si possono
mettere in relazione con il fenomeno storico costituito da Hitler.
Occorre tuttavia considerare anche che ogni momento della storia è
molto più aperto di quanto appaia all'interprete del passato, il quale
giudica sempre a posteriori. Le sue convinzioni risultano poi
necessariamente determinate dalle domande che non porrebbe mai, se
non sapesse già come sono andate a finire le cose. Infine va tenuto
presente che circostanze e condizioni paragonabili a quelle tedesche,
anche se di pesi molto disparati, si potrebbero trovare praticamente in
qualsiasi altra nazione, quanto meno nel continente europeo.
La verità è che non è sicuramente derivabile dalle vicende tedesche
alcuna plausibile linea di collegamento con Hitler, a meno di non
costruirla ricorrendo a inammissibili arzigogoli speculativi. Tutt'al più
si potrebbe affermare che le forze di opposizione alla sua ascesa
risultarono paralizzate dal particolare sviluppo del paese. E senza
risposta rimane poi anche la domanda che subito vi si connette: come
mai il nazionalsocialismo abbia sviluppato tanta più durezza e
concentrata disumanità rispetto alla maggioranza dei movimenti
estremisti a esso affini degli anni Venti e Trenta.
Se si guarda la questione più da vicino e al di là di certi superficiali
oppure fin troppo plausibili tentativi di interpretazione, si constata che
fra le particolarità tedesche in senso stretto va indubitabilmente
annoverato l'assolutamente inopinato tonfo nella realtà costituito dalla
sconfitta dell'autunno 1918. La nazione, che fino all'armistizio aveva
sognato di riconquistare lo spazio e il ruolo di grande potenza degli
anni 1870-71, e i «tempi magnifici» incontro ai quali pensava di
muoversi, si trovò repentinamente confrontata con un rivolgimento
netto e totale di tutte le sue condizioni di vita: con una rivoluzione che
fu colta da una larghissima maggioranza solo come una «sollevazione
plebea», affetta da un «odore di carogna», che scompaginò e
scompigliò tutte le fidate unità di misura da gran tempo vigenti; inoltre
con il caos nelle strade, con un periodo protratto di carestia, con una
disoccupazione dalle proporzioni mai viste e con disordini sociali che
coinvolgevano intere province. Si aggiunga a ciò il trattato di pace di
Versailles, inscenato in mezzo a pompose chiacchiere di pace ma di
fatto dettato da ipocrisie, voglie di vendetta e vessatoria miopia,
compresa la deliberata e come tale anche accolta e interpretata
umiliazione implicita nella tesi della colpa della guerra contenuta
nell'articolo 231. Più che dagli oneri materiali che le potenze vincitrici
addossarono alla Germania, gli animi furono sconvolti dall'espulsione
dei tedeschi dal novero dei popoli rispettati. Un osservatore ha notato a
questo proposito che fin da allora si sarebbe costituita una «comunità
popolare di amareggiati», in attesa soltanto di un Führer di una guida
capace di fornirle le necessarie parole d'ordine. L'inflazione, con il
conseguente immiserimento di vasti strati della popolazione, e la crisi
economica mondiale che vi si aggiunse pochi anni dopo non fecero che
esasperare i risentimenti: dunque, tutti gli innumerevoli smacchi che i
tedeschi continuarono a subire, furono addebitati alla repubblica di
Weimar assediata e assillata da ogni lato.
Sul finire degli anni Venti, Hitler poté perciò profittare di questi
risentimenti e far leva su quanto scatenava indignazione e rabbia
crescente: andò a denunciare in ogni angolo del paese una crisi che,
contemporaneamente, si adoperò con ogni mezzo a far precipitare. Era
la sua più sicura promessa di potere. Non si può arrivare a capo della
domanda, formulata un'infinità di volte e fino a oggi quasi mai esaudita
con una risposta soddisfacente, sulle cause della sua ascesa se si
espunge dall'analisi il fatto che egli salì a galla di una nazione
psicologicamente spezzata. Contemporaneamente le adesioni che lui e
il suo movimento registrarono furono, più di ogni altra cosa, uno
scriteriato e precipitoso modo di prendere le distanze dall'infelice
repubblica di Weimar, dallo «stato con il berretto da pagliaccio» come
lo definì uno dei suoi disperati difensori: spintonato dall'esterno e,
all'interno, oggetto delle irrisioni di troppi avversari uniti solo dal
disprezzo e dall'odio per le istituzioni esistenti.
Questo è uno dei fattori che hanno impedito di capire la profonda
cesura morale che molti odierni osservatori, conoscendo i successivi
orrori del regime, colgono nell'anno 1933. I contemporanei non la
percepirono se non raramente. Ma per una precisa comprensione degli
avvenimenti va anche considerato che quasi nessuno di coloro che
vissero quei momenti aveva un concetto anche solo
approssimativamente chiaro e preciso della dittatura totalitaria che si
stava profilando e del punto di privazione dei diritti, di arbitrio e di
violenza al quale poteva arrivare anche in un paese annoverato fra le
nazioni più colte e civili. Perfino la fantasia degli avversari dei nuovi
detentori del potere risultò insufficiente. La grande maggioranza
prefigurò, tutt'al più, un regime autoritario come quello instaurato da
Mussolini in Italia dove, come ognuno sapeva, i treni erano
nuovamente tornati a viaggiare in orario. Dopo le caotiche fasi della
repubblica di Weimar, praticamente ognuno si augurava, per così dire,
un ritorno alle molte «puntualità» tedesche di cui aveva per quasi
quattordici insopportabili anni sentito la mancanza.
Quale elemento essenziale del «caso» tedesco, difficilmente
sopravvalutabile, va però annoverato lo stesso Hitler. Tutte le
«derivazioni» anche minuziose dalla storia e dalla società tedesche, pur
ravvisate con sicuro colpo d'occhio e acuta capacità d'analisi, devono
alla fin fine tornare alla sua persona e non possono prescindere dalla
biografia del personaggio che impresse agli avvenimenti gli impulsi
decisivi. In nessun altro paese, o quanto meno in nessuno fra quelli
afflitti da analoghe turbolenze nel periodo fra le due guerre, si profilò
una figura di capopopolo d'una violenza retorica comparabile a quella
di Hitler, in nessuno un uomo di anche solo simile capacità
organizzativa e ingegno tattico. E neppure di analogo radicalismo.
Soltanto dopo aver compiuto questa constatazione si può dire che
Hitler poté rifarsi in particolare per quanto attiene alla politica di
potenza a certe eredità tedesche di origine recente e meno recente: per
esempio alla concezione che guardava all'Est del continente europeo
come a uno spazio d'espansione vitale e naturale per il Reich, pronto e
maturo per essere colonizzato. Difatti, il dibattito sugli obiettivi della
guerra, durante il primo conflitto mondiale, aveva postulato fra l'altro
una vasta «pulizia etnica» di quelle zone, con operazioni di
evacuazione e di trasferimento di popolazioni che avrebbero dovuto
coinvolgere territori esteri. Inoltre Hitler aveva già concepito fin da
allora assieme ad altri progetti, almeno per grandi linee il concetto
«ideale» di alleanza, che prevedeva uno strettissimo collegamento
della Germania con l'impero britannico onde potersi profilare, con il
«popolo cugino» d'oltre Manica, come le «potenze di guida del
mondo».
Il compito più urgente di fronte al quale la politica tedesca si trovò,
dopo la conclusione della prima guerra mondiale, fu quello del
superamento del diktat di Versailles. E questo proposito offrì a Hitler
lo spunto per accattivarsi il vecchio ceto dirigente, allora ancora afflitto
dall'insuperato dolore per il fallimento delle aspirazioni a essere una
grande potenza. Un memoriale della Reichswehr questa la
denominazione delle forze armate tedesche prima che il
nazionalsocialismo le ribattezzasse Wehrmacht , indirizzato nel 1926
al ministero degli Esteri, delineò una specie di linea d'azione a medio
termine: innanzitutto si doveva provvedere alla liberazione della
Renania e del territorio della Saar, poi all'eliminazione del «corridoio
polacco» fra il Reich e la Prussia orientale, quindi alla riconquista
dell'Alta Slesia polacca, all'annessione dell'Austria, e infine
all'occupazione della zona smilitarizzata. Come si vede, se si prescinde
dalla successione temporale, questo fu esattamente il programma di
politica estera attuato da Hitler durante gli anni Trenta. Quei gruppi
politici e sociali ravvisarono nel capo del partito nazionalsocialista, al
di là di ogni perplessità suscitata dalla sua inclinazione all'azzardo e
dal suo brigantesco modo di procedere, l'uomo che sembrava nella
condizione di poter realizzare i loro propositi revisionisti. In ogni caso
Hitler seppe sfruttare come nessun altro il trattato di Versailles (al pari
delle diffuse sensazioni di umiliazione che esso aveva prodotto) quale
strumento di mobilitazione.
Ciò di cui coloro che aiutarono e favorirono Hitler non tennero
conto, e che verosimilmente neppure intuirono, fu la ferma
determinazione con la quale Hitler concepiva le proprie visioni, fatte di
una singolare mescolanza di fantasia e di «gelido» calcolo. Le sue
«sparate» sulla guerra, sull'ordine nuovo da conferire al mondo,
nonché sulla creazione di un impero esteso fino agli Urali e oltre non
erano da attribuire, come molti credettero, agli impulsi momentanei
d'un temperamento irruente. Mentre coloro che assecondarono il
nazionalsocialismo avrebbero soltanto voluto eliminare l'«onta» inflitta
alla Germania dalle potenze vincitrici e riconquistare gli antichi confini
tutt'al più con qualche «aggiunta», Hitler non mirò con la sua politica
né a vecchi né a nuovi confini. Quel che lui voleva erano nuovi spazi,
territori di milioni di chilometri quadrati da conquistare e come
affermò in talune circostanze da spopolare mediante «un'impresa
diabolica». Dietro queste affermazioni c'era una fame di spazi mai
soddisfatta che considerava ogni acquisizione solo come base di
partenza per nuove avanzate.
Più studiosi hanno sostenuto che neppure queste concezioni
costituirono una svolta innovatrice tale da interrompere la continuità
ravvisabile nella politica tedesca. Perché, si è scritto e fatto notare,
erano in fondo già state sviluppate dai pangermanici o dalle linee di
politica per l'Europa orientale elaborate nel 1918 dal generale
Ludendorff. Ciò che invece costituì uno strappo rispetto alla continuità
fu il fermento ideologico di cui Hitler caricò quelle precedenti
concezioni: il furioso affastellarsi di idee sul mondo malato,
sull'inquinamento della razza, sulla necessità di procedere a
eliminazioni e al rinnovamento del sangue per la «salvezza dell'orbe
terracqueo». In questo modo fece irruzione qualcosa che innovò e
scavalcò radicalmente tutte le per così dire ingenue avidità
imperialistiche: un'utopia razziale che prometteva al mondo di
instaurare una nuova era. Un'era che avrebbe dovuto essere conquistata
con la forza e poi governata da alcune centinaia di milioni di individui
geneticamente consapevoli e uniti, capaci di perseguire
incrollabilmente la loro missione storica: conquistare spazi, sterminare
tutti gli appartenenti alle «razze inferiori» oppure conservarli in uno
stato di graduato servaggio, Un'era che avrebbe dovuto essere forgiata
dall'«uomo nuovo» capace di pianificare, distruggere e trasferire
ininterrottamente intere popolazioni, per andare poi a cercare i suoi
momenti di allegro svago folcloristico e di distensione negli immensi
alberghi che il Fronte del Lavoro avrebbe costruito sulle isole del
Canale, lungo i fiordi della Norvegia o in Crimea. Ecco la rottura con
tutto quanto aveva finora costituito il «mondo» tedesco. Si cade anche
nella trappola della propaganda del regime se a posteriori si attribuisce
a questa rivoluzione un'origine che non aveva. Il mostruoso disegno
aveva origine unicamente in sé stesso. Fino a quel punto, e tanto
follemente nessuno aveva mai osato pensare, non c'era linea di
collegamento con nulla e con nessuno, e comunque sicuramente non
con Bismarck, Federico il Grande o addirittura con gli imperatori del
medioevo.
Furono soprattutto la totale mancanza d'un senso di responsabilità
che trascendesse la sua persona, di una semplice e disinteressata etica
di servizio e di una morale storica a distinguere Hitler da ogni
immaginabile predecessore. Con un egocentrismo senza precedenti
nella storia, equiparò come Albert Speer gli rinfacciò in una lettera
datata 28 marzo 1945 l'esistenza del paese alla propria. Più ancora che
nelle temerarietà degli inizi, dall'occupazione della Renania nel 1936,
quando per ventiquattro ore la sua sorte rimase in bilico, fino
all'occupazione di Praga nella primavera del 1939, fu soprattutto alla
fine della sua parabola che svelò di essere soltanto un giocatore
d'azzardo capitato nel mondo della politica, uno che si era giocato
«tutto»: e che aveva perduto. Lasciando, dopo di sé, il nulla.
Uno dei più radicali fra i generali al servizio del partito nazista,
l'aiutante maggiore di Hitler Wilhelm Burgdorf, un militare che si
vantava del suo «sconfinato idealismo per il Führer e il popolo», si
scontrò in uno degli ultimi giorni, nel bunker di Berlino, con il
segretario di Hitler Martin Bormann. Nel corso del chiassoso alterco,
Burgdorf urlò all'onnipotente uomo che presidiava l'anticamera del
Führer di essersi attirato, per l'incondizionata adesione alla causa
comune, il disprezzo degli altri ufficiali, e di aver dovuto sentirsi
accusare di essere un «traditore». Oggi doveva ammettere che i suoi
avversari avevano avuto ragione, che il suo «idealismo» era stato
«sbagliato», ed egli stesso «ingenuo e sciocco». Quando il generale
Krebs, altro fedelissimo di Hitler che aveva assistito alla lite, fece per
intervenire, Burgdorf lo rimbeccò: «Lascia perdere, Hans, queste cose
prima o poi andavano dette!». I giovani ufficiali, proseguì Burgdorf,
erano andati «a morire a centinaia di migliaia», e ora si domandava per
che cosa. La risposta che si diede fu: non per la patria e non per
l'avvenire della Germania. Ora soltanto l'aveva capito: «Sono morti per
voi... Milioni di persone innocenti sono state sacrificate mentre voi, i
dirigenti del partito, vi siete arricchiti saccheggiando il patrimonio del
popolo. Avete gozzovigliato, avete arraffato immense ricchezze, rubato
tenute e possedimenti, costruito castelli, sguazzato nell'abbondanza,
ingannato e oppresso il popolo. Avete calpestato nella sporcizia i nostri
ideali, la nostra morale, la nostra fede, la nostra anima. L'essere umano
è stato per voi solo lo strumento della vostra insaziabile avidità di
potere. Avete distrutto la nostra secolare cultura, avete distrutto il
popolo tedesco. Ecco la vostra terribile colpa!».
Dopo queste parole continua il resoconto di chi assistette allo scontro
nel bunker si fece silenzio. Dopo un po' soltanto Bormann avrebbe
detto «con freddo, untuoso e meditato distacco»: «Mio caro, non è il
caso di farne una questione personale! Anche se altri si sono arricchiti,
io sono esente da colpe... Prosit, mio caro!».
Prima che qualche giorno dopo Wilhelm Burgdorf ponesse fine alla
sua vita, Hitler gli diede in un certo senso ragione. Concluso uno degli
ultimi esami della situazione bellica, il 27 aprile 1945, parlò,
riferendosi a un'affermazione di Richelieu, di tutto ciò che avrebbe
perduto con la morte, dai grandi propositi ai «più preziosi ricordi». Poi
però tornò a riemergere il giocatore che era stato per tutta la sua vita, il
fallito giocatore d'azzardo e, non per ultimo, l'uomo venuto dal nulla
che era in procinto di sparire nel nulla lasciandosi alle spalle una
gigantesca scia di macerie. «Ma che senso ha parlare di tutto ciò!»
disse con un gesto sprezzante davanti agli ufficiali riuniti: «Prima o poi
bisogna pur lasciarsi tutto questo ciarpame alle spalle!».
3. «La guerra è perduta!»

Il 20 aprile, giorno del cinquantaseiesimo compleanno di Hitler, si


riunì per l'ultima volta l'intero gruppo dirigente del regime: Goebbels,
Himmler, Bormann, Speer, Ley, Ribbentrop, alcuni Gauleiter nonché i
vertici della Wehrmacht. Da Karinhall, la sua tenuta di caccia, era
venuto Göring, non dopo aver spedito alla volta della Germania
meridionale, perché lo precedesse, un convoglio di ventiquattro
autocarri carichi delle antichità, dei dipinti e dei mobili razziati e
ammucchiati negli anni precedenti. La colonna si era appena messa in
movimento quando Göring era sceso in strada e, nei pressi
dell'ingresso della tenuta, aveva premuto senza alcuna visibile
emozione, con un'indifferenza quasi impersonale, la leva di una
cassetta metallica che aveva fatto preparare. Con un'esplosione
tremenda, il palazzo di Karinhall era saltato in aria e, senza neppure
voltarsi a guardare, Göring aveva detto a un ufficiale del suo seguito:
«Sono cose che talvolta occorre fare quando uno è un principe
ereditario». Quindi era partito per andare a partecipare alla festa di
compleanno.
Alcuni giorni prima, inaspettatamente, era arrivata nel bunker Eva
Braun e aveva preso alloggio nei locali posteriori della parte riservata
al Führer.
L'incontro per gli auguri da porgere al dittatore non si svolse nella
catacomba, ma negli ambienti più vasti e solenni della Nuova
Cancelleria, benché apparissero malconci e squallidi a causa dei danni
prodotti dai bombardamenti, dei quadri che erano stati tolti dalle pareti,
dei mobili che erano stati rimossi. L'incontro di tanti dignitari in
uniforme evocò comunque ancora una volta il ricordo degli splendori
passati di cui si sentiva tanto la mancanza e delle sensazioni di euforia
che li avevano accompagnati, anche se il continuo urlare delle sirene
non fece che deprimere ulteriormente gli umori, di per sé già cupi.
Dopo aver pronunciato poche parole, Hitler si spostò da un gruppo
all'altro per accogliere con compunta serietà e a momenti quasi con
riluttanza gli auguri, e per incoraggiare e scuotere quanti via via gli
stringevano la mano. Benché avesse inizialmente dato l'impressione di
essere profondamente esausto e si fosse sforzato di nascondere con
maggior fatica del solito il tremito del braccio sinistro questa
l'impressione di uno dei presenti , sembrò poi rivivificato dalla fiducia
che lui stesso stava chiedendo agli altri, tanto da apparire a momenti
«come galvanizzato». Fuori, sulla Wilhelmstrasse, la «Leibstandarte» e
cioè la formazione delle ss che costituiva la guardia del corpo del
Führer stava sfilando in ordine perfetto davanti al Gruppenführer
(generale di divisione) Wilhelm Mohnke.
Nel corso della mattina era stata diffusa la parola d'ordine in codice
«Clausewitz»: l'annuncio dello stato d'allerta che precedeva di poco la
proclamazione dello stato di emergenza. Contemporaneamente si era
appreso che Hitler aveva accondisceso a dare esecuzione a una
decisione adottata già alcuni giorni prima, per effetto della quale il
territorio rimasto in mano tedesca sarebbe stato suddiviso, in caso di
una spaccatura prodotta dall'avanzata delle forze nemiche, in un'«area
settentrionale» agli ordini del grand'ammiraglio Karl Dönitz e in
un'«area meridionale» sotto il comando del feldmaresciallo Albert
Kesselring. Questo pur disperato passo offrì allo schieramento di
coloro che erano accorsi per congratularsi con il Führer lo spunto per
esaltarne ancora una volta il «genio militare», costantemente capace di
trasformare posizioni difensive in molto più vantaggiose postazioni
d'attacco. Nell'illustrarle, Goebbels definì le due «aree» come le ali di
una «tenaglia strategica» che avrebbe inflitto agli ancora ignari alleati
«una seconda Canne».
In cuor loro, al di là di tutte le confuse chiacchiere sui «colpi di
genio» di tecnica militare o sulla vittoria dichiarata imminente contro
ogni apparenza, la maggior parte di coloro che si erano riuniti
attendevano solo, e con crescente nervosismo, la fine della cerimonia.
Ognuno si era reso conto che l'Armata Rossa era in procinto di
chiudere l'anello attorno alla città. Erano rimasti aperti soltanto, a sud e
a nord, due corridoi di fuga che continuavano a restringersi, tanto che a
un certo punto della riunione Göring spedì fuori un ufficiale
d'ordinanza perché si informasse sul tempo che ci sarebbe ancora
presumibilmente stato per riuscire a svignarsela.
Come intuendo la spregevole impazienza della maggior parte dei
presenti e per metterla alla prova, Hitler sembrò almeno a momenti
voler tirare per le lunghe il ricevimento. Poi, durante l'esame della
situazione bellica che, nel corridoio annesso alla diroccata sala delle
conferenze, seguì la cerimonia, ordinò di respingere con un colpo di
forza spietato, e inferto con tutti i mezzi disponibili, i reparti sovietici
che a nord e a est erano avanzati fino a ridosso dell'anello esterno di
difesa della città. Ancora una volta disse di impiegare per il
contrattacco truppe che marciavano unicamente nel mondo stravolto
della sua fantasia, e indugiò, come sempre quando cominciava a
parlare, su dettagli tattici, sulla dislocazione d'un pezzo d'artiglieria,
per esempio, oppure sulla postazione migliore di un gruppo di
mitragliatrici. Gli ufficiali seguirono muti e senza battere ciglio la sua
esposizione. Soltanto Göring, che si era seduto largo e massiccio di
fronte a Hitler, riuscì a fatica a nascondere la sua impazienza e sembrò
contare i minuti che passavano insensatamente.
La sera prima Hitler aveva posto il problema se non fosse il caso di
abbandonare la capitale, praticamente sguarnita di truppe e largamente
indifendibile. Contemporaneamente aveva fatto balenare l'eventualità
di assumere personalmente il comando dell'«area meridionale», per
continuare a guidare la lotta dalla sua residenza estiva
sull'Obersalzberg, al cospetto del mitico Untersberg. Forse alludendo
indirettamente anche alla propria sopravvivenza dopo la fine, aveva
rispolverato ancora una volta la leggenda secondo la quale, all'interno
di quella montagna, dormiva il suo sonno secolare l'imperatore
Barbarossa. Sennonché Goebbels lo aveva appassionatamente
sollecitato a rimanere a Berlino e, se era la morte quella che lo
aspettava, di cercare la fine fra le macerie della città: era un debito di
fedeltà che aveva verso la sua missione storica universale, i giuramenti
resi in passato e la sua statura storica. Il Führer affermò Goebbels
come aveva già fatto altre volte non doveva concludere l'esistenza
nella sua «casa di villeggiatura», e molto induce a pensare che fu
proprio quest'argomento a non mancare l'effetto su un Hitler che si era
sempre visto fra quinte grandiose. A Berlino soltanto, aveva aggiunto
Goebbels, era ancora possibile cogliere un «successo morale di portata
mondiale».
Ora Hitler assicurò di averci riflettuto durante la notte e di aver
deciso di restare nella capitale. Dopo un breve e sbalordito silenzio,
quasi tutti i partecipanti alla riunione lo implorarono di lasciare
Berlino, facendogli notare che, forse già dopo poche ore, ogni via di
fuga sarebbe stata preclusa. Però Hitler rimase inflessibile. «Come
potrei indurre le truppe ad affrontare la decisiva battaglia per Berlino»,
insistette, «se io, in quello stesso momento, mi mettessi al sicuro?» Per
porre fine alle obiezioni, disse infine di voler lasciare «al destino» la
decisione di ciò che ne sarebbe stato di lui, però non avrebbe impedito
a nessuno di andarsene. E poi sottolineò la sua determinazione con
l'ordinare scavalcando le competenze dei generali comandanti Heinrici
e Busse di trasferire a Berlino il Lvi corpo corazzato del generale
Weidling che, dalla battaglia per le alture di Seelow, era alle prese con
i difficili scontri di contenimento dell'avanzata sovietica.
Immediatamente dopo che Hitler ebbe dichiarata conclusa la
riunione, Göring si congedò. Pallido e sudato, parlò di «urgentissimi
compiti» che lo attendevano nella Germania meridionale. Hitler però,
senza dire una parola, evitò perfino di guardarlo, come se avesse
intuito ancora una volta gli indegni calcoli dell'uomo che aveva
nominato suo vicario ed eventuale successore. Subito dopo, in
compagnia di Goebbels, Himmler, Speer e Bormann, il Führer
raggiunse il giardino dietro la Cancelleria del Reich.
Nei pressi dell'uscita, in mezzo ai crateri aperti dalle bombe e ai
tronchi d'albero spezzati, era ancora radunata una schiera di persone
desiderose di porgergli gli auguri: delegazioni dell'ormai esausta
divisione delle ss «Frundsberg» e dell'armata della Curlandia, nonché
un certo numero di Hitlerjungen di una «unità anticarro». Con le spalle
curve, come rannicchiato nel cappotto, Hitler passò in rassegna le file e
porse via via la mano a ogni soldato che si fece avanti. Poi si avvicinò
agli Hitlerjungen, ne accarezzò alcuni e li decorò. Attingendo alle sue
ultime riserve di energia, riuscì a pronunciare qualche frase per dire
che la battaglia per Berlino doveva essere vinta a ogni costo. Alla fine
esclamò con voce stanca: «Heil euch!» e cioè «Salute a voi!». Nessuno
rispose tuttavia con il consueto «Heil Hitler!». «Si sentiva soltanto, in
lontananza», così si legge nel resoconto di Artur Axmann, il
responsabile della gioventù del Reich, «il rombo del fronte distante
ormai neppure trenta chilometri».
Quando Hitler rientrò nel bunker, cominciò il grande esodo. In
lunghe file ministri e gerarchi del partito si fecero avanti, uno alla
volta, mormorarono alcune imbarazzate o frettolose parole di congedo
e poi tagliarono la corda seguiti da infinite colonne di autocarri. Hitler,
«profondamente deluso, addirittura scosso, si limitava a far cenni col
capo», riferì poi uno dei suoi aiutanti in campo, e lasciò partire «senza
più dire una parola» gli uomini «che egli aveva reso a suo tempo
potenti».
Mentre gli uni cercavano scampo, altri raggiunsero il fronte
accompagnati «dai più fervidi auguri» della popolazione, come diceva
l'usata formula. Verso le dieci di sera Hitler comunicò ai suoi più stretti
collaboratori di aver deciso di «sfoltire» il suo ufficio di gabinetto, e
infatti spedì due delle sue segretarie, diversi aiutanti in campo, gli
stenografi nonché il suo medico personale dottor Morell alla volta della
Germania meridionale. Forse, chissà, li avrebbe raggiunti, dichiarò nel
momento del congedo. A Morell però disse: «Non ci sono più droghe
che possano essermi d'aiuto». Poi, in anticipo rispetto al solito, si ritirò
nel suo alloggio. Alcuni di quelli che erano rimasti nei locali comuni
decisero invece a questo punto di raggiungere, assieme a Eva Braun e a
Bormann, le stanze quasi vuote di arredi dell'appartamento del Führer
nella Nuova Cancelleria per una festicciola notturna. Si fecero servire
da bere, tentarono di dimenticare lo spettrale mondo del bunker e
ballarono perfino al suono della melodia dell'unico disco che erano
riusciti a scovare, una canzone che parlava di «rose rosse come il
sangue» e di future felicità. Poi le fragorose esplosioni di alcune
granate d'artiglieria cadute nelle vicinanze ricacciarono tutti nel rifugio
sotterraneo.
Non appena si diffuse la voce che era stata autorizzata la partenza
dei gerarchi del regime, i postulanti accorsero da ogni dove ad
assediare la sede del comando di piazza, nei pressi del Castello di
Berlino, competente per il rilascio dei visti. Oltre 2.000 documenti di
viaggio furono distribuiti in poche ore benché Goebbels avesse
ordinato che nessun uomo in grado di portare le armi dovesse lasciare
la città. Per parte sua, il sottosegretario Otto Meissner, capo della
cancelleria presidenziale, si era fatto vivo con una telefonata già nel
corso della mattina per annunciare di essersi recato nel Meclemburgo
«nell'interesse della libertà d'azione» del suo ufficio, e Goebbels gli
aveva risposto dicendosi dispiaciuto di non poter più esaudire un
desiderio che coltivava ormai da dodici anni, e cioè quello di sputargli
in faccia.
La sera prima, in un discorso d'augurio per il compleanno del Führer
che era stato radiotrasmesso, Goebbels aveva affermato: «La Germania
è tuttora il paese della fedeltà. E celebrerà il suo trionfo più bello
nell'ora del pericolo. La storia non potrà mai dire di quest'epoca che un
popolo ha abbandonato il suo Führer o il Führer il suo popolo. E questo
significa vittoria!». Dio, proseguì, «come già tante altre volte in cui
Lucifero si è presentato alle porte per assumere il potere su tutti i
popoli, lo riscaraventerà negli abissi da cui è venuto». Non sarà il
mondo degli inferi a dominare questa parte della terra, aveva
continuato, bensì «l'ordine, la pace e il benessere». Non altri che il
Führer costituiva «il nucleo della resistenza al disfacimento del
mondo». Due giorni dopo, con l'irruente veemenza verbale di cui
sapeva disporre, evocò e pretese nel suo ultimo articolo per il
settimanale «Das Reich», «la resistenza a ogni costo», anche, scrisse,
da parte «dei ragazzi e delle ragazze» che avrebbero scagliato contro
l'irruzione dell'Asia «bombe a mano e mine [...], sparato dalle finestre e
dalle cantine, sprezzando intanto come inesistente il pericolo in cui
combatteranno».
La mattina dopo Hitler fu svegliato già verso le 9 e mezzo, due ore
circa prima del solito. L'artiglieria russa, gli fu comunicato, stava
bombardando il centro della città, e poco dopo si seppe che granate
erano esplose in fitta successione presso la Porta di Brandeburgo,
vicino al Reichstag la sede del parlamento e poi oltre, fino alla stazione
della Friedrichstrasse. Quando Hitler si presentò di lì a poco
nell'anticamera, non sbarbato e palesemente turbato, la sua prima
domanda fu: «Che cosa succede? Che cosa sono questi colpi?». Dopo
che Burgdorf gli ebbe spiegato che il centro della città era stato
evidentemente preso di mira da una postazione d'artiglieria dislocata a
nordest di Zossen, Hitler impallidì: «I russi sono già così vicini?». Poi
si fece collegare telefonicamente con il generale Koller, capo di stato
maggiore della Luftwaffe.
In una annotazione di Koller si legge: «Hitler chiama di primo
mattino. "Lo sa che Berlino è sotto il fuoco dell'artiglieria? Il centro
della città". "No!". "Ma non lo sente?". "No! Io sono a Wildpark-
Weder". Hitler: "C'è molta agitazione in città a causa di questo
bombardamento da parte dell'artiglieria. Pare che si tratti di una
batteria di calibro pesante montata a bordo di un treno. Sembra che i
russi abbiano gettato un ponte ferroviario sull'Oder. La Luftwaffe
localizzi e neutralizzi immediatamente quella batteria". Io: "Il nemico
non ha ponti ferroviari sull'Oder. Forse sono riusciti a catturare una
batteria pesante tedesca e a rivolgerla contro di noi. Ma è anche
probabile che si tratti di cannoni di media gittata dell'esercito russo con
i quali il nemico riesce già a raggiungere il centro della città". Segue
una protratta discussione sull'esistenza o meno d'un ponte ferroviario
sull'Oder, e sulla capacità dell'artiglieria campale russa di raggiungere
il centro di Berlino... Hitler insiste che io gli localizzi e gli neutralizzi
subito la batteria. Vuole sapere entro dieci minuti dov'è...».
«Decido di chiamare la postazione divisionale della Flak che è sul
bunker dello Zoo», prosegue il resoconto di Koller. «Alla mia
domanda vengo a sapere che quelle che cadono sono solo granate di
calibro 10 oppure 12. La batteria russa che sta sparando si è appostata
all'alba, osservata dalla Flak, nei pressi di Marzahn, a una distanza di
circa dodici chilometri dal centro della città... Hitler accoglie con
incredulità la comunicazione telefonica di questa situazione di fatto».
Non senza ragione si è guardato all'annotazione di Koller su questo
colloquio come a una prova caratteristica del preconcetto che guidava
Hitler nei rapporti con gli ufficiali e, più in generale, con la realtà
oggettiva, nonché dei lunatici e fantastici ghiribizzi che lo inducevano
a volte, ignorando del tutto i particolari, a parlare in quel caso specifico
di «fuoco di lunga gittata», inventando sui due piedi batterie montate
su treni e ponti ferroviari sull'Oder. Le sue parole rivelano, più ancora
dell'insufficienza di quelle informazioni che gli erano a volte anche
deliberatamente e arbitrariamente nascoste, la confusione delle
competenze di comando che vigeva nel quartier generale.
L'appunto di Koller del 21 aprile prosegue così: «Poco dopo, ecco di
nuovo Hitler personalmente all'apparecchio. Vuole cifre precise
sull'intervento aereo in corso a sud di Berlino. Gli rispondo che simili
verifiche non si possono più fare a tamburo battente perché i contatti
informativi con le truppe non funzionano più senza intoppi. Bisogna
accontentarsi dei bollettini della mattina e della sera che arrivano
automaticamente. Ha avuto una reazione alquanto incattivita».
Di lì a poco, si legge nell'appunto, Hitler telefonò di nuovo, e poi
ancora. Una volta volle sapere qualcosa degli aviogetti di stanza a
Praga, l'altra dell'«esercito privato» che Göring avrebbe avuto. Dopo
aver menzionato uno scritto dell'industriale Hermann Röchiing, Hitler
scrisse Koller si mise repentinamente a urlare: «Bisognerebbe
impiccare immediatamente i responsabili della Luftwaffe!». E poi
ancora, senza tregua: domande, ordini, contrordini e, fra gli uni e gli
altri, brevi conferenze sulla situazione. «Lo sa il diavolo che cosa
vuole!» è infine lo sfogo del generale disorientato.
Per riuscire a farsi un'idea di come andavano le cose, Koller tentò di
mettersi in contatto con Krebs. Quando infine, dopo estenuanti e inutili
tentativi, riuscì a raggiungerlo verso le 10 e mezzo di sera e gli chiese
soprattutto chiarimenti a proposito di un presunto attacco di
alleggerimento avviato dal generale delle ss Steiner, menzionato da
Hitler ma di cui non aveva altra notizia, s'intromise improvvisamente
nella conversazione lo stesso Hitler. «D'un tratto», annotò Koller,
«risuona nell'apparecchio la sua voce agitata: "Dubita forse ancora del
mio ordine? Mi pare di essermi espresso abbastanza chiaramente. Tutti
gli effettivi della Luftwaffe nell'area settentrionale che possono essere
resi disponibili per un impiego a terra devono essere messi
immediatamente a disposizione di Steiner. Chiunque dovesse trattenere
reparti sappia che, tempo cinque ore, si sarà giocata la vita. E lei stesso
me ne sarà garante con la sua testa!"».
Di lì a poco Hitler si indignò perché, durante il rapporto sulla
situazione bellica fatto da un ufficiale, non si era presentato nessuno
degli stenografi cui lui stesso aveva poco prima permesso di andarsene
e, come spesso nei momenti di delusione della sua vita, ritenne di poter
risolvere tutto, a prescindere da ciò che stava realmente accadendo,
pronunciando una parola sola: «Tradimento!».
Quando, a notte inoltrata, Walter Hewel, l'«incaricato permanente
del ministero degli Esteri presso il Führer» del quale Hitler aveva una
grandissima stima, chiese le ultime direttive e ricordò che quello era in
tutta evidenza l'estremo momento utile per un'iniziativa politica, Hitler
si alzò e disse «con un tono di voce basso, completamente cambiato,
mentre, stanco, si trascinava lentamente fuori dalla stanza: "Politica? Io
non faccio più politica. Mi fa schifo. Voi piuttosto avrete da fare
ancora abbastanza politica quando sarò morto"».
I nervi non reggevano più e sempre più spesso l'argine fatto di
intransigenza e di falsa fiducia nella vittoria si incrinò. Durante l'ultima
conferenza stampa che Goebbels tenne nella sua residenza, tra finestre
con fogli di cartone al posto dei vetri e a lume di candela, il ministro
per la propaganda gettò tutta la colpa del fallimento del grande sogno
sul corpo degli ufficiali e sulla «reazione» con la quale si era dovuto
suo malgrado alleare. Di volta in volta, attardandosi in lunghe
esposizioni sul riarmo troppo trascurato ancora in tempi di pace, sulle
scelte tattiche sbagliate durante la campagna di Francia e quella contro
l'Unione Sovietica, sul fallimento delle operazioni di contenimento in
occasione dello sbarco alleato in Normandia o anche sulla congiura
culminata nell'attentato del 20 luglio, continuò a ripetere che la vecchia
casta non aveva fatto altro che «tradire».
La volta che uno dei suoi funzionari, il dirigente ministeriale Hans
Fritzsche, obiettò che non era il caso di dubitare della fedeltà, della
fiducia e della disponibilità al sacrificio della popolazione, il ministro,
di solito sempre attento nel soppesare le parole, esplose dicendo che
anche il popolo tedesco aveva fallito. «Che me ne faccio di un
popolo», dichiarò indignato, «i cui uomini non combattono più
nemmeno quando le loro donne vengono violentate?». A Est, gridò con
la «faccia arrossata dall'ira», il popolo stava scappando e a Ovest
accoglieva il nemico sventolando le bandiere bianche. Non riusciva a
provare commiserazione, tanto più che quel popolo aveva scelto esso
stesso la sua sorte. In occasione del referendum del 1933 sull'uscita
della Germania dalla Lega delle Nazioni aveva liberamente votato
contro una politica di sottomissione e a favore di una politica del
rischio. Era andata male, constatò e, alzandosi, aggiunse: «Sì, per certe
persone le mie affermazioni potranno costituire una sorpresa... ma non
si facciano delle illusioni! Io non ho costretto nessuno a collaborare
con me, esattamente come noi non abbiamo costretto il popolo tedesco
a seguirci. E' stato il popolo a conferirci l'incarico... e ora, caro
Fritzsche, questo popolo le taglierà la gola!». Nell'andarsene, già quasi
fuori dalla porta, si voltò ancora una volta e gridò: «Ma quando
usciremo di scena noi, tremerà il mondo intero!».
Nel frattempo era giunta notizia nel bunker che, dopo il maresciallo
Zukov nel settore centrale e il maresciallo Konev in quello
meridionale, anche il maresciallo Konstantin K. Rokossowskij,
comandante del secondo fronte bielorusso, aveva sfondato le linee
tedesche nei pressi di Stettino e stava ora avanzando su Berlino.
Significativamente, Hitler non reagì ritirando tutte le forze disponibili
per attestarle lungo un perimetro difensivo attorno alla capitale, ma
cogliendo anche questo sfondamento come un'occasione per inscenare
un contrattacco da condurre con la massima determinazione. Le truppe
per intraprenderlo le trovò desumendole da una bandierina infissa nella
carta planimetrica che aveva davanti e che stava a segnalare la
presenza nella zona di Eberswalde di un «gruppo Steiner». Questo
teorico gruppo, unitamente alla 9a armata del generale Busse, sarebbe
dovuto andare a formare un'unità da costituirsi in tutta fretta agli ordini
del generale delle ss Felix Steiner, con il compito di sfondare un fianco
della linea d'attacco sovietica nel settore sudorientale e ricostituire così
fino a Cottbus il fronte che si stava sgretolando davanti alla capitale.
«Proibisco a tutti, espressamente, ogni arretramento verso occidente»,
ammonì Hitler. «Gli ufficiali che non dovessero attenersi
incondizionatamente a quest'ordine saranno arrestati e immediatamente
fucilati. Lei stesso», aggiunse rivolto a Steiner, «mi risponderà con la
sua testa dell'esecuzione di quest'ordine».
Di fatto l'armata di Busse era costituita ancora solo di un mucchio
disordinato di soldati sbandati che si stavano difendendo
disperatamente per sottrarsi a un incombente accerchiamento, mentre il
«gruppo Steiner» non esisteva affatto. Tutti gli ordini necessari per la
costituzione di una nuova formazione furono impartiti con estrema
energia, ma risultarono in parte contraddittori e in parte del tutto
ineseguibili a causa della confusione esistente nella zona del fronte.
Fra l'altro ci si era dimenticati di avvisare il comandante cui competeva
la responsabilità dell'intera zona e dei reparti teoricamente da
mobilitare, il generale Heinrici, il quale si fece a questo punto mettere
in contatto telefonico con Krebs.
L'«operazione Steiner», spiegò Heinrici, era del tutto priva di
prospettive e avrebbe inoltre messo a repentaglio le sue truppe; ribadì
la necessità di ritirare quanto meno la 9a armata minacciata
d'accerchiamento e offrì le sue dimissioni qualora non si fosse voluto
corrispondere alla sua richiesta: avrebbe preferito combattere come un
semplice soldato nelle file del Volkssturm, disse, piuttosto che ubbidire
a un ordine che si sarebbe tradotto in un insensato sacrificio di vite
umane. Però Krebs non volle sentir ragioni e non bastò neppure il
richiamo alla responsabilità che entrambi avevano nei confronti delle
truppe per fargli cambiare idea. «Questa responsabilità», spiegò Krebs
al suo interlocutore, «se l'assume il Führer».
Con quanta maggiore perspicacia Heinrici avesse giudicato la
situazione si vide il giorno dopo, quando si presentò assieme al capo
dello stato maggiore della Wehrmacht, generale Alfred Jodl, nella sede
del comando di Steiner. Ancor prima di cominciare l'analisi della
situazione per poi decidere che cosa fare, il generale delle ss rivolse ai
visitatori questa domanda: «Qualcuno di lorsignori ha per caso visto le
mie unità?». Alla fine del colloquio, Heinrici ricordò l'ordine di attacco
impartito da Hitler unitamente alla frase conclusiva personalmente
rivolta a Steiner: «Dal successo del suo incarico dipendono le sorti
della capitale del Reich!». E quando Heinrici, evidentemente alludendo
all'alto grado delle ss del suo interlocutore, aggiunse:
«Ora lei deve attaccare, Steinerà per amore del suo Führer!», Steiner
reagì fissandolo per un attimo sconcertato, e poi insorse: «Guardi che è
anche il suo Führer!».
La confusione aumentò di ora in ora. La mattina del 22 aprile, il
comandante della piazza di Berlino, generale Hellmuth Reymann,
nominato appena alla fine di febbraio, e al quale Hitler e soprattutto
Goebbels avevano ripetutamente rinfacciato scarsa determinazione, fu
sostituito nell'incarico. Come suo successore fu scelto il colonnello
Ernst Kaether, fino a quel momento addetto, quale esponente della
direzione militare del partito nazionalsocialista, alla formazione e alla
sorveglianza ideologica delle truppe. Per conferirgli il nuovo comando
lo si dovette promuovere tenente generale fuori ruolo facendogli fare
addirittura due salti di grado. Kaether passò il resto della giornata a
comunicare a mezzo mondo l'onore che gli era stato fatto con quella
nomina oltre che a mostrarsi non all'altezza delle alte aspettative
riposte in lui, tanto è vero che si vide sollevato dall'incarico e
retrogradato a colonnello quella stessa sera.
Nelle stesse ore fece il giro del bunker la notizia che il generale
Weidling aveva spostato la sede del suo comando tattico da una zona a
sudest di Berlino alla volta di Döberitz, e cioè a occidente della città.
Quando Busse e Hitler seppero di quella che giudicarono un'arbitraria
iniziativa del generale, ordinarono ciascuno per suo conto che
Weidling fosse immediatamente destituito, tradotto dinanzi alla più
vicina corte marziale e fucilato. Anziché chinare il capo e rassegnarsi,
il generale Weidling decise allora di raggiungere immediatamente il
bunker sotto la Cancelleria del Reich. Mentre percorreva i corridoi
sotterranei s'imbatté in Krebs e Burgdorf e pretese di sapere da loro
perché lo si sarebbe dovuto fucilare. Solo dopo che ebbe descritto la
situazione nel suo settore di fronte e aver soprattutto dimostrato che il
suo comando tattico era tuttora a sudest di Berlino, «a solo uno o due
chilometri dalla primissima linea dei combattimenti», i due generali
divennero «notevolmente più gentili» e lo accompagnarono di lì a poco
da Hitler, nel tratto più interrato del bunker.
Hitler lo accolse «con la faccia gonfia e gli occhi di un
febbricitante», ricordò in seguito Weidling. Dopo che si furono
accomodati, il generale constatò con spavento che, anche quando era
seduto, la gamba sinistra del Führer era «in continuo movimento, come
il pendolo di un orologio, solo un po' più veloce». Il racconto prosegue
dicendo che, non appena Weidling ebbe concluso la descrizione dei
rapporti di forza nel suo settore difensivo, cominciò a parlare Hitler e
l'ufficiale si trovò a seguire con «grande e crescente stupore»
un'esposizione sulla difesa di Berlino secondo la quale le truppe
sovietiche sarebbero state prima «schiantate» a sud della città, e poi
definitivamente «annientate» dalle unità nel frattempo radunate di
Steiner, Busse e altri ancora. Contemporaneamente «altre unità»
avrebbero impegnato in combattimento l'Armata Rossa a nord, e gli
uni e gli altri l'avrebbero infine affrontata insieme per la battaglia
risolutiva. Ancor prima di lasciare il bunker, Weidling informò sullo
svolgimento del colloquio il suo stato maggiore e diede alcune
disposizioni tattiche. Sennonché, il giorno dopo, Krebs comunicò allo
sbalordito generale che Hitler lo aveva nominato «comandante della
difesa dell'intero settore di Berlino». «Sarebbe stato meglio se lei
avesse dato ordine di farmi fucilare», rispose Weidling seccamente,
«perché allora questo calice sarebbe stato passato ad altri».
Le sorprese non erano ancora finite. Nelle discussioni dei giorni
precedenti era ripetutamente affiorato un nome che aveva via via
acquistato peso nel corso delle consultazioni, fino a suscitare ben
presto le più stravaganti speranze. Era il primo pomeriggio del 22
aprile quando il generale Krebs telefonò a Heinrici per comunicargli
che la 12a armata del generale Werner Wenck, inviata a dislocarsi nei
pressi di Magdeburgo, avrebbe compiuto un'inversione di marcia e si
sarebbe immediatamente avviata alla volta di Berlino; la decisione,
aggiunse Krebs, era stata suggerita anche dal fatto che le truppe
americane stavano evidentemente considerando quella dell'Elba una
linea di demarcazione e non davano la sensazione di voler varcare il
fiume.
Poiché la 12a armata risultava composta in parte notevole di unità
esperte di combattimenti al fronte e per di più integrate di recente con
forze fresche, la fiducia riposta nel suo intervento non fu del tutto
infondata. Però si sarebbe anche dovuto tener conto che la formazione,
ancora in fase di composizione, non aveva alcuna esperienza di
coordinamento operativo. Ancora più preoccupante, ma non registrato
dallo schieramento delle bandierine infisse sulla carta planimetrica se
non addirittura rimosso, era che Wenck non disponeva di un solo carro
armato, non aveva quasi artiglieria contraerea per contrastare in
qualche modo la superiorità nemica in cielo, e inoltre che due divisioni
che gli erano state assegnate non erano ancora arrivate e non si
sarebbero poi nemmeno più presentate. Rimane infine da aggiungere
che la zona in cui era dislocata la 12a armata si era trasformata da
qualche giorno in un gigantesco caravanserraglio fatto di oltre mezzo
milione di profughi i quali, nell'arretrare dinanzi all'avanzata
dell'Armata Rossa, erano giunti a ridosso dell'Elba ma non erano
riusciti a varcare il fiume o erano stati comunque bloccati dalle truppe
americane schierate sull'altra riva. Crescevano ogni giorno di numero
per l'affluenza senza fine di nuovi convogli, e costituivano una specie
di avanguardia dei milioni di persone che nei mesi successivi sarebbero
state scacciate dalle loro terre, rinchiuse in campi di internamento
oppure deportate verso l'Est come lavoratori forzati.
Sennonché Heinrici si guardò bene dal richiamare l'attenzione di
Krebs sulle innumerevoli difficoltà che paralizzavano o addirittura
impedivano ogni pianificazione operativa. Da alcuni giorni il suo
intento, segnato dal crescente disprezzo per gli ordini che provenivano
dal bunker, era di spostare il suo gruppo d'armate, sia a Nord sia a Sud,
lontano da Berlino, per risparmiare così alla città la tragedia di una
battaglia che era da tempo ormai diventata insensata. Le sue truppe
avrebbero invece dovuto tentare di raggiungere il più rapidamente
possibile le linee degli americani e degli inglesi. Per questo sfruttò la
notizia che gli era stata comunicata da Krebs per ordinare al generale
Busse di partire con tutti i reparti pronti di cui poteva disporre verso
occidente, per «marciare incontro a Wenck». Quando Busse,
fedelissimo del Führer, sollevò obiezioni, Heinrici gli comunicò
seccamente che quello era un ordine e interruppe la comunicazione.
Solo la volontà reggeva ancora, assieme alla illusoria speranza che si
verificasse da un momento all'altro la rottura di quella che Goebbels
continuava a definire la «perversa coalizione fra plutocrazia e
bolscevismo». Ogni resistenza militare non doveva mirare ad altro che
a guadagnare qualche giorno di tempo, non si stancò di affermare e
parlò anche, con la spocchia arrogante che gli era tante volte tornata
utile, di una ormai imminente opportunità di «far comunella» con la
parte russa per saltare addosso agli alleati occidentali. Sennonché, nel
corso dell'esame della situazione del 22 aprile, tutte le illusioni
costruite e coltivate con crescente fatica crollarono di colpo.
La drammatica riunione cominciò nel pomeriggio poco dopo le 15 e
si protrasse, in mezzo a un continuo andirivieni, fin verso le 20. Hitler
accolse con distacco ancora apparentemente stoico la prima notizia, e
cioè che ai sovietici era riuscito lo sfondamento anche nel settore nord
dei fronte dell'Oder. Subito dopo i relatori spiegarono che l'avversario
aveva occupato Zossen a sud, stava avanzando su Stahnsdorf, operava
ora lungo il perimetro settentrionale della città di Berlino fra gli abitati
di Frohnau e Pankow, ed era arrivato a est fino alla linea costituita
dalle località di Lichtenberg, Mahlsdorf e Karlshorst. Nel silenzio
subentrato a queste comunicazioni, Hitler domandò dove fosse il
gruppo Steiner. Quando gli furono fornite solo esitanti o
contraddittorie informazioni, e Krebs dovette infine ammettere che
l'attacco di Steiner, nel frattempo elevato a fattore che avrebbe
impresso una svolta alla storia, non era stato affatto portato, la
tempesta scoppiò dopo un breve momento di sbalordito stordimento.
In un'esplosione d'ira d'una violenza mai vista in precedenza dai
presenti, Hitler balzò in piedi, gettò sul tavolo, con un gesto di rabbia,
le matite colorate che portava sempre con sé durante gli esami della
situazione e cominciò a urlare. La sua voce, da settimane spenta e
atona, riacquistò ancora una volta l'impeto del passato. Schiumando in
cerca delle parole, pronunciò una specie di requisitoria generale contro
il mondo intero, contro la viltà, le bassezze e l'infedeltà che lo
avrebbero assediato da ogni parte. Insultò i generali, le loro continue
riluttanze con le quali aveva dovuto scontrarsi, disse di essere da anni
circondato da falliti e da traditori. Mentre gli altri, costernati, tenevano
gli sguardi fissi nel vuoto, si fece largo fra di loro con gesti nervosi e
cominciò a percorrere su e giù lo stretto spazio con passi barcollanti.
Tentò ripetutamente di riacquistare il controllo su sé stesso, ma poi la
rabbia esplose di nuovo, e fuori di sé cominciò a picchiare un pugno
sul palmo dell'altra mano mentre lacrime presero a scorrergli sulle
guance. In quello stato ribadì più volte di non poter più essere la guida
il Führer di nessuno, perché i suoi ordini erano come parole gettate al
vento, tanto che a quel punto non sapeva più che cosa fare. «La guerra
è perduta!» gridò. «Però se lorsignori credono che io lascerò Berlino si
sbagliano di grosso! Piuttosto mi caccio una pallottola in testa!».
Quando Jodl fu chiamato al telefono, Hitler fece uscire tutti i
partecipanti alla riunione, chiedendo solo a Keitel, a Krebs e a
Burgdorf di rimanere.
Spaventati dalle urla che provenivano dalla stanza delle riunioni, gli
inquilini del bunker erano accorsi da ogni dove e si erano accalcati
nelle stanze attigue e sulle scale. Mentre erano lì che si scambiavano
pareri e osservazioni, ammutolendo tutti di tanto in tanto, allarmati,
quando il bunker tremava a causa della vicina esplosione di un
proiettile d'artiglieria, Hitler uscì improvvisamente dalla sala, si fece
strada senza guardare né a destra né a sinistra, ingobbito e pallido
come si legge nel racconto di uno dei presenti, e raggiunse il suo
alloggio privato. Nella confusione che seguì, Bormann continuò a
correre dall'uno all'altro e a ripetere, sconvolto: «Il Führer non può
aver detto sul serio che si vuole sparare!». Keitel per parte sua
aggiungeva rivolto a chiunque gli si parasse davanti: «Dobbiamo
impedirglielo!».
Quando la bufera si placò, Hitler chiese di parlare a quattr'occhi con
alcuni dei presenti: Keitel, Dönitz, Krebs, Burgsdorf e Hermann
Fegelein. Verso le 17 volle chiamare Goebbels, al quale Bormann fece
ancora in tempo a dire di pregare il Führer di ritirarsi assolutamente nel
suo ridotto alpino. Però Goebbels finse di non sentire la sollecitazione
fattagli da «quel tipo da GPU» (la polizia politica dell'URSS che era
stata soppressa più di dieci anni prima). Ci sono anzi elementi per
supporre che l'offerta che Goebbels gli fece, di suicidarsi assieme al
Führer, abbia definitivamente indotto un Hitler ancora incerto a
rimanere a Berlino. Certo è che, subito dopo il colloquio, Goebbels si
recò nell'ufficio di fronte alle stanze di Hitler e comunicò alla
segretaria signora Junge che sua moglie e i sei figli si sarebbero
trasferiti quel giorno stesso nel bunker. Più freddo e distaccato che
mai, incaricò la Junge di far sapere a sua moglie che ogni bambino
poteva portare con sé un solo giocattolo, e che si doveva rinunciare
anche all'inutile biancheria da notte perché «a questo punto non sarà
più necessaria». Di lì a poco un Hitler che sembrava aver riacquistato
la padronanza di sé ricomparve nella sala delle riunioni. Quella era la
fine, dichiarò, perché aveva smesso ogni speranza. E quando quasi tutti
i presenti lo contraddissero e ne richiamarono l'attenzione sulle unità
tuttora disponibili, sull'armata Wenck che si stava avvicinando, sulle
truppe di Busse e non per ultimo sul gruppo d'armate del fedele
feldmaresciallo Ferdinand Schörner impegnato in operazioni nella
zona di Dresda, Hitler rispose con un'alzata di spalle: «Facciano quello
che vogliono! Io non ho più ordini da dare!».
Subentrò una pausa più lunga. Poi Hitler aggiunse che avrebbe atteso
la morte nella capitale del Reich, che non era disposto a farsi trascinare
altrove e che, anzi, non avrebbe nemmeno dovuto lasciare, a suo
tempo, il quartier generale di Rastenburg, nella Prussia orientale.
Respinse tutte le obiezioni, compreso un tentativo telefonico di fargli
cambiare idea intrapreso da Himmler. Anche Ribbentrop chiamò per
chiedere di essere ascoltato, ma Hitler se ne sbarazzò seccamente senza
neppure discutere la richiesta. Contrariamente alla sua precedente
intenzione, dichiarò, non avrebbe affrontato i russi con le armi in
pugno, se non altro per sottrarsi al pericolo di finire ferito nelle mani
del nemico. Inoltre, spiegò, non era fisicamente nelle condizioni di
poter combattere. Poi però, travolto dal pathos del momento, gli
scappò detto anche che sarebbe caduto sui gradini della Cancelleria del
Reich e, sedotto dalla drammatica quanto sacrilega immagine, ripeté
più volte la frase. Infine, per tagliare a sé stesso ogni via di ritirata e di
ripensamento, dettò immediatamente un annuncio per fare sapere che
sarebbe rimasto a Berlino e avrebbe assunto personalmente la difesa
della città.
Poi si ritirò di nuovo nel suo alloggio assieme a Keitel, Jodl,
Goebbels e pochi altri. Quindi convocò uno dei suoi assistenti, Julius
Schaub, e lo incaricò di portare nel giardino della Cancelleria i
documenti personali che conservava nella cassaforte ai piedi del letto e
gli altri che avesse trovato altrove nella stanza, e di bruciarli. In
considerazione delle allarmate comunicazioni secondo cui le truppe
sovietiche che stavano avanzando da ogni dove si apprestavano ad
attaccare il centro di Berlino, nominò il superdecorato generale di
brigata delle ss Wilhelm Mohnke, che faceva parte dal 1933 della sua
«Leibstandarte» (la guardia del corpo), responsabile della difesa della
«cittadella», ovvero del settore più interno della città. Sottopose
Mohnke direttamente ai propri ordini e gli affidò il comando dei circa
quattromila uomini delle ss presenti a Berlino, nonché di alcune
piccole unità delle tre forze armate e della Hitlerjugend ancora di
stanza nella capitale. Subito dopo intimò a Keitel e a Jodl di
raggiungere Berchtesgaden assieme ai loro collaboratori per poter
adottare assieme a Göring le necessarie decisioni. Quando uno dei
presenti gli fece notare che nessun soldato avrebbe mai combattuto agli
ordini del maresciallo del Reich, Hitler rispose: «Che vuol dire
combattere?! Qui non c'è più molto da combattere, e quando verrà il
momento di trattare... il maresciallo del Reich lo sa fare meglio di me».
Infine, mentre tutti, esausti e sgomenti, si erano seduti come in attesa
dell'ormai ineluttabile conclusione degli eventi, Keitel intraprese un
ultimo tentativo per far cambiare idea a Hitler. Era la prima volta,
disse, che non se la sentiva di ubbidire a un ordine del Führer e si
rifiutava quindi di recarsi a Berchtesgaden. Hitler si limitò a rispondere
che lui non avrebbe «mai lasciato Berlino... mai!». Quando Keitel volle
insistere con il suo tentativo, ci fu un breve e vivace scambio di parole
al termine del quale Hitler dichiarò che si rifiutava di stare
ulteriormente ad ascoltare il feldmaresciallo. Ciononostante, Keitel
proseguì per dire che il Führer non poteva piantare in asso la
Wehrmacht in quel modo. Hitler allora, offeso, gli indicò la porta.
Nell'uscire, Keitel si voltò verso Jodl e disse a mezza voce: «Questo è
il crollo!».
Quella stessa sera Keitel raggiunse la sede del comando tattico della
12a armata che si era precariamente sistemato nei locali di un ufficio
forestale chiamato «Alte Hölle», e cioè «Vecchio inferno», nei pressi
di Wiesenburg, a circa 60 chilometri a est di Magdeburgo. Fin dal
momento in cui il capo del comando supremo della Wehrmacht entrò
nella stanza, Wenck si vide confermare tutte le riserve del soldato
impegnato direttamente nelle operazioni nei confronti del burocrate
militare che aveva fatto carriera negli stati maggiori. Keitel si era
infatti presentato per così dire in pompa magna, con tutto il suo seguito
e, dopo aver portato il bastone di maresciallo al berretto in segno di
saluto, venne subito al dunque: «Liberi Berlino!» gli intimò. «Faccia
fare dietrofront a tutte le unità di cui dispone! Si unisca alla 9a armata.
Mi tiri il Führer fuori di lì! Wenck, la salvezza della Germania è nelle
sue mani!».
Wenck sapeva che ogni obiezione sarebbe stata inutile oltre che una
perdita di tempo, e si limitò quindi a reagire a tutte le intimazioni
dicendo che, naturalmente, lui avrebbe fatto ciò che il generale
feldmaresciallo gli aveva ordinato. Poi però, quando Keitel ripartì
verso le 3 del mattino, riunì il suo stato maggiore e spiegò che,
contrariamente alle disposizioni già impartite, le sue unità non si
sarebbero mosse con tutti gli effettivi alla volta di Berlino, ma
avrebbero tentato di avvicinarsi il più possibile alla 9a armata, con
l'obiettivo di predisporre e di tenere aperto un corridoio di fuga verso
occidente. A proposito di Hitler si limitò a dire una sola frase: «A
questo punto la sorte di uno solo non è più importante».
La notizia dell'esito catastrofico della riunione del 22 aprile si diffuse
con la velocità del vento. Hewel informò Ribbentrop, Jodl il generale
Koller, il generale Christian telefonò a Göring, e cioè il «maresciallo
del Reich» che aveva nel frattempo raggiunto Berchtesgaden, e
Fegelein si fece mettere in contatto con Heinrich Himmler nel nuovo
quartier generale che questi aveva stabilito a Hohenlynchen, non
distante da Berlino.
Il Reichsführer delle SS, che stava da tempo mirando a trovarsi nella
posizione migliore per affrontare la prova di forza per la successione di
Hitler, vide arrivato il momento delle decisioni: il rapporto di Fegelein
lo indusse a concludere, niente, di meno, che il Führer, di fatto, si era
dimesso. Nella sua servile limitatezza e nonostante le insistenze del
suo consigliere, Himmler esitò tuttavia ancora a venire apertamente
allo scoperto, tanto più che la considerazione di cui godeva presso
Hitler era di recente scesa drasticamente. Si sentì in ogni caso
autorizzato a fare delle avance in diverse direzioni, tutte miranti allo
scopo di ottenere un incontro con il generale Eisenhower. Il suo
intento, fece capire, era quello di convincere il comando statunitense
che lui, con le sue SS, si sarebbe potuto rendere utile. Suo obiettivo,
aggiunse, non era infatti solo quello di ottenere un armistizio con
l'Occidente, ma anche e soprattutto materiale bellico statunitense con
cui riprendere immediatamente la lotta contro l'Armata Rossa: «In tal
caso riuscirei ancora a farcela», spiegò al suo entourage, e cominciò
già a pensare se, nell'incontrare Eisenhower, sarebbe stato meglio
limitarsi a un inchino oppure stringergli la mano. Poi, ben consapevole
dell'importanza della partita politica nella quale era convinto di potersi
presto impegnare, aggiunse con malcelato disprezzo: «A Berlino sono
tutti impazziti!». Ciò di cui non si rese conto era che la frase si
adattava benissimo anche a chi si trovava a Hohenlynchen.
4. Tirare le somme

Nella capitale la confusione era massima. Ogni mattina formazioni


di fortuna, messe precipitosamente insieme alla meno peggio, si
mettevano in marcia per andare a rafforzare i blocchi stradali, scavare
trincee anticarro o allestire con assi e cemento precarie postazioni
difensive. Benché lungo tutto il perimetro della città fossero stati
affissi cartelli con la scritta «Ai profughi è vietato sostare nella capitale
del Reich!», attraverso le strade ancora aperte dei quartieri periferici
transitavano infiniti convogli fatti anche di carri trainati da cavalli,
carretti e mandrie di bestiame che finivano a volte proprio in mezzo
alle zone dei combattimenti. Le stazioni ferroviarie erano intasate dai
treni merci bloccati, carichi di generi alimentari, rifornimenti per le
forze armate e feriti. Erano cessati i bombardamenti aerei da quando
l'Armata Rossa era a ridosso della città, però Berlino era ancora
illuminata dagli incendi e spazzata da nugoli di polvere arroventata
fatta di cenere che cadeva ininterrottamente dal cielo e ricopriva
facciate, alberi ed esseri umani di uno strato che pareva calce. Sopra le
strade sfrecciavano in continuazione aerei sovietici che volavano a
bassa quota. Anche l'urlìo snervante delle sirene, che si protraeva
ormai da settimane, non era cessato, però il loro tono era ora diventato
quello più acuto e continuo che significava «Panzeralarm» e
annunciava cioè l'imminente arrivo dei carri armati avversari. Ovunque
c'erano veicoli militari in fiamme o abbandonati per mancanza di
carburante. L'artiglieria sovietica, che era stata appostata tutt'attorno
alla città, raggiungeva da qualche giorno ogni quartiere di Berlino, e
prendeva a volte di mira, uno alla volta, tutti gli edifici di una strada,
incendiandoli, e aprendo così la via ai reparti di fanteria. Perfino le
rovine tornavano a volte a incendiarsi, come i diari e le annotazioni di
quelle settimane registrano con stupore.
Ogni giorno c'erano fabbriche, officine e impianti di erogazione che
cessavano l'attività. Capitava che per ore e ore non ci fossero né acqua
né elettricità. Dal 22 aprile fu istituita la pena di morte per chiunque
fosse stato sorpreso a usare l'energia elettrica per cucinare. Sull'asfalto
ammorbidito dal calore si ammucchiavano immondizia e rifiuti di ogni
genere che diffondevano, assieme all'onnipresente fetore di carne
bruciata, un lezzo insopportabile. Specialmente nei rioni interni della
città la gente non poté uscire dai rifugi antiaerei e dalle gallerie della
metropolitana per parecchi giorni. Quei pochi che si avventuravano per
le strade, dovevano coprirsi il volto con panni bagnati per proteggersi
dai corrosivi fumi degli incendi e dalle esalazioni di fosforo. La fatica
del mero sopravvivere pareva non voler finire mai. Le ultime copie dei
giornali esattamente come i manifesti incollati sulle colonne per le
affissioni contenevano livide miscele a base di proclamazioni di
vittoria e di minacce, unite, a volte, a bizzarri suggerimenti sui modi in
cui affrontare gli infiniti pericoli della vita quotidiana. Per «migliorare
la base proteica», diceva uno di quei suggerimenti, la popolazione si
sarebbe dovuta dedicare alla cattura delle rane nei numerosi laghetti o
lungo i corsi d'acqua, e il miglior modo per farlo era quello di
utilizzare «stracci colorati» da trainare «nell'acqua bassa nei pressi
delle rive».
Mancava di tutto. I reparti del Volkssturm che si radunavano nei
centri di raccolta si vedevano avviare verso il fronte a bordo di autobus
e di tram, sempre che ne esistessero e ne funzionassero ancora. Poiché
i russi si erano impadroniti molto presto dei depositi di armi e di
munizioni situati lungo il perimetro esterno della città e dal momento
che mancavano i mezzi di trasporto per rifornirli con il materiale
contenuto nei magazzini interni di Grunewald e del Tiergarten, ben
presto più della metà dei difensori fu mandata allo sbaraglio armata
solo di un bracciale e con il suggerimento di provvedersi nelle zone dei
combattimenti delle armi e dei Panzerfaust abbandonati dai caduti o
dai feriti. Senza minimamente considerare tutte queste e altre penurie,
Hitler aveva nel frattempo fatto chiamare alle armi (che non c'erano)
anche la classe 1929.
Nell'ormai certa prospettiva del tracollo; il regime decise a un certo
punto di rendere ancora più brutale la resa dei conti a lungo mascherata
con apparenze di giustizia con tutti i suoi veri o supposti nemici. Fin
dalle ondate di arresti seguite all'attentato del 20 luglio 1944, le carceri
erano piene di detenuti politici. Poi, nella prima metà di aprile del '45,
Himmler aveva ordinato che nessuno degli arrestati dovesse uscire
vivo di prigione e quindi attivato l'apparato di morte in tutti i territori
ancora controllati dalle forze tedesche. Quando a Berlino,
all'avvicinarsi delle avanguardie sovietiche, fu deciso di sgomberare il
carcere della Lehrter Strasse, furono liberati alcuni dei detenuti nelle
condizioni fisiche peggiori, mentre a tutti gli altri fu detto che
sarebbero stati rimessi a piede libero presso il quartier generale della
Gestapo che era nel palazzo Prinz Albrecht. Era l'una di notte quando
la squadra di scorta delle SS, pesantemente armata, si mosse a piedi
con la colonna dei detenuti, li condusse lungo quelle che furono
spacciate per scorciatoie fino a un non lontano deposito di macerie
dove tutti, a un cenno dei comandanti, furono assassinati a raffiche di
mitra e con colpi alla nuca. Fra quelli che morirono così c'erano anche
Klaus Bonhoeffer, Rüdiger Schieicher, Friedrich Justus Perels e
Albrecht Haushofer, scrittore dissidente quest'ultimo. La «colpa» dei
primi tre consisteva invece solo nell'essere parenti di esponenti dei
gruppi di opposizione e di resistenza già eliminati dopo l'attentato a
Hitler del 1944.
In quegli stessi giorni i rapporti sugli umori della popolazione che
erano redatti a cura del servizio informazione della Wehrmacht
registrarono un dilagare delle forme di depressione e della contagiosa
tendenza a discutere dei modi più sicuri per por fine alla propria vita.
Inge Dombrowski, ausiliaria della Flak si legge in uno di quei rapporti
aveva pregato il suo capoplotone di spararle. Il giovane tenente, dopo
una lunga e tormentata esitazione, l'aveva accontentata e subito dopo si
era ucciso. Le voci, prima insistenti, d'una grande offensiva da lungo
tempo preparata dal Führer ora ammutolirono, e al suo posto presero a
circolare dicerie, sempre di nuovo alimentate, sull'«armata Wenck»
che, ormai giunta nei pressi di Potsdam, si sarebbe apprestata a
infliggere all'Armata Rossa un colpo devastante. Contemporaneamente
girava voce che gli americani stessero concentrando reparti di
paracadutisti al di là dell'Elba per accorrere in aiuto della Wehrmacht
nella lotta contro l'Armata Rossa. Tuttavia queste e altre chiacchiere
palesemente fatte circolare ad arte dalla propaganda non trovarono più
molto credito. Il fatalismo caustico con cui il senso dell'umorismo del
popolo berlinese aveva da sempre affrontato, di generazione in
generazione, le ricorrenti difficoltà della storia e della vita, reagì ora
dinanzi alla fine che si stava in tutta evidenza avvicinando
canticchiando le parole di una canzone che diceva: «Neanche questo
basterà per mandare a picco il mondo...». La melodia passava
fischiettando di bocca in bocca. Divenne come una specie di segno di
riconoscimento, esattamente quanto la formula di saluto nei momenti
di congedo: «Veda di rimanere anche lei fra gli avanzi!».
Sintomi di dissoluzione si stavano intanto diffondendo anche nella
stretta cerchia di Hitler. Quando Albert Speer tornò nel tardo
pomeriggio del 23 aprile nel bunker per congedarsi «con sentimenti
contrastanti» da Hitler, notò passo dopo passo i piccoli ma significativi
cedimenti che si stavano manifestando nella disciplina: gente che
fumava nelle anticamere, bottiglie mezze vuote abbandonate qui e là.
Quando Hitler entrava in un ambiente, pochi ora si alzavano, e quasi
nessuno interrompeva la conversazione mentre passava il Führer.
Hitler stesso appariva malinconicamente distaccato e parlava della
morte come d'una liberazione. Perfino quando Speer gli confessò che
ormai da mesi stava operando per contrastare gli ordini che pure gli
erano stati impartiti di distruggere tutti gli impianti industriali tedeschi,
Hitler, contro ogni aspettativa, non insorse. Come gli accadeva spesso
durante i loro incontri, sembrò invece perdersi in pensieri lontani e gli
si riempirono gli occhi di lacrime. Come se avesse tradito già fin
troppo i propri sentimenti, congedò alcune ore dopo il suo ospite con
una freddezza addirittura umiliante e Speer ebbe la sensazione di
essere stato «escluso da quel mondo». Ripassando attraverso le sale
della semidistrutta Cancelleria del Reich, che egli aveva costruito sei
anni addietro come «primo esempio architettonico del grande Reich
tedesco», gli venne istintivo pensare che la sua vita avrebbe avuto una
fine più coerente e adeguata alle circostanze se Hitler, come Speer si
era inizialmente aspettato, avesse fatto schierare lassù per lui un
plotone di esecuzione.
Ben poco d'altro avrebbe potuto evidenziare che invece Speer faceva
ancora parte, eccome, di quel mondo. Perché quella malinconica e
truce considerazione rivelò in lui lo stesso modo di pensare che, a
cominciare da Hitler, induceva tutti i vari Goebbels, Krebs, Burgdorf e
Mohnke, insieme alle centinaia di miliziani della «Leibstandarte Adolf
Hitler» e agli innumerevoli altri soldati ossessionati dall'idea di
combattere nella Berlino circondata, a non attribuire alcun peso alla
vita. Lo storico britannico A.J.P. Taylor ha definito «un grande
mistero» il fatto che tanti tedeschi abbiano continuato a combattere
scriteriatamente, per così dire al di là della dodicesima ora, sulle
macerie del Reich ormai dissolto. E dal momento che gli stessi
tedeschi non si ricordavano più il perché, ha aggiunto Taylor con una
specie di rassegnato sarcasmo, non sarà mai possibile avere una
risposta a questa domanda.
Non bisogna tuttavia credere che le truppe della cerchia di difesa
interna si accingessero ad andare incontro alla morte solo per
disperazione e senso di disciplina. Si può, anzi, essere abbastanza
sicuri che non pochi di loro per un modo stranamente contorto di
pensare si sentirono ricompensati e risarciti dal potersi lanciare nel
tumulto della battaglia degli ultimi giorni. Ciò che ai loro occhi
giustificò al di là di ogni logica la resistenza non fu soltanto la
convinzione profondamente ancorata che tutto ciò che di veramente
grande è al mondo sia avvalorato solo dalla morte e dal tracollo. Si
sentirono piuttosto anche chiamati a essere, o addirittura elevati al
rango di personaggi attivi dell'atto conclusivo d'una tragedia di portata
storica mondiale, e tragedie di quella proporzione avevano imparato
conferivano un senso superiore anche a ciò che appariva insensato.
L'incaponirsi in situazioni senza vie d'uscita faceva del resto parte già
da tempo dei tratti caratteristici quanto meno di una delle grandi linee
del pensiero tedesco. Una lunga tradizione filosofica, quella che
proclamava in aggrovigliate teorie la «vocazione storica dei tedeschi al
radicalismo» nonché l'«eroico pessimismo» come parte del retaggio
delle popolazioni germaniche, si vide qui posta dopo che era stata
elaborata e ridotta a moneta spicciola da una pletora di letteratura
saggistica dinanzi al momento della nobile ed elevata prova. Perfino
dal «coraggio di aver paura del nulla» di Heidegger qualcuno poté
derivare motivi per l'estrema resistenza.
Da tutto ciò molti di coloro che parteciparono alle lotte accanite, e
dalle perdite elevatissime, che si combatterono fra le rovine e le
cantine della città in disfacimento, trassero appagamenti senza eguali.
«La nostra lotta fu dominata da uno slancio lucido mai provato in
precedenza», ha ricordato un ufficiale tedesco, «da una durezza
indescrivibile, dalla fiducia nella vittoria e dalla disponibilità a
morire... E quand'anche Zukov fosse infine riuscito a tenere in pugno
la città, l'avrebbe pagata cara, anche a costo di essere noi infine
costretti a tentare di tenerla armati soltanto delle pistole».
Occorre poi tenere conto, quanto meno nel caso delle elitarie unità
delle ss e non solo delle ss, delle convinzioni ideologiche nonché della
fede in Hitler e nella sua missione. Quella era gente preparata ad
affrontare situazioni disperate. La convinzione di vivere in un'epoca di
«mondi in fiamme», di rivolgimenti dall'esito tragico faceva per così
dire parte del loro fondamentale bagaglio mentale. Per tutto il tempo
della sua dominazione il regime aveva ripetutamente provocato ed
evocato, mediante crisi deliberatamente scatenate e impostate
sull'assillante principio del «vivere o morire», grandi momenti di
esaltazione emotiva. Ne fece parte già la serie dei «colpi di fine
settimana» inscenati da Hitler nel corso degli anni Trenta. Però, alla
estrema coerenza con sé stessi e con le loro idee, Hitler e i suoi erano
pervenuti solo e particolarmente durante le cerimonie funebri che
furono allestite in pompa magna nel periodo della guerra: dopo la
sconfitta di Stalingrado per esempio, con il discorso di Göring
culminato in una specie di inno allo sfacelo, con l'immagine del
Walhalla nibelungico invaso «dalle fiamme e dal sangue», oppure con
l'appello alla guerra totale inscenato da Goebbels e sfociato in un
«tripudio di folle entusiasmo». In nessun'altra circostanza i detentori
del potere erano riusciti a catturare e ad assicurarsi meglio l'adesione
del paese come in prossimità di immaginari o effettivamente vicini e
minacciosi abissi.
Infine non deve mancare un accenno allo shock della disillusione e
della delusione che dilagò in modo crescente. Anno dopo anno, fino
alle ultime settimane, la menzogna abilmente e oculatamente costruita
e manipolata dalla propaganda aveva ingannato la popolazione sulla
realtà della guerra e spacciato perfino le più gravi sconfitte come
trappole in cui far cadere avversari solo numericamente superiori. Ora
il sistema degli inganni crollò repentinamente e, come sempre quando
cadono i veli e la realtà riprende il sopravvento, si diffuse uno stato
d'animo di disprezzo suicida per la vita. Occorre aggiungervi poi una
difficilmente descrivibile paura della supposta smania di vendetta da
parte dell'Armata Rossa, paura fatta di antiche e terrorizzanti immagini
dell'«Oriente barbarico», delle oscure intuizioni del feroce e
sanguinoso imperversare di molte unità tedesche durante la campagna
contro l'Unione Sovietica, nonché delle minacciose immagini della
propria propaganda, tutti elementi che si fusero in angosciosi presagi e
affollarono improvvisamente le menti.
Fautore e nello stesso tempo prigioniero di questa politica
dell'estrema tensione nervosa era lo stesso Hitler: a volte si ha
l'impressione che avesse bisogno del reggersi in equilibrio sulla lama
di un coltello come di una droga. Le rapide vittorie sulla Polonia, la
Norvegia e la Francia, all'inizio della guerra, gli avevano dato solo
fuggevoli soddisfazioni, dal sapore divenuto presto sciapo, ed è
possibile che alla decisione di avviare la campagna contro l'Unione
Sovietica, presa ancora nei giorni del trionfo sulla Francia, abbia
contribuito anche il bisogno di mettere infine seriamente alla prova il
destino. Ora era arrivato in un certo senso alla meta. Questo intreccio
di motivazioni emerge evidente dagli ultimi esami della situazione
bellica svoltisi nel mese di aprile, con le dichiarazioni continuamente
ripetute e soltanto via via diversamente spiegate di non voler più
lasciare Berlino, contrariamente a ogni sua precedente decisione, per
trovare la morte nella Cancelleria del Reich.
Nonostante (oppure grazie a) quelle che furono in un caso definite le
«notizie tartariche» che continuarono a piovere ininterrottamente su di
lui, quelli che provò furono complessi sentimenti di appagamento:
ancora una volta la soddisfazione di trovarsi con le spalle al muro. Nel
corso di una di quelle riunioni per l'esame della situazione Hitler parlò
con quasi scoperto entusiasmo dell'«onorevole fine» da preferire a ogni
altra prospettiva di «continuare a vivere ancora per qualche mese o per
qualche anno nella vergogna e nel disonore». In un'altra di quelle
occasioni esaltò il quartiere governativo accerchiato come «l'ultima
piccola isola» che si difendeva «con eroismo», e un'altra volta ancora,
attorno al tavolo con le carte e le planimetrie, assicurò che «non è una
brutta maniera di concludere un'esistenza quella di cadere combattendo
per la capitale del proprio Reich». In un miscuglio di follia, collera e
rassegnazione, l'intera gamma dei sentimenti e delle emozioni di Hitler
si palesa nei suoi diversi interventi in occasione dell'esame della
situazione bellica del 25 aprile. Eccone una breve sintesi:
«...Non ho alcun dubbio: qui (a Berlino) la battaglia è giunta a un
momento culminante. Se è vero che a San Francisco stanno emergendo
contrasti fra gli alleati ed emergeranno in ogni caso, comunque , allora
una svolta potrà avvenire solo se riuscirò a infliggere in un qualche
punto un colpo al colosso bolscevico. Così quelli finiranno forse per
convincersi che uno soltanto è in grado di arrestare il colosso sovietico,
e quest'uno sono io assieme al partito e all'odierno stato tedesco...».
«[...] Se il destino volesse decidere diversamente», si legge in un
altro punto del resoconto, «allora io scomparirei come un profugo
senza gloria dal palcoscenico della storia mondiale. Eppure io riterrei
mille volte più vile uccidermi sull'Obersalzberg che rimanere qui e
cadere qui. Nessuno dovrà mai dire che io, il Führer».
«[...] Io sono un Führer (un duce, una guida) fintanto che posso
effettivamente guidare. E non posso certo pretendere di fungere da
guida andando a sedermi da qualche parte in montagna...
Personalmente mi è insopportabile l'idea di far fucilare altri per cose
che finirei col fare io stesso. Io non sono venuto al mondo per essere
ridotto a difendere il Berghof» (la sua residenza estiva e montana nel
Salisburghese).
Per che cosa fosse venuto al mondo, chiamato cioè a svolgervi una
missione storica, Hitler lo spiegò in una riconsiderazione generale che
costituisce l'autentico bilancio politico conclusivo della sua esistenza.
Secondo le testimonianze di alcune persone del suo più stretto
entourage, Hitler, dopo il ritorno a Berlino, passò molte delle serate nel
bunker, prima in febbraio e poi ancora in aprile, con Goebbels e Ley,
coinvolgendo qualche volta nelle conversazioni anche il ministro
dell'economia Walther Funk. In una serie di lunghi monologhi, durante
quegli incontri, fece una specie di riepilogo della propria vita,
verificando non solo le condizioni e le opportunità politiche che ancora
gli restavano, ma elencando anche gli errori di valutazione e gli sbagli
in cui era incorso. Alla fine l'uno o l'altro della cerchia si incaricava,
come sempre, di conferire forma e sintesi alla sua disordinata e prolissa
marea di parole.
All'inizio d'ogni sua considerazione Hitler collocava sempre il mai
digerito fallimento della sua «idea basilare», quella di un'alleanza
anglo-tedesca. Anno dopo anno aveva corteggiato l'impero britannico,
spiegò, pensando al comune interesse di tenere sia la Russia che gli
Stati Uniti alla larga dalle questioni del vecchio mondo: e per
quest'aspetto era stato lui e nessun altro «l'ultima occasione
dell'Europa». Anziché capirlo, il mondo intero si era fatto distrarre
dalle durezze scaturite dalla sua politica. «Sennonché», proseguì,
«l'Europa non poteva essere conquistata con lo charme e con l'arte
della persuasione. Occorreva violentarla per averla». E in questo
contesto era anche necessario costringere le false potenze mondiali
latine, la Francia e l'Italia, superate ormai dal processo della storia, a
rinunciare alle loro anacronistiche politiche di grandezza.
Tutto era dipeso e dipendeva dall'Inghilterra, spiegò, e l'Inghilterra
gli si era costantemente negata, guidata com'era da uomini politici
miopi e meschini. Ah, se il destino si lamentò avesse donato alla
invecchiata e fossilizzata Inghilterra «un secondo Pitt anziché quel
beone ebreizzato e mezzo americano» di Winston Churchill! Se così
fosse stato, il regno insulare si sarebbe potuto dedicare con tutte le sue
energie alla conservazione e al benessere dell'impero, mentre la
Germania, con le spalle al sicuro, si sarebbe potuta volgere alla sua
missione, «all'obiettivo della mia vita e alla causa dell'affermarsi del
nazionalsocialismo: l'annientamento del bolscevismo».
Perché il volgersi a una campagna di conquiste nell'oriente europeo
era da sempre, a suo modo di vedere, la missione della politica tedesca,
e la rinuncia a essa molto peggiore del mai evitabile rischio d'una
sconfitta: «(Noi) eravamo condannati alla guerra», sostenne. Per sua
sfortuna l'aveva però cominciata militarmente troppo tardi e
psicologicamente troppo presto. E questo perché il popolo tedesco
sarebbe stato ancora ben lontano dall'essere preparato ad affrontare la
decisiva lotta impostagli dal destino: «Mi ci sarebbero voluti altri
vent'anni, per far maturare una nuova selezionata generazione di
nazionalsocialisti». Ma questo tempo gli era mancato. Da sempre la
tragedia dei tedeschi era stata quella di «non avere mai abbastanza
tempo». Tutto il resto non ne era che la logica conseguenza, compreso
il difetto d'equilibrio interiore. Nel frattempo era arrivato a considerare
una sua personale «fatalità quella di dover guidare un popolo
incostante e influenzabile come nessun altro», così volubile come
quello tedesco che, in passato e con singolare mancanza di sensibilità,
era «caduto da un estremo all'altro».
Contemporaneamente, continuò, egli si era anche reso colpevole di
errori, e aveva fatto concessioni che non erano giustificate da alcun
interesse e da alcuna necessità. Riconsiderandola freddamente e
lucidamente, doveva annoverare fra i suoi più grandi sbagli (quelli che
gli sarebbero ora probabilmente costati la vittoria) l'amicizia per il
duce italiano. Era stata la lealtà verso di lui a impedirgli di condurre sia
in Africa settentrionale sia nel mondo islamico una politica
rivoluzionaria, specialmente da quando Mussolini aveva ceduto alla
ridicola presunzione di farsi proclamare da individui prezzolati e
terrorizzati la «Spada dell'Islam». L'alleanza e l'amicizia con l'Italia
erano state forse anche più fatali in campo militare. L'ingresso in
guerra dell'Italia non aveva che consentito al nemico, immediatamente,
quelle prime vittorie che gli avevano dato nuova fiducia. Inoltre
l'aggressione «assolutamente idiota» della Grecia aveva ritardato di sei
settimane l'avvio della campagna di Russia e provocato così, alla
lunga, la catastrofe dell'inverno alle porte di Mosca: «Tutto sarebbe
andato diversamente!» disse con un sospiro. La ragione gli aveva
prescritto «un'amicizia brutale» con l'Italia, e invece aveva continuato
a cedere ai sentimenti del buon alleato.
Nel complesso, osservò infine Hitler, era stata proprio la sua
insufficiente durezza, la mancanza di spietatezza a sottrargli una
vittoria ormai certa. Al suo attivo poteva registrare solo di aver
combattuto, a suo dire, «a viso aperto» gli ebrei, e di aver ripulito «lo
spazio vitale tedesco dal veleno ebraico». In tutto il resto egli sarebbe
stato invece troppo poco risoluto: quando, per esempio, non aveva
messo da parte senza tanti scrupoli i conservatori tedeschi e tentato
invece di praticare una politica rivoluzionaria assieme a «quei politici
cortigiani»; un altro suo errore sarebbe stato quello di aver mancato di
liberare in Spagna e in Francia i lavoratori dalle mani della «borghesia
dei fossili». Avrebbe dovuto istigare alla rivolta, in ogni parte del
mondo, i popoli coloniali, gli egiziani, gli iracheni e con loro tutto il
Medio Oriente: «Il mondo islamico aspettava ansioso le nostre
vittorie», affermò. Come sarebbe stato semplice metterlo in fermento:
«Ma pensate alle possibilità che ne sarebbero scaturite per noi!». Se
alla fine egli fosse fallito, il fallimento non sarebbe stato causato dal
suo radicalismo, ma dalla pusillanimità, dall'incapacità di andare avanti
fino alle estreme conseguenze. Lo aveva capito benissimo fin da
giovane, lo aveva cento volte proclamato eppure, come adesso
ammetteva, non vi si era attenuto abbastanza risolutamente: «La vita
non perdona nessuna debolezza!».
Se lo rinfacciò fino alla fine, come risulta anche dai verbali degli
ultimi esami della situazione bellica. Nel periodo della presa del
potere, dichiarò durante la riunione del 27 aprile, era stato
continuamente costretto, nei mesi precedenti la morte di Hindenburg
(avvenuta poi nell'agosto del 1934) a piegarsi a dei compromessi.
Quanto più radicalmente avrebbe invece potuto e dovuto procedere, si
lamentò: senza badar tanto alla «cricca radunata attorno a quei rifiuti»
del passato, se ne sarebbero dovuti «far fuori a migliaia».
Offre infine uno sguardo significativo sugli impulsi sottesi al regime
di Hitler l'osservazione con cui, subito dopo, Goebbels lo approvò e
assecondò, esprimendo il rammarico che l'Austria, in occasione
dell'annessione del 1938, non avesse opposto alcuna resistenza:
«Avremmo potuto sfasciare tutto».
Come se tutto ciò non gli avesse suggerito altro che un nuovo e
ulteriore spunto a sostegno della decisione di non lasciare Berlino,
Hitler ribadì a quel punto che sarebbe rimasto nella capitale fino
all'ultimo, per poter procedere in avvenire, con tanta maggior ragione,
contro ogni segno di debolezza.
Nello stesso contesto si colloca anche la lamentosa osservazione
sulla causa vera delle disperazioni che lo assalivano con crescente
frequenza: «Ci si pente sempre, dopo, di essere stati così buoni».
5. Il banchetto della morte

Il pomeriggio del 23 aprile arrivò nel bunker un telegramma spedito


da Berchtesgaden. Göring chiedeva se la decisione di Hitler di
«resistere nella fortezza di Berlino» integrava le condizioni fissate nel
decreto del 29 giugno 1941 secondo il quale egli, il maresciallo del
Reich, sarebbe subentrato al Führer con tutti i pieni poteri nel caso in
cui Hitler si fosse trovato privato della sua libertà d'azione.
Per Göring non era stato facile formulare questa domanda. La
decisione era stata preceduta da lunghe riflessioni. Si era fatto
aggiornare dal generale Koller, che aveva appositamente convocato da
Berlino, sui più recenti avvenimenti nel bunker. L'intento irrevocabile
del Führer di rimanere nella capitale, e soprattutto l'affermazione fatta
da Hitler la sera prima, secondo cui Keitel e Jodl avrebbero dovuto
adottare da quel momento, unitamente al maresciallo del Reich, tutte le
necessarie decisioni, lo avevano talmente allarmato da indurlo a
radunare i suoi più importanti consiglieri per discutere con loro sul da
farsi. Tutti i presenti, compreso il capo di gabinetto della Cancelleria, il
ministro Hans-Heinrich Lammers, si erano detti del parere che la
questione della successione era aperta. Dopo varie stesure provvisorie,
il telegramma inviato infine era stato formulato in tono di lealtà,
pregava che la risposta fosse data entro le ore 22 e concludeva con le
parole: «Dio la protegga. Io spero che, nonostante tutto, ella voglia
ancora venire qui da Berlino». Benché Martin Bormann, vecchio
antagonista di Göring, avesse fatto di tutto per prospettare il
telegramma come un ultimatum, Hitler era rimasto lì per lì tranquillo.
Soltanto verso le 18, quando arrivò un altro telegramma del
maresciallo del Reich che convocava «immediatamente» a
Berchtesgaden il ministro degli esteri del Reich von Ribbentrop nel
caso in cui fosse stato dichiarato entrato in vigore il decreto sulla
successione, Bormann riuscì a mettere Hitler in uno stato di crescente
agitazione. Bormann continuò a insistere, affermando che quello in
corso era un vero e proprio colpo di stato, e ben presto intervenne
anche Goebbels parlando di onore, fedeltà, lotta e morte. Questi
paroloni nascondevano tuttavia a fatica la sua indignazione per il
tentativo di Göring di impadronirsi di ciò che rimaneva del potere e
che, a suo modo di vedere, non spettava ad altri che a lui. Le zuffe fra i
cortigiani proseguirono insomma senza accennare ad attenuarsi. E,
come sempre, finirono con il coinvolgere ben presto anche Hitler, che
aveva costantemente sfruttato quei contrasti come strumento per
l'esercizio del suo potere. L'irritazione che da anni covava
scopertamente contro Göring trovò così un'ultima via di sfogo. In
un'esplosione di rabbia sempre più veemente, Hitler rinfacciò al suo
delfino pigrizia e incapacità; lo accusò di avere, col suo esempio, «reso
possibile la corruzione nel nostro stato»; lo definì «un morfinomane»;
e si abbandonò a un tal crescendo di furia che alla fine, secondo i
racconti dei presenti, pianse «come un bambino».
Poi, quando l'ira si placò, Hitler firmò, predisposto da Bormann, un
messaggio radiofonico in cui accusava Göring di alto tradimento, reato
che, come ognuno sapeva, implicava la pena di morte. Non l'avrebbe
tuttavia fatta eseguire nel caso in cui Göring si fosse dimesso da tutte
le cariche e da tutti i suoi uffici e avesse rinunciato al diritto di
successione al Führer. Poi, come ripetutamente avveniva dopo gli
sfoghi di rabbia di quei giorni, Hitler ripiombò nell'apatia e dichiarò,
sprezzante, che non gli importava ormai quasi più di niente: «Per conto
mio Göring può tranquillamente avviare le trattative per la
capitolazione. Dal momento che la guerra è comunque perduta, è poco
importante chi lo farà». Non senza motivo, per giustificarsi, Göring si
richiamò in seguito anche a questa osservazione. Ma nell'estrema
irritabilità delle ultime ore simili sottigliezze non contavano ormai più
nulla. Verso la fine della giornata Hitler tornò in ogni caso a
incattivirsi e fece ordinare al comando delle ss dell'Obersalzberg di
arrestare immediatamente Göring unitamente a tutti i suoi collaboratori
e di rinchiuderli nella caserma delle ss di Salisburgo.
Il giorno dopo, nel corso della riunione del mattino per l'esame della
situazione, venne l'annuncio che gli eserciti di Zukov e di Konev si
erano incontrati a sudest di Berlino, completando l'accerchiamento
della città. Subito dopo, alcune pattuglie delle due grandi unità
sovietiche, spedite in avanscoperta, si scontrarono nella Kanstrasse e
cominciarono a spararsi addosso a vicenda fino a quando non giunse a
Konev la comunicazione da Mosca che la conquista del centro della
città era stata riservata al suo rivale. Tuttavia, da Zehlendorf fino a
Neukölln, esisteva ora una ininterrotta, continua linea del fronte,
mentre a nord erano già cadute in mano ai russi Tegel e Reinickendorf.
Contemporaneamente le truppe sovietiche cominciarono a stringersi
addosso ai due aeroporti della città, Tempelhof e Gatow. Per
conservare un corridoio aereo, Hitler fece predisporre il grande asse
stradale est-ovest di Berlino, quello che aveva inaugurato alcuni anni
prima con una splendida parata militare, perché potesse fungere da
pista di emergenza per gli aeroplani: di conseguenza fece abbattere,
contro l'esplicita volontà di Speer, tutti i lampioni che costeggiavano
lungo i due lati quella specie di via trionfale. Durante la successiva
riunione per l'esame della situazione, Hitler fece sapere che stava
aspettando l'arrivo, a bordo di aerei, di centocinquanta soldati scelti
della marina promessigli da Dönitz e inoltre un battaglione delle ss che
Himmler gli aveva messo a disposizione definendolo la sua «ultima
riserva».
Quella pista d'emergenza gli sembrò tuttavia momentaneamente
ancora più importante per poter accogliere a Berlino il generale nonché
«cavalier» Robert von Greim, comandante della sesta flotta aerea di
stanza presso Monaco di Baviera. Non ci fu obiezione capace di
distoglierlo dalla pretesa di vedere personalmente il generale
dell'aviazione, poiché l'evento lo avrebbe almeno momentaneamente
sottratto al clima soffocante del bunker offrendogli l'opportunità di far
allestire una di quelle cerimonie protocollari che gli piacevano tanto.
Nel frattempo, mentre fuori, fra la Cancelleria e il Pariser Platz, si
sfondavano pareti di edifici per preparare postazioni per le
mitragliatrici e i cannoni anticarro, il bunker tremava sempre più
spesso a causa dei proiettili dell'artiglieria russa che piovevano nei
dintorni.
Il cavalier von Greim atterrò il giorno seguente all'aeroporto di
Gatow su un caccia monoposto modello Focke-Wulf 190, il cui
bagagliaio era stato ristrutturato per far posto alla pilota Hanna
Reitsch. Nel corso di una telefonata con il bunker del Führer, Greim
apprese che tutte le strade di accesso fino alla stazione di Anhalt e
inoltre il tratto superiore della Potsdamer Strasse erano in mano delle
truppe sovietiche. Tuttavia Hitler insistette nel dire di volergli parlare
di persona. Non gliene fu spiegato il motivo.
Benché le probabilità di riuscire a passare sembrassero pressoché
nulle, il generale e Hanna Reitsch salirono allora su un Fieseler Storch,
vale a dire su un aereo leggero del tipo «Cicogna». Dopo un volo
avventuroso a quota radente sopra la scura silhouette della città
morente, in mezzo alle raffiche di vento prodotte dagli estesi incendi,
l'apparecchio atterrò presso la Porta di Brandeburgo. Attimi prima che
toccasse l'asfalto, un proiettile d'artiglieria danneggiò la parte inferiore
dell'aereo, ferendo abbastanza gravemente a una coscia il generale von
Greim, e producendogli fra l'altro una forte perdita di sangue, tanto che
lo si dovette trasportare a braccia fino alla Cancelleria e medicarlo
subito dopo almeno sommariamente. Quando, di lì a poco, fu portato in
barella nel bunker inferiore, Hitler lo accolse con queste parole:
«Dunque la fedeltà e il coraggio esistono ancora a questo mondo!».
Poi, con voce atona e sguardo vitreo come riferì in seguito Hanna
Reitsch informò l'ospite della defezione di Göring, della destituzione
del maresciallo del Reich da tutte le sue cariche e del suo arresto
appena ordinato. Passando a fatica a un'intonazione più formale, Hitler
nominò quindi il generale von Greim comandante in capo della
Luftwaffe e lo promosse contemporaneamente al grado di
feldmaresciallo. «Nulla al mondo mi è risparmiato», si lamentò alla
fine, «nessuna delusione, nessuna infedeltà, nessuna bassezza e nessun
tradimento».
Durante la breve, confusa e turbata cerimonia, si udirono di continuo
«i colpi e i fragori delle granate che esplodevano» e «perfino negli
ambienti più interni» del bunker cedevano senza interruzione
frammenti di intonaco dalle pareti. A momenti il cannoneggiamento
divenne talmente violento che si dovette staccare il sistema di
aerazione perché il fumo e il puzzo di bruciato che provenivano
dall'esterno mozzavano il fiato agli inquilini della catacomba. Come se
non bastasse, caddero anche per la prima volta, sia pure per poche ore
soltanto, le linee telefoniche, tanto che ci si dovette fare il quadro della
situazione ascoltando i bollettini radiofonici avversari e raccogliendo
informazioni con i telefoni da campo per sapere che cosa accadeva nei
quartieri in cui si stava combattendo. Da diverse fonti arrivò comunque
nel bunker, fra le altre, anche la notizia che il 25 aprile soldati
americani e sovietici si erano incontrati presso Turgau, sull'Elba, e che,
anziché spararsi addosso a vicenda, si erano strette le mani. Sfumò così
anche la speranza nella rottura, attesa di giorno in giorno, della
coalizione bellica alleata: Hitler si sforzò tuttavia in ogni modo di
nascondere la delusione. Con quell'ostinazione che, come pensava, lo
aveva sempre soccorso proprio nei momenti più difficili e senza
prospettive della sua vita, assicurò ancora una volta durante la riunione
di quello stesso giorno: «A Berlino le cose sembrano peggiori di
quanto in realtà non siano».
Invece era vero il contrario e le cose, per i tedeschi, stavano andando
anche peggio di quanto egli assieme agli altri cavernicoli racchiusi nel
bunker volesse capire o ammettere. Verifiche successive hanno
stabilito che a quell'ora, nei quartieri del centro dove più della metà
degli edifici erano già stati distrutti dai bombardamenti aerei, i
cannoneggiamenti continui degli assalitori stavano facendo
letteralmente a pezzi la città. Dopo la presa di Berlino il generale
sovietico Bersarin fece notare che, se gli alleati occidentali avevano
gettato in più di due anni 65.000 tonnellate di esplosivi sulla città,
l'Armata Rossa infierì con 40.000 tonnellate in sole due settimane.
Valutazioni statistiche hanno in seguito calcolato che per ogni abitante
di Berlino c'erano circa trenta metri cubi di macerie.
Soprattutto le grandi strade di accesso al centro erano ormai ridotte a
tratturi ingombri di detriti. Cittadini fuggiti dalle case in fiamme
oppure crollate vagavano giorno e notte fra i cumuli di rovine e
scivolavano spesso nei profondi crateri talora pieni fino all'orlo di
acqua verdastra. Avvolti in ingombranti mantelli, con l'elmetto in testa
e il fucile tenuto in spalla con una corda, gli uomini del Volkssturm
correvano per le strade, spesso alla ricerca vana del loro comando, che
talora non era uno soltanto, visto che il loro impiego era disposto, oltre
che dagli ufficiali responsabili di settore, anche dalle locali sezioni del
partito, tanto che si trovavano a dover ubbidire a indicazioni il più
delle volte nettamente contrastanti. Sia nei quartieri già in mano russa,
sia in quelli ancora tenuti dai tedeschi dilagavano la paura e il panico,
anche se i vari comandanti dell'Armata Rossa avevano cominciato
quasi subito a nominare amministrazioni locali e a ricostituire almeno
provvisoriamente un po' di ordine, anche con provvedimenti di giusta
severità verso le proprie truppe. A livello inferiore imperava spesso
tuttavia l'arbitrio delle deportazioni e delle requisizioni ordinate in
modo capriccioso e imprevedibile, accentuato dagli innumerevoli
stupri ai quali i soldati sovietici, ebbri di vittoria, si abbandonarono e
dei quali rimasero vittime in taluni rioni tutte le donne presenti, dalle
ragazzine adolescenti fino alla vecchie.
Quella che offriva di sé il mondo esterno all'anello di difesa pareva
l'immagine riflessa di ciò che succedeva all'interno, perché, come
sempre nei momenti dello sfacelo, anche qui esplosero eccessi
incontrollabili. I diari di quei giorni parlano di dissolutezze, di
ubriacature in massa di frettolosi eccessi erotici. In una delle
annotazioni si legge: «E' un qualcosa che non dimenticherò mai.
Tutt'attorno feriti gravi, moribondi, cadaveri, un lezzo di putrefazione
quasi insopportabile e, in mezzo, uomini in uniforme ubriachi e
avvinghiati a donne altrettanto ubriache». Un altro berlinese si imbatté,
in un ristorante del Kurfürstendamm, in un gruppo di ufficiali delle ss
alticci che, «assieme a signore che indossavano lunghi abiti da sera,
festeggiavano la fine del mondo». A molti sembrò di assistere a un
capovolgimento di tutti i valori, con gli infimi che si rivoltavano con
ostentata impudenza contro l'alto. La grande maggioranza dei berlinesi
continuò bensì ad attenersi alle regole della civile correttezza che
avevano seguito per tutta la loro vita, ma avidità e bassezza
dominarono ugualmente la scena. Gruppi di popolane saccheggiatrici
si avventarono ancora sotto il fuoco dell'artiglieria nemica sui quartieri
residenziali e arraffarono come se fosse res nullius tutto ciò che capitò
loro sotto le mani. Qui e là si costituirono «tribunali stradali» che ne
sottoposero alcune a una specie di processo sommario e le impiccarono
poi sbrigativamente al primo albero dopo aver appeso loro al collo un
cartello su cui era scritto: «Ho derubato i miei connazionali!».
Altri cercarono in modi anche più drastici e spietati una «uscita
dall'inferno», come si legge in uno dei resoconti. Il professor Ernst
Grawitz, vicepresidente della Croce Rossa tedesca oltre che «medico
del Reich e delle ss», alla notizia che i vertici del regime erano in
procinto di lasciare la città, si sedette a tavola per la cena con moglie e
figli. Quando tutti ebbero preso posto, tirò fuori due bombe a mano e si
fece saltare in aria con l'intera famiglia.
Non furono tuttavia solo i seguaci del regime in disfacimento a
scegliere questa strada. Si suicidarono anche non pochi di coloro che
avevano vissuto gli anni del nazismo senza sporcarsi le mani, ma che
non seppero poi sopportare più a lungo quella specie di disfacimento
del mondo e di tutti i valori. Fra le tante immagini di un orrore
indelebile va ricordata, almeno, la fine di un medico che, all'avvicinarsi
delle truppe sovietiche, si accorse con spavento di disporre ancora
soltanto di due fiale di veleno, tanto che annegò nella vasca da bagno i
figli piccoli, che si dibatterono disperatamente, prima di dare la morte
a sé stesso e alla moglie mediante altrettante iniezioni. Era dal febbraio
del 1945 che a Berlino imperversava una «epidemia di suicidio»:
valutazioni approssimative dicono che ne caddero vittime alcune
migliaia di persone al mese. In maggio, quando per la prima volta
furono di nuovo rilevate cifre relativamente attendibili, si registrarono
nella capitale tedesca ancora almeno settecento casi.
Nel frattempo Hitler si aggrappava alle più banali e insignificanti
notizie di successo, come per esempio all'annuncio che due apparecchi
da trasporto erano atterrati sull'asse est-ovest della città, oppure si
riprometteva grandi cose da quelli che erano solo parti di fantasia. I
russi, predisse, si sarebbero «dissanguati» a Berlino, per il solo fatto di
doversi addossare «l'onere colossale» di una città di quattro milioni di
abitanti. Ogni qual volta qualcuno pronunciava il nome Wenck, si
accendevano nuove speranze, e bastò che durante l'esame della
situazione del 27 aprile un ufficiale assicurasse con voce ferma che
«Wenck sta arrivando, mio Führer!» perché gli umori tornassero subito
euforici. «Ma si figurino!» reagì Hitler con gioia. «La notizia farà
fulmineamente il giro di Berlino quando si saprà che un esercito
tedesco si è avventato da occidente (sulle linee sovietiche) e ha preso
contatto con la nostra fortezza». Subito dopo tornarono a riemergere
altre esaltate fantasticherie del recente e meno recente passato:
«Purtroppo non disponiamo più di giacimenti petroliferi», spiegò
Hitler alla cerchia di persone che gli si era riunita attorno. «E questo è
catastrofico, perché renderà impossibile qualsiasi operazione di largo
respiro. Quando avrò sistemato questa faccenda, dovremo fare in modo
di rimettere subito le mani sui territori di estrazione». Di lì a poco ebbe
diversi colloqui per arrivare a stabilire quale decorazione si sarebbe
dovuta conferire al generale Wenck per premiarlo della straordinaria
operazione che si sarebbe conclusa con la «salvezza del Führer».
Durante l'esame della situazione di quello stesso giorno, il generale
Mohnke riferì che sei carri armati nemici erano comparsi nel
Wilhelmplatz, a un tiro di sasso dalla Cancelleria del Reich, ma che
erano anche stati messi subito fuori combattimento da una batteria
anticarro rapidamente trasferita sul posto. Il giorno prima era caduto il
sobborgo di Schöneberg, disperatamente difeso fino all'ultimo e alla
morte di tutti loro soprattutto da quattrocento Hitlerjungen poco più
che quindicenni.
In effetti l'accanimento dei combattimenti crebbe a mano a mano che
le unità sovietiche si avvicinarono al centro della città. Nei quartieri
periferici erano avanzate celermente. Le avanguardie di carri armati
avevano rapidamente abbattuto a cannonate gli sbarramenti stradali,
oppure li avevano semplicemente travolti «come se fossero fatti di
fiammiferi», lasciandosi alle spalle solo piccoli nidi di resistenza che
furono poi spazzati via dai reparti che li seguivano, provvisti di
artiglieria leggera e di lanciafiamme. L'avanzata si arenò poi però a
ridosso dell'anello di difesa interno. In molti punti i russi dovettero
avanzare combattendo di casa in casa, e i modellini che il maresciallo
Zukov si era fatto fare prima dell'inizio della battaglia di alcuni fra i
principali nodi stradali di Berlino, per provare su di loro le modalità
della conquista, si rivelarono del tutto inutili. Fra gli scontri casa per
casa più sanguinosi, con perdite elevate per entrambe le parti, vi fu
quello nella zona attorno alle postazioni della contraerea fra
l'Alexanderplatz, il municipio e la Porta di Halle. L'Armata Rossa
liberò dalle prigioni, soprattutto a nord di Berlino, numerosi prigionieri
di guerra sovietici che, muniti sbrigativamente di armi, furono subito
mandati a rinforzare le unità nel frattempo sfoltite dalle perdite.
Intanto, dal bunker, continuavano a partire sempre nuovi
radiomessaggi, formulati in termini ogni volta più perentori, diretti a
Keitel e a Jodl che avevano i loro quartieri generali, rispettivamente, a
Rheinsberg e a Krampnitz. «Tutte le unità stanziate fra l'Oder e l'Elba»,
dicevano e ripetevano, dovevano essere messe immediatamente in
marcia alla volta di Berlino, perché «l'attacco per liberare la capitale
del Reich deve essere portato a buon fine con la massima rapidità e con
tutti i mezzi disponibili». Fra un'intimazione e l'altra, ecco poi le
continue, concitate richieste di informazioni sulle posizioni raggiunte
dai reparti di quei generali Wenck e Busse che non avevano più dato
notizie di sé, nonché sul «corpo Holste» che doveva operare da qualche
parte nella zona a nordovest della capitale e il cui nome si era acceso
solo da poco nelle fantasmagorie del bunker come una specie di stella
della salvezza.
Nessuno domandò più di Steiner. Hitler si limitò a dire che
quell'Obergruppenführer delle ss fosse immediatamente sostituito dal
generale Holste. Però la sua parola non bastò più per cambiare le cose
nella zona di Eberswalde: Steiner convinse Holste a infischiarsene
delle disposizioni che erano arrivate e a lasciargli il comando delle sue
truppe.
All'alba del 28 aprile gli appelli di Krebs divennero sempre più
impazienti. Comunicò a Keitel: «Il Führer aspetta un aiuto immediato,
non ci sono ormai che, al massimo, quarantotto ore di tempo. Se l'aiuto
non arriverà entro questo termine, sarà troppo tardi! Il Führer è stanco
di doverlo ripetere!!!».
Per dare maggior incisività alle richieste che venivano dal bunker,
Keitel decise a un certo punto di andare a parlare personalmente con il
generale Heinrici che, contrariamente agli ordini che gli erano stati
impartiti, aveva disposto la ritirata dell'armata corazzata del generale
von Manteuffel. L'incontro avvenne all'altezza di un crocevia a sud di
Neubrandenburg, dove le strade erano intasate in ogni direzione da
colonne di profughi che, terrorizzati ed esausti, vagavano a casaccio.
Heinrici si presentò all'incontro assieme a Manteuffel. Keitel non diede
loro quasi il tempo di salutarlo e investì i due ufficiali pretendendo una
spiegazione del loro arbitrario comportamento. Era stato loro ordinato
di rimanere lungo l'Oder, di non arretrare di un passo e di tenere il
fronte a ogni costo. Per sottolineare le sue parole, Keitel continuò a
battersi il bastone di maresciallo sul palmo della mano. Heinrici tentò
di chiarirgli la situazione e spiegò che, con le truppe di cui disponeva,
non sarebbe riuscito a tenere ulteriormente il fronte dell'Oder. Precisò
poi di non essersela sentita di mandare i suoi soldati allo sbaraglio
senza alcuna prospettiva di successo. Inoltre aveva bisogno di forze
fresche, altrimenti avrebbe dovuto impartire altri ordini di ritirata.
Keitel continuò ad agitare minacciosamente il bastone di
maresciallo. In tono secco disse a Heinrici che non contasse su nuove
forze e che attaccasse invece con quelle che aveva. Quello era un
ordine del Führer e lui non doveva che ubbidire. Quando Heinrici
rispose che, da lui, il generale Manteuffel non avrebbe avuto un ordine
di quel genere, Keitel fissò Manteuffel, il quale si limitò tuttavia a dire
seccamente e significativamente: «Signor generale feldmaresciallo, la
terza armata corazzata fa solo quel che gli dice il generale von
Manteuffel». Infuriato, Keitel replicò: se le truppe non tengono le
posizioni, sparate loro addosso e vedrete allora che l'esercito reggerà!
Caso volle che in quell'attimo passasse un veicolo sul quale erano
due soldati della Luftwaffe completamente esausti. Heinrici ordinò
loro di avvicinarsi e poi disse a Keitel: «Ecco, ora ha l'occasione di
statuire un esempio, signor generale feldmaresciallo! Faccia fucilare
questi uomini!». Imbarazzato, Keitel borbottò qualcosa come
«Arrestarli!» e «Corte marziale!», e poi se ne ripartì.
Da quest'incontro risultò poi evidente quanto Heinrici si fosse
sottratto al folle mondo degli ordini del Führer, e come perseguisse
ormai obiettivi miranti esclusivamente alla salvaguardia di quel che
rimaneva del suo gruppo d'armate e a risparmiare la popolazione civile.
Quando la mattina seguente ci fu un nuovo colloquio telefonico con
Keitel, e Heinrici parlò della responsabilità che aveva nei confronti
delle sue truppe, Keitel gli gridò: «Lei non deve assumersi nessuna
responsabilità, lei deve eseguire gli ordini!». Heinrici a quel punto
rispose che, stando così le cose, doveva comunicare «al signor generale
feldmaresciallo» che rinunciava al suo incarico di comando. Per un
momento, dall'altro capo della linea, venne solo silenzio. Poi Keitel
disse, scandendo le parole: «Signor colonnello generale Heinrici, sulla
base dei pieni poteri conferitimi dal Führer io la sollevo
immediatamente dal comando del gruppo d'armate della Vistola. Si
tenga a disposizione presso il suo quartier generale!».
Anche nel bunker si stavano dileguando via via le residue speranze.
La sera del 28 aprile, quando si diffuse la voce che i russi avevano
ormai raggiunto l'inizio della Wilhelmstrasse e che erano in corso
sanguinosi combattimenti presso il Potsdamer Platz, arrivò una notizia
che, per vaghe allusioni, aveva già suscitato scalpore nel corso della
giornata e che fu ora confermata da un dispaccio diramato dall'agenzia
Reuter: il Reichsführer delle ss Heinrich Himmler aveva tentato,
tramite il diplomatico svedese conte Folke Bernadotte, di avviare
trattative separate con le potenze occidentali, dichiarandosi disposto
anche «all'attuazione di una capitolazione incondizionata».
La notizia colpì Hitler come una mazzata. Aveva sempre giudicato
Göring un corrotto e Speer che aveva definito, parlandone con Artur
Axmann, «l'altra mia delusione degli ultimi tempi» un artista
imprevedibile e lontano dalla realtà. La loro incapacità di
corrispondere alle sue aspettative nell'ora più difficile era stata in un
certo senso prevedibile. Il tradimento di Himmler invece, di uno che
aveva avuto di continuo la parola «fedeltà» sulle labbra e l'aveva
esaltata come il valore supremo del suo «ariano e germanico ordine
virile delle ss», significò il crollo di un mondo. «Si è messo a urlare
come un pazzo» così Hanna Reitsch descrisse in seguito la scena «e la
faccia gli è diventata color porpora e quasi irriconoscibile». Hitler si
ritirò nel suo alloggio privato assieme a Bormann e a Goebbels, e a
quel punto non era più rosso ma «bianco come il gesso», come si legge
nel racconto di Hanna Reitsch, «e dava l'impressione di una vita già
spenta».
La riunione con i suoi due collaboratori cessò verso la mezzanotte
quando Hitler, controllandosi a fatica, si recò nella stanza dove era
disteso, ferito, il generale cavalier von Greim. Seduto sul bordo del
letto, intimò all'appena nominato comandante supremo della Luftwaffe
di partire immediatamente per Plön, nello Schieswig-Holstein, e di
concordare lì con l'ammiraglio Dönitz che vi aveva il suo quartier
generale tutti i provvedimenti necessari per infliggere a Himmler la
punizione che meritava. «Non voglio avere un traditore per
successore», disse, «e quindi provvedete affinché non lo divenga».
Greim e poi anche Hanna Reitsch tentarono di obiettare, dichiarando
più volte di aver deciso di rimanere nel bunker per poter morire
assieme a Hitler. Inoltre fecero osservare ormai non c'era più alcuna
possibilità di uscire da Berlino.
Hitler insistette però sulla sua decisione e annunciò di aver già fatto
venire un aereo Arado 96 che, gli era stato assicurato, era appena
atterrato sull'asse est-ovest, in mezzo alla confusione della battaglia.
Quindi consegnò a Hanna Reitsch due fiale di veleno «per ogni
evenienza» e si congedò. «Presso Potsdam si sente già il fuoco
dell'artiglieria tedesca», disse nel lasciare la stanza. Uscito sul
corridoio, comunicò la sua indignazione, con parole sempre diverse, a
ognuno di quelli che incontrò. Ora sapeva perché Himmler aveva
fallito sul fronte della Vistola, perché l'offensiva delle ss in Ungheria
era finita in una sconfitta e perché Steiner si era rifiutato di ubbidire
all'ordine di attaccare: quelli erano tutti frutti di intrighi e tradimenti. Il
Reichsführer delle ss, fece sapere, covava perfino l'intenzione di
consegnarlo vivo al nemico. Nel frattempo quanti erano ancora rimasti
nel bunker stavano scrivendo in tutta fretta lettere di addio ai loro
famigliari, che consegnarono poi a Hanna Reitsch che sarebbe stata
probabilmente l'ultimo messaggero a lasciare la città. In lacrime, la
Reitsch uscì di lì a poco dal bunker assieme al generale von Greim.
«Dinanzi all'altare della patria bisogna sempre inginocchiarsi in segno
di rispetto», dichiarò più tardi al generale Koller, descrivendogli i suoi
sentimenti per Hitler. Greim da parte sua, quando contro ogni
aspettativa furono usciti dalla città, affermò, euforico, che i giorni al
fianco del Führer avevano agito su di lui come una «fonte della
giovinezza».
Mentre nelle stanze del bunker echeggiavano ancora le accuse di
tradimento, arrivò, verso le 10 di sera, il generale Weidling per fare il
punto della situazione, e quanto riferì fece svanire le ultime illusioni. I
russi passavano «da uno sfondamento all'altro», annunciò, e non
c'erano più riserve da lanciare nella battaglia. Si era dovuto
praticamente rinunciare pure al rifornimento dall'aria. Anche per porre
fine alle «incredibili sofferenze della popolazione», propose «come
soldato, di tentare una sortita fuori dalla sacca di Berlino».
Prima ancora che Hitler o Krebs potessero prendere posizione
sull'esposizione che era stata fatta loro, Goebbels si legge nel resoconto
di Weidling «si è avventato contro di me usando espressioni dure e ha
tentato di far apparire ridicolo molto di ciò che avevo esposto con
assoluta oggettività». Krebs si limitò a lasciare a Hitler la decisione e
Hitler, «dopo averci riflettuto a lungo», riassunse ancora una volta tutte
le obiezioni con cui aveva finora respinto anche le richieste della 9a
armata di aprirsi un varco per sottrarsi all'accerchiamento. «Tenere le
posizioni a ogni costo!» era stato l'imperativo che aveva proclamato in
occasione di tutte le battaglie difensive e di contenimento degli anni
passati, e a questo principio volle continuare ad attenersi perché una
sortita, secondo lui, altro non sarebbe stata che una ritirata mascherata.
Quand'anche la proposta di Weidling si fosse rivelata fattibile sono le
parole con cui il generale ha riassunto il pensiero di Hitler «non
faremmo che uscire da una sacca per cacciarci in un'altra. E allora lui,
il Führer, sarebbe stato costretto ad accamparsi all'aperto oppure a
cercare rifugio in una casa contadina o in un qualcosa di simile senza
poter far altro che aspettare la fine».
Per il resto Hitler, a momenti almeno, sembrava altrove con la
mente, perso dietro altri e per lui più urgenti pensieri. In particolare la
sua rabbia sconfinata stava cercando una vittima su cui sfogarsi: e,
durante le consultazioni sul tradimento di Himmler, era stato più volte
fatto il nome di Hermann Fegelein, che passava per uno dei più stretti
confidenti del Reichsführer delle ss.
Giudicato da tutti un individuo dal «carattere completamente
marcio», Fegelein si era fatto largo nell'entourage di Hitler con molto
charme e con altrettanta mancanza di scrupoli finché, nell'estate del
1944, promosso tenente generale delle Waffen-ss, aveva sposato la
sorella di Eva Braun, Margarete. Il 26 aprile, senza avvisare nessuno,
era sparito dal bunker e aveva raggiunto la sua abitazione nei pressi del
Kurfürstendamm, al numero 4 di una strada dal nome che, in quelle
circostanze, suonava come una sarcastica irrisione: Bieibtreustrasse, e
cioè «Via Resta Fedele». Due giorni prima aveva confidato al generale
delle ss Hans Jüttner di non avere «assolutamente l'intenzione di
morire a Berlino». A quel punto, da casa sua, aveva telefonato a quella
Eva Braun alla quale, donnaiolo com'era, aveva fatto scopertamente la
corte già durante i loro soggiorni nella residenza estiva di Hitler
sull'Obersalzberg. Completamente ubriaco, le aveva detto che non c'era
da perder tempo, che lo raggiungesse anziché aspettare nel bunker la
fine sicura: «Eva, devi piantare il Führer. Non fare la sciocca, ora ne va
della pelle!».
Il 27 aprile Hitler aveva chiesto di parlargli, ma non c'era stato verso
di rintracciarlo nel bunker. Il capo del servizio di sicurezza del Reich,
maggiore generale delle ss Johann Rattenhuber, gli aveva allora
telefonato a casa intimandogli di rientrare immediatamente nella
Cancelleria del Reich, ma lui aveva ignorato l'ordine. Al che un gruppo
d'uomini del reparto della scorta di Hitler erano stati mandati a
prelevarlo. Secondo chiacchiere che erano girate per il bunker, Eva
Braun, da tempo non indifferente alle avance del cognato, aveva a sua
volta telefonato, agitatissima, alla Bleibtreustrasse, però anche tutti i
suoi sforzi per indurre Fegelein a tornare erano stati vani. Fegelein
aveva respinto con altezzoso sarcasmo il primo drappello degli uomini
venuti a prelevarlo, e soltanto una seconda squadra agli ordini del
dirigente dei servizi di polizia criminale del servizio di sicurezza del
Reich, Peter Högl, era riuscita infine a convincere il riluttante generale
delle ss, ancora ubriaco e come fu riferito non senza indignazione in
compagnia di una giovane donna dai capelli rossi, a farsi
riaccompagnare fino alla Cancelleria. Quando il capopilota di Hitler,
generale Hans Baur, aveva detto a Fegelein, al suo rientro, che il suo
comportamento aveva fatto affiorare il sospetto d'una diserzione, tutto
ciò che il cognato di Hitler aveva saputo rispondergli era stato: «Tutto
qui? E allora fucilatemi!».
La frase era stata dettata a Fegelein dalla leggerezza e
dall'impudenza del carrierista viziato dal successo. Era stato perciò con
sbalordimento che si era visto degradare ancor prima del primo
interrogatorio. Quando Mohnke gli aveva poi dichiarato che gli erano
state revocate tutte le decorazioni e le altre medaglie, si era strappato
da solo le spalline, urlando, e aveva ingiuriato Mohnke e i due ufficiali
delle ss che erano con lui. Soltanto il Reichsführer delle ss poteva
disporre di lui, aveva urlato, e quindi avrebbe reso le sue dichiarazioni
soltanto a Heinrich Himmler. Aveva chiesto di essere immediatamente
tradotto al cospetto di Hitler, ma questi si era rifiutato di riceverlo
dicendo di non voler neppure vedere «quell'individuo». Hitler,
probabilmente, aveva pensato in un primo momento di aggregare
Fegelein, come soldato semplice, a uno dei reparti di Mohnke.
Sennonché Bormann e Otto Günsche lo avevano convinto che, alla
prima occasione, Fegelein avrebbe «semplicemente tagliato la corda»,
e quindi Hitler aveva dato ordine di convocare una corte marziale. Eva
Braun aveva chiesto inutilmente che il cognato fosse risparmiato,
anche in considerazione del fatto che sua sorella stava per partorire.
Hitler aveva respinto la richiesta con un tono così brusco che lei non
aveva avuto il coraggio di dire altro che: «Il Führer sei tu!».
La corte marziale convocata da Mohnke aveva dovuto interrompere
quasi subito l'udienza a causa della perdurante «totale ubriachezza
dell'imputato». Fegelein era stato rinchiuso in una cella perché
smaltisse la sbornia. Il giorno dopo, nei sotterranei della vicina chiesa
della Trinità, fu «duramente interrogato» dal capo della Gestapo
Heinrich Müller. Mentre l'interrogatorio era in corso, venne la notizia
del tradimento di Himmler, e a quel punto non fu più soltanto la
valigetta con gioielli e valuta estera trovata nell'abitazione di Fegelein
a essergli rinfacciata. Durante una perquisizione del suo ufficio, nei
sotterranei della Cancelleria, fu trovata anche una borsa con documenti
dai quali emergeva che il confidente di Himmler appariva fra quanti
erano stati informati da tempo dei contatti che il Reichsführer delle ss
aveva preso con il conte Folke Bernadotte.
Indignato, Hitler ordinò che Fegelein fosse immediatamente fucilato,
senza neppure concludere la procedura davanti alla corte marziale.
Poco prima di mezzanotte Fegelein fu prelevato da alcuni uomini del
servizio di sicurezza del Reich dalla cella del bunker in cui era stato
rinchiuso e poi, mentre ancora urlava scompostamente in preda a un'ira
ignara, fucilato: o in un corridoio dei sotterranei oppure appena fuori,
presso l'uscita del giardino, dietro la Cancelleria del Reich. Il bisogno
di rivalsa di Hitler era talmente urgente che, nel constatare che la
squadra incaricata di formare il plotone di esecuzione tardava a
rientrare, domandò più volte che fine aveva fatto la comunicazione
dell'avvenuta fucilazione. Intanto Eva Braun, che aveva i suoi buoni
motivi per piangere il morto, continuava a gridare: «Povero, povero
Adolf, tutti ti hanno abbandonato, tutti ti hanno tradito!».
Forse, proprio allora Hitler si rese definitivamente conto che era
venuta l'ora di farla finita. Come sempre, quando arrivava a una
determinazione dopo aver a lungo soppesato i pro e i contro, le
decisioni furono rapide e senza esitazioni. In tutta fretta fece allestire
verso mezzanotte la piccola stanza dove erano conservate le carte
planimetriche in modo che potesse fungere da sede di un evento
anagrafico. Un pubblico funzionario che, con il grado di capufficio,
aveva lavorato per qualche tempo presso la direzione regionale
amministrativa di Goebbels e che, come si accertò presto, militava ora
in una unità del Volkssturm dislocata non troppo lontano dal bunker, fu
fatto prelevare con un autoblindo e accompagnato nella catacomba per
presiedere alla cerimonia del matrimonio del Führer con Eva Braun.
Goebbels e Bormann furono i testimoni delle nozze. Ligi alle
formalità, gli sposi chiesero, in considerazione delle particolari
circostanze, di potersi avvalere della procedura abbreviata detta
«matrimonio di guerra», e poi dichiararono entrambi di essere di «pura
discendenza ariana e immuni da malattie ereditarie».
Ottenute queste informazioni, l'ufficiale di stato civile si rivolse ai
nubendi e chiese a Hitler e a Eva Braun se intendevano sposarsi.
Ottenuta la risposta affermativa di entrambi, dichiarò il matrimonio
«regolarmente contratto agli effetti di legge». Durante la successiva
firma dei documenti Eva Braun era talmente confusa e disorientata che
cominciò a firmare con il cognome da nubile. Se ne accorse quando
aveva già scritto la lettera iniziale B, che cancellò prima di completare
regolarmente la firma: «Eva Hitler, nata Braun». Subito dopo gli sposi
e i testimoni si spostarono nei locali dell'alloggio privato del Führer
dove, in compagnia dei generali Krebs e Burgdorf, di alcuni aiutanti
maggiori, del colonnello von Below e delle segretarie, bevvero alcuni
bicchieri di vino e rievocarono i bei tempi passati. Non appena si
diffuse la voce delle nozze di Hitler, alcuni di coloro che erano
alloggiati nel bunker superiore decisero di imitarlo e, nel corso della
notte, furono celebrati diversi altri matrimoni, stavolta con il
sottosegretario al ministero della Propaganda, dottor Werner Naumann,
a fungere da ufficiale di stato civile.
L'idea, decisamente kitsch, di sposarsi in previsione dell'imminente
doppio suicidio proprio come se temesse che la condizione irregolare
potesse essergli in qualche modo rinfacciata da morto venne con tutta
probabilità a Hitler nello stesso momento in cui si arrese
definitivamente. Come Führer, aveva detto più volte, non poteva
permettersi legami di natura personale con nessuno: la concezione
marziale che aveva del proprio ruolo non consentiva immagini di
intimità famigliare. Recedette soltanto ora da questo principio e, con
ciò, implicitamente, anche dalla fede nella particolare missione di
eletto dal destino. E infatti, rivolto a quanti gli si radunarono attorno
subito dopo la cerimonia nuziale, disse che l'idea del
nazionalsocialismo era finita e che non sarebbe rivissuta mai più. Egli
stesso spiegò guardava alla morte come a una liberazione. E poi si
congedò dalla compagnia per andare a dettare le sue ultime volontà.
Hitler fece compilare due testamenti, uno personale e uno politico.
Quest'ultimo risultò improntato dalle assicurazioni della sua innocenza,
dalle accuse contro gli «uomini di stato che erano di origine ebraica o
lavoravano per interessi ebraici», nonché dai rimproveri rivolti a
«quegli individui "abbagliati", quanto privi di carattere», che avevano
aggredito alle spalle la loro stessa causa. Ribadì nuovamente la
decisione di rimanere nella capitale del Reich dove avrebbe «scelto la
morte [...] di libera volontà». Non intendeva per nessuna ragione
«finire nelle mani» degli odiati «nemici che hanno bisogno, per lo
spasso delle masse sobillate, di un nuovo spettacolo inscenato dagli
ebrei».
Quale suo successore al vertice dello stato e della Wehrmacht Hitler
designò il grand'ammiraglio Karl Dönitz. Rammentandogli che nella
marina vigeva un concetto dell'onore al quale era estranea ogni idea di
resa, gli affidò anche l'incarico di continuare la lotta, dopo la sua
morte, fino alla fine. Espulse Göring e Himmler dal partito,
destituendoli anche da tutte le loro cariche, e istituì un nuovo governo
con Joseph Goebbels cancelliere e Martin Bormann ministro per gli
affari del partito. Infine si appellò alla fedeltà e all'ubbidienza dei
tedeschi «fino alla morte» e tornò con la frase conclusiva, ancora una
volta, all'ossessione che costituiva in senso letterale la sua idea, tanto
fissa quanto folle: «Soprattutto impegno quanti guideranno la nazione
e i loro collaboratori ad attenersi rigorosamente alle leggi razziali e a
una spietata resistenza contro l'avvelenatore universale di tutti i popoli,
l'ebraismo internazionale».
Il testamento personale di Hitler risultò notevolmente più breve. Vi
motivò la decisione di «prendere in moglie quella giovane che, dopo
lunghi anni di fedele amicizia, è venuta di sua spontanea volontà nella
città già quasi assediata per condividere la mia sorte». Poi dettò alcune
disposizioni relative al suo patrimonio e nominò esecutore
testamentario «il più fedele dei miei camerati di partito, Martin
Bormann». Il documento fu concluso con queste parole: «Io stesso e
mia moglie scegliamo la morte per sottrarci all'onta della destituzione
o della capitolazione. E' nostra volontà essere immediatamente cremati
nel luogo in cui ho prestato la maggior parte del quotidiano lavoro nel
corso dei dodici anni del mio servizio per il bene del popolo tedesco».
Quella stessa mattina furono inviati tre messaggeri, ognuno con copie
del certificato di matrimonio e delle ultime volontà di Hitler: destinate
a Dönitz, al feldmaresciallo Ferdinand Schörner e alla direzione del
partito a Monaco di Baviera.
A uno dei messaggeri, il capo dell'agenzia di stampa tedesca Heinz
Lorenz, Goebbels consegnò subito prima che lasciasse il bunker anche
un'«aggiunta al testamento politico del Führer» che aveva scritto in
tutta fretta. Goebbels vi illustrò i motivi che lo avevano indotto a
rimanere a Berlino. Per ragioni umane, diceva il documento, «non me
la sarei mai sentita di lasciare il Führer da solo nell'ora più difficile».
Nel «delirio di tradimento» dilagante tutt'attorno, dovevano esservi
almeno alcuni che rimanevano «schierati incondizionatamente e fino
alla morte al suo fianco». Si disse convinto di rendere così,
esemplarmente, il miglior servizio al popolo tedesco. Concluse con
queste parole: «Per questi motivi dichiaro - unitamente a mia moglie e
a nome dei miei figli, che sono troppo giovani per potersi esprimere
essi stessi ma che, se avessero l'età necessaria, aderirebbero senza
riserve a questa scelta la mia irrevocabile decisione di non
abbandonare la capitale del Reich nemmeno in caso di sua caduta e di
voler concludere al fianco del Führer la mia vita che non ha per me
personalmente più alcun valore dal momento che non posso più
impiegarla al servizio del Führer e al suo fianco».
Il 29 aprile, una radiosa domenica di primavera, il comando militare
dell'«area settentrionale» fece sapere che la battaglia casa per casa, al
centro di Berlino, imperversava «giorno e notte». In quel momento
erano rimasti in mano tedesca solo il quartiere governativo, il
Tiergarten, una stretta striscia di territorio dalla stazione ferroviaria
Zoo in direzione ovest fino alla Havel, nonché alcune altre piccole
postazioni. Il rapporto menzionò anche «ammutinamenti» nell'«area
meridionale» nonché i «radicali provvedimenti» adottati per
contrastarli, e smentì infine la notizia diffusa da una stazione radio di
Monaco di Baviera secondo la quale «il Führer sarebbe caduto». Dal
bunker partì un fonogramma indirizzato a Keitel per ordinargli di
procedere «fulmineamente e con ferrea determinazione», e per
intimare a «Wenck, Schörner e altri» di «dar prova della loro fedeltà al
Führer» con un rapido intervento. Un po' dopo Krebs riuscì a farsi
mettere in comunicazione con Jodl, però la linea fu interrotta durante la
conversazione perché, come poi risultò, era stato abbattuto un pallone
frenato che consentiva i collegamenti radiotelefonici con il bunker.
A mezzogiorno, nel corso della riunione per l'esame della situazione,
Hitler chiese a Wilhelm Mohnke informazioni sull'ultima linea del
fronte. Mohnke spiegò sul tavolo una carta dei quartieri centrali di
Berlino e disse poche asciutte frasi: «A nord i russi sono a ridosso del
ponte di Weidendamm. A est sono arrivati al Lustgarden. A sud al
Potsdamer Platz e al ministero dell'Aviazione civile. E a ovest al
Tiergarten, dai tre ai quattrocento metri di distanza dalla cancelleria del
Reich». Quando Hitler domandò per quanto tempo Mohnke sarebbe
stato ancora in grado di reggere, si sentì rispondere: «Dalle venti alle
ventiquattro ore al massimo, mio Führer, non più a lungo».
La prima cosa che Hitler fece dopo la fine della riunione fu quella di
ordinare al suo addestratore di cani, il maresciallo Fritz Tornow, di
avvelenare Blondi, la sua lupa. L'animale non doveva cadere nelle
mani dei russi, disse: la sola idea lo faceva star male. Però,
sicuramente, gli importò di più verificare l'efficacia dell'acido prussico
che era stato distribuito a tutti nelle settimane precedenti. Dal
tradimento di Himmler, Hitler non era più sicuro che il veleno
procuratogli dalle ss provocasse la morte con la rapidità che voleva.
Sennonché, quando Tornow schiacciò con una pinza una fialetta sopra
le fauci aperte della cagna, l'animale si rovesciò su un fianco, morto,
«come centrato da un fulmine». Di lì a poco come ha riferito uno dei
testimoni oculari Hitler si presentò all'uscita del bunker «per
congedarsi da Blondi». Rientrato nel sotterraneo dice un'altra
testimonianza «sembrava la maschera mortuaria di sé stesso» e andò a
«rinchiudersi nella sua stanza senza dire una parola». Nel frattempo,
sopra, vicino all'uscita verso il giardino, Tornow uccideva a colpi di
pistola anche i cinque cuccioli.
Nel bunker si diffuse un silenzio stranamente vuoto. Chiunque si
presentasse per fare rapporto o consegnare un messaggio, si
allontanava poi il più rapidamente possibile. «Tutti avevano paura di
rimanere laggiù», si legge nel resoconto di Rochus Misch, il
radiotelegrafista del bunker, perché l'atmosfera «era quella di una
tomba». Quelli che partecipavano regolarmente alle riunioni per
l'esame della situazione stavano seduti in giro, sgomenti, e si
abbandonavano a confusi progetti. Non uno di loro che credesse ancora
all'eseguibilità di un'operazione militare anche solo sommariamente
coordinata, e in effetti la maggior parte delle unità impegnate nei
combattimenti, a prescindere dagli ordini che arrivavano dal bunker,
avevano cominciato a organizzare autonomamente la resistenza,
secondo propri criteri.
Se non altro, per sottrarsi all'asfissiante clima da caverna, chi poteva
disporre di un momento di libertà abbandonava il più soffocante settore
inferiore e saliva fino all'ante-bunker o si spostava addirittura nei
sotterranei della Cancelleria. Parecchi di quegli ambienti erano stati nel
frattempo messi a disposizione della compagnia della Leibstandarte la
guardia del corpo responsabile dei servizi di sicurezza, nonché di
abitanti dei dintorni accorsi in cerca di riparo. Una parte dei sotterranei
era già stata adibita a ospedale d'emergenza in cui avevano trovato
accoglienza più di trecento persone, per lo più gravemente ferite. Nei
corridoi ingombri di letti, due medici correvano dall'uno all'altro
assieme alle infermiere e ad alcuni soldati della sanità per tentare di dar
sollievo agli infermi. Mentre alcuni operavano su tavoli sudici di
sangue, altri, in mezzo a un'indescrivibile calca, trasportavano morti
ma anche grossi contenitori pieni di arti amputati verso l'uscita del
bunker. In mezzo a loro si facevano largo innumerevoli gerarchi del
partito, ufficiali dell'amministrazione o alti funzionari governativi che
desumevano dagli importanti servigi resi al regime il diritto a una
protezione particolare, adeguata al loro rango. Quelle fosche fughe di
spazi, caoticamente sovraffollati, furono in un certo senso le nere
quinte dell'«atmosfera da fine del mondo» di cui parla un'altra
relazione, clima in cui «tutti tentavano di ottundere la disperazione con
l'alcol. Dalle dispense uscivano grandi quantità di vini e liquori delle
migliori marche e leccornie d'ogni genere». Anche qui ognuno,
ovunque si volgesse, si trovava coinvolto in discussioni «su quando e
come uccidersi meglio». Uno degli inquilini del bunker ha descritto sé
stesso come l'«abitante d'un obitorio» in cui i morti fingevano di essere
ancora vivi.
Verso le 10 e mezzo ci fu un momento di improvvisa agitazione
nella sala delle riunioni quando venne un'ordinanza a comunicare che,
attraverso un'emittente a onde corte casualmente intercettata, era
arrivata la notizia della morte di Mussolini. Il duce era stato catturato
due giorni prima assieme a Claretta Petacci in una località sul lago di
Como dove lo avevano fucilato il giorno seguente senza perdersi in
molte formalità. Hitler tuttavia si preoccupò più di ciò che era
avvenuto dopo, e di cui si ebbe a sua volta notizia via radio. Varie
volte aveva manifestato il timore di poter essere portato a Mosca dai
sovietici ed esposto in una «gabbia da scimmia», come un
«personaggio da baraccone» alla folla furibonda. Ora le circostanze
della fine di Mussolini risvegliarono e accentuarono quelle paure: i
corpi di Mussolini e degli altri che erano stati fucilati con lui erano
stati trasportati a Milano e appesi a testa in giù davanti a un
distributore di benzina, dove una moltitudine inferocita aveva infierito
sui cadaveri, colpendoli, sputando, lanciando pietre.
L'annuncio calò, opprimente, sull'inazione forzata e logorante delle
persone riunite in angosciosa attesa. La sera prima, come se contasse
ancora sulla liberazione della città dall'assedio, Hitler aveva fatto
inviare a Jodl un radiomessaggio articolato in cinque disperate
domande: «Comunicare immediatamente: 1) Dove sono le avanguardie
di Wenck? 2) Quando si decideranno ad attaccare? 3) Dov'è la 9a
armata? 4) Qual è il punto in cui la 9a armata intende sfondare? 5)
Dove sono le avanguardie di Holste?».
Poiché le ore passavano senza che nessuno rispondesse, e mentre gli
ultimi residui di fiducia svanivano fra i monosillabi, Hitler si alzò
improvvisamente e raggiunse la sala delle riunioni per congedarsi dai
più stretti collaboratori. Vi si erano riuniti Goebbels con la moglie,
Burgdorf e Krebs, Mohnke, Rattenhuber e Hewel, inoltre le segretarie,
la signorina Manziarly (ovvero la cuoca che provvedeva a preparare le
pietanze particolari della dieta seguita da Hitler), nonché alcuni alti
ufficiali delle ss: venti persone in tutto. Hitler strinse la mano a
ciascuno rivolgendo all'uno o all'altro anche qualche osservazione
personale, però il rumore sordo prodotto dai macchinari che
rifornivano il bunker di aria e di elettricità era tale che le sue parole,
appena mormorate, risultarono pressoché incomprensibili. Infine,
rivolto a tutti e alzando il tono della voce, disse di non voler cadere
nelle mani dei russi e di aver di conseguenza deciso di porre egli stesso
fine alla sua vita. Sciolse ognuno dei presenti dal giuramento che gli
aveva prestato e augurò loro di poter raggiungere le linee inglesi o
statunitensi. A Rattenhuber dichiarò che sarebbe rimasto nel luogo che
il destino gli aveva riservato, nella Cancelleria del Reich, a fungere da
«eterna guardia».
Erano le 3 di notte quando arrivò finalmente la tanto a lungo attesa
risposta di Keitel e Jodl. Con riferimento alle domande formulate da
Hitler, forniva informazioni articolate in quattro asciutte frasi: «1)
L'avanguardia di Wenck è stata bloccata a sud di Schwielowsee. 2) La
12a armata non può di conseguenza proseguire l'attacco verso Berlino.
3) La 9a armata è stata circondata da massicce forze avversarie. 4)
L'unità di Holste è costretta sulla difensiva». La comunicazione
concludeva con una frase che descriveva in estrema sintesi la
situazione senza speranza: «Gli attacchi per liberare Berlino non sono
più progrediti in alcun punto».
All'alba del 30 aprile il fuoco dell'artiglieria sovietica cominciò sin
dalle 5, strappando dal sonno gli abitanti della catacomba. Circa un'ora
dopo Mohnke fu convocato nel bunker inferiore. Hitler, in vestaglia e
pantofole, era seduto su una sedia, accanto al suo letto, con il volto
disfatto dalla stanchezza. Guardò il generale con distacco e domandò
per quanto ancora si potesse resistere. Quando Mohnke rispose: «Non
più di un paio d'ore, perché i russi, anche se sono stati
momentaneamente fermati, si sono avvicinati fino a poche centinaia di
metri», Hitler reagì affermando che le democrazie occidentali erano
decadenti e sarebbero alla fine soggiaciute ai popoli dell'Oriente,
ancora integri e guidati con maggior rigore. Poi porse la mano a
Mohnke e disse: «Buona fortuna! La ringrazio. Non è stato solo per la
Germania!». Alle 7 Eva Braun si presentò all'uscita del bunker dicendo
di voler «vedere ancora una volta il sole», come ha raccontato una
delle sentinelle. Di lì a poco, nella luce incerta delle scale, si profilò
come un'ombra anche lo stesso Hitler. Quando però il fuoco
dell'artiglieria si intensificò, fece dietrofront pur avendo ormai già
raggiunto uno dei gradini superiori e riscomparve nel buio.
Verso mezzogiorno si svolse l'ultima riunione per l'esame della
situazione. Il generale Weidling spiegò che le truppe sovietiche
avevano cominciato l'attacco al Reichstag e che alcune pattuglie erano
già penetrate nel tunnel della Voss-Strasse, nelle immediate adiacenze
della Cancelleria del Reich. Poiché dalle unità impegnate nei
combattimenti non arrivavano più rapporti sulla situazione, aveva
dovuto desumere le sue informazioni, come già altre volte negli ultimi
giorni, dalle trasmissioni di stazioni radio straniere. La città non si
sarebbe potuta difendere più a lungo di così, aggiunse. Poi suggerì al
Führer di «tentare di uscire di qui» e di autorizzare una sortita che li
portasse fino a Potsdam, incontro all'armata di Wenck, ma Hitler
rispose che era inutile: «Del resto nessuno esegue più i miei ordini».
Weidling chiese disposizioni per il caso in cui si fossero esaurite tutte
le riserve di munizioni, ma Hitler gli rispose dicendo soltanto che non
avrebbe mai capitolato e che vietava a lui come a qualunque altro
comandante di truppe di capitolare. Quindi si appartò per un ultimo,
breve colloquio riservato con il generale Krebs: e, soltanto allora, nel
corso di quella breve conversazione e quando era ormai palesemente
troppo tardi, decise di autorizzare alcuni dei gruppi impegnati nei
combattimenti a tentare una sortita per rompere l'accerchiamento,
quella stessa che nelle settimane precedenti aveva sempre vietato a
qualunque unità. Poco dopo Weidling si vide infatti consegnare
l'ultimo «ordine del Führer». Eccolo:
«Qualora dovessero verificarsi, presso le truppe impegnate nella
difesa della capitale del Reich, carenze di munizioni e di
vettovagliamento, do l'autorizzazione a tentare la sortita. Il tentativo
dovrà essere fatto a piccolissimi gruppi e con lo scopo di
ricongiungersi con le truppe ancora combattenti. Qualora queste non
siano trovate, la lotta dovrà essere proseguita a piccoli gruppi nei
boschi».
Alla fine dell'esame della situazione Hitler fu l'ultimo a uscire dalla
sala delle riunioni. Si imbatté in Otto Günsche e ribadì anche a lui che
non intendeva cadere nelle mani dei russi, né vivo né morto. Si sarebbe
tolto la vita esattamente come la «signorina Braun», come
curiosamente continuò a chiamarla, e aggiunse di volere che i loro
corpi fossero bruciati e resi «irrecuperabili per sempre». Si fece
promettere da Günsche che avrebbe predisposto tutto il necessario per
l'eliminazione dei suoi resti mortali. Giudicò questa disposizione così
importante che decise di formularla anche per iscritto. Subito dopo
Günsche si fece mettere in contatto con l'autista di Hitler, Erich
Kempka, che aveva il suo alloggio nel sotterraneo dei garage, nei
pressi della Cancelleria, e gli ordinò di procurargli al più presto tutta la
benzina possibile, eventualmente attingendo anche ai serbatoi dei
veicoli posteggiati nella rimessa.
Quando Kempka chiese a che cosa servisse tutta quella benzina,
Günsche rispose di non poterne parlare per telefono. Poco dopo, sotto
il fuoco intenso dell'artiglieria sovietica, chini dietro avanzi di muri
crollati e cumuli di terra, vennero alcune squadre di uomini delle ss e
collocarono un certo numero di taniche di benzina nell'ante-bunker.
Verso le 14 Hitler consumò insieme alle segretarie e alla cuoca
personale il suo ultimo pasto. Dopo le numerose esplosioni d'ira e gli
attacchi di convulsioni dei giorni precedenti, si comportò in modo
tranquillo e controllato. A una delle segretarie, il piccolo gruppo di
persone sembrò riunito nel soggiorno di Hitler per «un banchetto della
morte». Già la sera prima Hitler aveva consegnato a lei e alle altre
degli astucci di rame in cui erano conservate le fiale con il veleno,
aggiungendo di essere consapevole che si trattava di ben miseri doni di
congedo. Contro ogni aspettativa, Eva Braun non si era fatta vedere.
Hitler si alzò presto da tavola dicendo: «Ecco, ci siamo, è finita». Poi
raggiunse Goebbels. Con la morte che si avvicinava irresistibilmente
davanti agli occhi, l'uomo che si definiva «l'ultimo dei fedeli» decise di
accantonare i giuramenti fatti di «non abbandonare la capitale» e di
«morire insieme», e insistette improvvisamente con Hitler perché si
lasciasse Berlino. Hitler ripeté tuttavia ancora una volta tutte le ragioni
contrarie, comprese quelle che erano state più volte esposte da
Goebbels, ed è presumibile che gli abbia anche rivolto la domanda con
la quale in quei giorni aveva ripetutamente respinto le sollecitazioni
che miravano a convincerlo a tentare di andarsene di lì: «Dove volete
che vada? Non ho nessuna intenzione di crepare da qualche parte in
mezzo a una strada». Infine concluse: «Dottore, lei conosce la mia
decisione. Non intendo cambiarla!». Goebbels era tuttavia padrone,
aggiunse, di tentare di lasciare Berlino assieme alla moglie e ai figli.
Stavolta fu Goebbels a dire di no e ad assicurare che non si sarebbe
allontanato dal fianco del Führer.
L'un addio seguì l'altro. Mentre si faceva accompagnare alla porta da
Goebbels e dalla moglie di questi nel frattempo sopraggiunta, Hitler si
imbatté nel suo attendente personale, Heinz Linge. Linge chiese di
potersi congedare e Hitler gli disse di tentare con gli altri di
raggiungere l'Occidente. Alla domanda dell'uomo semplice, per che
scopo e per chi si sarebbe dovuto salvare, Hitler gli rispose: «Per
l'uomo che verrà!». Dopo che Linge ebbe mormorato qualcosa a
proposito della fedeltà che dura anche dopo la morte, e alzato e teso il
braccio per il saluto, Hitler raggiunse il suo alloggio privato.
Poco dopo, assieme alla moglie, uscì sul corridoio vicino alla sala
delle riunioni. Indossando una semplice giacca d'uniforme con la croce
di ferro sul petto sinistro e la spilla che lo qualificava come un ferito
durante la prima guerra mondiale, si presentò al gruppo dei suoi più
stretti collaboratori per procedere stavolta a una specie di congedo
ufficiale. I primi che gli si avvicinarono per salutarlo furono Goebbels,
sua moglie e Bormann, poi venne il turno dei generali Krebs e
Burgdorf, dell'ambasciatore Hewel e dell'ufficiale di collegamento
della marina da guerra presso il quartier generale, vice ammiraglio
Hans-Erich Voss. Gli ultimi della fila furono Rattenhuber, Günsche,
Högl e Linge con le segretarie. Dopo aver passato in rassegna assieme
alla moglie le persone schierate, senza quasi rispondere alle frasi ora
formalmente brevi, ora angosciate che gli furono rivolte, si ritirò da
solo nelle sue stanze, mentre Eva Braun raggiunse per qualche
momento Magda Goebbels. Nel frattempo, nell'ante-bunker, chiamati
da Günsche, si stavano radunando alcuni ufficiali delle ss della scorta
del Führer.
Non è stato possibile chiarire se Hitler facesse convocare il suo
pilota personale, il generale Hans Baur, solo a quel punto, oppure già
prima della sfilata per il congedo. Quando Baur entrò nella stanza del
Führer con il suo vice Georg Betz, Hitler gli strinse entrambe le mani,
lo ringraziò per i molti anni di dedizione e accennò poi ancora una
volta alle viltà e ai tradimenti che lo avevano portato a quel momento
senza vie d'uscita. Al tentativo di Baur, che volle anche lui convincerlo
a tentare la fuga, dicendogli che erano pronti al decollo apparecchi con
un'autonomia di volo di 11.000 chilometri, capaci quindi di portarlo in
un paese arabo se lo desiderava, in America meridionale oppure in
Giappone, Hitler reagì con un rassegnato gesto di diniego: aveva
deciso di farla finita. Bisogna avere il coraggio di essere coerenti,
disse. Già l'indomani, aggiunse, milioni di persone lo avrebbero
maledetto: «Però il destino non ha voluto che le cose andassero
diversamente».
Quindi pregò anche Baur di predisporre tutto il necessario per
distruggere le loro salme con il fuoco: «Non voleva assolutamente che
il suo corpo e quello di sua moglie cadessero nelle mani dei porci»,
come era successo a Mussolini. Nel congedarlo, Hitler regalò a Baur il
ritratto di Federico il Grande, opera di Anton Graff, con il quale, nelle
settimane precedenti, aveva intrattenuto spesso, immerso nei suoi
pensieri, muti dialoghi. Uno dei telefonisti del bunker lo aveva notato
una volta mentre, di notte, al lume d'una candela che tremolava
inquieta a causa del giro d'aria, stava seduto nel suo soggiorno fissando
quel dipinto in una specie di «stato di trance». Quando Baur si voltò
per andarsene, Hitler tornò sull'argomento con il quale aveva introdotto
quella breve conversazione. Sulla sua pietra tombale, disse, si sarebbe
dovuto scrivere che egli era stato «una vittima dei suoi generali».
Il corso degli eventi fu interrotto ancora una volta quando,
improvvisamente, entrò in scena Magda Goebbels, «sciolta in lacrime»
per chiedere, «estremamente agitata», di poter parlare con il Führer.
Hitler fu visibilmente seccato da quell'intrusione ma si fece infine
convincere da Günsche a ricevere la donna disperata. Ardente
ammiratrice di Hitler, Magda Goebbels aveva già deciso da parecchio
tempo che, nel momento estremo, avrebbe trascinato con sé nella
morte i figli. Tutti i ripetuti tentativi fatti da più parti per distoglierla
dal suo proposito erano rimasti vani, e aveva opposto un rigido no
perfino alle insistenze di Hitler. Non poteva, aveva obiettato, lasciar
morire suo marito da solo e, se si fosse data la morte assieme a lui,
dovevano morire anche i figli. Alla fine però, come lo stesso Goebbels,
era stata colta dai dubbi. Agitata, insistette anche lei con Hitler mentre
il marito era rimasto fuori dalla porta perché tutti loro intraprendessero
un tentativo di lasciare Berlino. Però Hitler non volle nemmeno più
stare ad ascoltarla. Respinse la sollecitazione con poche parole e,
«dopo un minuto circa», si legge nel resoconto di Günsche, Magda
Goebbels «si ritirò piangendo». Anche Artur Axmann venne ancora, di
corsa, dicendo di avere urgente bisogno di parlare con il Führer, ma
Günsche gli spiegò che gli era stato ordinato perentoriamente di non
far passare più nessuno.
Nel bunker si diffuse nuovamente, come nei giorni precedenti, un
silenzio angosciato. Ovunque, sedute, c'erano singole persone oppure
piccoli gruppi in logorante attesa. Sennonché, come se l'esistenza di
Adolf Hitler, che era stata per la maggior parte del tempo condizionata
dai più clamorosi e disparati colpi di scena, non potesse finire senza
uno stridulo e stridente effetto finale, quanti si trovavano nella mensa
dell'ante-bunker cominciarono proprio in quel momento a ballare: un
diversivo in cui si stava sfogando la tensione nervosa che gli inquilini
del bunker avevano accumulato nell'arco di quelle settimane. Le regole
della disciplina tanto a lungo rigorosamente seguite, anche se negli
ultimi tempi alquanto trascurate, cedettero ora alla travolgente
sensazione di sollievo per la fine imminente, qualunque essa fosse per
ognuno di loro. Dagli altoparlanti risuonò una musica scatenata che,
pur venendo da lontano, si diffuse fin nei più lontani angoli del
labirinto sotterraneo. Un attendente fu subito mandato al piano
superiore per chiedere silenzio: il Führer, spiegò, era in procinto di
morire. Però nessuno di coloro che erano nella mensa, per lo più
ubriachi, diede retta all'intimazione, e la gozzoviglia proseguì.
Non è stato possibile chiarire con certezza quel che accadde a quel
punto. Alcuni testimoni hanno sostenuto di aver udito verso le 3 e
mezzo un unico colpo d'arma da fuoco. La segretaria Gertraud Junge
che, dopo essersi congedata da Hitler, voleva raggiungere i locali del
piano superiore per sottrarsi alla ristrettezza, all'aria soffocante e
all'atmosfera melodrammatica del bunker più profondo, si imbatté
lungo le scale nei figli dei Goebbels, seduti sui gradini con aria
sgomenta. Procurò loro qualcosa da mangiare, lesse loro alcune storie
per distrarli e tentò di rispondere in qualche modo alle domande
spaurite che quelli continuarono a porle. Improvvisamente, ha
ricordato la Junge, si udì un colpo di pistola e il piccolo Helmuth, 9
anni, avrebbe esclamato gioiosamente: «Centro!». Altri testimoni
invece, ricordando lo stantuffo continuo dei motori diesel e il ronzio
dei ventilatori, hanno negato che si potessero cogliere altri rumori.
Il gruppetto di persone che avevano preso parte all'estrema cerimonia
dell'addio era rimasto poi in attesa, per tutto quel tempo, nei locali
usati per gli esami della situazione, in preda a un'agitazione
faticosamente contenuta. A un certo punto Linge, dopo aver cercato di
farsi coraggio buttando giù in fretta, nel locale della guardia, alcuni
bicchierini di acquavite, entrò nell'anticamera dell'alloggio di Hitler.
Nel cogliere l'odore di polvere da sparo che, a sentir lui, lo investì
immediatamente, tornò indietro lungo il corridoio e raggiunse
Bormann al quale disse: «Signor dirigente del Reich, è successo!».
Entrambi allora, seguiti da Günsche, entrarono nel soggiorno
dell'appartamentino privato. Hitler, accasciato e con gli occhi aperti, la
testa un po' china in avanti, era seduto sul divano a fiorellini. Sulla
tempia destra si vedeva un foro del diametro di una moneta dal quale
era sceso lungo la guancia un rivolo di sangue. A terra c'era una pistola
Walther calibro 7.65. Sul pavimento, vicino a lui, si era formata anche
una pozza di sangue, e altro sangue aveva schizzato la parete alle sue
spalle. Accanto a lui, in un vestito azzurro e con le gambe raggruppate,
era rannicchiata sua moglie, le labbra bluastre serrate. La pistola di lei
giaceva, inutilizzata, sul tavolo. C'era odore di polvere da sparo e di
mandorle amare. Secondo alcuni dei presenti, Hitler, seguendo il
consiglio di uno dei medici del bunker, il dottor Werner Haase, doveva
aver evidentemente schiacciato fra i denti una fiala di cianuro ed
essersi contemporaneamente sparato alla tempia oppure, secondo una
diversa versione, in bocca. Il generale delle ss Rattenhuber, sulla base
delle varie voci che raccolse, giunse invece alla conclusione che Hitler
si era limitato ad avvelenarsi e che a sparargli era stata, solo
successivamente, una terza persona che aveva ubbidito a un ordine che
le era stato in precedenza impartito. Ormai non è più possibile stabilire
come andarono veramente le cose.
Poiché occorreva agire in tutta fretta, Günsche, dopo un attimo di
paralizzato raccoglimento, raggiunse il gruppo in attesa nel deposito,
batté i tacchi e disse: «Il Führer è morto!». Con i volti impietriti,
Goebbels, Krebs, Burgdorf e gli altri lo seguirono nel soggiorno di
Hitler dove Linge era già intento ad avvolgere i corpi in alcune
coperte. Assieme a Högl, Linge trasportò il cadavere del Führer,
passando davanti al gruppo costernato, fino alla sala delle riunioni: le
gambe di Hitler, secondo alcuni, dondolavano leggermente fuori dalla
coperta. Dietro Högl e Linge c'era Bormann che reggeva il corpo di
Eva Braun.
Il primo a ritrovare la parola fu Goebbels. Avrebbe raggiunto il suo
ministero al Wilhelmplatz, dichiarò, e vi si sarebbe aggirato fino a
quando una pallottola non avesse posto fine alla sua esistenza. Mentre
tutti commentavano l'accaduto in preda a commozione e non senza
sensi di colpa, e discutevano sul da farsi, piombò improvvisamente
nella stanza il responsabile del parco macchine nonché autista
personale di Hitler, Erich Kempka. Ignaro, investì Günsche chiedendo
di sapere che cosa fosse tutta quella confusione e se Günsche fosse
«impazzito» nel pretendere la consegna di taniche di benzina sotto
quell'intenso fuoco di artiglieria. Quando Günsche lo prese da parte e,
ancora segnato dall'orrore, gli disse «Il capo è morto!», Kempka lo
fissò sbalordito. «Ma come è potuto succedere?» esclamò. «Ma se gli
ho parlato appena ieri! Stava bene ed era sereno!».
Superato il primo shock, Kempka si unì, ai piedi della scala, a coloro
che stavano portando sopra il cadavere di Hitler, mentre Günsche si
occupò del corpo di Eva Braun. All'uscita verso il giardino il gruppo si
fermò, soprattutto perché Linge, Högl e gli altri che erano davanti
furono a più riprese bloccati dalle vicine esplosioni. Solo dopo alcuni
inutili tentativi riuscirono ad andare a deporre i corpi a pochi metri
soltanto di distanza dall'ingresso del bunker. Poi si avvicinò Bormann,
scostò la coperta dal volto di Hitler, sostò per alcuni secondi in
raccoglimento e tornò quindi verso l'ingresso, facendosi largo fra
quanti sopraggiungevano. Nonostante il continuo cannoneggiamento,
gli incendi tutt'attorno, le schegge, le zolle di terra e i grumi di cemento
che volavano in tutte le direzioni, Günsche e gli altri vuotarono una
decina di taniche di benzina sui cadaveri. Poi gettarono sul liquido
fiammiferi accesi che continuarono tuttavia a spegnersi prima di
toccare terra a causa del vento prodotto dagli incendi. Günsche, per
riuscire nel suo intento, si era già fatto dare una bomba a mano, ma poi
Linge, estratti dal risvolto della manica dell'uniforme alcune carte, le
arrotolò sino a farne una piccola fiaccola. Quando la sparatoria si
attenuò per alcuni secondi, l'accese e la gettò verso i corpi.
Il fuoco, preceduto da una lieve esplosione, si levò subito con
violenza, mentre i presenti, alle spalle di Günsche e di Linge,
sostavano sull'attenti. Poi, uno dopo l'altro, avanzarono di alcuni passi
dal vano delle scale e levarono il braccio nel saluto a Hitler. Fumo nero
e scintille sollevate dalle fiamme avvolsero il luogo del falò e l'ultima
cosa che videro dal bunker attraverso la porta socchiusa fu il contrarsi
dei cadaveri per effetto del calore e il sollevarsi spettrale di alcune loro
membra.
In quelle stesse ore le truppe sovietiche stavano dando l'assalto al
Reichstag, accanitamente difeso da un manipolo di soldati tedeschi.
Per una mai spiegata ragione, forse oscuramente legata all'incendio di
quell'edificio alla fine del febbraio 1933 e al processo successivamente
intentato ai presunti incendiari comunisti, i dirigenti sovietici avevano
individuato in quel palazzo, anziché nella Cancelleria o nella Porta di
Brandeburgo, il «simbolo di Berlino». Fin dal momento in cui i russi si
erano mossi dall'Oder erano state distribuite a parecchi reparti
particolari bandiere da andare a esporre sul tetto del «Cremlino
tedesco».
Le truppe sovietiche avevano cominciato ancora prima dell'alba
l'attacco alla grande costruzione che i tedeschi avevano murato da ogni
parte, ma erano stati bloccati dal fuoco dei difensori, specialmente da
quelli annidati fra le macerie del vicino teatro lirico Kroll. L'assalto era
stato ripetuto a metà mattina con grande spiegamento di carri armati,
cannoni e mortai che erano stati in parte piazzati, dirimpetto al
Reichstag, nei piani superiori del ministero degli Interni, ma i russi
erano riusciti ad avanzare solo fino all'ingresso allagato del tunnel
ferroviario. Anche un terzo attacco, preparato da un intenso fuoco di
artiglieria, fallì poi verso mezzogiorno, tanto che il comando sovietico
decise a quel punto di aspettare che scendesse l'oscurità. Solo allora un
manipolo degli assalitori riuscì a raggiungere i gradini del Reichstag e
ad aprire un varco nelle murature di sbarramento sparando con due
mortai ad alzo zero. In brevissimo tempo l'atrio dell'edificio si riempì
dei reparti che seguivano e che dilagarono quindi in ogni direzione, in
mezzo all'oscurità quasi assoluta, per andare a conquistare l'edificio in
una lotta che si protrasse a lungo, piano dopo piano, stanza dopo
stanza.
Soltanto alla mezzanotte di Mosca il «vessillo n. 5» del Lxix corpo
dei fucilieri della guardia che aveva condotto l'assalto al Reichstag fu
issato sul tetto dell'edificio da un drappello di soldati scelti iscritti al
partito comunista sovietico. Più tardi si seppe che alcuni artiglieri
avevano piantato già alcuni minuti prima una loro bandiera
sull'edificio, ma la loro impresa fu declassata come «non ufficiale».
Anche la fotografia dell'esposizione della bandiera, scattata
successivamente alla luce del giorno, mostra la squadra «ufficiale». Il
generale Perewjorkin, comandante dell'unità che aveva compiuto
l'assalto, trascurando la restante e più cruda realtà dei fatti, scrisse nella
sua relazione in un tono che avrebbe voluto essere poetico: «Solamente
verso sera, quando il sole cominciò a declinare e a illuminare di raggi
rossi l'intero orizzonte, due dei nostri soldati hanno issato la bandiera
della vittoria sulla cupola distrutta dagli incendi».
In verità i combattimenti, specialmente nei labirintici scantinati in
cui le truppe sovietiche avanzarono alla cieca, con reparti che non di
rado si spararono addosso a vicenda, si protrassero con non minore
violenza fino al pomeriggio del 2 maggio. Quando i difensori
esaurirono le munizioni, continuarono a impegnare gli avversari in
combattimenti all'arma bianca, usando al buio coltelli, vanghe e calci
dei fucili. Gli scontri uomo contro uomo proseguirono anche quando
nella vicina Pariser Platz erano già in corso lavori di sgombero e alcuni
soldati dell'Armata Rossa stavano scrivendo i loro nomi sui muri delle
pareti dei piani superiori del Reichstag. Infine, mentre fuori alcuni
gruppi di donne spazzavano il lastricato usando scope fatte con rami di
betulla, le truppe sovietiche decisero di impiegare nelle cantine
dell'edificio del parlamento i lanciafiamme. E solo così i
combattimenti finirono.
Ma non la guerra. L'affermazione da settimane diffusa dai sovietici,
secondo la quale la conquista del Reichstag avrebbe significato la fine
della guerra, ebbe un valore soltanto simbolico. Quando il maresciallo
Zukov, il 30 aprile, assillò ripetutamente il generale Ciuikov con la
richiesta di concludere la conquista della città, come previsto, in tempo
per i festeggiamenti del 1o maggio, si sentì rispondere che la forte
resistenza dei tedeschi, inattesa e violenta, «non dà speranze d'arrivare
a una rapida conclusione». Gli errori tattici commessi a ridosso delle
alture di Seelow furono così pagati ancora una volta.
Nel pomeriggio di quel giorno fu chiesta dal generale Rattenhuber
dell'altra benzina perché i cadaveri fuori dall'uscita verso il giardino
non erano ancora completamente bruciati. Non appena le taniche
arrivarono, alcune sentinelle salirono e andarono a versare il carburante
sui corpi semicarbonizzati, mentre altri si limitarono a lanciare i
contenitori aperti dalla porta del bunker verso i morti. Quando di prima
sera l'Unterführer delle ss Hermann Karnau uscì e raggiunse il posto
del rogo, si riconoscevano a terra solo gli scheletri. Tentò di
sospingerli con i piedi verso una buca del terreno ma, come per un
tocco spettrale, le ossa si disfecero in cenere in tutta la loro lunghezza.
Non ancora del tutto sicuro, Karnau tornò di nuovo sul posto verso le
20 e, come poi dichiarò, «il vento stava già sollevando e disperdendo
tutto in singoli fiocchi di cenere».
Cosa avvenne dopo è incerto. Günsche ha assicurato di aver
incaricato di prima sera un graduato delle ss di eliminare ogni traccia
dei resti di Hitler e di Eva Braun, e di lì a poco il militare gli avrebbe
comunicato di aver eseguito l'incarico. Tuttavia, in comprensibilmente,
né lui né gli altri personaggi presenti si accertarono con i loro occhi
dell'esito del rogo, come era pure loro stato ordinato dallo stesso Hitler.
Non lo fece nemmeno il generale pilota Baur, al quale Hitler aveva a
sua volta strappato la promessa di provvedere a cancellare ogni traccia
dei cadaveri. Soltanto Bormann e Rattenhuber, secondo alcune
testimonianze, sarebbero brevemente comparsi sull'uscita del bunker
dopo che era calata l'oscurità. Secondo un altro testimone, nel corso
della notte gli avanzi dei corpi di Hitler e di Eva Braun furono raccolti
su alcuni teli da tenda, calati in un vicino cratere di bomba e coperti di
terra poi compressa con un palo di legno. Però nessuno è in grado di
dire se il cannoneggiamento che si stava protraendo senza interruzioni
ormai da venti ore, a base di granate e di liquidi infiammabili, possa
aver davvero permesso di eseguire simili, complesse operazioni.
Rattenhuber ha riferito che, tornato sul luogo del rogo, avrebbe detto
fra le lacrime: «Dieci anni ho servito il Führer, ed ecco ciò che rimane
di lui». In effetti la cesura non avrebbe potuto essere più netta e
brutale. In una visione pateticamente esaltata della propria fine, Hitler
aveva immaginato il suo sepolcro collocato sul tetto del campanile che
a Linz, sua città natale, avrebbe dominato la sponda del Danubio, nel
frattempo architettonicamente reimpostata. Ora, invece, la sua tomba si
trovava in un deserto di macerie dietro la Cancelleria distrutta, in un
terreno arato e sconvolto dalle continue esplosioni, fra blocchi di
cemento frantumati e cumuli di detriti e di immondizia.
6. Lo sfacelo voluto

Solo la conclusione di un'esistenza o di un evento storico si suol dire


ne fa emergere gli autentici elementi costitutivi e svela le spinte e gli
impulsi che l'hanno caratterizzato. Fra le domande che l'uscita di scena
di Hitler implica vi è la seguente: se, nel momento in cui si sparò il
colpo di pistola con cui diede l'addio alla vita il 30 aprile 1945, egli si
considerasse un fallito o no. La risposta non è affatto scontata come
potrebbe sembrare, e chiunque vi abbia riflettuto ha sollevato dubbi su
questa interpretazione.
Perché ciò che accadde, specialmente nei mesi che precedettero il
maggio del 1945, non furono solo gli inevitabili orrori di una sconfitta
totale: città distrutte, milioni di persone in fuga, caos ovunque. Sembrò
anche che, fino agli ultimi sussulti del Reich ormai palesemente e da
tempo vinto, fosse all'opera un'energia mirata e determinata non solo a
prolungare la guerra ma anche a provocare letteralmente il totale
sfacelo del paese.
Già nell'autunno del 1944, quando gli avversari si avvicinarono alle
frontiere tedesche, Hitler aveva emanato una serie di ordini che
estendevano al territorio della Germania il principio della «terra
bruciata», già adottato, sia pure in modi differenti, durante le ritirate
dei fronti orientale e occidentale. Tutte le installazioni che potevano
servire alla prosecuzione della vita dispose Hitler con crescente
fermezza e determinazione dovevano essere distrutte: gli stabilimenti
industriali e le centrali di alimentazione e rifornimento, le
canalizzazioni, le linee ferroviarie, i collegamenti telefonici; ogni ponte
sarebbe dovuto saltare in aria, ogni fattoria bruciare, e non si sarebbero
dovuti salvare nemmeno i monumenti d'arte e gli edifici storici. Alcuni
mesi dopo, il 19 marzo 1945, Hitler aveva nuovamente ribadito e reso
ancora più radicale il suo proposito di produrre un «deserto di civiltà»
emanando il cosiddetto «ordine neroniano», il cui titolo significativo
era «Provvedimenti di distruzione nel territorio del Reich» e suonava
così: «Tutti gli impianti militari, le vie di comunicazione, gli
stabilimenti industriali, di distribuzione e per la diffusione delle
notizie, nonché tutti i beni materiali all'interno del territorio del Reich
di cui il nemico potrebbe in qualche modo profittare subito o entro
tempi brevi per la prosecuzione della guerra dovranno essere distrutti».
Diverse norme di attuazione precisarono poi l'ordine nei dettagli.
In molte località si cominciò allora subito con la demolizione delle
fabbriche, delle centrali di distribuzione e dei depositi di generi
alimentari; furono fatti saltare in aria i binari delle ferrovie e furono
rese impraticabili le vie d'acqua affondando nei canali chiatte cariche
di cemento. Contemporaneamente, come era già avvenuto durante la
fase dell'avanzata delle unità statunitensi a ovest, fu inasprita la prassi
di evacuare intere città o territori, e questo benché le masse di persone
che si mettevano così a vagare senza meta non facessero che
aumentare la confusione a ridosso dei fronti e ostacolassero le
operazioni militari. Quando uno dei generali tedeschi cercò di indurre
Hitler a recedere dal cosiddetto decreto di sgombero, perché non si
potevano mandare centinaia di migliaia di persone a incamminarsi a
casaccio senza mezzi di trasporto, vettovaglie e ricoveri, Hitler si
limitò a voltargli le spalle senza dire una parola. Un «decreto sulle
bandiere» stabilì che dovessero essere fucilati sul posto tutti gli
inquilini di sesso maschile delle case sulle quali fosse stata esposta una
bandiera bianca. La lotta, affermò una direttiva della fine di marzo,
doveva «essere proseguita nel modo più fanatico, senza riguardo
alcuno perché attualmente inattuabile per la popolazione civile».
Fraintenderebbe il senso di questi ordini chi li interpretasse come
l'estremo, disperato mezzo di difesa dinanzi all'avanzare d'un nemico
strapotente. Furono invece, sempre, il principale e prediletto strumento
usato da Hitler, poiché il proposito di demolire null'altro era che
l'espressione della sua più autentica voce. Che divenne, adesso, di
nuovo chiaramente udibile. La si era percepita fin da una delle
bellicose canzoni del «movimento» in fase di ascesa, quella che
prometteva di «fare tutto a pezzi», e poi era stata però sovrastata, dopo
la conquista del potere, dalla fraseologia roboante sull'onore nazionale,
dalle assicurazioni di pace e, più tardi, durante i primi anni di guerra,
dal chiasso propagandistico dei bollettini straordinari che annunciarono
le vittorie. Gli avversari politici interni del regime avevano
profeticamente cambiato, ancora nel corso degli anni Trenta, le parole
del ritornello della stessa canzone che, canticchiata da loro, suonò così:
«Perché oggi distruggiamo la Germania e domani il mondo intero!».
Con gli ordini di far «terra bruciata» quest'intento tornò a manifestarsi
scopertamente.
Quanto profondamente la volontà distruttrice fosse rimasta viva
dietro le finzioni suggerite dalla tattica negli anni di pace, si vide e si
capì non solo dai rimproveri che verso la fine Hitler continuò a
rivolgere a sé stesso, di essere stato troppo tenero e cedevole, oppure
dal dispiacere espresso da Goebbels di non essere riuscito a «fare a
pezzi» di più. Nell'esame della situazione bellica del 27 aprile, quando
la conversazione si soffermò sul problema di che cosa, dopo la vittoria,
si sarebbe potuto fare meglio di prima, prese la parola a un certo punto,
per fare un'osservazione che poté suonare cinica, anche il comandante
responsabile della «cittadella», il Gruppenführer delle ss Wilhelm
Mohnke: «Peccato di non essere riusciti a fare completamente ciò che
volevamo nel 1933, mio Führer!». Sennonché Mohnke non era un
cinico, e il momento non certo tale da giustificare un sia pure amaro
sarcasmo. Essendo uno dei più radicali fra i pretoriani del regime,
espresse piuttosto ciò che era rimasto sempre percettibile al di là di
tutte le massime sulla «salvezza del mondo»: la sconfinata volontà di
distruzione a cui si riduce essenzialmente la verità su Hitler e sui suoi
seguaci. Avevano avuto bisogno di nemici fin dai tempi dell'ascesa e
dell'affermazione, avevano derivato dall'esistenza dei nemici la
concezione di sé stessi, si erano definiti attraverso essi e, là dove erano
loro mancati i nemici, avevano fatto di tutto per crearseli. E sotto
questo aspetto non potevano certo dirsi falliti.
Non si creda che dalla parte di Hitler e dei suoi vi fosse, alla fine,
solo rancore e spavento. Furono semmai complessi sensi di
appagamento quelli che vennero a galla proprio nel momento del
disastro, e che li indussero a inscenare l'imminente sconfitta come uno
storico spettacolo di sfacelo. Già in marzo Goebbels aveva dichiarato
durante una conferenza stampa: «Se dovessimo affondare, affonderà
con noi l'intero popolo tedesco, e in un modo talmente glorioso che
anche fra mille anni l'eroica fine dei tedeschi sarà collocata al primo
posto nella storia universale».
L'intento di incidersi nella coscienza del mondo come un mito fu
l'altro movente di Hitler e del suo seguito più stretto. Per la fastosa e
truculenta cerimonia funebre che si organizzarono, pretesero, alla
stregua di certi preistorici capi tribali, il sacrificio di innumerevoli vite
umane: diverse decine di migliaia di vittime al giorno, dicono le
statistiche relative alle ultime settimane di guerra. Ne è un esempio la
sorte della 9a armata, quasi subito circondata dopo l'inizio
dell'offensiva sovietica sulla linea dell'Oder: le richieste dei suoi
comandanti, di aprirsi la strada combattendo, Hitler le respinse
ripetutamente finché l'armata fu totalmente annientata alla fine di
aprile. Un altro esempio, incomparabilmente maggiore, fu quello della
condotta di guerra nell'Europa orientale, esasperata al fine di farne una
«ideologica lotta di annientamento», e il cui inizio coincise
significativamente con l'avvio dei piani di eliminazione in grande stile
delle cosiddette razze inferiori, gli slavi e particolarmente gli ebrei.
Il regime operò tanto più radicalmente, quanto più disperata divenne
la situazione. Talora tentò di protrarre la sua volontà di distruzione
anche al di là della fine. Perfino il grand'ammiraglio Dönitz, che amava
considerarsi un comandante correttissimo anche se severo, non esitò a
esaltare degli assassini. In un «ordine del giorno riservato» del 19
aprile 1945 espresse il suo «pieno riconoscimento» e onorò come un
fulgido esempio un maresciallo maggiore della marina che, in un
campo di prigionia in Australia, aveva fatto «sistematicamente»
uccidere, come si legge testualmente, «e in modo che i sorveglianti non
se ne accorgessero», quei prigionieri tedeschi che si erano dichiarati
avversari del nazismo. E non fu un caso isolato. Non di rado si ha
l'impressione che il proposito di Hitler di far tabula rasa si sia
accentuato con il progredire del tempo. In numerosi discorsi e
conversazioni il dittatore parlò dell'alternativa fra una Germania
«potenza mondiale» e «il tracollo». In realtà quest'alternativa non
esisteva. Il suo intento mirò sempre, nelle più varie forme, alla
distruzione.
Gli sfoghi di disperazione cui Hitler si abbandonò nelle ultime
settimane traggono in inganno solo chi li guardi superficialmente. Lo
stesso si può dire per il suo autoillusorio movimentare armate
fantasmatiche, per i falsi segnali di vittoria che ritenne di cogliere o per
la più volte ribadita speranza di protrarre la propria vita almeno di
qualche giorno. Certo, furono anch'essi elementi del quadro. Ma più
evidenti e più forti furono l'odio universale e l'impulso alla distruzione
che si manifestarono negli ordini impartiti da Hitler specialmente dopo
l'inizio della guerra, quando poté darli libero da ogni scrupolo residuo.
Da un rapporto dell'allora capo di stato maggiore generale Franz
Halder risulta che, fin dalla campagna di Polonia, Hitler insistette
perché Varsavia, pur già disposta alla resa, fosse spietatamente
bombardata, eccitandosi al binocolo, con uno sguardo addirittura
avido, delle immagini di devastazione che vedeva. In seguito valutò
poi l'opportunità di infliggere analoghe distruzioni a Parigi, Mosca e
Leningrado, e immaginava con evidente soddisfazione gli effetti
devastanti che un attacco con bombe e missili avrebbe potuto produrre
nelle strade orlate di grattacieli di Manhattan.
Sennonché, troppe volte il suo istinto distruttivo era stato frustrato.
Ora che il suo Reich si disfaceva, riuscì finalmente a soddisfare quel
profondo bisogno, e si può esser certi che gli eventi catastrofici delle
ultime settimane gli diedero un appagamento maggiore di tutte le
fuggevoli vittorie del passato. Aveva già salutato le distruzioni
prodotte dai bombardamenti alleati con l'osservazione che le flotte
aeree nemiche non si attenevano ai piani ufficiali di demolizione per la
ristrutturazione delle città tedesche, però ne costituivano quanto meno
l'inizio: e quel che poté sembrare ironia era invece gelida serietà.
E' sicuramente fondata la supposizione che avrebbe preferito
inscenare in modo ancor più grandioso l'ultimo atto, perché risultasse
meno dettato dall'improvvisazione e organizzato invece più
melodrammaticamente, corredato da una ancor maggiore profusione di
pathos, orrore e apocalittici messaggi di saluto. Si prospettò comunque,
ai suoi occhi, come un'uscita di scena di degna e memorabile levatura.
In ogni caso, la fama che aveva cercato per tutta la vita non era mai
stata solo quella dell'uomo politico, del reggente di uno stato
assistenziale autoritario o del grande condottiero. Per appagarsi
d'ognuno di questi ruoli avrebbe voluto sfogare in essi, insieme a tante
altre aspirazioni, anche il troppo Wagner e il troppo bisogno di
dissoluzione che erano in lui. Era ancora un adolescente, quando
assisté per la prima volta nel teatro lirico di Linz, da un posto in piedi,
a una rappresentazione del Rienzi, opera di Wagner sulla storia di un
rivoltoso e capopopolo tardo-medievale, il quale, incompreso dal
mondo, vede fallire tragicamente i suoi sogni, sceglie infine la morte e
l'autodistruzione. «Fu quella l'ora in cui tutto cominciò!» confessò
decenni dopo, felice. Ora, dopo pochi altri anni, il tracollo della
Germania fu accompagnato da non minore euforia.
Le conseguenze negative sul suo stesso popolo, determinate dalle
sue iniziative, Hitler non si limitò a subirle, ma le perseguì addirittura
con crescente radicalismo. Fin dal 27 novembre 1941, quando con
l'inizio della catastrofe invernale alle porte di Mosca si era profilata per
la prima volta la possibilità della sconfitta, aveva esposto in rapida
successione a due visitatori stranieri lo stesso concetto: il popolo
tedesco sarebbe dovuto «crepare e... essere distrutto» il giorno in cui si
fosse dimostrato «non abbastanza forte e pronto al sacrificio», ovvero
non disposto a «pagare con il sangue la propria esistenza», e lui non lo
avrebbe «commiserato con una sola lacrima». E ad Albert Speer, il 19
marzo 1945, aveva detto in «tono glaciale»: «Se la guerra sarà perduta,
anche il popolo sarà perduto. Non è assolutamente necessario
preoccuparsi di salvare quanto occorre perché il popolo tedesco
sopravviva. Al contrario! E' molto meglio che si sia noi stessi a
distruggere tutto, anche questo minimo. Il nostro popolo ha dimostrato
di essere il più debole; l'avvenire appartiene esclusivamente al popolo
dell'Est, che è il più forte. Del resto, quelli che sopravviveranno a
questa lotta non saranno che gli infimi, perché i migliori sono caduti!».
A tutte le decisioni che Hitler prese, almeno a partire dalla battuta di
arresto di Stalingrado e dalla svolta della guerra, fu sotteso sempre
anche il motivo dell'odio contro i tedeschi che lo avevano deluso.
Quest'odio condizionò l'intera strategia dell'ultima fase del conflitto, a
cominciare dai continui, ripetuti rifiuti di costituire linee di
contenimento in vista dei prevedibili sfondamenti delle armate
avversarie, fino a quell'offensiva delle Ardenne del dicembre 1944 per
la quale distolse forti reparti dal fronte orientale al fine anche di
mobilitare e accentuare con l'aiuto dell'incombente «minaccia russa» la
volontà di resistenza della popolazione da tempo stanca della guerra.
Già due anni prima aveva dichiarato che in caso di necessità avrebbe
chiamato alle armi anche i quattordicenni perché sarebbe stato «sempre
meglio che muoiano battendosi contro l'Est piuttosto che siano umiliati
e angariati, nel caso d'una guerra perduta, e ridotti a compiere infimi
lavori da schiavi». Sul fronte occidentale, rilevò ora, furibondo, la
gente disfaceva gli sbarramenti anticarro e appendeva bandiere bianche
fuori dalle finestre nonostante tutte le minacce di punizione, e nel caos
generale si era dissolto senza lasciar tracce un intero corpo d'armata:
«E' vergognoso!». Quindi impostò via via la sua condotta, negli ultimi
scampoli di guerra, in modo che il conflitto si trasformasse in una
spedizione punitiva contro il suo stesso popolo, il quale doveva, come
aveva detto quattro anni prima, «crepare ed essere distrutto»: egli, in
omaggio alle «leggi eterne» della lotta per la sopravvivenza del più
forte, vi avrebbe contribuito per quanto era possibile.
Ogni ponderata valutazione induce ad affermare che fu proprio
questa volontà di sfacelo, perseguita con tenacia, a tenere in piedi
Hitler fino alla fine. In effetti la decrepitezza esteriore descritta da tutti
i testimoni il portamento curvo, l'incedere strascicante, i crescenti segni
di stanchezza nella voce è in apparentemente assurdo contrasto con
l'energia applicata nell'imporre la propria volontà che fu notata dagli
stessi osservatori: Hitler era una «rovina che ingurgitava dolci», come
lo ha definito uno degli inquilini del bunker, ma d'una autorità tuttora
suggestiva, mai messa in dubbio. A metà marzo si era presentato nel
bunker il Gauleiter Forster di Danzica e, spaurito e sconfortato, si era
sfogato nell'anticamera dicendo che i russi si erano presentati con un
imponente esercito e 1.100 carri armati davanti alla città: Danzica era
stata dichiarata caposaldo da tenersi a tutti i costi e invece non era
assolutamente in grado di difendersi, dato che disponeva in tutto di soli
quattro panzer modello Tigre. Avrebbe illustrato a Hitler le condizioni
disperate della situazione, aveva continuato Forster, e lo avrebbe
costretto a trarne le conseguenze. Di lì a poco quello stesso Forster era
però uscito «completamente trasformato» dallo studio di Hitler,
dichiarando che il Führer avrebbe salvato Danzica «indubitabilmente».
Da parte sua il generale delle ss Karl Wolff, presentatosi il 18 aprile
con intenzioni analoghe, fu dissuaso dall'intento di scongiurare Hitler
di recedere da certe sue decisioni, grazie ai progetti grandiosi che lo
stesso Führer gli prospettò per i tempi a venire.
Particolarmente vistosa risulta a ogni esame, considerata nel
complesso e al di là di tutte le sue abili capacità di persuasione, l'aridità
di Hitler in campo politico. La sua incapacità di pensare oltre i più
immediati scopi militari emerge evidentissima dai fatti. Nel corso degli
anni Trenta, con sempre nuove manovre a sorpresa e con una
mescolanza di minacce e di giuramenti di correttezza aveva conseguito
successi su successi in campo politico, e raggiunto in un tempo
incredibilmente breve il suo primo obiettivo, quello di distruggere il
sistema dei rapporti di potere in Europa. Fin dal 1937 il suo
comportamento dà tuttavia l'impressione che fosse annoiato da questi
facili trionfi e che volesse finalmente tornare all'«unico vero
principio», quello di colpire a ogni costo, al quale, come si vantò in un
discorso, si era sempre attenuto in vita sua.
Sta di fatto che da allora, ancor prima dell'inizio della guerra, non
venne più da parte sua una sola iniziativa politica. Intascò
altezzosamente nel 1938 l'atteggiamento tanto singolare quanto vile
delle potenze occidentali durante la conferenza di Monaco,
mostrandosi irritato solo perché in quel modo gli avevano tolto la
soddisfazione di avviare subito quella guerra alla quale già allora
mirava risolutamente. Parimenti, specialmente dopo la vittoria sulla
Polonia e ancor più, l'anno successivo, dopo quella sulla Francia,
avrebbe avuto ripetutamente l'occasione di garantire al Terzo Reich
una specie di egemonia sull'Europa. Invece Hitler non vide affatto
l'opportunità che gli si prospettò, e men che meno tentò quindi di
mettervi mano. Sembrava quasi che i successi militari lo
imbarazzassero perché non sapeva che vantaggi trarre da una
situazione senza guerra.
La convinzione che un lungo periodo di pace come dichiarò nel 1939
ai suoi generali «non avrebbe fatto bene al popolo» fu probabilmente
sottesa anche alla totale assenza di iniziative politiche negli anni
seguenti. Tutti i consigli del suo entourage, nonché di esponenti politici
stranieri come Mussolini, Horthy o Laval, di vagliare la situazione
bellica alla luce delle vie d'uscita diplomatiche, rimasero vani.
Soprattutto dopo la svolta del conflitto, nell'inverno 1942-43, continuò
bensì a giustificare la prosecuzione della guerra con l'argomento che
doveva essere imminente la rottura dell'«insensata coalizione fra il
bolscevismo e il capitalismo», e che soltanto allora sarebbe
eventualmente venuto il momento di intavolare proficue trattative.
Però, ogni qual volta gli si offrì l'opportunità di provocare o almeno di
accentuare i dissidi fra le potenze avversarie, se la lasciò sfuggire,
tanto da indurre Goebbels a scrivere nel suo diario, con irritazione, che
lui insisteva e insisteva con Hitler ma che aveva «a volte l'impressione
che lui viva fra le nuvole». Sebastian Haffner ha desunto da queste
considerazioni e constatazioni l'ipotesi che a Hitler mancasse
completamente la fantasia costruttiva dell'uomo di stato, e che avesse
perduto, quanto meno dalla fine degli anni Trenta, ogni capacità di
movimento tattico. Null'altro che questo «difetto delle sue qualità»
sarebbe divenuto infine la causa del suo fallimento.
Si può andare anche più in là, e giungere alla conclusione che Hitler
non sia stato altro, vita natural durante, che un capobrigante di
successo, temprato da tutti i trucchi d'un machiavellismo da trivio, di
cui nessuno degli uomini politici meticolosi e apprensivi della scena
europea fu mai all'altezza. Fu proprio l'assoluta mancanza di scrupoli,
sia in fatto di mezzi da impiegare che di scopi cui mirare, ad aiutarlo
per qualche tempo a conseguire i tanti e ammirati successi. Come un
capobrigante, non perseguì mai altro obiettivo che non fosse quello di
massacrare e di arraffare. In ogni caso il conflitto in cui si avventurò
con crescente tracotanza contro quasi tutto il mondo non ebbe
significativamente come videro già i suoi generali e hanno in seguito
constatato non senza stupore tutti gli osservatori alcun obiettivo bellico
anche solo approssimativamente descrivibile. Nel febbraio del 1941,
quando si cullava ancora nell'illusione di poter concludere entro il
successivo autunno la campagna contro l'Unione Sovietica, chiese al
generale Jodl, di fronte alla per lui imminente e minacciosa prospettiva
della pace, uno «studio sistematico» in previsione di un'aggressione
contro l'India e l'Afghanistan.
Chiunque tentasse di sapere da lui per quale scopo stava
combattendo, non si sentiva prospettare mai altro che esaltate visioni di
«spazi infiniti», tirate retoriche sulle immense riserve di materie prime,
sui popoli «ausiliari» e sulle «frontiere eternamente sanguinanti».
Neppure le annotazioni delle conversazioni e dei monologhi del
periodo compreso fra il febbraio e l'aprile del 1945, che costituiscono
una specie di post scriptum delle sue visioni di dominazione del
mondo, contengono il benché minimo indizio che abbia mai guardato
ai territori conquistati se non come a trampolini di lancio per altre
conquiste: agì sempre con tenacia insaziabile ma senza obiettivi o
traguardi, guidato soltanto da quella «legge primordiale» del diritto del
più forte che egli riteneva smarrita dagli altri e da lui soltanto
ristabilita. Quando il suo ministro degli esteri, nell'autunno del 1943,
tentò di convincerlo di non lasciare senza risposta un'avance russa per
arrivare a una possibile pace, rispose, alzando le spalle: «Sa,
Ribbentrop, se oggi mi mettessi d'accordo con i russi, domani salterei
loro addosso di nuovo... perché io non so fare diversamente».
Hitler come disse in un'occasione voleva entrare nella storia come un
uomo «mai esistito». Le circostanze della sua fine, in quella che uno
degli inquilini definì la sotterranea «tana della morte», gli ordini
impotenti e gli attacchi d'ira con i quali tentò di opporsi alla sconfitta
che si stava avvicinando danno l'impressione che si fosse in un certo
senso prefigurato il suo scellerato fallimento. Però era anche
sicuramente convinto che una fine grandiosa lo avrebbe compensato di
molto e avrebbe costituito anch'essa una soddisfazione.
Significativamente, anche l'ultima espressione di volontà di Hitler, la
quale svelò per l'ennesima volta come un simbolo l'impulso dominante
della sua esistenza, fu un ordine di distruzione: la disposizione
impartita verso il mezzogiorno del 30 aprile di bruciare il suo cadavere.
7. Capitolazioni

La sera del 30 aprile, bruciati i corpi e sotterrate le ceneri, il gruppo


dei superstiti rimasti senza Führer senza guida si riunì per una
prolungata consultazione. Dopo qualche tira e molla, Bormann propose
una sortita in massa da effettuare secondo tutte le regole militari e con
l'impiego dei duecento e passa ss della «Leibstandarte», la guardia del
corpo cui era affidata la protezione e la difesa della Cancelleria del
Reich. Sennonché Mohnke fece notare ai presenti che un simile
proposito era non solo senza prospettive ma addirittura assurdo. Allora
gli «orfani di Hitler» si accordarono nel senso di cominciare ad
avviare, per intanto, delle trattative con il comando sovietico, e di
inviare per questo scopo il generale Krebs a Tempelhof, perché vi
incontrasse il generale Ciuikov.
Krebs si avviò verso le 2 di notte e, un'ora e mezzo dopo, arrivò dalle
parti del Schulenburgring dove Ciuikov si era sistemato in un
appartamento privato. Colto alla sprovvista da quell'improvvisa
proposta di dialogo, al comandante sovietico mancò il tempo di
convocare il suo stato maggiore, e decise quindi di spacciare i due
scrittori con i quali stava giusto per sedersi a tavola, il suo aiutante
maggiore e alcuni sottufficiali, per il suo più stretto «consiglio di
guerra». Fra i presenti c'era anche il musicista Matvej I. Blanter che era
stato incaricato da Stalin di comporre una sinfonia sulla conquista di
Berlino. Quando si constatò che Blanter non aveva un'uniforme e non
poteva dunque essere spacciato per un ufficiale dell'Armata Rossa,
l'irruente generale Ciuikov lo fece sbrigativamente rinchiudere in un
armadio ordinandogli di non fare il benché minimo rumore.
Krebs, dopo alcuni preliminari, venne presto al dunque. Cominciò
col dire a Ciuikov che era il primo straniero al quale egli rivelava che
Hitler si era suicidato il giorno precedente, nel bunker della Cancelleria
del Reich, assieme alla signora con la quale si era poco prima unito in
matrimonio. Ciuikov, che ignorava l'esistenza di un bunker sotto la
Cancelleria, non aveva mai sentito parlare di una Eva Braun e non
sapeva ovviamente neppure che Hitler si era ucciso, rimase impassibile
e dichiarò che quelle erano tutte cose di cui era già al corrente. Allora
Krebs gli lesse uno scritto preparato da Goebbels. Comunicava i
termini in cui Hitler aveva provveduto alla sua successione e
proponeva infine di avviare «trattative di pace fra i due stati che hanno
avuto le maggiori perdite in questa guerra».
Ciuikov non esitò un attimo. Senza neppur spenderci troppe parole,
respinse seccamente il tentativo fin troppo scoperto e comunque
tardivo di creare dissapori fra gli alleati con un accordo separato.
Chiese comunque di poter disporre di un po' di tempo prima di
proseguire la conversazione e decise a quel punto di far avvisare il
maresciallo Zukov che era a Strausberg. Zukov, a sua volta, fece
svegliare Stalin. L'esito della rapida consultazione fu quello
prevedibile. Sia l'uno che l'altro degli interpellati respinsero la proposta
di avviare trattative bilaterali e anche quella di un momentaneo
armistizio. L'unico argomento sul quale era stato autorizzato a
discutere, comunicò Ciuikov, era quello della capitolazione
incondizionata dei tedeschi: a Berlino o eventualmente anche in tutto il
Reich.
Come in ogni tragedia, non mancò neanche in questa l'intermezzo
comico. Dopo un paio d'ore infatti, con sorpresa di tutti, il musicista
Blanter, dimenticato nel suo nascondiglio, cadde rovinosamente fuori
dall'armadio e finì lungo disteso per terra nella stanza dove era in corso
la riunione. Soccorso e trasportato l'uomo svenuto in una delle stanze
vicine, la discussione proseguì senza che i russi fornissero alcuna
spiegazione dell'incidente.
Una prolungata disputa si ebbe quando Krebs dichiarò di non poter
corrispondere alla richiesta di capitolazione senza essersi
preventivamente consultato con Goebbels e Dönitz. Infine i russi gli
consegnarono un foglio di carta con le loro cinque condizioni: «1)
Capitolazione di Berlino. 2) Tutti coloro che capitoleranno dovranno
deporre le armi. 3) A tutti i soldati e ufficiali tedeschi sarà garantita
salva la vita. 4) I feriti saranno assistiti. 5) Via radio, la trattativa di
resa sarà estesa agli alleati». Se queste condizioni non fossero state
accolte, aggiunse Ciuikov, i combattimenti sarebbero stati
immediatamente ripresi con tutte le forze a sua disposizione.
Erano passate dodici ore quando Krebs poté infine avviarsi per
tornare alla Cancelleria.
Goebbels si mostrò indignato. Ricordò che era stato lui, dodici e più
anni prima, a strappare la città di Berlino ai «rossi» e che ora l'avrebbe
difesa da loro «fino all'ultimo respiro». «Le poche ore che mi
rimangono da vivere come cancelliere del Reich germanico», aggiunse,
«non le impiegherò certo per mettere la mia firma sotto una
dichiarazione di capitolazione».
Visto che i presenti, sconvolti e intenti a discutere confusamente fra
di loro, parevano essere d'accordo solo sul fatto di interrompere tutti i
contatti e di non intraprendere altri passi, Hans Fritzsche, uno dei più
alti funzionari del ministero di Goebbels, decise di offrire di sua
iniziativa e all'insaputa degli altri la capitolazione ai russi.
Raggiunse il suo ufficio nel Wilhelmsplatz e preparò uno scritto
indirizzato al maresciallo Zukov. Non lo aveva ancora completato che
fece irruzione nella stanza il generale Burgdorf, ubriaco, e domandò
fremente di rabbia se Fritzsche aveva davvero l'intenzione di
consegnare la città ai russi. Quando Fritzsche glielo confermò,
Burgdorf gli urlò di prepararsi a essere immediatamente fucilato
perché, anche a prescindere dal fatto che lui Fritzsche, in quanto civile,
non aveva nessuna veste per trattare, era ancora in vigore l'ordine del
Führer che vietava, pena la morte, qualsiasi forma di capitolazione.
Con mano incerta il generale ubriaco sollevò la pistola e la puntò
sull'interlocutore, però il radiotecnico che lo aveva accompagnato da
Fritzsche e che stava aspettando sulla porta riuscì a intervenire in
tempo: colpì la mano di Burgdorf e la pallottola si piantò nel soffitto
della stanza. Bastarono pochi minuti perché Burgdorf fosse sopraffatto
da alcuni impiegati del ministero, subito accorsi, e ricondotto nel
bunker sotto la Cancelleria.
Fritzsche, immediatamente dopo, spedì due dei suoi funzionari oltre
le linee, incontro ai sovietici, e li seguì di lì a poco anche lui.
Forse nulla rende meglio l'idea della situazione caotica in cui si
trovava Berlino mentre i combattimenti proseguivano con immutata
violenza almeno in alcuni settori della città dell'accordo che Fritzsche
stabilì in breve tempo con il comando sovietico. Secondo quanto fu
convenuto, egli avrebbe dovuto comunicare per radio, a nome del
governo tedesco ma senza esserne stato minimamente autorizzato, che
la parte sovietica aveva accettato la capitolazione. Dopo di che avrebbe
impartito l'«ordine» di cessare i combattimenti e intimato alle truppe
tedesche di consegnarsi ai russi insieme alle armi e a ogni altro
equipaggiamento.
Nel frattempo anche il comandante della piazza di Berlino, generale
Weidling, aveva per parte sua deciso di porre fine a un versamento di
sangue divenuto ormai da tempo insensato. Per non incontrare
opposizione, aveva avvisato del suo intento, nel bunker, solo poche
persone di fiducia. Sapeva come la pensava Goebbels, e il generale
Krebs, nel congedarlo, gli aveva tronfiamente detto: «Esistono soltanto
uomini disperati, non situazioni disperate».
La sera del 1o maggio Weidling ordinò alle sue truppe di porre fine
alle azioni belliche. Pochi minuti dopo la mezzanotte inviò per cinque
volte consecutive un messaggio radio in chiaro verso le linee
sovietiche: «Qui parla la Lvi armata corazzata tedesca! Qui parla la Lvi
armata corazzata tedesca! Vi preghiamo di cessare il fuoco! Alle ore
2.50 di Berlino invieremo parlamentari sul ponte di Potsdam. Segno di
riconoscimento: bandiera bianca davanti a una luce rossa. Rispondete
per favore! Siamo in attesa!».
L'altra parte si fece viva quasi subito: «Abbiamo capito! Abbiamo
capito! Stiamo inoltrando la vostra richiesta al capo di stato
maggiore!». I tedeschi non dovettero aspettare a lungo. Ciuikov fece
trasmettere il suo assenso e, all'ora convenuta, Weidling si presentò
sullo Schulenburgring accompagnato da tre ufficiali del suo comando.
Quando Ciuikov chiese dove fosse Krebs e se fosse informato
dell'iniziativa, Weidling evitò di rispondere. A un'ulteriore domanda,
se il suo ordine di cessare il fuoco avesse raggiunto tutti i reparti,
Weidling fece notare di aver perduto i contatti con alcune unità minori
e inoltre che le ss non sottostavano alla sua autorità. Probabilmente,
proseguì, i combattimenti sarebbero qui o là continuati se non altro
perché Goebbels aveva ordinato di tenere per il momento segreta la
notizia della morte del Führer per non deprimere il morale delle truppe.
A quel punto Ciuikov lo invitò a mettere su carta un ordine di
capitolazione, però Weidling si rifiutò di farlo. Essendo egli in quel
momento nelle mani dei sovietici, non poteva impartire ordini a
nessuno. La disputa si protrasse e si accalorò tanto che il generale
Weidling, a un certo punto, fu colto da una crisi di nervi. Si dovette
aspettare che si riprendesse e soltanto allora le parti si accordarono nel
senso che in tutti i luoghi in cui erano ancora in corso combattimenti
sarebbe stato diramato con gli altoparlanti un appello che Weidling
redasse in questi termini:
«Berlino, 2 maggio 1945. Il giorno 30 aprile il Führer si è suicidato,
abbandonando in tal modo tutti coloro che gli avevano prestato
giuramento di fedeltà. Ligi all'ordine del Führer, voi soldati tedeschi
eravate pronti a continuare a combattere per Berlino benché le vostre
munizioni stessero per finire e la situazione complessiva rendesse
insensata un'ulteriore resistenza. Dispongo ora l'immediata cessazione
di ogni forma di attività bellica. Ogni ora che voi doveste continuare a
combattere non farebbe che protrarre le terribili sofferenze della
popolazione civile e dei nostri feriti. D'accordo con il comando
supremo delle truppe sovietiche, vi chiedo di deporre immediatamente
le armi. Weidling, ex comandante della difesa della piazza di Berlino».
Fu in questo modo che la resistenza confusa che stava continuando
senza ordini e coordinamento, per iniziativa propria dei singoli reparti,
fu raggiunta dalla sollecitazione alla resa.
Il giorno prima Goebbels e Bormann si erano finalmente decisi ad
avvertire Dönitz della morte di Hitler. Falsamente, la sera del 30 aprile
era stato comunicato al grand'ammiraglio soltanto che egli era stato
nominato eventuale successore del Führer al posto del destituito
maresciallo del Reich. In realtà Hitler aveva attribuito al
grand'ammiraglio la presidenza del Reich e il comando supremo della
Wehrmacht, ma non la carica di cancelliere. La reticenza di Goebbels e
di Bormann non era stata dettata soltanto dalla volontà di ritardare il
più possibile la diffusione della notizia della morte di Hitler: con il loro
ingannevole silenzio non avevano fatto altro che proseguire la solita,
accanita e sorda lotta per il potere. Entrambi temevano infatti che
Himmler, finito da qualche parte nello Schieswig-Holstein, potesse
approfittare del fatto che Goebbels, a Berlino, non era nelle condizioni
di indurre Dönitz a conferire a lui la carica di cancelliere. Il
grand'ammiraglio invece questo il loro calcolo non avrebbe ceduto
l'incarico a nessuno fino a quando avesse considerato sé stesso il
cancelliere nominato da Hitler.
Cessata la comunicazione radio, Goebbels si dedicò alle poche
incombenze che le funzioni di cancelliere, a suo modo di vedere, gli
imponevano ancora di sbrigare. Ebbe alcuni colloqui, appose alcune
firme e infine si ritirò per concludere il diario che stava scrivendo da
anni. Alla fine formulò una specie di bilancio e stilò un memoriale di
sette pagine in cui giustificò la politica che aveva attuato per anni con
Hitler e di cui era stato il persuasivo patrocinatore.
Dopo circa un'ora Goebbels lasciò la sua stanza e consegnò il
manoscritto al sottosegretario Werner Naumann con la preghiera di
trovare il modo di farlo uscire da Berlino e di preservarlo per i posteri.
Tuttavia il suo proposito fallì perché Naumann, come poi sostenne,
perdette i fogli nella confusione dei giorni della fuga. Non è tuttavia
difficile ricostruire che cosa avrebbe voluto dire con quella sua difesa,
almeno a grandi linee e sulla base dei testi ai quali Goebbels stava
lavorando da tempo e con particolare intensità nelle ultime settimane.
L'avvio fu certamente costituito, anche stavolta, da quella
concatenazione di giustificazioni che da sempre aveva addotto per
spiegare l'operato suo e di Hitler, a cominciare dalla volontà di
difendere la cultura europea e dai giudizi di condanna dell'Occidente
che, per cieco odio verso il Reich, aveva negato l'esistenza
dell'incombente, mortale pericolo e abbandonato il vecchio continente
alle orde asiatiche. Poi la sua critica si rivolse sicuramente alle proprie
fila, rivelatesi non solo infiacchite dai continui tradimenti delle vecchie
classi dirigenti, ma anche incapaci di combattere la guerra totale con la
necessaria determinazione. Il tutto accompagnato e accentuato dalle
immagini esaltate di una lotta universale fra potenze luciferine degli
inferi da una parte e schiere dell'ordine e della giustizia dall'altra, con
Hitler nelle vesti del condottiero-messia. Si rifece insomma ancora una
volta a quelle metafore e a quei ragionamenti parareligiosi con i quali,
quasi vent'anni prima, aveva creato e consolidato sino a renderlo
irresistibile il mito del Führer. Di lì a pochissimo, così come già in
altre occasioni potrebbe aver concluso blasfemicamente, quando
l'Europa fosse stata in mano ai bolscevichi, avrebbe ricordato e
rimpianto il Führer che era salito ancora una volta sul Golgota a
sacrificare la sua vita per la redenzione del mondo.
In serata Magda Goebbels raggiunse il suo alloggio nell'ante-bunker.
Si era incontrata più volte con uno dei medici personali di Hitler, il
dottor Stumpfegger, e con l'aiutante maggiore dell'amministrazione
sanitaria delle ss dottor Kunz, per farsi dire come avrebbe potuto
uccidere rapidamente e senza farli soffrire i suoi figli. Aveva già
consegnato a Hanna Reitsch uno scritto indirizzato al figlio di primo
letto, Harald Quandt, in cui aveva tentato di giustificare ciò che si
apprestava ora a fare. Aveva deciso così diceva la lettera di dare alla
sua vita di nazionalsocialista «l'unica, onorevole conclusione
possibile». E poi aveva proseguito: «Sappi che sono rimasta con papà
contro la sua volontà, e che il Führer avrebbe voluto, ancora domenica
scorsa, aiutarmi a uscire di qui. Ma non ho avuto bisogno di pensarci
troppo. La nostra splendida idea affonda, e con lei affonda tutto ciò che
di bello, ammirevole, nobile e buono ho conosciuto in vita mia. Il
mondo che verrà dopo il Führer e dopo il nazionalsocialismo non sarà
tale che possa valere la pena di viverci, ed è per questo che ho portato
qui con me i bambini. Il mondo che verrà dopo sarebbe indegno di loro
e un dio pietoso mi capirà se io stessa li libererò da questa
prospettiva». Aveva concluso scrivendo che la possibilità sua e della
famiglia di finire l'esistenza assieme al Führer era un «atto di
misericordia del destino» nel quale non aveva mai osato sperare.
In un breve post scriptum Goebbels aveva aggiunto che, assieme alla
sua famiglia, intendeva dare un esempio che avrebbe ridato forza alla
Germania quando la terribile guerra fosse stata superata. E lui, suo
figliastro, non si lasciasse confondere «dal chiasso del mondo»: «Le
menzogne un giorno crolleranno e su di loro trionferà la verità. E verrà
l'ora in cui noi ci leveremo più in alto di tutti, puri e senza macchia...».
Era la sera del 1o maggio quando Magda Goebbels mise a letto i suoi
figli dando loro da bere un sonnifero, praticò forse loro anche delle
iniezioni di morfina e fece infine cadere nelle loro bocche tenute
aperte, in presenza del dottor Stumpfegger, gocce di acido prussico.
Soltanto la figlia maggiore Helga, che già nei giorni precedenti aveva
chiesto, inquieta, che cosa ne sarebbe stato di tutti loro, sembra essersi
difesa. Gli ematomi poi riscontrati sul corpo della ragazzina di 12 anni
inducono a ritenere che il veleno non le fu somministrato senza
l'impiego della forza. Grigia in volto e pronunciando le parole «E'
fatta!», Magda Goebbels scese quindi nel settore inferiore del bunker
dove l'aspettava il marito, e raggiunse assieme a lui l'alloggio dove si
mise a fare, piangendo, un solitario.
Poco dopo vennero anche Bormann e Artur Axmann, e Magda
Goebbels li invitò a restare: «Sediamoci insieme un'ultima volta»,
disse, «come usavamo fare negli anni della lotta». E infatti, per qualche
tempo, si sedettero attorno a un tavolo scambiandosi ricordi degli anni
passati, quelli in cui avevano avuto deboli oppositori e potuto coltivare
grandi speranze. Di tanto in tanto le rievocazioni furono interrotte da
questo o da quell'altro inquilino del bunker che si presentava per
congedarsi. Goebbels aveva già ottenuto dal suo aiutante maggiore,
l'Hauptsturmführer delle ss Günter Schwägermann la promessa che
avrebbe provveduto a far bruciare i loro corpi.
Verso le 8 e mezzo di sera Goebbels si alzò improvvisamente e
raggiunse lo spogliatoio. Si mise il berretto, si infilò i guanti e,
accompagnato dalla moglie e passando accanto ai pochi ancora
presenti, raggiunse l'uscita del bunker. Magda Goebbels si era
appuntata sul petto il distintivo d'oro del partito appartenuto a Hitler e
che questi le aveva donato tre giorni prima. Una sola volta, già ai piedi
delle scale, Goebbels disse alcune parole non aveva più bisogno di lui
al telefonista Rochus Misch che lo stava aspettando. Poi, già
nell'andarsene, aggiunse: «Le jeux sont faits».
Sopra, sulla soglia del bunker, la coppia si fermò per un breve attimo
e poi uscì al riverbero degli incendi che divampavano tutt'attorno.
Quando Schwägermann ebbe l'impressione di udire un colpo di pistola,
fece segno agli uomini delle ss che erano già pronti e, risalendo
insieme le scale, portarono fuori diverse taniche di benzina. Poiché
Goebbels aveva chiesto che si accertasse, prima di bruciare i loro
corpi, che lui e sua moglie fossero effettivamente morti,
Schwägermann convocò una sentinella che sparò alcuni colpi sui
cadaveri che erano a terra proprio accanto all'uscita del bunker. Poi
vennero gli altri uomini, versarono la benzina sui due corpi, e diedero
loro fuoco. Ripetutamente, dai cadaveri, si levò una violenta fiammata
che si spense poi però ogni volta dopo pochi minuti. Ma tutti erano
ormai troppo assillati dal problema di fuggire per indugiare ancora a
lungo, e ben presto nessuno si occupò più di ciò che, semicarbonizzato,
era rimasto dei cadaveri nel giardino della Cancelleria.
Sbrigate le poche cose che erano rimaste da fare, bruciati i
documenti più importanti e provvistisi delle cose più indispensabili,
quanti erano rimasti nel bunker si radunarono a quel punto nel settore
superiore. Per evitare che cadessero intatti in mano nemica i locali che
erano stati nei mesi passati non solo il centro di comando del Reich ma
anche l'alloggio privato di Hitler, Mohnke diede l'ordine di dar fuoco al
bunker del Führer. Furono Schwägermann e i suoi ss a portare
nuovamente le taniche con la benzina, le rovesciarono nello studio di
Hitler e gli diedero fuoco. Sennonché, nell'abbandonare il bunker,
chiusero l'ermetica porta blindata e così il fuoco non poté dilagare e si
limitò ad annerire i mobili e le pareti.
Nel frattempo Mohnke, dopo averli fatti convocare, stava
informando i comandanti delle unità dislocate nel quartiere
governativo dei più importanti eventi delle ultime ore. Disse loro del
tradimento di Himmler, dell'esecuzione di Fegelein, delle nozze e del
suicidio di Hitler nonché della fine di Goebbels e della sua famiglia,
delle vane speranze di essere liberati dalla morsa avversaria via via
riposte in Wenck, Steiner, Holste e Busse, e delle trattative interrotte
senza risultato fra Krebs e Ciuikov. Infine rispedì ai loro reparti gli
ufficiali costernati, che in precedenza avevano avuto solo vaga e
parziale notizia di tutti quei fatti, non senza aver comunicato loro che il
comandante di piazza generale Weidling aveva dato disposizione di
cessare i combattimenti un'ora prima della mezzanotte. Ogni unità,
aggiunse Mohnke, doveva cercare di aprirsi la strada verso nord e
tentare di raggiungere il territorio ancora sotto il controllo del governo
Dönitz.
Mancavano pochi minuti alle 23 quando cominciò l'esodo degli
abitanti del bunker. Solo Krebs, Burgdorf e pochissimi altri decisero di
rimanere. Mohnke aveva formato dieci gruppi, ognuno di venti o più
persone. A distanza di pochi minuti l'uno dall'altro, questi gruppi
uscirono da una finestra della cantina situata sotto quello che era stato
il «balcone del Führer» nella Cancelleria, attraversarono il
Wilhelmsplatz devastato e illuminato a giorno dagli incendi, e
sparirono poi, incespicando e scivolando, nella rampa di accesso,
ingombra di detriti, alla stazione «Kaiserhof» della metropolitana.
Seguendo i binari, si diressero, in un certo senso sotto le linee russe,
verso la stazione «Friedrichstrasse» e poi, da lì, come era stato
previsto, lungo il tunnel della metropolitana che passa sotto la Sprea, in
direzione della stazione «Stettino». La luce pallida delle torce tascabili
che alcuni di loro avevano con sé inquadrò morti, feriti o persone in
cerca di riparo accucciate in fitte file lungo le pareti delle gallerie o fra
le traversine, e ovunque c'erano capi d'uniforme, maschere antigas,
cassette di munizioni e mucchi di immondizia. Nei pressi della
stazione «Stadtmitte», in una vettura abbandonata della metropolitana,
era stato allestito un posto di medicazione in cui alcuni medici
assistevano feriti e moribondi a lume di candela.
Il primo gruppo, con Günsche, Hewel, Voss e le segretarie era
guidato dallo stesso Mohnke, il secondo da Rattenhuber, e del terzo
gruppo, affidato a Naumann, facevano parte Baur e quel Martin
Bormann che, presentatosi nell'uniforme di un generale delle ss, aveva
telegrafato ancora quella mattina a Dönitz per assicurarlo che lo
avrebbe raggiunto «il più rapidamente possibile». Erich Kempka,
l'autista di Hitler, guidava un gruppo d'un centinaio di persone formato
prevalentemente da militari di truppa e da impiegati della Cancelleria.
L'intenzione originale, di mantenere il contatto fra i vari gruppi, si
rivelò ben presto irrealizzabile. I collegamenti si interruppero già poco
dopo l'ingresso nel tunnel della metropolitana, nel quale, non
illuminato, si spezzarono poi anche i singoli gruppi. Parte degli uomini
fuggiti dal bunker si allontanarono dagli altri e tentarono di lasciare le
gallerie attraverso alcune delle uscite della metropolitana, per essere
però poi subito di nuovo ricacciati nei cunicoli dalle continue
sparatorie e dalle piogge di sassi e di altre schegge. Il piano preparato
durante le consultazioni che avevano preceduto l'uscita dal bunker, di
filtrare attraverso le linee russe per unirsi, nella zona settentrionale
della città, nei pressi di Oranienburg, alle unità che si supponeva
ancora vi combattessero, si rivelò completamente inattuabile.
Vagando ognuno per proprio conto nelle gallerie, alcuni gruppetti di
coloro che avevano abbandonato le catacombe sotto la Cancelleria
finirono anche con l'incontrarsi di nuovo. Verso le 2 di notte Bormann
fu visto, esausto e indeciso, fuori dal tunnel, sulla scalinata di pietra
d'accesso a una casa della Chausseestrasse. Altri, usciti anch'essi
all'aperto, seguendo le stradine scavate fra le macerie, passando per le
cantine e per i cortili interni degli edifici, si diressero verso la fabbrica
di birra Schultheiss, nel viale Schönhauser, che era stata indicata come
uno dei primi, provvisori punti di raccolta. Molti morirono incappando
nei combattimenti ancora in corso fra le case o che opponevano spesso,
in una miriade di scontri stradali, solo singoli carri armati. Nei pressi
del ponte di Weidendamm caddero Högl e il secondo capitano pilota di
Hitler, Betz. Walter Hewel, forse per mantenere una promessa che gli
era stata strappata da Hitler, si suicidò nella fabbrica di birra del
quartiere di Wedding.
Un folto gruppo dei fuggitivi, comprendente fra gli altri Mohnke con
il suo stato maggiore, nonché Günsche, Baur, Linge, Rattenhuber,
Voss e altri, fu catturato nei giorni seguenti dai sovietici e mandato in
prigionia. Altri, come Axmann, Schwägermann e le segretarie del
bunker riuscirono invece a dileguarsi verso occidente. Quando i russi
occuparono la Cancelleria e scesero fino al bunker più profondo,
s'imbatterono, in quella che era stata la sala delle riunioni, nei generali
Burgdorf e Krebs che, circondati da numerose bottiglie vuote,
sedevano morti attorno al tavolo ingombro di carte topografiche.
Martin Bormann fu a lungo considerato disperso. Ma già poco dopo la
fine della guerra emersero elementi per concludere che si era suicidato
nei pressi della stazione ferroviaria di Lehrt assieme al medico delle ss
dottor Stumpfegger. All'inizio degli anni Settanta il ritrovamento di
alcuni scheletri confermò la notizia. Quei pochi resti, ridotti in cenere,
furono poi sparsi nel mar Baltico.
Nonostante l'«invito» di Weidling a por fine alla resistenza, in alcuni
punti della città i combattimenti proseguirono per tutto il 2 maggio e
non smisero neppure il giorno successivo. Cessarono invece gli incendi
o finirono col soffocare fra le nere nuvole di fumo che salivano dalle
montagne di macerie. La notizia della capitolazione, a causa delle
numerose interruzioni di linea, non aveva raggiunto una parte degli
ufficiali tedeschi, altri ignorando gli appelli o le semplici voci che
giravano di strada in strada preferirono attenersi alle ultime
disposizioni che avevano ricevuto, di conservare a ogni costo le loro
posizioni: come soldati, loro avevano bisogno di ordini, non di dicerie.
Alcuni drappelli sparsi, formati comunque nel complesso da diverse
migliaia di uomini, giudicavano ogni trattativa col nemico un
«tradimento» ed erano risoluti a continuare a combattere. Il 2 maggio
una di queste unità fece saltare in aria il tunnel che passava sotto il
canale detto della Landwehr l'antico sistema di difesa della città , in cui
si era rifugiato un grande numero di feriti e di civili in cerca di riparo.
Però la catastrofe non si verificò, perché le masse d'acqua si dispersero
presto: perfino la natura era stanca di quel continuo massacro,
commentò la gente.
In un altro punto della città un reparto tedesco riuscì a calare nelle
gallerie alcuni pezzi d'artiglieria leggera e continuò a sparare tutte le
munizioni di cui disponeva sui sovietici che li attaccavano. Un
manipolo di ss, dopo esseri fatti consegnare tutto ciò che di alcolico era
rimasto nello spaccio del loro ricovero, andarono a gettarsi di corsa
ubriachi, come si legge in un rapporto «sotto i cingoli dei carri armati».
Spettralmente, una mattina, poco prima della presa del quartiere
governativo da parte delle truppe sovietiche, furono issate su tutti gli
edifici e sulle montagne di macerie, in un largo raggio attorno alla
Cancelleria, le bandiere con la croce uncinata. Una prima voce attribuì
a un gruppo clandestino della resistenza, forse formato da comunisti,
l'iniziativa di quest'azione, che sarebbe stata fatta per indicare ai russi
la dislocazione del maggiore obiettivo di tutta quella immane
carneficina. Ben presto risultò invece che il comandante di settore, un
superdecorato colonnello di appena ventisette anni, Erich Bärenfänger,
si era imbattuto in un magazzino pieno di bandiere e aveva deciso di
farle esporre per far capire al nemico la volontà sua e dei suoi uomini
di battersi fino alla morte. «Abbiamo combattuto sotto questo vessillo
nei giorni fortunati», dichiarò il giovane ufficiale che Hitler aveva
promosso generale sul campo in uno degli ultimi giorni di aprile, e
perciò non vedeva ragione per cui si sarebbe dovuto «vergognare di
mostrarlo ora che le cose si sono messe male». Pochi giorni dopo, per
sottrarsi all'onta della prigionia, Bärenfänger si tolse la vita assieme
alla moglie.
Una minoranza di ss, per lo più sbandati o i cui reparti erano stati
decimati, si radunò infine in un'unità combattente che tentò di sfondare
le linee sovietiche. Fra i più accaniti difensori della città vi furono i
superstiti di quella che era stata la divisione delle ss «Charlemagne»
formata da francesi e che oppose specialmente nella zona del ministero
dell'Aviazione una spietata resistenza ai russi. Anche reparti di ss
olandesi e scandinavi, nonché il corpo lettone ormai ridotto a poco più
di cento uomini, combatterono accanitamente fino al loro completo
annientamento: non avevano mai fatto prigionieri e sapevano che, a
quel punto, la loro sorte non sarebbe stata in ogni caso diversa.
La gran massa degli sbandati si tenne alla larga dalle parti della città
dove si stava ancora sparando. Anche altrove, non appena calava
l'oscurità, non solo i civili, ma anche i militari evitavano di uscire nelle
strade. Le notti della città in ginocchio erano piene di rumori paurosi: il
lontano tuoneggiare dei cannoni accompagnato come dai lampi di un
temporale, l'improvviso accendersi di motori, isolati colpi di arma da
fuoco e, di tanto in tanto, l'urlo di qualche donna. Soldati e civili morti
giacevano a centinaia fra le rovine, e nessuno si occupava di loro.
Chiunque fosse ancora in grado di farlo, considerava ormai finita la
guerra. Qui e là si videro singoli, smarriti militari dèlla Wehrmacht
distruggere i loro fucili battendoli contro i bordi dei marciapiedi,
gettare le bombe a mano alla cieca fra le rovine o strappare i fili
dell'accensione dei veicoli abbandonati. Come sospinte da mani
invisibili, intere facciate di case continuarono a crollare per giorni e
giorni. Solo un po' per volta i quartieri periferici, occupati ormai da
qualche tempo, tornarono a essere animati da persone esauste, segnate
dalla fame e dalla sete, che trascinavano con sé in zaini o valigie i loro
pochi averi. I distintivi del partito, le fotografie del Führer e le bandiere
con la croce uncinata sparirono dappertutto. La notizia che Hitler si era
suicidato trovò poco credito perché la comunicazione ufficiale secondo
la quale era «caduto combattendo fino all'ultimo respiro contro il
bolscevismo» corrispondeva meglio all'ancora diffusa immagine del
dittatore.
Nei quartieri conquistati dagli assalitori, ormai distanti dai
combattimenti, sorsero un po' ovunque improvvisati e sregolati
accampamenti. Le strade erano battute da pattuglie di militari
dell'Armata Rossa in uniforme color terra che passavano lungo rovine
annerite oppure ancora fumanti, dalle quali le colonne di fumo
continuarono a levarsi ancora per giorni e giorni oscurando il cielo
della città. Nelle molte piazze c'erano bivacchi di soldati russi,
parecchi dei quali donne, che posavano per le foto ricordo accanto a
materiale bellico bruciato o a veicoli rovesciati, oppure facevano
schioccare le loro fruste di pelle sul selciato. Altrove c'erano
prigionieri che attendevano in lunghe file di essere interrogati, mentre
da lontano giungeva ancora l'eco delle cannonate. Durante la loro
avanzata i russi avevano requisito intere mandrie di bovini che ora
sostavano qui e là, con gli animali che venivano di tanto in tanto
abbattuti, macellati e quindi arrostiti su falò all'aperto, circondati da
truppe che cantavano o ballavano. Ovunque, trainati dai cavalli delle
steppe dal lungo pelo, passavano i carretti chiamati «panje» decorati di
bottino d'ogni specie: vasi e indumenti, annaffiatoi, fisarmoniche,
bambole o quant'altro era stato razziato. Ce n'erano anche di quelli
trainati da cani. In mezzo alla confusione c'era poi l'ininterrotto transito
dei portaordini motorizzati dalle espressioni severe e risolute. A ogni
crocevia d'una qualche importanza erano state appese targhe stradali
con scritte cirilliche.
Contemporaneamente, giorno e notte, stavano affluendo da ogni
dove, verso i luoghi di raccolta, le colonne di coloro che si stavano
dando prigionieri. Uscivano esausti, prostrati, spesso con fasce bianche
al braccio, dalle cantine, dalle voragini che si erano aperte nel terreno,
dalle fognature. Molti erano vecchi arruolati da poco nel Volkssturm,
altri erano quindicenni ausiliari della Flak, la contraerea, e poi i feriti
che si sorreggevano con le stampelle, le teste e gli arti avvolti da bende
intrise di sangue. Muti, si allineavano da qualche parte e si avviavano
poi in enormi, grigie serpentine, sospinti e scortati da soldati sovietici
euforici per la vittoria, spesso con le medaglie appena ottenute ancora
appuntate sul petto. Quando calava l'oscurità tornavano ad accendersi
ovunque i fari: lungo le grandi strade di attraversamento della città
transitavano colonne di veicoli e di trattori con gli abbaglianti accesi,
tuffando le scene in un chiarore spettrale. Lungo i bordi delle strade,
all'ombra delle rovine, piccoli gruppi di donne per lo più anziane
assistevano angosciate all'arrivo, al passaggio e alla scomparsa chissà
dove delle innumerevoli colonne militari.
Quando venne la notizia della capitolazione di Berlino, a Mosca
esplose l'entusiasmo per la vittoria. Masse infinite di persone si
riversarono sulle strade a gettare i berretti in aria e ad abbracciarsi.
Dopo gli immensi sacrifici, la grande guerra era finalmente conclusa.
Durante la sola battaglia di Berlino l'Armata Rossa aveva dovuto
registrate nelle sue file 300.000 caduti, i reparti militari tedeschi
avevano perso circa 40.000 uomini e non c'è valutazione attendibile
che sappia dire quante furono le vittime civili. Quasi mezzo milione
furono quelli che si avviarono verso i campi di prigionia.
Poco prima di mezzanotte tuonarono nel cielo di Mosca ventiquattro
salve di artiglieria sparate da oltre trecento bocche di cannone, seguite
da imponenti fuochi d'artificio. La città festeggiò la «storica conquista
di Berlino». Il chiasso si protrasse per giorni e giorni e penetrò fin nelle
celle del carcere della Butyrka dove erano stati rinchiusi il generale
Weidling, due degli ufficiali del suo stato maggiore e alcuni degli ex
inquilini del bunker del Führer, giunti nella capitale sovietica con il
primo trasporto di prigionieri. Fra quei detenuti c'era anche un caporale
del Volkssturm. Aveva suscitato i sospetti dei sovietici perché, per sua
disgrazia, si chiamava Trumann, quasi come il nuovo presidente degli
Stati Uniti. Invece era un tabaccaio di Potsdam.
Nel primo pomeriggio del 2 maggio, poco dopo le 15, l'Armata
Rossa occupò la Cancelleria del Reich senza incontrare apprezzabile
resistenza. Contrariamente a numerose descrizioni che si trovano
perfino nella memorialistica, la Cancelleria non fu presa d'assalto.
Secondo le fonti ufficiali, il primo soldato dell'Armata Rossa che
penetrò nel bunker sotterraneo fu il tenente Ivan I. Klimenko, il quale
fu nominato «Eroe dell'Unione Sovietica» per quest'audace impresa.
Sennonché, come nel caso della presa del Reichstag, anche qui gli
avvenimenti si erano in realtà svolti in una diversa, «non ufficiale»,
maniera, che turbava però per due aspetti l'immagine desiderata.
Erano le 9 del mattino quando l'ingegnere Johannes Hentschel, il
capo dei tecnici del bunker che non aveva voluto seguire gli altri nella
sortita, sentì improvvisamente venire dalla galleria di collegamento fra
i due sotterranei delle voci femminili. Quando uscì dalla sala radio, si
trovò con sua sorpresa davanti a una dozzina di donne russe in
uniforme che, come presto risultò, facevano parte di un reparto della
sanità dell'Armata Rossa. Dal loro parlare eccitato e confuso,
Hentschel desunse di non aver nulla da temere. Quando si presentò
loro, una delle donne, evidentemente la responsabile del gruppo, gli si
rivolse in un tedesco perfetto e chiese dove fosse Hitler. Però la
domanda subito successiva, dove fosse «la moglie di Hitler», chiarì che
cosa aveva indotto lei e le altre a scendere laggiù. Infatti, non appena
Hentschel fornì loro l'informazione richiesta e le accompagnò poi
verso il guardaroba di Eva Braun, quelle spalancarono il grande
armadio e il comò, e infilarono tutto quel che parve loro utilizzabile
nelle borse e nei sacchi che avevano portato con sé. «Fra grida di
gioia», così l'ingegnere ne riferì in seguito, le soldatesse uscirono ben
presto dalla stanza sventolando «almeno una dozzina di reggipetti»
nonché altra biancheria orlata di pizzi, e se ne andarono infine,
esultanti.
Nell'uscire dal bunker si imbatterono in due ufficiali sovietici che
erano nel frattempo sopraggiunti e che le ignorarono per rivolgersi
invece a Hentschel e chiedergli dove fosse finito Hitler. Ascoltarono,
attenti e sbalorditi, il suo racconto delle nozze del Führer, del suicidio e
di come fossero state bruciate le salme. Poi si fecero mostrare le stanze
della famiglia Goebbels e, dopo aver lanciato un'occhiata inorridita ai
corpi dei bambini morti, chiusero di nuovo la porta e se ne andarono.
Solo più tardi si giunse alla conclusione che i due, molto
probabilmente, facevano parte delle unità di quel maresciallo Konev
che Stalin aveva fermato alcuni giorni prima per lasciare a Zukov
l'onore di conquistare Berlino.
Il primo dei due episodi svelava un eccesso di debolezza umana, il
secondo un arbitrario eccesso di zelo per poter entrare nella «storia
della grande guerra patriottica». Per questo nessuno dei due compare
oggi nelle ricostruzioni sovietiche della battaglia di Berlino.
Con la presa della Cancelleria cominciò una specie di commedia
degli equivoci dai tratti a momenti decisamente farseschi, che non si
limitò a prendere in giro il mondo per qualche tempo ma che, in un
certo senso, conservò anche fittiziamente in vita Hitler.
Nei pressi dell'uscita del bunker i conquistatori avevano trovato,
assieme ai numerosissimi altri cadaveri sparsi nell'area del giardino,
circa quindici resti di corpi per lo più bruciati o mutilati. Si affrettarono
quindi a preparare una di quelle salme, forse con l'aiuto di un
truccatore, in modo da poterla spacciare per quella dell'Hitler morto.
Disposero il corpo decorativamente fra le macerie e, il 4 maggio, lo
offrirono ai fotografi e quindi, indirettamente, all'opinione pubblica
mondiale come uno spettacolare trofeo. Poco dopo tuttavia i sovietici
si rimangiarono la sensazionale notizia che essi stessi avevano
confezionato, e parlarono prima di un «sosia» del Führer e infine di
una «falsificazione». Per qualche tempo fu evidentemente valutata
l'eventualità di spacciare per il corpo del dittatore tedesco anche un
altro cadavere rintracciato non si sa bene dove, sennonché uno degli
esperti chiamati a «valutare il caso» si accorse in tempo che
quell'uomo indossava calzini rammendati, il che ognuno se ne rese
conto avrebbe finito con il suscitare dubbi sull'identità del defunto.
Qualche tempo dopo ancora si diffusero voci di un altro ritrovamento,
che tuttavia, scottati dalle prime esperienze, i russi si guardarono bene
dal presentare ufficialmente come il cadavere di Hitler: «Il morto», fu
detto, «giaceva su una coperta ancora fumante. Il volto era
carbonizzato, la testa forata da un proiettile, però i tratti orrendamente
distorti erano inconfondibilmente quelli di Hitler».
La presentazione di sempre nuove copie di Hitler morto s'interruppe
bruscamente verso la fine di maggio quando Stalin decise di occuparsi
personalmente della cosa. In occasione della visita al Cremlino d'una
delegazione del governo statunitense di cui facevano parte Averell
Harriman, Harry Hopkins e Charles Bohlen, manifestò loro il sospetto
che Hitler non fosse affatto morto, ma fuggito, e che si nascondesse da
qualche parte con Bormann e il generale Krebs. Quando poi Stalin, in
altri momenti, formulò prima l'ipotesi che il Führer potesse essere
fuggito in Giappone a bordo di un sommergibile, quindi, in un'altra
occasione, menzionò l'Argentina come possibile rifugio del Führer e,
in un'altra circostanza ancora, parlò infine della Spagna di Franco, le
varie versioni furono via via spacciate dai diligenti portavoce del
Cremlino come quelle definitive anche se ammisero non del tutto
incontestabili.
La tendenza, profondamente insita nel carattere del regime sovietico,
a sospettare l'esistenza di congiure, misteriosi retroscena e oscure
macchinazioni trovò nella vicenda dell'«enigmatica» scomparsa di
Hitler un ricco humus per sfogarsi. Ben presto furono anche prodotte le
«prove» a corredo delle varie fantasticherie: una volta si sostenne che
il dittatore aveva fatto giurare a tutti i suoi fedeli di dichiarare
falsamente al mondo intero di aver personalmente assistito, dopo la sua
morte, al rogo della salma sua e di quella di Eva Braun; in un'altra
occasione si fece sapere che Hitler aveva dato ordine al suo entourage
di far sparire ogni traccia relativa alla località in cui si sarebbe
rifugiato; poi si affermò che all'alba del 30 aprile, un piccolo aereo su
cui erano oltre a Hitler anche altri tre uomini e una donna, era decollato
lungo l'asse stradale est-ovest di Berlino sparendo in direzione di
Amburgo, versione alla quale si aggiunse poi l'informazione attribuita
a presunte fonti dei servizi segreti secondo la quale, immediatamente
prima della presa della città anseatica da parte delle forze armate
britanniche, era partito dal porto della città, verso destinazione ignota,
un misterioso sommergibile. E le fantasie non si fermarono qui.
Ben presto anche la stampa scandalistica occidentale si buttò
sull'argomento tanto allettante quanto promettente in termini di tirature
e vendite, e continuò fino agli anni Novanta a somministrare ai suoi
lettori sempre nuovi dettagli: scrisse che Hitler, travestito da donna, era
stato visto qualche tempo dopo la sua supposta fine per le strade di
Dublino; che come fece sapere il londinese «Times» aveva progettato
da tempo la sua uscita dal mondo come un sensazionale colpo di teatro,
proponendosi di salire su un aereo carico di esplosivi e di farsi saltare
in aria sopra il mar Baltico. In altre «ricostruzioni» l'inventiva
giornalistica si rifece nuovamente alle false versioni dei fatti proposte
da Stalin e «rivelò» che Hitler aveva trascorso gli ultimi anni di vita,
con il nome molto ingenuamente falso di «Adilupus», «nel palazzo
presidenziale del fascista Franco», dove sarebbe morto infine il 1o
novembre 1947 per «un attacco cardiaco».
La verità, o quanto meno ciò che della realtà dei fatti si sarebbe
ancora potuto inequivocabilmente provare, cadde intanto, in misura
crescente, nel dimenticatoio. Alla fine di aprile del 1946 si era
presentata all'uscita del bunker del Führer che dava verso il giardino
della Cancelleria una commissione dell'Armata Rossa per accertare
finalmente, dopo le troppe, evidenti farse che avevano finito con il
confondere anche la loro parte, i fatti indubitabili. In loro compagnia
c'erano alcuni superstiti del bunker che erano stati catturati durante la
conquista di Berlino. Furono disposte tutt'attorno macchine da ripresa
cinematografica e la scena dell'incendio del corpo di Hitler e della sua
compagna fu ricostruita ancora una volta in ogni dettaglio. Sennonché
il materiale girato e raccolto in quella circostanza sparì poi inutilizzato,
unitamente ai verbali degli infiniti interrogatori di Günsche, Linge,
Rattenhuber e alle informazioni radunate da altre fonti, in chissà quale
archivio segreto.
Dopo quanto Stalin aveva pubblicamente dichiarato, anche i
presunti, pochi resti di Hitler, Eva Braun e di alcuni altri inquilini del
bunker che erano stati recuperati in quella e in precedenti circostanze
erano diventati inutilizzabili. Di conseguenza, alla fine di maggio del
1943, erano stati inizialmente sepolti nei pressi della sede del
controspionaggio sovietico nella zona di Berlino-Buch. Le casse di
legno in cui quei resti erano conservati furono successivamente
spostate a Finow, di lì poi a Rathenow e infine a Magdeburgo.
Reagendo a una richiesta, il Politburo del pcus decise nel marzo del
1970 di far esumare «in massima segretezza» quelle «reliquie» e di
farle «definitivamente distruggere con il fuoco». Nel rapporto
conclusivo dell'«Operazione Archivio» si legge: «La notte del 5 aprile
1970 quei resti sono stati completamente bruciati, schiacciati assieme a
frammenti di carbone sino a ridurli in polvere, e infine gettati nel
fiume».
Rimane da chiarire che cosa ci fosse in quelle casse che, dopo
diverse tappe, erano infine arrivate fino a Magdeburgo. La
supposizione più verosimile è che il controspionaggio russo non avesse
affatto trovato, nonostante il prolungato impegno, né ciò che poteva
essere rimasto del corpo di Adolf Hitler, né di quello di sua moglie. A
favore di questa tesi parlano non solo le dichiarazioni delle sentinelle
che la sera del 30 aprile 1945 tornarono ancora una volta sul luogo in
cui i cadaveri erano stati bruciati e ne interrarono i resti carbonizzati e
inceneriti in un cratere, ma anche le dieci e più ore nel corso delle
quali, dopo la morte di Hitler, la Cancelleria e la zona dell'annesso
giardino furono continuamente prese a cannonate. Sia i proiettili
esplosivi che rivangarono più volte il terreno, sia i proiettili incendiari
che esplodevano nel momento dell'impatto provocando roghi
devastanti, eliminarono secondo ogni probabilità tutti gli ultimi resti
ancora riconoscibili. Ciò che fra le macerie fu ancora trovato e che
poté essere identificato con una certa verosimiglianza furono, secondo
le dichiarazioni dei dentisti chiamati a esaminarli, unicamente una
parte dei denti di Hitler e «il ponte inferiore, fatto con la resina, di Eva
Braun».
Un'ulteriore prova del fatto che i cadaveri o quanto era avanzato di
loro non fu mai trovato può essere colta anche nel fatto che la
commissione d'inchiesta sovietica, contrariamente a ciò che era
avvenuto a proposito dei resti di Joseph Goebbels e di sua moglie, non
fece mai vedere in pubblico quel che sembrò essere rimasto dei corpi
dei coniugi Hitler. L'odontotecnico Fritz Echtmann, che fu trattenuto
per alcuni anni nelle carceri sovietiche come testimone, dichiarò in
seguito che i funzionari investigativi russi gli presentarono nel maggio
del 1945 una «scatola per sigari» in cui, unitamente ai denti di Hitler e
al ponte di Eva Braun, c'erano soltanto una croce di ferro di prima
classe, del tipo di quella con cui Hitler era stato decorato durante la
prima guerra mondiale, nonché il distintivo d'oro del partito che era
stato alla fine indossato da Magda Goebbels. Si ritiene che fosse stato
trovato, dopo giorni di ricerca, in mezzo ai detriti e alle macerie e che
fosse stato sbrigativamente dichiarato il distintivo del Führer. Quella
scatola per sigari conteneva, come si può concludere con una certa
sicurezza, tutto ciò che era rimasto di Hitler.
8. Fine di un mondo

Per uno di quei paradossi non infrequenti nella storia, la scomparsa


quasi senza tracce di Hitler ha contribuito a garantirgli una singolare
vita postuma. Nelle menti di questo o di quello egli è tuttora presente al
di là delle generazioni e anzi, con l'aumentare della distanza temporale,
cresce addirittura costantemente il suo ascendente.
Ciò che fa di Hitler un fenomeno in effetti «mai visto» nella storia
deriva soprattutto dal fatto che non fu guidato da nessuna idea di
civilizzazione. Le grandi potenze che, in un passato più lontano, erano
andate alla conquista del mondo, dall'antica Roma e dall'impero
romano di nazione tedesca fino alla Francia di Napoleone o all'impero
britannico, al di là di tutte le indiscutibili differenze (e per quanto
anche in loro fosse debolmente sviluppata questa promessa), avevano
rivendicato di voler donare qualcosa la pace, il progresso o la libertà
all'umanità. Perfino il dispotico regime di Stalin si ammantò, anche se
in modo estremamente debole, di una promessa per l'avvenire.
L'avidità e la sete di gloria che furono quasi sempre l'impulso motore
dell'intento di sottomettere popoli stranieri ne sono state così in un
certo senso giustificate, sino a garantir loro, alla fin fine, una specie di
assoluzione da parte della storia.
Hitler invece rinunciò, nel volgersi alla conquista e all'estensione del
potere, a ogni pretesto ideale, non ritenendolo necessario neppure per
mascherare la sua tirannia. Anche i tedeschi, che pure si erano da
sempre sentiti tanto fieri della razionalità che credevano di scoprire o
di vedere all'opera in ogni avvenimento storico, non seguirono alcuna
idea nelle deleghe di potere che conferirono al regime
nazionalsocialista. Dinanzi a Hitler, per dirla in una maniera allora
vastamente diffusa, non veniva loro in mente niente. Tutti i tentativi
pur intrapresi di inventargli un ruolo epocale si sono arenati nella
penosa impotenza. Ciò che catturò la maggioranza, la travolse e
l'ammaliò fin troppo a lungo fu unicamente lo stesso Hitler, per quanto
in varie occasioni apparisse sinistro a tanti. La forza irresistibile che lo
sospinse per tutta la vita fu il principio preculturale del diritto del più
forte: soltanto questo principio riesce a tracciare i limiti della sua
concezione del mondo.
Dal principio generale enunciato da Darwin, Hitler derivò una serie
di concezioni precocemente elaborate e poi rigorosamente asserite e
perseguite che mirarono esclusivamente alla sottomissione, alla
riduzione in schiavitù nonché alla «pulizia razziale» e non lasciarono
dietro di sé, alla fin fine, altro che terra bruciata. Mai e in nessun
luogo, neppure lì dove i suoi furono inizialmente salutati come eserciti
di liberatori, Hitler lasciò dubbio alcuno sul fatto di essere venuto
come nemico e di voler rimanere come nemico. Quasi tutti i precedenti
conquistatori del mondo di cui la storia ha conservato memoria
avevano mirato durante le loro dominazioni ad alimentare nei vinti il
dubbio se la resistenza contro l'intruso potesse appellarsi a un diritto
superiore oppure se non fosse altro che un tentativo di ostacolare
l'avvenire. Contro Hitler ogni avversario poté invece sentirsi
tranquillamente dalla parte della ragione. Il suo programma, aveva
detto fin dall'inizio, era la «formulazione di una dichiarazione di guerra
[...] contro la vigente concezione del mondo».
Quel che con ciò intese dire lo hanno svelato quelle «conversazioni a
tavola» e quei «monologhi al quartier generale del Führer» che furono
puntualmente annotati al più tardi a partire dall'inizio degli anni
Quaranta. In quelle esternazioni Hitler si svelò più francamente che
altrove, riservando a ogni morale, religione o senso d'umanità, ogni
qual volta gli si presentò l'occasione, solo osservazioni irridenti e
sarcastiche. Nel mondo, così com'era diceva valevano leggi più crude.
Disprezzava i presìdi che una secolare tradizione aveva messo a punto
per proteggere l'uomo dall'uomo come «chiacchiere di preti
sporcaccioni». Erano, a sentir lui, non solo basati sulla menzogna e
sulla viltà, ma li considerava anche il «peccato originale» del
tradimento contro la natura. Violare quei princìpi non significava altro
che rivoltarsi «contro un firmamento», sosteneva, e alla fin fine ci si
sbarazzava con loro «non della legge ma solo di sé stessi». Ubbidendo
a questa «ferrea legge della logica» sostenne ancora si era vietato
qualsiasi compassione e aveva represso con estrema durezza ogni
resistenza interiore alla stessa stregua degli ostacoli oppostigli dagli
appartenenti alle «razze estranee». «Le scimmie, per esempio»,
dichiarò il 14 maggio 1942 al quartier generale, «calpestano a morte
ogni elemento estraneo in quanto ostile alla loro comunità. E ciò che
vale per le scimmie deve valere in più elevata misura anche per
l'uomo». Nessun despota è mai arretrato a tal punto oltre ogni
concezione di civiltà.
Dalla morte di Hitler alla capitolazione incondizionata, politica e
militare, passarono alcuni giorni. Ciò si dovette non solo ai
combattimenti che in certe zone proseguirono ancora per qualche
tempo, ma dipese anche dalla decisione del governo Dönitz di ritardare
il corso degli eventi mediante una serie di capitolazioni parziali, al fine
di consentire al maggior numero possibile di militari e di civili tedeschi
di spostarsi nelle parti del paese occupate dalle potenze occidentali.
La capitolazione definitiva fu sancita la notte del 7 maggio nel
quartier generale del comandante in capo delle truppe statunitensi,
generale Eisenhower, a Reims, dopo che in precedenza c'era già stata
una capitolazione parziale davanti alle truppe britanniche del
maresciallo Montgomery. La cessazione delle ostilità fu convenuta per
la mezzanotte dell'8 maggio. Poiché Stalin insistette perché la
capitolazione avvenisse anche davanti ai suoi massimi comandanti
militari, la cerimonia fu ripetuta nella sede del comando supremo
sovietico a Berlino-Karlshorst. Durante i preliminari, la delegazione
tedesca dovette aspettare in una stanza a parte e fu fatta entrare solo
per la firma del documento. Keitel si presentò con bastone di
maresciallo e distintivo d'oro del partito nazionalsocialista. Quando
uno dei suoi accompagnatori, nel corso del breve svolgimento formale
della procedura, si lasciò sfuggire un sospiro, il
«Generalfeldmarschall» gli intimò: «La smetta!».
Nella Berlino devastata, assecondata e favorita dall'amministrazione
militare sovietica, la vita tornò lentamente e gradualmente alla
normalità. Squadre di recupero perlustrarono le infinite montagne di
macerie in cerca di cadaveri e li trasportarono su carretti e carriole
verso le fosse comuni scavate un po' ovunque. Contemporaneamente,
altre squadre andarono alla ricerca delle mine che erano state interrate
perfino nelle ultimissime ore. Altri ancora sgomberarono i detriti più
ingombranti dalle strade, che erano anche sprofondate qui e là nelle
gallerie sottostanti, rendendole sia pur precariamente transitabili. Fino
alla fine di giugno i corsi d'acqua continuarono a trascinare corpi di
uomini e di animali morti. Quando Harry L. Hopkins, consigliere di
due presidenti statunitensi, arrivò in quei giorni a Berlino e vide le
proporzioni della devastazione, dichiarò visibilmente scosso: «Questa è
la novella Cartagine!». La città fu poi per anni la maggiore attrazione
dei «grand tour» dell'epoca attraverso i luoghi della immane
distruzione.
Ai primi di luglio, come era stato convenuto, entrarono a Berlino
anche gli alleati occidentali. Il 16 di quel mese, un giorno prima
dell'inizio della conferenza di Potsdam, anche Winston Churchill visitò
la città. Sostò a osservare con corrucciato orgoglio la sempre
imponente rovina della Cancelleria del Reich e si fece accompagnare
da una sentinella sovietica verso l'uscita nel giardino, dietro il
complesso della costruzione, dove il fuoco aveva distrutto il cadavere
di Hitler. Manifestò quindi il desiderio di visitare anche il bunker
inferiore, in cui Hitler aveva trascorso gli ultimi mesi. Scese, seguendo
i soldati dell'Armata Rossa, una rampa di scale. Quando però gli
dissero che ce n'erano altre due, tornò sui suoi passi scuotendo la testa.
Non era uomo fatto per un'esistenza rintanata molti metri sotto terra e
non chiese nemmeno di sapere che aspetto avessero gli ambienti laggiù
e come ci si fosse vissuto. Tornato alla luce del giorno, si fece portare
una sedia e si immerse per qualche minuto nei suoi pensieri prima di
proseguire in silenzio alla volta di Potsdam assieme al suo medico
personale.
E' una confusa successione di eventi quella che segna la fine del
Reich hitleriano, fitta, come non mai nella storia, di contraddizioni,
abbagli e momenti altamente drammatici. Lo storico incontra una
infinità di destini tragici, tali da far inorridire. Eppure riesce difficile
parlarne come di una tragedia. Furono eccessive, almeno a guardare i
principali personaggi dell'ultimo atto, la supina devozione e la cieca
sottomissione. Nessuno degli alti ufficiali che erano nel bunker fu
anche soltanto sfiorato dal pensiero, durante la riunione del 22 aprile,
di prendere in parola l'Hitler che disse che la guerra era perduta. Anzi, i
vari Keitel, Jodl, Krebs e altri ancora lo implorarono disperatamente di
proseguire la lotta insensata. Similmente, nessuno degli alti gradi
militari fu disposto, dopo il suicidio di Hitler, a issare la bandiera
bianca. Anzi, tacquero la morte del «Führer» per sostenere ancora per
qualche ora la volontà di resistenza, anche a costo che Zukov e Stalin
come in effetti avvenne apprendessero della fine del dittatore prima di
Dönitz, il successore di Hitler.
Il loro fu un servilismo al di là di ogni definizione e di ogni senso di
responsabilità. Non ci sono superiori princìpi che si possano cogliere in
quel comportamento. Ciò che invece predomina nell'intera successione
delle scene, e che costò la vita a innumerevoli vittime, fu da una parte
una imperturbata e imperturbabile volontà arroccata in un mondo
illusorio e, dall'altra, una fin troppo acritica arrendevolezza. Ci furono
le eccezioni, però il corso degli eventi le relegò, non senza una logica,
in ruoli secondari. Alla luce della ribalta rimasero gli altri, quelli che
continuarono a ripetere sempre le stesse servizievoli battute. Ma, nelle
vere tragedie, non c'è posto per i domestici. E nemmeno sulla scena
della storia.
Ovunque si scavi nel retaggio culturale e morale di Hitler, e ogni
volta che si analizza ciò che disse e ciò che fece, emerge il tono
profondamente nichilista che dominava l'intero mondo della sua
immaginazione. Quasi tre anni esatti prima della fine nel bunker di
Berlino, aveva scongiurato i suoi commensali, al quartier generale, di
applicare ogni energia per conseguire la vittoria, perché la grande
occasione non doveva essere perduta. Poi, con un gesto sprezzante,
aveva aggiunto che «bisogna tener costantemente presente che in caso
di sconfitta tutto andrà a finire a carte quarantotto». Sapeva di aver
rotto tutti i ponti con il mondo, considerava un merito e un vanto gli
indimenticabili shock che aveva provocato, e delle conseguenze non
gli importava nulla.
Il suo entourage e molti di coloro che gli vivevano accanto,
evidentemente, non la pensavano in modo diverso. In ogni caso
credettero che, con la sua fine, Hitler potesse essere considerato
cancellato dal mondo. La sera del 30 aprile, quando la salma del
dittatore era bruciata sino a ridursi a un mucchietto di cenere, Hermann
Karnau, uno dei dirigenti del servizio di sicurezza del Reich, raggiunse
ancora una volta la torretta presso l'uscita nel giardino dietro la
Cancelleria, dove era di guardia il Rottenführer delle ss Erich
Mansfeld. Gli gridò di scendere perché non c'era più ragione che
prestasse servizio. E poi: ormai «è finito tutto».
In realtà non era finito niente. Si prospettò piuttosto solo per gradi
alle coscienze ciò che a ben guardare era già svanito con l'ascesa di
Hitler e che con la sua fine era diventato irrecuperabile. Ben più in
ogni caso di quanto si potesse sul momento concretamente constatare: i
morti, le montagne di macerie e le tracce di devastazione in tutto un
continente. Forse un mondo intero. Esattamente come in ogni vero
tracollo va perduto sempre più di ciò che è visibile, sotto gli occhi di
tutti.
Bibliografia

L'esposizione che precede non è corredata di note. Questo non


significa tuttavia che ogni citazione od ogni fatto menzionato non sia
documentabile. La rinuncia all'indicazione delle fonti dipende piuttosto
dalla spesso sconsolante (e per la maggior parte dei casi non più
rimediabile) confusione delle testimonianze. Troppo spesso ogni
rimando a una fonte dovrebbe essere corredato anche di una, e spesso
anche più di una dichiarazione discordante o diversa descrizione dei
fatti.
Si è già rilevata nell'introduzione la straordinaria contraddittorietà
dei racconti relativi a un avvenimento così importante come il suicidio
di Hitler, che pure dovrebbe essersi impresso ben chiaro nella mente di
coloro che erano presenti. Non c'è concordanza neppure sulla
questione se, quando il suo attendente-cameriere Heinz Linge e Martin
Bormann, immediatamente seguiti dall'aiutante maggiore personale di
Hitler Otto Günsche, entrarono il pomeriggio del 30 aprile 1945 nel
soggiorno del Führer, Hitler fu trovato morto sul divano accanto a Eva
Braun oppure sulla vicina poltrona. La confusione è ulteriormente
aumentata dal fatto che talora le stesse persone hanno descritto in modi
diversi, nelle loro dichiarazioni, questo o quell'altro episodio. Così per
esempio non si sa con certezza dove e come si svolse il ricevimento
per il 56o compleanno di Hitler, e lo stesso discorso vale per la precisa
successione degli eventi durante la drammatica riunione del 22 aprile e
per altro ancora. Le divergenze comunque riguardano per lo più
circostanze secondarie. Il cronista è però tenuto a registrarle e a
prendere sostanzialmente nota di ogni anche minima divergenza. Per
evitare tuttavia di appesantire il racconto di uno straripante apparato di
note, si è via via seguita la versione che proveniva dal o dai testimoni
più attendibili e appariva più vicina al verosimile. Ogni qualvolta, nelle
questioni più importanti, sono ugualmente insorti dei dubbi, questi
sono stati menzionati nel testo.
All'orientamento del lettore risulterà sicuramente utile che al
seguente elenco dei titoli delle opere consultate siano premesse alcune
osservazioni.
La prima versione dei fatti, apparsa già nell'estate del 1946 con il
titolo Gli ultimi giorni di Hitler, è quella dello storico britannico Hugh
R. Trevor-Roper. E' basata su numerose testimonianze raccolte
personalmente dall'autore ancora nell'estate e nell'autunno del 1945.
Molti potenziali informatori erano però allora già prigionieri dei
sovietici; altri si erano eclissati, anche se alcuni di questi furono poi
rintracciati dallo stesso Trevor-Roper. Inevitabilmente la sua
esposizione contiene tuttavia qualche lacuna, oppure, non essendo
allora quasi possibili raffronti incrociati con le dichiarazioni di terzi,
certe affermazioni deliberatamente fuorvianti di alcune delle persone
interpellate. Questi difetti proporzionalmente minimi del libro sono
ampiamente compensati dalla visione precisa, dalla sicurezza di
valutazione e dallo stile brillante dell'autore.
Soltanto una ventina di anni dopo furono pubblicate parecchie
ricostruzioni che, contrariamente a quella di Trevor-Roper, coinvolsero
nell'esposizione degli ultimi fatti anche alcune settimane o mesi
precedenti la morte di Hitler. Gli autori di questi libri poterono inoltre
menzionare numerose memorie o resoconti (G. Boldt, K. Koller, E.
Kempka, E.-G. Schenck, H. Reitsch e altri) che non erano ancora
accessibili, in questa forma, a Trevor-Roper e che consentirono loro di
arricchire il quadro complessivo di una serie di particolari, a volte
illuminanti. Poi, all'inizio degli anni Sessanta, vennero alla ribalta
addirittura tre autori interessati alle vicende storiche che si erano sentiti
sollecitati ad affrontare questa vicenda singolarmente drammatica.
Il primo fu, nel 1965, Erich Kuby con il libro I russi a Berlino, in
precedenza già apparso a puntate sul settimanale «Der Spiegel».
Quindi toccò, un anno dopo, allo statunitense Cornelius Ryan, il quale
si era fatto già notare per una cronaca dello sbarco alleato in
Normandia che era stato accolto con straordinario favore. Il suo
volume s'intitolava L'ultima battaglia. Di lì a poco uscì infine, di John
Toland, altro noto saggista statunitense, Gli ultimi cento giorni. Tutte
queste esposizioni, alle quali occorre aggiungere anche, di Tony le
Tissier, La battaglia di Berlino nel 1945. Dalle alture di Seelow alla
Cancelleria del Reich, si basarono non solo sulle memorie divenute nel
frattempo accessibili, ma anche sulle risposte date alle loro minuziose
domande da numerosi testimoni.
Tutti questi testi, estremamente gradevoli alla lettura, hanno però
pagato questo pregio con la scarsa precisione e con l'altrettanto scarso
approfondimento storico. Molto più produttivo, basato su nuovi
interrogatori dei testimoni ancora in vita, risultò verso la metà degli
anni Settanta lo scritto intitolato Bunker. Reportage sulla fine della
Cancelleria del Reich di Uwe Bahnsen e James P. O'Donnell, il quale
superò tutti i testi in precedenza menzionati per plasticità e densità di
notizie.
Come spesso avviene, nel corso degli anni si erano insinuati nelle
ricostruzioni della fase finale del Terzo Reich diversi errori che non di
rado sono poi passati di libro in libro. Il più delle volte ciò è dipeso
dalle spesso contraddittorie dichiarazioni dei vari protagonisti. E'
merito di Anton Joachimsthaler e del suo libro La fine di Hitler.
Leggende e documenti quello di aver corretto, nella massima misura
possibile, queste imprecisioni. Con una pedanteria non comune e a
momenti ovviamente un po' caustica ha comparato fra di loro le varie
posizioni e dichiarazioni ricavandone ciò che risultava almeno
relativamente certo. La sua documentazione riguarda tuttavia solo la
situazione nel bunker del Führer, la morte di Hitler nonché la questione
tuttora non del tutto chiarita delle circostanze in cui furono eliminati i
cadaveri di Hitler e di sua moglie.
E' quasi inutile precisare che questo testo si rifà, soprattutto per gli
avvenimenti in Berlino, anche a numerose annotazioni di diario e a
frammenti di ricordi. Alcune raccolte di questo materiale meritano
massimo riconoscimento. Vanno menzionati in particolare, di Peter
Gosztony, La lotta per Berlino del 1945 nel racconto dei testimoni
oculari e, di Bengt von Zur Mühlen e altri, L'agonia della capitale del
Reich. Al di là di queste fonti, alcune delle impressioni che sono state
qui riprese si rifanno ai racconti che l'autore deve alla cerchia di
parenti e amici che vissero personalmente le giornate del tracollo.
Andreas-Friedrich, Ruth: Schauplatz Berlin. Ein deutsches Tagebuch
(Quel che accadde a Berlino. Un diario tedesco), Monaco di Baviera
1962.
Bahnsen, Uwe - O'Donnell, James P.: Bunker. Reportage sulla fine
della Cancelleria del Reich, Milano 1977.
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maggiore di Hitler 1937-1945), Mainz (Magonza) 1980.
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Sekretärin von Adolf Hitler (Era il mio capo. Dal lascito della
segretaria di Adolf Hitler), Monaco di Baviera 1985.
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Höhen zur Reichskanzlei (La battaglia di Berlino del 1945. Dalle alture
di Seelow fino alla Cancelleria del Reich), FrancoforteìBerlino 1991.
Toland, John: Gli ultimi cento giorni, Milano 1967.
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Kriegsende und Neuanfang (L'ora zero. Ricordi della fine della guerra
e del nuovo inizio), Stoccarda 1995.
Trevor-Roper, Hugh R.: Gli ultimi giorni di Hitler. Come muore una
dittatura, Milano 1995.
Völklein, Ulrich (a cura di): Bunker. Le ultime ore di Hitler, Casale
Monferrato 1999.
von Zur Mühlen, Bengt (a cura di): Der Todeskampf der
Reichshauptstadt (L'agonia della capitale del Reich), Berlino 1994.
Indice dei nomi

Per la sua ricorrenza pressoché costante nel presente elenco non


compare il nome di Adolf Hitler.
Adenauer, Konrad, 9
Arnim, Bettina von, 23
Axmann, Artur, 53, 91, 108, 134, 137
Bahnsen, Uwe, 157, 158
Bärenfänger, Erich, 139
Baur, Hans, 15, 95, 106-107, 113, 136-137, 158
Below, Nicolaus von, 97, 158
Bernadotte, conte Folke, 91, 96
Bersarin, Nicolai E., 85
Betz, Georg, 106, 137
Bismarck, conte Otto von, 40-41, 47
Blanter, Matvej I., 127-128
Bohlen, Charles, 144
Boldt, Gerhardt, 156
Bonhoeffer, Klaus, 71
Bormann, Gerda, 36
Bormann, Martin, 25, 34, 36, 47-49, 52-53, 64-65, 81-82, 92, 95-96,
98, 106, 109-110, 114, 127, 131, 134, 137-138, 144, 155, 158
Braun, Eva, 49, 33, 94-97, 103-106, 110, 113-114, 128, 142, 145-
147, 155
Braun, Margarete, 94
Burgdorf, Wilhelm, 25, 47-48, 55, 60, 64, 73, 97, 102, 106, 110, 129,
136, 138
Busse, Theodor, 16, 52, 58-61, 63, 65, 89, 136
Christian, Eckhard, 67
Churchill, Winston, 77, 152
Ciuikov, Vassili I., 15, 113, 127-131, 136, 158
Dombrowski, Inge, 71
Dönitz, Karl, 17, 50, 64, 83, 92, 98, 118, 128, 131-132, 136, 151,
153
Echtmann, Fritz, 147
Eisenhower, Dwight David, 20, 68, 151
Federico il Grande, 21, 26, 40, 47, 107
Fegelein, Hermann, 25, 65, 67-68, 94-96, 135
Forster, Albert, 121-122
François, Etienne, 11
Fritzsche, Hans, 57-58, 129-130
Funk, Walther, 77
Gall, Leonhard, 23
Goebbels, Helga, 134
Goebbels, Helmuth, 109
Goebbels, Joseph, 7, 21, 26, 32, 34, 36, 49-52, 54, 57, 60, 63, 65-66,
70, 74, 77, 79, 82, 92-93, 96, 98-99, 102, 103-106, 108-110, 117-118,
123, 128-135, 143, 147
Goebbels, Magda, 106-108, 133-134, 147
Goethe, Johann Wolfgang von, 23
Göring, Hermann, 17, 49, 51-52, 56, 66-67, 74, 81-82, 84, 91, 98
Gosztony, Peter, 157
Graff, Anton, 107
Grawitz, Ernst, 87
Greim, cavaliere Robert von, 83-84, 92-93
Guderian, Heinz, 21, 30
Günsche, Otto, 95, 104-111, 113, 136-137, 146, 155
Haase, Werner, 109
Haffner, Sebastian, 123
Halder, Franz, 119
Harriman, Averell, 144
Haushofer, Albrecht, 71
Heidegger, Martin, 74
Heiden, Konrad, 25
Heinrici, Gotthard, 14, 16-19, 32, 52, 59-63, 90-91
Hentschel, Johannes, 142-143
Hewel, Walter, 57, 67, 102, 106, 136-137
Heydrich, Reinhard, 40
Himmler, Heinrich, 17, 25, 35, 49, 52, 65, 68, 71, 83, 91-92, 94-96,
98, 100, 132, 135
Hindenburg, Paul von Beneckendorff und von, 79
Högl, Peter, 94, 96, 110, 137
Holste, Rudolf, 89, 102-103, 135
Hopkins, Harry L., 7, 144, 152
Horthy, Nagybänya von, 123
Hübner, Rudolf, 35
Joachimsthaler, Anton, 157, 158
Jodl, Alfred, 59, 64, 66-67, 81, 89, 99, 102-103, 124, 153
Junge, Gertraud, 65, 108-109
Jüttner, Hans, 94
Kaether, Ernst, 60
Karnau, Hermann, 113, 154
Keitel, Wilhelm, 32, 64, 66-67, 81, 89-91, 99, 103, 151, 153
Kempka, Erich, 105, 110, 136, 156, 158
Kesselring, Albert, 50
Klimenko, Ivan I., 142
Koller, Karl, 55-56, 67, 81, 93, 156, 158
Konev, Ivan S., 17, 19, 58, 83, 143
Krebs, Hans, 19, 25, 32, 34-35, 47, 56, 59-64, 73, 89, 93, 97, 99,
102, 104, 106, 110, 127-130, 136, 138, 144, 153
Kuby, Erich, 156, 159
Kunz, Helmut, 133
Lammers, Hans-Heinrich, 81
Laval, Pierre, 123
Ley, Robert, 7, 49, 77
Linge, Heinz, 106, 109, 111, 137, 146, 155
Lorenz, Heinz, 99
Ludendorff, Erich, 46
Mansfeld, Erich, 154
Manteuffel, Hasso von, 90
Manziarly, Constanze, 102
Meinecke, Friedrich, 39
Meissner, Otto, 54
Misch, Rochus, 100, 134
Model, Walter, 20-21
Mohnke, Wilhelm, 50, 66, 73, 88, 95, 100, 102-103, 117, 127, 135-
137
Montgomery, Bernard Law, 151
Morell, Theodor, 30, 53
Mühlen, Bengt von Zur, 157, 160
Müller, Heinrich, 95
Mummert, Hans, 36
Mussolini, Benito, 44, 78, 102, 107, 123
Naumann, Werner, 97, 132, 136
O'Donnell, James P., 157, 158
Perels, Friedrich Justus, 71
Perewjorkin, S.N., 112
Petacci, Clara, 102
Quandt, Harald, 133
Rattenhuber, Johann, 94, 102-103, 106, 109, 113-114, 136-137, 146
Reitsch, Hanna, 84, 91-92, 133, 156, 159
Reymann, Hellmuth, 31-32, 34, 60
Ribbentrop, Joachim von, 44, 65, 67, 81, 124
Richelieu, conte Armand-Jean du Plessis, 48
Röchiing, Hermann, 56
Rokossowskij, Konstantin K., 58
Roosevelt, Franklin Delano, 21-22
Ryan, Cornelius, 156, 159
Schaub, Julius, 66
Schieicher, Rüdiger, 71
Schörner, Ferdinand, 65, 98-99
Schulze, Hagen, 11
Schwägermann, Günter, 134-135, 137
Speer, Albert, 21, 23, 47, 49, 52, 72-73, 83, 91, 120
Stalin, Iosif V., 13, 15, 17, 19, 23, 35, 74, 127-128, 143-146, 149,
151, 153
Stauffenberg, conte Claus Schenk von, 8
Steiner, Felix, 56-61, 63, 89, 92, 135, 159
Stumpfegger, Ludwig, 133-134, 138
Taylor, Alan John Percivale, 73
Tissier, Tony le, 157, 159
Tito, Josip, 21
Toland, John, 156, 160
Tornow, Fritz, 100
Trevor-Roper, Hugh R. (Lord Dacre), 9, 156, 158, 160
Voss, Hans-Erich, 106, 136-137
Wagner, Richard, 120
Weidling, Helmuth, 16, 52, 60-61, 93, 104, 130-131, 136, 138, 142
Wenck, Werner, 61-63, 65, 67, 71, 88-89, 99, 102-104, 135
Wolff, Karl, 122
Zukov, Georgij K., 14-15, 17, 19, 58, 74, 83, 89, 113, 128-129, 143,
153

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