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La luce è uno degli elementi rivelatori della vita: per l’uomo, come per tutti gli animali diurni,

è la condizione
indispensabile per il maggior numero di attività. La fisica ci dice che viviamo di luce presa a prestito: la luce che
rischiara il cielo viene mandata dal sole attraverso un buio universo ad una buia terra per una distanza di
93.000.000 di miglia. Ma ben poco di questa nozione si accorda con la nostra percezione, secondo la quale la
luce è una qualità intrinseca agli oggetti che ogni tanto scompaiono nascosti dall’oscurità, come se anche il buio
fosse un’entità a se stante, e non assenza di luce.
I fattori che concorrono al rapporto luce percezione visiva sono essenzialmente tre: chiarezza, luminosità e
illuminazione.
La chiarezza è la prima qualità della luce, il suo rivelarsi, il segno della sua presenza, ciò che ci permette di
vedere le cose. Da un punto di vista fisico la chiarezza di un oggetto è determinata dal suo potere di riflettere la
luce e dalla quantità di luce che ne colpisce la superficie. Un pezzo di velluto nero, che assorbe gran parte della
luce che riceve, può, sotto una forte illuminazione, emettere tanta luce quanta ne emette un pezzo di seta
bianca, debolmente illuminato, il quale riflette la maggior parte dell’energia luminosa. Ma per il nostro occhio
non c’è modo di distinguere fra il potere di riflessione e la vera emanazione di luce: esso accoglie solo il
risultato, cioè l’intensità della luce, ma non ne trae alcuna informazione circa la proporzione in cui le due
componenti contribuiscono a tale risultato, non ne ha conoscenza.
La luminosità è appunto l’intensità della luce, il grado di chiarezza che vediamo in un determinato campo visivo:
esso può essere più o meno luminoso, ma al suo interno possiamo notare la particolare luminosità di ogni
oggetto. Poiché tale luminosità è percepita in relazione alla distribuzione dei valori di chiarezza in tutto il campo
visivo (gradienti di luminosità), per poter apparire luminoso, un oggetto dovrà avere un’intensità superiore ai
valori di chiarezza che uniformano tutto l’insieme; d’altra parte tutte le cose sono percepite e conosciute per
comparazione. Va sottolineato che i valori di chiarezza sono relativi e non costanti: il fatto, ad esempio, che un
fazzoletto appaia o no bianco, non dipende dalla quantità assoluta di luce che esso invia all’occhio, ma dal posto
che occupa nella scala di valori di chiarezza che vediamo in un determinato momento ed in un determinato
spazio.
L’illuminazione è un effetto particolare di luce: la notiamo solo quando questo effetto è evidente, cioè quando la
luce è battente, intensa, e proietta ombre nette; quando la luce è invece diffusa, non rileviamo altro che una
chiarezza generica e non notiamo ombre. L’illuminazione, da un punto di vista fisico, entra in gioco ogni volta
che vediamo un oggetto che senza luce rimarrebbe invisibile; ma per la nostra percezione visiva l’illuminazione
è un fenomeno aggiuntivo che si somma alla luce riflessa dall’oggetto che vediamo e lo disegna nettamente nei
suoi contorni, accentuandone forme, colori, ombre, contrasti, a seconda della sua provenienza.
Se per la fisica non ha senso la distinzione fra chiarezza ed illuminazione, essa è invece importante per il
disegno, la pittura, le arti figurative in genere. Con il chiaroscuro, ad esempio, cioè disegnando le ombre, si può
rappresentare il volume di un oggetto ed ottenere effetti di luce diffusa ed illuminazione che concorrono ad
accentuare l’impressione del volume, della profondità e della distanza nello spazio, a seconda della distribuzione
nel disegno dei valori di chiarezza. Gli effetti di contrasto in un disegno sono determinati dalla minore
luminosità delle immagini inviate dagli oggetti lontani a confronto con la maggiore luminosità inviata dagli
oggetti vicini: la diversa luminosità degli oggetti ci fa apparire diversa la loro distanza da noi, con lo stesso
effetto della prospettiva. Infatti il gradiente di intensità luminosa degli oggetti che si allontanano da noi produce
lo stesso effetto prospettico del decrescere della loro grandezza: questo effetto è ben noto agli scenografi che
riescono a conferire illusorie profondità spaziali illuminando fortemente gli oggetti in primo piano e producendo
ombre negli angoli di sfondo che appaiono così più lontani. Per effetto quindi del contrasto luminoso la luce ci
informa anche dell’orientamento spaziale di un oggetto, della sua direzione, della sua distanza da noi, del suo
movimento, della sua forma.
Di solito non siamo consapevoli di tutto ciò, infatti negli stadi infantili o primitivi delle arti figurative la luce non
viene rappresentata: nei disegni di un bambino, come nella pittura egizia, non c’è uso di ombre e di
chiaroscuro, non c’è coscienza della rappresentazione della rotondità dei solidi, ma si usano contorni semplici,
lineari, e colori uniformi. Nel corso dei secoli l’uomo scopre le virtù spaziali della chiarezza non uniformemente
distribuita, l’effetto percettivo dei gradienti, ed apprezza l’uso dell’ombreggiatura per far retrocedere la
superficie in prossimità dei contorni e farla risaltare nei punti di maggiore chiarezza: tecniche che sono usate
non sempre secondo una corretta illuminazione fisica, ma per dare suggestione ad oggetti che sono primari nel
tema poetico svolto dal pittore o scultore. Nella simmetria dei dipinti medievali, ad esempio, le figure di sinistra
ricevono luce da sinistra e quelle di destra da destra, senza tener conto della realtà fisica della sorgente
luminosa.
Nella pratica dell’arte quindi, l’importanza della luce è primaria e gli artisti hanno imparato a sfruttarla per far
risaltare le qualità delle superfici ed il modellato delle sculture, per ottenere valori tonali ed atmosfere. Ogni
superficie ha infatti una propria struttura, una propria trama (texture), poiché ogni materiale ha diversa natura
e struttura e risponde alla luce in modo diverso: compito dell’artista, nella sua scelta dell’uso dei materiali, è di
evidenziarne l’espressività intrinseca. E’ molto diverso lavorare con il marmo, il bronzo o il legno, o dipingere a
fresco sull’intonaco o ad olio su una tela; ed i risultati sono ben diversi quando la materia viene usata nel modo
appropriato alle proprie qualità. Se, ad esempio, sfioriamo con la mano un mosaico bizantino ci accorgiamo che
la sua superficie è irregolare come se le tessere fossero sconnesse: l’irregolarità non è casuale ma voluta,
poiché ogni tessera, esponendosi alla luce con differente inclinazione, rifrange la luce in modo diverso ed
aumenta la lucentezza complessiva del mosaico nel quale i colori sembrano vibrare intensamente.
Michelangelo, per animare le superfici delle sue sculture, si serve del “non finito”, usando con sapienza le
possibilità che la luce gli offre per valorizzare i suoi marmi: infatti alterna superfici levigate sulle quali la luce
scivola con morbidezza (Angelo portacandeliere dell’Ara di S. Domenico) a superfici scabre ed irregolari,
appunto non rifinite, che la luce rende vibranti d’atmosfera (Il Crepuscolo).
Lo scultore che per primo ha considerato la luce come elemento sostanziale delle sue opere è il Donatello dei
bassorilievi, che ha inventato quell’uso della forma definito “stiacciato”, concepito prevalentemente in funzione
della luce. Nel “Banchetto di Erode” lo spazio è articolato su diversi piani di profondità realizzata usando la
prospettiva; lo spessore del bronzo su cui disegna è di pochi centimetri, così che la luce batte
contemporaneamente e gioca allo stesso modo sui primi piani e sui piani di fondo, realizzando valori atmosferici
finora mai ottenuti neppure dalla pittura. Bisognerà infatti attendere lo “sfumato” di Leonardo perché le ricerche
sulla luce possano iniziare ad attuarsi con originalità: lo sfumato è infatti la rappresentazione del gradiente di
densità luminosa, cioè del graduarsi della luce attraverso il filtro dell’atmosfera.. Leonardo intende la luce come
un elemento determinante dell’immagine e la dosa sapientemente nel dipinto con una raffinata applicazione del
chiaroscuro, “perché il troppo lume fa crudo”. Più tardi sarà il Caravaggio ad usare totalmente l’effetto
dell’illuminazione come rappresentazione di una luce proveniente da un punto esterno del quadro: nella
“Vocazione di S. Matteo” la luce entra nel dipinto e taglia diagonalmente tutta l’immagine, sfiorando il volto e la
mano di Cristo prima di illuminare le figure sedute intorno al tavolo. E la luce è per il Caravaggio l’elemento
trasfigurante che attenua il suo fortissimo realismo.
Ma il simbolismo della luce ha la sua maggiore espressione pittorica nelle opere di Rembrandt dove
l’identificazione fra luce e colore diviene totale e l’effetto di illuminazione delle figure è talmente potente che
esse stesse sembrano emanare luce assumendo un carattere di trasfigurata immaterialità. Rembrandt accresce
la luminosità dei suoi soggetti evitando la minuzia dei particolari nei punti di maggiore chiarezza, conferendo
loro quella indefinitezza di superficie che li rende più luminosi del resto del campo .
Diverso è l’uso della luce nell’arte degli Impressionisti: in essi il mondo risulta per se stesso chiaro e luminoso e
a ciò contribuisce il fatto che i contorni degli oggetti dipinti non sono netti e chiaramente tracciati: le cose non
sembrano avere una propria materialità e la luminosità sembra fluire dall’interno del quadro in tute le direzioni.
La scala dei gradienti di chiarezza in questi dipinti è infatti molto ristretta: essa si mantiene dentro il campo dei
toni chiari ed elimina quelli scuri, così che il gioco di contrasto fra luce ed ombra è estremamente scarso e l’uso
del colore si risolve in un’unica gamma di tonalità diverse. Il quadro consiste praticamente di singole pennellate
autosufficienti, ciascuna delle quali possiede un solo valore di chiarezza e colore. Questo procedimento, che
forse è quello che si avvicina di più alla nostra usuale percezione di ogni spazio fisico senza forzarci con effetti
particolari, esclude il concetto di una sorgente di luce esterna al campo, ed ogni pennellata, o puntino, è esso
stesso sorgente di luce. Il quadro è allora come un pannello di lampadine irraggianti luce, tutte di forza uguale
e indipendenti l’una dall’altra.
D’altra parte gli Impressionisti dedicano uno studio accurato alla luce ed al colore servendosi delle teorie
scientifiche contemporanee e dell’interesse per i fenomeni naturali tipico del positivismo: se, come dice Renoir,
“bianco e nero non sono colori”, essi colorano anche le ombre che non sono più tradizionalmente nere, ma sono
anch’esse velate di colori “complementari” che con gli impressionisti vengono usati sistematicamente e
coscientemente, contribuendo alla straordinaria luminosità dei loro quadri.
Particolarmente rappresentativo di tutto il movimento impressionista è Monet ed il suo gusto del ritrarre “en
plain air”, gusto romantico della natura, la sua scelta del motivo dell’acqua, elemento mobile e riflettente per
eccellenza, il suo entusiasmo per “l’inimitabile luce di Venezia” che si rammarica di aver conosciuto già in
vecchiaia e che definì “l’impressionismo in pietra” per i suoi palazzi che sembrano galleggiare su uno specchio
d’acqua e luce.
E in analogia viene da pensare a Fattori ed al suo “Boschetto di Castiglioncello”, alle macchie di colore che
riflettono la calda luce mediterranea della Toscana, più solide e costruttive delle piccole pennellate
impressioniste, ed usate a colore pieno, più contrastato, privo dello studio dei complementari che aggiunge
luminosità e freschezza agli impressionisti, ma comunque rappresentativo di un’intensa luce costruita per netti
stacchi di colore. O a Lega ed al suo “Pergolato” dove una radente luce di tardo pomeriggio, che si compone in
lunghe strisce di sole ormai basso, alterna ombre in una fresca atmosfera serena. E terminare con uno sguardo
alla terribile drammaticità dell’abbagliante luce riflessa dalle pareti calcinate della “Sala delle agitate” di
Signorini, contro la quale si stagliano anonime figure oscure ed oblique, risaltate dalla profondità prospettica.
Secondo gli autori classici la pittura ebbe origine quando per la prima volta venne tracciato il profilo
attorno alla sagoma scura proiettata da un uomo. Da quel giorno, e fino a oggi, i concetti di ombra e luce
hanno accompagnato il percorso della pittura sia come strumenti per riprodurre fedelmente il reale sia
come elementi simbolici dalla rilevanza sempre maggiore. Attraverso l’osservazione di opere di importanti
maestri (Van Eyck, Caravaggio, Rembrandt, De Chirico…) e la lettura dei coevi trattati sulle arti, si
ripercorreranno le tappe più importanti e significative dell’uso della luce e dell’ombra in pittura,
dall’antichità ai giorni nostri”.
“Nonostante si voglia far nascere la pittura dall’ombra, in nessuna disciplina intellettuale la lotta con
l’ombra è stata più drammatica di quanto lo è stata nella pittura.” (Roberto Casati, La scoperta
dell’ombra)

Il rapporto tra ombra, luce e oggetti genera la nostra visione della realtà e da sempre i pittori hanno
dovuto confrontarsi con esso. Anche i miti che raccontano l’origine della pittura rivelano quanto essa sia
legata a luce e ombra. Secondo Plinio il Vecchio, la pittura nasce in Grecia, grazie ad una fanciulla: “…la
quale presa d’amore per un giovane, e dovendo questi partire, alla luce di una lanterna fissò con delle
linee il contorno dell’ombra del viso di lui” ( Naturalis Historia, XXXV, 15 e 151) In realtà la
rappresentazione delle luci e delle ombre è per sua natura assai complessa, e i metodi messi in atto dai
pittori per rappresentare fonti di luce, illuminazione, ombre, riflessi ecc…, variano continuamente nella
storia della pittura. Prima del XV secolo era assai raro vedere fonti di luce rappresentate in maniera
realistica: nella pittura di icone, originatasi in area bizantina a partire dal sesto secolo dopo Cristo, è il
soggetto stesso, santo o divino, a emettere luce, esaltata dal fondo dorato. Il pittore di icone sapeva
bene che la luce da lui rappresentata non era la luce del mondo sensibile, ma luce divina, paradisiaca,
emanata dalla divinità stessa. Da sempre infatti la luce materiale è raffigurazione della luce spirituale e
divina (“Il Signore è mia luce e mia salvezza, di chi avrò timore?” Salmo 27, Libro dei Salmi). Dice san
Bonaventura: “Come la luce, Dio è la bellezza di tutte la cose. Propriamente è infatti Dio la luce, e quelle
cose che più si accostano a lui più hanno della natura della luce” Questa valenza simbolica della luce si
ritrova in ogni cultura e i pittori di ogni epoca si confronteranno con essa. Per quanto riguarda l’arte
europea, luci e ombre, prima della definizione di regole geometriche che ne permettessero una
raffigurazione corretta, sono state rappresentate per lungo tempo in maniera approssimativa.

Caravaggio dipinge con straordinario realismo gli effetti di luce, facendo emergere i suoi personaggi da
fondi scuri, che isolano ed esaltano le figure. Nella pittura barocca le ombre sono inghiottite dagli sfondi
scuri o esaltate all’estremo nelle scene di notturno: la luce diventa luce di candela, bagliore o riflesso
notturno. La pittura settecentesca riscopre la luce diurna e solare e una nuova gamma di colori,
schiarendo ogni ombra. Gli impressionisti infine enfatizzano il colore delle ombre, osservando che solo
raramente sono grigie, e che esse esibiscono il più delle volte delle tinte che possono variare a seconda
dei colori dell’ambiente circostante. Sarà la pittura fiamminga a rappresentare per la prima volta con
straordinaria precisione la fonte di illuminazione nella scena dipinta. L’applicazione delle conoscenze sulla
rifrazione e la riflessione, nella pittura fiamminga non è solo espressione di realismo pittorico: l’ottica
diventa quasi un linguaggio, una traccia che guida lo sguardo dell’osservatore in una sorta di viaggio
ottico attraverso gli effetti di ombre, riflessi e rifrazioni. Ma luci e ombre, anche se rappresentate in
maniera incoerente prima delle scoperte dell’ottica e della prospettiva, hanno da sempre aiutato i pittori a
rendere più realistici gli oggetti e lo spazio dipinti. I pittori della casa dell’imperatore Augusto sul Palatino
a Roma usarono le ombre per rinforzare l’illusione dello spazio. Non conoscevano le leggi della proiezione
dell’ombra e le loro ombre sono quindi incoerenti, non considerano la presenza di una fonte di luce e
assumono forme impossibili. Ma ottengono l’effetto voluto, dando profondità all’immagine. All’inizio del
Quattrocento, il pittore fiorentino Cennino Cennini, autore di un celebre trattato di pittura, il Libro
dell’Arte, considera la stesura delle ombreggiature e dei lumi uno dei rudimenti più importanti per la
formazione del pittore. Si tratta del saper realizzare ombre incorporate e parti illuminate, che permettono
al pittore di rendere il volume ed il rilievo, dipingendo con tre gradazioni di colore: chiaro per la parte
illuminata, intermedio per la transizione, scuro per la parte in ombra. Ma il Cennini non lascia indicazioni
riguardo alla realizzazione delle ombre portate, mostrandoci così come i pittori della sua generazione
dovessero risolvere in modo intuitivo il problema della loro rappresentazione, realizzando a volte macchie
scure poste sotto i piedi dei personaggi, che non hanno un rapporto con la forma che le produce, ma
permettono di dare pesantezza e consistenza a corpi che altrimenti sembrerebbero sospesi nello spazio.
Sarà Masaccio (negli affreschi della Cappella Brancacci dipinti intorno al 1422) il primo a rappresentare,
in modo quasi sistematico, ombre incorporate e ombre portate ricorrendo alle nuove regole della
rappresentazione prospettica. Masaccio presta particolare attenzione alle ombre dei personaggi che si
proiettano sul suolo, trascurando a volte le ombre di edifici e altri oggetti e le ombre portate proiettate su
superfici verticali. Ma i suoi dipinti sono comunque estremamente innovativi: i corpi acquistano peso e
consistenza grazie alla capacità del pittore di rappresentarne l’ombra.

Il tema principale che attraversa la molteplicità dei quadri esposti nella mostra, ” Da Rembrandt a Vermeer“, è il lavoro, i

mestieri d’epoca tra i più umili della scala sociale.

Ogni personaggio agisce, come un primo attore in scena, avvolto in una luce teatrale, sulla scena della vita quotidiana,

il suo lavoro con cura e grande dignità, completamente assorto nei piccoli gesti. Così possiamo vedere l’arrotino a

lavoro, il macellaio nella bottega ma si tratta di uomini che vivono il disagio sociale di essere meno abienti e meno

fortunati nella scala sociale e, avvolti nella luce ed ombra propria dei pittori fiamminghi con echi caravaggeschi,

diventano quasi eroi del quotidiano.

C’è una luce che scava nelle loro fatiche, nelle loro difficoltà, nel lavorare anche in condizioni ed ambienti degradati o tra
ruderi come ad esempio il suggestivo quadro dell’”Arrotino“.

Nella mostra c’è anche un mondo femminile immerso nelle azioni minime quotidiane del lavoro di casa, in cucina,

accanto ad un caldo camino acceso o davanti ad una finestra a sbucciare una mela.

Vermeer è noto soprattutto per le immagini quiete e contemplative di donne in un interno.

Gli strumenti e gli oggetti delle tele sono resi con grande precisione ottica e senza idealizzazioni. Prevale una

raffinatezza cromatica e il valore poetico della luce che spesso entra lateralmente dalla finestra ed investe ed avvolge i

personaggi nelle loro attività quotidiane.

Molto bella ed avvolta in una luce teatrale e senza tempo, è l’immagine della donna anziana che sbuccia la mela vicino

la finestra della sua cucina.

Ci sono molte donne protagoniste della mostra e rappresentano le diverse età della vita.

Donne anziane al lavoro di cucina, immerse nel fare del lavoro domestico, ma per passare ad un’altra età e ad un altro

ceto sociale, spicca per bellezza e forte impatto emotivo “La ragazza con il filo di perla” di Vermeer, di una dolcezza

estrema, mentre si specchia con il volto sorpreso e misterioso, illuminata dalla luce fiamminga che ci rivela un’emozione

intima della giovane donna che sembra felice, ma il mistero di qusta emozione non ci è dato di sapere perchè è sola

nella sua stanza ed un’aura particolare di mistero la avvolge nella penombra della sala d’esposizione.

La luce evidenzia e ci fa soffermare sui toni ocra dei capelli raccolti, e sull’incarnato dolche e chiaro quasi diafano del

suo raffinatissimo volto e del collo con il filo di perle.

Per Vermeer si parla di pittura dell’occhio nell’arte di descrivere il mondo, formatosi sugli esempi del caravaggismo

nordico e di Rembrandt.

Si è dedicato alla pittura di genere, si concentra sulla visione, con una luce molto teatrale, capace di creare immagini di

rara poesia nelle quali uomini e cose rappresentati su un piano di assoluta parità, vivono come fuori dal tempo, quasi

sospesi nel non-tempo.

Nella mostra ci sono anche molti ritratti di nobili borghesi nei loro divertimenti quotidiani o in armatura da cavalieri.
Per concludere l’affascinante percorso dell’arte di Vermeer e di altri pittori fiamminghi, come Hals e Van Dyck,

Rembrandt, c’è una tela molto bella ed emozionante del Ritratto delle figlie di Cornelis De Vos che, sedute a terra,

giocano e ci guardano splendide, dolci, innocenti nella loro bellezza avvolte in una luce che rivela la ricchezza e lo sfarzo

dei loro abiti e dell’incanto dell’infanzia ritratto nei loro volti angelici ed incantati dal gioco della vita, ignare del mondo

adulto, della fatica del lavoro, e spesso della tristezza e delle difficoltà della vita che invece si vede nelle altre tele, della

mostra, che ritraggono alcuni mestieri e anche uomini che si scontrano in squallide taverne tra risse e violenza.

La mostra ci dona il fascino della realtà quotidiana e ci fa cogliere il mistero, la bellezza e la metafisica delle azioni dei

gesti più semplici e diretti della vita, come fotografie di emozioni intime dei volti degli uomini e delle donne protagonisti

delle tele.

La luce naturale, che è quella che troviamo in natura, e che non ha avuto
nessuna influenza da parte dell' uomo. Alcuni esempi di luce naturale sono, la
luce solare, che è una delle più potenti e stupefacenti fonti di luce e di energia
pura che possiamo vedere, la luna, anch' essa fonte molto suggestiva che si dà il
"cambio" con il sole, poi abbiamo anche il fuoco, i fulmini, le stelle ecc.

La luce artificiale, la quale è creata dall' uomo attraverso procedimenti


industriali, tipico esempio di luce artificiale, è la classica lampadina che troviamo
in ogni abitazione. Ma esistono anche qui altri esempi di luce artificiale, i fuochi
artificiali, i riflettori giganteschi, le illuminazioni stradali, i neon per insegne
pubblicitarie ecc.

La luce, come possiamo facilmente notare tutti noi, ovunque ci troviamo, e


qualunque cosa essa illumina, riesce a generare delle ombre. L' ombra riesce ad
accentuare molto il volume dell' oggetto o della persona illuminata, cioè accentua
il suo aspetto tridimensionale. L' ombra generata dalla luce su di uno oggetto,
si divide in due tipi: l' ombra propria, che è quella che compare sulla parte non
esposta dai raggi luminosi, e l' ombra portata, che è molto più scura di quella
propria, e viene proiettata dall' oggetto illuminato su un altra superficie. (vedi
esempio nello schizzo sotto).
L' espressività della luce nell' Arte.

La luce attraverso la propria caratteristica di illuminare o adombrare gli oggetti


e gli esseri viventi, riesce a rendererci suggestivi effetti espressivi, e molti dei
grandi Maestri dell' Arte in passato come nel presente, se ne sono serviti per
accentuare la potenza espressiva delle loro opere. Per alcuni di loro addirittura
(Michelangelo Merisi detto il "Caravaggio"), la luce è diventata una sorte di
ossessione, il Caravaggio infatti cercò di analizzare la luce sotto ogni suo aspetto,
sia materiale che spirituale, cercando di scoprirne i segreti più nascosti, e
mettendo queste sue conoscenze su tela, infatti ci sono arrivate delle opere del
Caravaggio, che hanno una potenza espressiva unica, ed a mio modesto parere
ineguagliabile, dove la luce è il linguaggio visivo principale, ed attraverso essa, l'
artista vuole rappresentare la realtà cruda e semplice, come la vedrebbero i nostri
occhi. (vedi per esempio la cena di Emmaus, presso la Galleria di Brera a
Milano). Altri grandi maestri che hanno utilizzato la luce come valore espressivo
sono Leonardo da Vinci, Rembrandt per citare i più famosi ecc. Come dicevo
prima, la luce, è un mezzo espressivo molto efficace, per esempio attraverso l'
illuminazione di un volto, si possono comunicare sensazioni di di inquetudine, di
allegria, di tristezza ecc. ed il tutto variando il volume e le ombre dello stesso,
attraverso la proiezione di più o meno luce. Con la luce si può potenziare un
effetto di "profondità spaziale", per rappresentare un ambiente. Tutti questi
effetti di luce e ombre, in Arte vengono chiamati "chiaroscuro", che non è altro
che il contrasto tra le zone chiare colpite dalla luce, e le zone scure, quelle
cioè in ombra, che vediamo in ogni opera d'Arte. (vedi sotto uno schizzo per far
vedere il "chiaroscuro", come riesce a rendere il volume più accentuato).

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