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Lezione 2.

Paolo di Tarso, Walter Benjamin e il messianesimo.


Il tempo che resta.

In Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai Romani, il magnifico testo emerso da una serie
di seminari che Giorgio Agamben ha tenuto in diverse Università negli anni 1998-99, in cui ha
interpretato le prime dieci parole della Lettera ai Romani di Paolo di Tarso, nel capitolo dedicato
alla klèsis, la chiamata messianica, cita un passo da La filosofia del come se di Hans Vaihinger, che
afferma tutto ciò che Benjamin criticherà nelle Tesi di filosofia della storia, ma che dice qualcosa a
proposito della natura umana che ha molto a che fare sia con il messianesimo paolino che con
Benjamin. Ri-citiamo quella frase e cerchiamo di contestualizzarla.
Vaihinger scrive che il regno della verità è un ideale che non verrà mai raggiunto e che tuttavia
correggere l’errore ed esigere in eterno la verità è un interesse incancellabile e aggiunge: «… E
precisamente questo è il carattere di una natura che, come quella umana, è determinata a tendere
all’infinito al suo ideale…». Poi il testo prosegue in seconda persona con una retorica osservazione
sull’essere umano che agisce come se quell’esigenza (“il bisogno insopprimibile” della metafisica,
aveva detto Kant) fosse vera.
Il motivo della citazione di questa frase è nel rapporto tra quella concezione della natura umana
spinta verso l’ideale e la concezione del pensiero del come se. L’ipotesi è che quella frase sia come
un marcatore in cui è ricapitolata (altro termine cruciale del messianesimo) la visione del tempo
storico cui il messianesimo e Benjamin si oppongono. Ciò che si vuol tentare infatti è ricomporre
sinteticamente il contesto che lega Paolo al messianico e questo a Benjamin e a Taubes, nonchè alle
considerazioni di Agamben, per scorgervi un filo rosso di una certa concezione della natura umana,
non soggetta ad alcun principio di finzione, ad alcun come se.

Agamben inserisce il come se, l’ impotenziale linguistico scoperto da Whorf, nella filosofia scritta
all’impotenziale, di cui Adorno è uno degli artefici, come si evince dall’ultimo aforisma dei Minima
Moralia. Jacob Taubes afferma giustamente che la differenza tra il pensiero di Benjamin e quello di
Adorno risiede tutta in quel come se, versione negativa del come non di Paolo, per cui ciò che in
Benjamin è autentica riflessione, ma soprattutto reale messa in gioco dei se stessi, della propria vita,
in Adorno è finzione e negazione di qualsiasi prospettiva in quanto la filosofia secondo Adorno non
è riuscita a portare a compimento la redenzione.
Se, come sembra, riconosciamo questa differenza fondamentale tra il pensiero di Benjamin e il
declino della filosofia in Adorno, è lecito chiederci cosa sia successo in quel tempo di passaggio
non indifferente alla storia che va dagli anni Trenta agli anni Sessanta del XX secolo; ma
soprattutto mettere in relazione questo passaggio temporale con il paolino tempo-che-resta
all’avvento del Messia. Ne va infatti non solo dello sviluppo del pensiero, ma soprattutto della
concezione della natura umana messa in luce sia da Taubes che da Agamben nel tempo messianico
di Paolo e nella visione della storia di Benjamin.
Agamben: «Malgrado le apparenze, la dialettica negativa è un pensiero assolutamente non
messianico – più vicino alla tonalità emotiva di Jean Amery che a quella di Benjamin…» (pag.41),
il quale tuttavia, a differenza di Adorno, si è accorto ad Auschwitz che la poesia perde «la capacità
di salvare e trascendere il mondo» (ibid).

Se ci è lecito interpretare le parole di Agamben diremo che la differenza tra l’estetizzazione del
messianesimo e del pensiero in Jean Amery e in Adorno è quella del tempo del nazismo e dei
fascismi, che tragicamente ha costretto Amery ad estetizzare la speranza e il bisogno di futuro,
mentre l’ aforisma dei Minima Moralia in cui la filosofia non è riuscita ad assolvere il suo compito
storico rende ambiguo il pensiero di Adorno.
Il tempo che resta è comunque inesistente, schiacciato in una apocalittica in cui, almeno per quanto
riguarda Adorno, non ne va della vita, ma solo del pensiero.

Il tempo che resta è invece il contesto della natura umana, sia in Paolo che in Benjamin.

Agamben rileva che nelle Tesi di Benjamin è ripetuta più volte la parola immagine: «La vera
immagine del passato passa di sfuggita… un’immagine irrevocabile… che rischia di svanire» (tesi
n. 5, pag. 74) e che questo concetto è cruciale. In effetti per Benjamin l’immagine, come
rappresentazione della storia è il luogo in cui si compie l’esigenza messianica (esigenza, altra parola
strategica, come nota Agamben), ma soprattutto è il bloccarsi del tempo in una figura che ricapitola
la storia in quel tempo-che-resta messianico in cui la natura si mantiene prima della fine.
Il messianesimo dunque è il cristallizzarsi in un’immagine del tempo. Come tempo della redenzione
già in Paolo esso è anche una reversione del tempo, una resa di giustizia in cui, una volta disattivate
la legge e le “vocazioni” terrene si compie la “chiamata” teologico-sociale possiamo dire, della fine
dei tempi.
In Paolo infatti la differenza tra tempo ordinario e tempo messianico è, come nota Agamben, che
mentre il ruolo sociale e la legge nel tempo ordinario si compiono in base ad una vocazione che,
sulla scorta di Weber, determina l’intero ambito dell’ethos e della cultura, nel tempo messianico la
“chiamata” è una chiamata di tutte le chiamate, una vocazione che revoca ogni vocazione, in un
luogo in cui positività e negatività si annullano (il fate come non della Lettera ai Corinzi).
Nel tempo messianico cioè si tratta di una vocazione che afferra l’intera natura, compresa la natura
umana.
Si potrebbe dunque dire che il tempo messianico, in quanto esibizione della realtà della natura
umana, è una costellazione, cioè una composizione di passato e presente che, come è scritto nelle
Tesi, quando il pensiero si arresta di colpo «…le impartisce un urto per cui esso si cristallizza in una
monade» (tesi 17, pag. 81-82). Ma cosa rappresenta questa immagine? Qual è il contenuto della
rappresentazione, del quadro del tempo bloccato e quindi, aggiungiamo, di quel tempo che resta, in
cui quell’immagine, quella costellazione accade?
Sia Taubes che Agamben hanno evidenziato come la natura in Paolo attende la venuta del Messia,
«gemendo e soffrendo le doglie del parto» (Rm 8, 23), partecipando tutta intera all’evento della
redenzione, che, insistiamo, può compiersi proprio in quel tempo-di-ora cristallizzato in
un’immagine. E’ dunque questa immagine della natura come creazione (di cui Taubes osserva la
quasi inesistenza, nelle pochissime descrizioni che ci sono in Paolo), che risulta centrale nell’evento
messianico. La venuta del Messia, dal varco che si è prodotto nel tempo-di-ora, bloccato nell’attimo
di quella venuta sempre possibile, redime l’intera natura compresa quella umana, in quanto le rende
giustizia: «Il Messia non viene solo come redentore ma come vincitore dell’Anticristo» (Tesi 6,
pag.74).

Oggi potremmo dire che la possibilità di un evento rivoluzionario che arresta il corso di
devastazione, nonché di manipolazione arbitraria della natura, ad esempio un evento tecnologico
che sta-per-accadere, rende giustizia ad essa con un atto ecoradicale, un evento in cui una tecnica e
una natura post-umana sono in grado di redimere anche la natura umana.
Infatti il fare dialettico dello storicismo si rompe nell’evento messianico: ma quell’ evento è
nell’attesa, cioè accade nell’attesa; il messianico è il tempo-ora dell’attesa, il tempo che resta in cui
il Messia viene mentre lo si attende. Il Messia anzi è questa attesa in cui si compie la natura umana
in un’immagine; questa immagine, questa costellazione di passato e presente, di cui ha parlato
Taubes segnalando la vicinanza di Benjamin a Nietzsche, è quella del tramonto.
Il tempo del tramonto dell’umano, l’avvento del post-umano, cioè l’immagine della natura umana, è
infatti la revoca del passato nel tempo-di-ora. Questo evento revoca ogni fare dialettico e
rappresenta il movimento dell’ Angelus Novus della tesi 9, risucchiato nel futuro dalla corrente che
spira dal paradiso, mentre vorrebbe arrestarsi per comporre i frammenti di passato non redenti, a cui
non è stata resa giustizia e che si accumulano come rovine ai suoi piedi. E’ in quest’immagine
bloccata in una tensione irresistibile tra movimenti opposti che si compie per Benjamin la natura
umana come fermo-immagine, costellazione del tramonto, cioè come compimento della storia in
cui i vincitori smettono di essere tali.
Ma se è così, non c’è bisogno di una figura del Messia che viene; ovvero, esso giunge se si pongono
le condizioni della sua venuta: in una storia soggetta all’ingiustizia in cui i vincitori non smettono di
vincere, all’improvviso dal varco creato dal kairos, dall’occasione messianica, entra l’evento del
tramonto, cioè la natura umana che, in quanto tale, revoca ogni vocazione, rende inoperosa la legge
e risponde alla “chiamata di tutte le chiamate”.
In tal modo l’angelo può finalmente, con le ali chiuse, redimere il passato, riordinarne i frammenti
rendendo giustizia sia ai morti che ai vinti. La natura umana come declinazione del tramonto, che si
manifesta nell’evento messianico post-umano enuncia un tempo che resta, che è il tempo della fine
senza un fine.
In questo tempo del tramonto c’è accordo tra umano e divino. E’ il luogo di Isaia, in cui “il lupo
giacerà con l’agnello”; ciò non solo perché l’umano accetta la fine dell’umanesimo come tempo
della storia dei vincitori ma anche e forse più, perché Dio accetta che alla fine della storia non vi sia
alcuna rivelazione, alcun senso che si dispiega, poiché tutto il senso è manifesto nel tempo della
natura umana, cioè nel tempo-ora del dopo la storia, del dopo l’umanità.

Bibiliografia

Jacob Taubes, La teologia politica di Paolo, Adelphi, Milano, 1997.


Walter Benjamin: “Tesi di filosofia della storia”, in Angelus Novus, Einaudi, Torino, 1976.
Giorgio Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla lettera ai Romani, Bollati Boringhieri,
Torino, 2000.
Paolo Vernaglione, “Filosofie della storia?”, in Il sovrano, l’altro, la storia, Manifestolibri, Roma,
2006.

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