Professional Documents
Culture Documents
I. Introduzione.
2. E' noto. Mai, come nel caso delle crónicas, scrivere storia fu esercizio
denso di intenzioni ed implicanze complesse, ben oltre la neutra funzione refe-
renziale, di mero e disinteressato resoconto. Fu già un'impresa rendere credibili i
contorni d’una realtà ineffabile per difetto, da parte del destinatario europeo, di ri-
scontri comparativi; ancor più difficile suffragare la convenienza economica di
scommesse rischiose in terre sconosciute e inospitali; oltremodo arduo placare lo zelo
di teologi, missionari, difensori degli indios mediante la certificazione di aver adem-
piuto alle disposizioni emanate più o meno strumentalmente al fine di rendere più
umana e legittima la conquista. La crónica assunse ben presto il ruolo di documento
destinato a dirimere molte delle questioni aperte dal conflitto tra potere metropolitano
(il cui vertice esercitava tra l’altro la formidabile esazione del «quinto real», un quin-
to tondo appunto di quanto depredato nel Nuovo Mondo) e poteri periferici. Tra le
sue righe si risolve il confronto tra il «privilegio di situazione» che il cronista, in virtù
dell’eccezionalità dell’impresa cui partecipa e dell’esclusiva nozione dei fatti, può
vantare sul lettore europeo e il «privilegio di condizione» di questi, che s’afferma nel-
la facoltà di concedere ovvero ratificare titoli e prebende contesi sul campo dallo spa-
gnolo americano (così si definivano gli esponenti della burocrazia coloniale, veri e
propri emissari del potere metropolitano contro i conquistatori della prima ora e i co-
loni).
II. I fatti.
«En el año [...] de 1525, tres vecinos de la ciudad de Panamá se juntaron en com-
pañía universal de todas sus haciendas, que fueron don Francisco Pizarro y don Diego
de Almagro [...] cuyo linaje nunca se pudo bien averiguar, porque algunos dicen que
fue echado a la puerta de la iglesia, y que un clérigo llamado don Hernando de Luque lo
crió. Y como éstos fuesen los más caudalosos de aquella tierra, pensando ser
acrecentados y servir a su majestad del emperador don Carlos, nuestro señor,
propusieron descubrir por la mar del sur la costa de levante de la Tierra Firme, hacia
aquella parte que después se llamó Perú» (AZ, 463 a)3. Ma sulle prime i rovesci si
susseguirono: talché i ricchissimi contraenti la compaña non soltanto persero molto
del loro, ma altresì restarono «adeudados con mucha suma» (Ibidem). Pizarro, a detta
di Francisco López de Gómara, si confessò «arrepentido de la impresa» (LG, 224 b);
pronto peraltro — una volta accertata la consistenza dei tesori peruviani — a recarsi in
Ispagna per rinegoziare direttamente con l'imperatore gli assetti giuridici della futura co-
lonia e, quel che più conta, l'attribuzione delle cariche. Ne tornò con i titoli di Gober-
nador e Adelantado mayor per sé; con un nutrito seguito di poco raccomandabili fra-
telli (tra i personaggi più oscuri della oscura vicenda) e con un pugno di mosche (e
molte promesse) per il socio maggiore. Questo segnò l'inizio di una aspra rivalità tra i due
(«hubo algunas disensiones entre don Francisco y don Diego; porque había sentido
mucho don Diego que don Francisco hubiese negociado en España con su Majestad
todo lo que a él tocaba [...] sin hacer mención de cosa que a él tocase, como quier
que en todos los trabajos y costas del descubrimiento había puesto la mayor parte»)
(AZ, 464 b), che degenererà in una catena d'assassinî, a vittoria conseguita. Dopo l'oc-
cupazione dell'isola di Puna, le rappresaglie a danno degli indios inermi, Pizarro
sbarcò a Túmbez, eletta a testa di ponte sulla terraferma, pacificandola con il rigore e la
crudeltà consueti. Fondata la città di San Miguel, il conquistatore guidò la marcia verso
gli altipiani andini, guadagnando la città termale di Cajamarca, non senza aver inviate
frequenti ambascerie all'Inca Atahuallpa (l'Atabaliba o Atabalipa delle cronache) ed averne
a sua volta ricevute da parte del sovrano. Questi si trova "en los baños" e lungamente indu-
gia, combattuto tra l'omaggio dovuto agli inviati e figli del dio civilizzatore Viracocha
(annunciati da gran tempo da profezie e presagi) e il timore per le loro malefatte. Fi-
nalmente, accedendo alle sollecitazioni di Hernando de Soto ed Hernando Pizarro, si
presenterà al cospetto degli stranieri, ostentando i segni della sua dignità e potere. Nel
tardo pomeriggio del 15 novembre 1532 avvenne dunque l'incontro tra l'Inca (e il suo se-
guito di eccellenti curacas, che lo sorreggono su una portantina dorata) e fray Vicente de
Valverde, cappellano della spedizione. Gli spagnoli stanno nascosti tutt'attorno,
pronti all'attacco di sorpresa, lungamente premeditato. Il frate pronunciò la ri-
tuale «oración» (non è chiaro se si tratti di formale «Requerimiento»), invitando
il sovrano indigeno ad abiurare la sua falsa religione rimuovendone gli idoli men-
daci, ad ammettere l'illegittimità del suo potere e a riconoscersi conseguentemente
vassallo dell'imperatore. Atahuallpa con grande dignità ribadì viceversa la
saldezza del suo titolo regale («Dijo que aquellas tierras y todo lo que en ellas
había las había ganado su padre y sus abuelos») (AZ, 476 b), confermò la bontà
del culto al dio Inti, la cui immortalità riceveva quotidiana sanzione («Y en cuanto
a la religión dijo que muy buena era la suya [...] y que Cristo murió, y el sol y la
luna nunca morían») (LG, 228 b), chiedendo infine al frate chi gli avesse dette
le cose da lui riferite. Fray Vicente gli porse il breviario. Atahuallpa tentò, senza
riuscire, d'aprirlo; lo portò all'orecchio, lo auscultò... «y dijo que aquel libro no le
decía a él nada ni le hablaba palabra» (AZ, 476 b). L'Inca indispettito lasciò ca-
dere il libro sacro ai suoi piedi. Il frate, al grido convenuto di «Sanctiago», chiamò
gli spagnoli all'assalto. Pizarro, emulato da molti dei suoi («deseando cada cual
d prez y gloria de su prisión») (LG, 229 a), si lanciò contro la lettiga che sor-
reggeva Atahuallpa: nell'azione concitata si lacerò una mano. E il Gobernador,
per tragico contrasto con la carneficina d'indigeni, sarà l'unico ferito nel ban-
do spagnolo («No quedó muerto ni herido ningún español, sino F.P. en la mano...»)
(LG, 229 a). La sera cadde sulla spianata disseminata di cadaveri, coprendo la
fuga dei pochi superstiti: «Los indios, viendo preso a su rey y que los españoles
no cesaban de los herir y matar, huyeron todos, y no pudiendo salir por donde
habían entrado [...] fueron huyendo bacia una pared de las que cercaban aquel
gran llano [...] y con tanta fuerza cargaron sobre ella huyendo de los caballos,
que derribaron más de cien pasos de ella, por donde pudieron salir para aco-
gerse al campo. Aquí dice un autor que aquel muro y sus piedras se mostraron
más blandas y piadosas que los corazones de los españoles, pues se dejaron caer
para dar salida y lugar a la huida de los indios viéndolos encerrados con
angustias de la muerte. Los españoles [...] no se contentaron con verlos huir, sino
que los siguieron y alancearon hasta que la noche se los quitó de delante»
(GVI, II, 55 a). Atahuallpa, prigioniero, offrì agli avidi carcerieri qual riscatto
tanto oro quanto ne poteva contenere la sua cella. Al contempo dispose l'esecuzione
del fratello e Inca spodestato Huáscar, in mano ai suoi capitani, temendo che
gli spagnoli volessero reintegrarlo sul trono in base a considerazioni di interes-
sato rispetto dinastico: sarà il pretesto per la sua condanna a morte, comminatagli a
dispetto del favoloso riscatto pagato ed eseguita il 29 agosto 1533 per strango-
lamento (l'accettazione in extremis del battesimo gli risparmiò il supplizio del ro-
go).
La scomparsa dell'Inca portò seco la dissoluzione degli equilibri politici
del Tahuantinsuyu, confermando le previsioni del condottiero: «El Goberna-
dor acordó de partirse en busca de Atabalipa para traerlo al servicio de su maje-
stad, y para pacificar las provincias comarcanas; porque, éste conquistado, lo re-
stante ligeramente sería pacificado» (FJ, 325 a); anche se focolai di resistenza
all'occupazione coloniale perdurarono fino al 1572, quando venne espugnata la
fortezza di Vilcabamba e giustiziato Túpac Amaru, ultimo dei sovrani dell'anti-
co impero delle Ande.
Gli echi dell'altra cronaca, della cronaca degli sconfitti, dissolti e dispersi in
superficie dal dilagare dei racconti avversi, altro non poterono che correre per
largo tratto sotterranei e clandestini per riemergere assai a valle in insospettati an-
fratti memoriali, nelle rappresentazioni recitate, in occasione di solennità religiose5,
sulle piazze di villaggi sperduti e culturalmente indenni proprio in virtù della lo-
ro marginalità; raccolti e fissati in codici rozzamente istoriati 6 ; ovvero ritra-
scritti, sulla base di approssimativi memoriali indigeni, da religiosi o letrados7
Quel che importa ancora rilevare è che attingere la «soglia dell'espressione» (ma
soprattutto ottenere ad essa una pur mediocre udienza e durata) in un mondo
generalmente costretto a livelli di subumanità, di abbrutente sfruttamento (e conse-
guentemente di silenzio) comportò una qualche forma di fisiologica compro-
missione con gli oppressori. Una osservazione ulteriore va fatta. Se non esistono
memorie incaiche coeve alla conquista è segnatamente perché non poterono esi-
stere. Alla civiltà fiorita sugli altipiani andini, lo si è detto, mancò la scrittura:
prima di pervenirvi si dovettero superare due ostacoli. Da un lato ricodificare in
castigliano quello che veniva naturalmente articolato in quechua; dall'altro, pie-
garlo al giogo dei caratteri minuti, disseminati qual «file di formiche» sulla
«candida foglia di mais» della pagina. Ciò richiese tempo. E il tempo promosse
ed accentuò un processo di fatale omologazione ai codici ideologici e culturali de-
gli invasori.
Vi è in effetti in tutte queste testimonianze più d'un indizio di resa, di ce-
dimento incolpevole. Frequente, ad esempio, è il rapporto tra chi s'avvale della
scrittura per lamentare un sopruso (già scontando la naturalezza d'un vincolo di su-
balternità) e chi, leggendo, tale sopruso potrà conoscere e conseguentemente sanare.
Così Titu Cusi, tra gli ultimi capi indigeni a tener viva la ribellione contro la colo-
nia in via di consolidamento, detta a fray Marcos García, ospitato in qualità di cate-
chista reale nell'estremo ridotto indipendente di Vilcabamba, un cahier de doléan-
ces indirizzato al Gobernador García de Castro. E Felipe Guamán (o Huamán)
Poma de Ayala esprime la fiducia nella riformabilità del sistema della rapina
spagnola affidandosi da un lato al (per lui) semimagico artificio della scrittura (con
esiti ibridi e personalissimi, oltreché precari)8 e dall'altro consegnando il suo mo-
numentale Primer Nueva Corónica y Buen Gobierno a funzionari peninsulari,
con l'incarico di recapitarlo al re Felipe III, affinché questi, colmati i supposti vuo-
ti d'informazione sulle nequizie dell'amministrazione vicereale, possa intervenire
per una sollecita correzione. Ci sono inoltre diversi casi di bilinguismo in alcu-
ne delle rappresentazioni del ciclo della Morte di Atahuallpa, nelle quali, appunto,
spagnoli e peruviani interloquiscono ciascuno nella propria lingua. Gli uni lu-
crando sull'incomprensione degli avversari; gli altri soffrendone i costi spaven-
tosi. (Nessun bilinguismo, figurarsi, è registrabile nelle cronache spagnole!).
Il fatto è che abilitarsi all'uso della scrittura significò farsi parte (per quanto
del tutto periferica) d'un circuito comunicativo che riconosceva il suo centro
nel Vecchio Mondo; significò regolarsi sulle sue attese, conformarsi ai suoi parame-
tri ideologici. E non viceversa! Lo stesso destino dell'opera di Felipe Guamán (per
invocare l'esempio più significativo) che fu sequestrata e riposò, fino al suo ca-
suale rinvenimento nel recente 1908, negli archivi della Biblioteca Regia di Co-
penhagen, vale a chiarire quanto la fiducia che la percorreva fosse malriposta. Da
queste considerazioni dovranno dedursi istruzioni di lettura ed interpretazione di
tali marginali testimonianze, sovente reticenti a dispetto della loro relativa
clandestinità. Quella che si richiede è una lettura indiziaria. Una lettura che ten-
ga in conto la strategia storiografica di particolare circospezione dei cronisti nativi, i
quali –in difetto di riscontri testimoniali indipendenti– s'inibivano confutazioni
troppo sommarie e radicali delle cronache spagnole, piuttosto volgendo la lente
sul dettaglio per smascherarne l'incongruità, discretamente sottolineando l'incon-
seguenza tra comportamenti di rapina e programmi d'evangelizzazione, allo scopo
d'insidiare prima e smantellare poi –assieme alle finzioni accessorie– le fon-
damenta medesime dell'edificio storiografico dei dominatori.
Ma una lettura del pari indiziaria esigono le cronache degli aggressori. L'eserci-
zio di autocensura praticato dagli storiografi sui misfatti perpetrati dalle armate
spagnole non fu, né poté essere, ovunque egualmente rigoroso. Diverse, d'al-
tronde, furono le premesse ideologiche dei vari cronisti; diversa l'ufficialità di
cui erano investiti; diverse le fonti cui attinsero; difformi gli interessi rappresen-
tati. Ad un Francisco de Jérez, devoto dei Pizarro e loro scrivano ufficiale, per
contratto impegnato a comunque giustificare la condotta del conquistatore, po-
trà giustapporsi –poniamo– un López de Gomára il quale, desiderando accreditarsi
quale storico generale ed imperiale, si guadagna significativi margini di giudizio
indipendente rispetto ai crimini commessi (dopo esser stato, si badi bene, lo Jérez
di turno della conquista del Messico!), pur nell'ambito dell'esaltazione iperbolica
di scoperta e conquista quali sublimi contrassegni dei tempi 9 . Ancora: non total-
mente sovrapponibili saranno le storie del protocronista generale Fernández de
Oviedo, saccheggiatore di Jérez (ne ricalca, più d'una volta, frasi intere) e filo-
pizarriano per riflesso, riconoscibile per l’assai pronunciato livore antiindigeno, da
un lato; e dall'altro, di Agustín de Zárate, storiografo di seconda mano ma
sovente condotto da una maggior distanza dagli eventi e da un meno labile scrupo-
lo storiografico a elidere contrari, scoprendo verità che altri ha tenute accurata-
mente celate. E si potrebbe proseguire… È per tal modo opportuno procedere ad un
approccio comparativo tra voci certamente consonanti nell'intonazione generale, ma
differenziate nei particolari. Qualunque pur minima discordanza deve suscitare
il sospetto del lettore; qualsivoglia scarto di sovrapposizione può fornire tracce
per ripercorrere le tappe ed i criteri dell'operazione mistificatoria condotta dagli
scrivani peninsulari. Avendo l'avvertenza di amplificarne pantograficamente le
valenze. Ciò che infatti sfugge alle maglie del disegno di omologazione storiogra-
fica controllato e promosso dall'alto; quanto supera le costrizioni censorie e gli
ostacoli aggiuntivi predisposti dalla praticabilità d'escursioni da testo a testo (di
scrittori e di lettori, parallelamente!) deve poter non banalmente garantire e cor-
roborare le deroghe e gli scarti che lo contraddistinguono all'interno del corpus.
Da ultimo vanno considerate le intermedie testimonianze dei meticci, divisi
e contesi tra due patrie e due verità. Testimonianze esemplari, se appena si pensa
che la cultura latinoamericana (e l'essenza stessa del Subcontinente) è per sua
natura storica cultura (ed essenza) divisa tra radici autoctone ed apporti europei
e spagnoli. Ma addirittura decisive, per manifesta eccezionalità dell'interprete,
nel caso presente della conquista del Perú, che impegnò la voce di Garcilaso de
la Vega el Inca, figlio di capitano spagnolo e di principessa andina di sangue im-
periale e massima figura della letteratura di epoca coloniale.
«El gobernador ni los cristianos no tratan mal a los caciques ni a sus indios, si no
quieren guerra con él, porque a los que quieren ser sus amigos e son buenos, trátalos
muy bien, e a los que quieren guerra, se la hace hasta destruillos» (FO, 52 b).
Don Francisco Pizarro y don Diego de Almagro, dos capitanes generales y los demás se ajuntaron
trescientos cincuenta soldados. Todo Castilla hubo grandes alborotos, era de día y de noche, entre
sueños, todos decían, «Indias, Indias, oro, plata del Pirú». Hasta los músicos cantaban el romance
«Indias, oro, plata». Y se ajuntaron estos dichos soldados y mensaje del rey Nuestro Señor
Católico y del Santo Padre Papa (foja 372).
Cada día no se hacía nada, sino todo era pensar en oro y plata y riquezas de las Indias del Pirú.
Estaban como un hombre desesperado, tonto, loco, perdido el juicio con la codicia de oro y
plata. A veces no comía, con el pensamiento de oro y plata, a veces tenía gran siesta, pareciendo
que todo oro y plata tenia dentro de las manos asido (foja 374).
Cristiano lector, ves aquí toda la ley cristiana, no he hallado que sean tan codiciosos en oro ni
plata los indios. Ni he hallado quien daba cien pesos, ni mentiroso, ni jugador, ni perezoso, ni
puta, ni puto, ni quitarse entre ellos. Que vosotros los tenéis todo inobediente a vuestro padre y
madre y prelado y rey y si negáis a Dios, lo negáis a pie juntillo. Todo lo tenéis y lo enseñáis a los
pobres de los indios. Decís cuando os desolláis entre vosotros y mucho más a los indios
pobres. Decís que habrás de restituir. No veo que lo restituyáis en vida ni en muerte.
Paréceme a mí, cristiano, que todos vosotros os condenáis al infierno (foja 367).
Y porque entonces no se había hecho la fundición y ensaye, ni se sabía cierto lo que podía
pertenecer a su majestad de todo el montón, trajo cien mil pesos de oro y veinte mil
marcos de plata, para los cuales escogió las piezas más abultadas y vistosas, para que
fuesen tenidas en más en Esporla (AZ, 479 a).
«Nunca soldados enriquecieron tanto, tan breve ni tan sin peligro, ni jugaron tan
largo» (LG, 231 a): il repentino arricchimento delle truppe colpì la psicologia d'un
popolo che usciva mediocremente appagato dalla plurisecolare guerra di riconquista del
territorio nazionale dal dominio arabo, ben più avara in ganancias (il cui «sabor», lo si
rammenterà, è un leit motiv del Cantar de Mío Cid) della fulminea epopea americana.
L'oro come ossessione, dunque. Come spinta decisiva per intraprendere l'avventu-
ra («Viendo Pizarro tanto oro y plata por allí, creyó la grandísima riqueza que le decí-
an del Rey y partió a Caxamalca») (LG, 237 b), che peraltro fu in Perú certamente più
laica che nella Nuova Spagna (Messico). Così Francisco de Jérez chiude la sua Relación
«con un inventario finanziario: quello delle parti ricavate dal tesoro di Atahuallpa e
distribuite tra i conquistadores»12. E Juan Ruiz de Arce, per parte sua, conferma e pre-
cisa l'entità del riscatto estorto all'Inca assassinato e delle conseguenti ripartizioni:
Il fatto è che l'esazione dell'oro è commista ad una pratica di violenza e a una pa-
tente inosservanza dei patti. Le linee degli eventi convergono sul motivo di scandalo
dell'assassinio dell'Inca inerme, in ispregio della parola data.
La storia, a questa altezza, si ripete. Già Moctezuma aveva cercato d'ammansire
l’avidità di Hernán Cortés e dei suoi, mandando incontro agli invasori carichi sempre
più ricchi d'ori e di preziosi, accompagnati da pressanti inviti a desistere dall'impresa (e
Bartolomé de Las Casas annota: «Creyendo que eran niños que fácilmente se con-
tentarían [...] teníalo mal pensado»)13. In tutto uguale la risoluzione di Atahuallpa
prigioniero, il quale «conociendo la codicia de aquellos españoles, dijo que daría por
su rescate tanta plata y oro labrado, que cubriese todo el suelo de una muy gran cuadra
donde estaba preso» (LG, 229 a). Se Moctezuma fu malamente ripagato della sua ma-
gnanimità (e del suo collaborazionismo), peggio lo sarà Atahuallpa. Certo, molto tar-
darono a far ritorno gli inviati dall'Inca ai quattro canti dell'impero per raccogliere il
prezzo della sua liberazione... ma molto di più parve agli impazienti spagnoli che tar-
dassero. Così che il Gobernador declasserà i suoi capitani (prima Hernando de Soto e
Pedro de Belálcazar; poi lo stesso fratello Hernando: «Pasados dos meses que el oro no
venía [...] por dar prisa al oro que viniese, el Gobernador me mandó que saliese...»)
(HP, 55-56) al rango di esattori e controllori dell'andamento delle operazioni di sac-
cheggio. E' incontestabile che la spedizione, in questa fase, conosce una forte caduta di
tensione. Ed è parimenti indubbio che la frenesia predatoria impedì che venissero
colte occasioni per riscattarla14 . Ma è proprio in corrispondenza con questa anti-
climax che interviene in soccorso degli invasori la convergenza oggettiva tra incetta
di ricchezze e sradiamento dell'idolatria degli indigeni. «In questi anni –afferma
P. Duviols– era molto frequente che l'estirpazione fosse un comodo e provviden-
ziale pretesto per il saccheggio, dato che gli oggetti d'oro abbondavano special-
mente nei templi del demonio»1 5 . Le circostanze s'incaricano dunque di sanare
formalmente lo scarto tra le ragioni nominali (ideologiche) e pratiche della con-
quista (anche se sovente «l'ansia dell'oro era così incoercibile che [gli spagnoli] si
dimenticavano persino di menzionare questa giustificazione») 16 . Al saccheggio
dei templi (che la Corona, tesa a lucrare dall'avventura peruviana quanto possibile,
incita per parte sua con diverse cédulas a perpetrare sistematicamente) s'ag-
giunge tosto l'effrazione delle huacas, le sepulture di incas e curacas, la cui straor-
dinaria ricchezza in tesori e frutti della terra (messi a disposizione del defunto in
previsione di una lunghissima trasmigrazione) impressionò vivamente gli ag-
gressori, i quali dilatarono il campo semantico del termine fino a vincolarlo al
«concepto de riqueza»17.
Assai più difficile parve assimilare la profanazione dei sepolcri andini ad
una pratica esorcistica (anche se non mancarono udienza e consenso a quanti vi
si provarono). Ma ciò non impedì ai preti («la maggioranza dei quali vedevano
nel sacerdozio un modo per arricchire rapidamente prima di tornare in Spa-
gna») 1 8 di distinguersi nella frenetica riceca di huacas mimetizzate.
Ma al di là delle dispute19 un dato resta. Nei templi, come nelle tombe,
s’assiepano insieme con gli ori e i frutti dei campi i contrassegni simbolici, le archi-
travi dell'edificio teologico andino. Profanare il tempio, violare la huaca, abbatte-
re e rifondere idoli d'oro furono di per sé atti traumatici, che lasciarono attoniti
gli indios. «Ninguna injuria –asserisce Las Casas, nel cap. CCIL della Apologética
Historia– se les podía cometer, ni que más sintiesen, que tocarles a sus difuntos y
violalles sus sepulturas». Ma quel che più conta è che il prevalere della parola (evan-
gelizzatrice) dei cristiani sul balbettio soffocato dei nativi trova in questo violen-
to frangente un clamoroso suggello. La fitta rete di oracoli coincidente con la
mappa dei tesori, di idoli parlanti, di dèi provvidi di consigli ai loro devoti nelle
più ardue congiunture, arbitri dei comportamenti collettivi e garanti del raccordo tra
sfera dell'umano e sfera del divino viene colpita senza risparmio e dissestata: quel che
ne sortisce è il silenzio:
Pues luego que entraron en el Perú los españoles perdieron la habla en público los
demonios, que solían hablar y tratar con aquellos gentiles tan familiarmente como
atrás hemos dicho. Solamente hablaron en secreto, y muy poco, con algunos grandes
hechiceros, que fueron perpetuos familiares suyos (GVI, II, 59 b)20.
Y también para que se vea claramente cómo fué permisión divina que los españoles llegasen
a esta conquista al tiempo que la tierra estaba dividida en dos parcialidades, y que era
imposible, y a lo menos muy dificultoso poderla ganar de otra manera, diré en suma los
términos en que hallaron la tierra en aquella coyuntura... (AZ, 472 b)23.
El Gobernador dijo al mensajero: «... Bien creo que lo que has dicho es así, porque Atabalipa es
gran señor, y tengo nuevas que es buen guerrero; mas hágote saber que mi señor el Emperador, que
es rey de las Españas y de todas las Indias y Tierra-Firme, y señor de todo el mundo, tiene
muchos criados mayores señores que Atabalipa, y capitanes suyos han vencido y prendido a
muy mayores que Atabalipa y su hermano y su padre; y el Emperador me envió a estas tierras a
traer a los moradores dellas en conocimiento de Dios y en su obediencia, y con estos pocos
cristianos que conmigo vienen he yo desbaratado mayores señores que Atabalipa» (FJ, 329 a)29.
Una volta che la connessione tra le due parti (di qua e di là dell'Atlantico)
dell'unico impero sarà assicurata, la prosecuzione della conquista contro i ripetuti
e pressanti inviti degli indigeni all'abbandono più non sarà libera opzione ma
obbligo ineludibile: «Pizarro le respondió [ad un messaggero di Atahuallpa] que no
iba a enojar a nadie, cuanto más a tan grande principe, y que luego se volvería a
la mar como él lo mandaba, si embajador no fuera del Papa y del Emperador,
señores del mundo; y que no podía, sin gran vergüenza suya y de sus
compañeros, volverse sin verle y hablarle a lo que venía, que eran cosas de Dios y
provechosas a su bien y honra» (LG, 227 b). E in quanto alle conseguenze, saran-
no gli indios medesimi a conoscere ed apprezzare (esattamente per quell'in-
cremento di razionalità cui sopra s'accennava) «el beneficio que habéis resce-
bido en haber venido nosotros a la tierra por mandado de su majestad» (FO, 57
a). Ben altra, è noto, fu la realtà!
A questo ambito va riferita la trasgressione dei Comentarios reales dell'Inca
Garcilaso de la Vega. Nessuna pur minima obiezione sugli scopi e finalità della
Conquista, qualificata qual «obra de la misericordia divina para traer aquellos
gentiles a su iglesia católica romana» (39 a). Robusti dissensi, per contro, sui
modi. E non tanto per ragioni moralistiche. L'operazione eversiva compiuta dal
meticcio consistette nell'allargare i confini della storia peruviana: nel retro-
datarne gli esordi ai tempi della barbarie preincaica (interpretati come annunci del te-
leologico dispositivo della storia). Ne deriva una tripartizione. In una prima fase
trionfò la bestialità («Para lo cual es de saber, que en aquella primera edad y
antigua gentilidad, unos indios había poco mejores que bestias mansas, y otros
muchos peores que fieras bravas») (GVI, I, 19 a), l'idolatria senza freni («Y así
vinieron a tener tanta variedad de dioses, y tantos que fueron sin número»)
(Ibidem), la crudeltà nei sacrifici («Conforme a la vileza y bajeza de sus dioses,
era también la crueldad y barbariedad de los sacrificios de aquella idolatría»)
(20 b), il disordine di pueblos e insediamenti e il dissesto delle abitazioni («Los
más políticos tenían sus pueblos poblados sin plaza, ni orden de calles, ni de
casas, sino como un recogedero de bestias») (22 a), l'impudicizia e rozzezza nel
vestire («El vestir, por su indecencia, era más para callar y encubrir, que para
lo decir y mostrar pintado») (23 b) ecc. Popoli «simplicísimos en toda cosa a
semejanza de ovejas sin pastor», insomma. La seconda fase si apri sotto il segno
dell'intenzione del Dio cristiano:
Viviendo o muriendo aquellas gentes de la manera que hemos visto, permitió Dios Nuestro
Señor que de ellos mismos saliese un lucero del alba, que en aquellas escurísimas tinieblas
les diese alguna noticia de la ley natural, y de la urbanidad y respetos que los hombres
debían tenerse unos a otros, y que los descendientes de aquél, procediendo de bien en
mejor, cultivasen a aquellas fieras y las convirtiesen en hombres haciéndoles capaces de
razón y de cualquiera buena doctrina; para que cuando ese mismo Dios, sol de justicia,
tuviese por bien de enviar la luz de sus divinos rayos a aquellos idólatras, los
hallase no tan salvajes, sino más dóciles para recibir la fe católica... (25 a e b).
... protesto decir llanamente la relación que mamé en la leche [...] y prometo que la afición de
ellos [los parientes] no sea parte para dejar de decir la verdad del hecho, sin quitar lo malo,
ni añadir lo bueno que tuvieron [...] y no escriviré novedades que no se hayan oído, sino
las mismas cosas que los historiadores españoles han escrito de aquella tierra y de los reyes
de ella, y alegaré las mismas palabras de ellos, donde conviniere, para que se vea que no
finjo ficciones en favor de mis parientes, sino que digo lo mismo que los españoles dijeron;
sólo serviré de comento, para declarar y ampliar muchas cosas que ellos asomaron a decir y
las dejaron imperfectas por haberles faltado relación entera... (32 a).
A los hijos de español y de india [...] nos llaman mestizos por dezir que somos mezclados de
ambas naciones: fue impuesto por los primeros españoles que tuvieron hijos en indias, y por
ser nombre impuesto por nuestros padres, y por su significación, me lo Ilamo yo a boca
llena, y me honro con él (GVI, I, 373 b).
Quel che dunque poteva apparire legittimo, nelle crónicas, per ridurre a ragione il
regno dell'arbitrio, dell'arroganza, della sopraffazione, parrà improvvido ed incongruo
se rivolto contro l'eutopia realizzata dell'impero andino. Ecco pertanto la ragione del
prevalere, sui segni di dissimilazione esaltati dai cronisti spagnoli, dei tratti di somiglian-
za tra tempo passato e presente; della funzione preparatoria della razionalità incaica ri-
spetto alla verità cristiana31.
¿Qué mayor insipiencia y disparates que dice aquí Gómara, y aún, qué más claras
mentiras? Que sean mentiras y compostura de Gómara parece, porque tantas pláticas y tan
largas y particulares no podían pasar entre gentes que no se entendían, como él confiesa no
entenderse, según queda dicho34.
Véis aquí con qué tiene Cortés [ma si potrebbe leggere benissimo: Pizarro] engañado a todo el
mundo y no sin culpa de muchos de los que lean su falsa historia, no considerando que
aquéllos estaban quietos en sus casas [...]. Y desta culpa, los lectores della no son inmunes,
al menos los que son letrados35.
Los de la tierra decían que la isla estaba muy buena [...] porque se habían alzado ciertos
indios de cierta provincia, donde captivarían muchos esclavos. Yo lo oí por mis oídos
mismos [...] por manera que daban por buenas nuevas y materia de alegría estar los
indios alzados, para poderles hacer guerra, y por consiguiente, capturar indios para los
enviar a vender a Castilla por esclavos".
Dalla parte dei vinti stava dunque la ragione (secondo lo stesso tendenzioso
metro di giudizio statuito dai conquistatori). Ma dalla parte di questi ultimi stava
la parola; e l'assenza di scrupoli nel servirsene.
Torniamo alle ambascerie dell'Inca. Di studio, di pace, di conciliazione. A
ciò gli invasori oppongono doppiezze e crudeltà (registrate nelle storie, si ba-
di)... ma, una volta di più, si applica la legge della preventiva (quanto truf-
faldina) compensazione. Se doppiezza ci fu da parte spagnola –valga l'assioma– al-
tro non poté essere che contraccolpo e ristorno d'una precedente e maggiore di parte
peruviana. Le cronache dipanano l'intricato groviglio secondo un paradigma fisso,
che val la pena di riassumere:
a) arrivano i messi con doni («ovejas», sandali d'oro, preziosi). Ciò non
giustificherebbe alcuna ritorsione, ovviamente... Allora
b) si tortura uno degli inviati, di norma il «principal», il quale cede (o, per
meglio dire, al quale la cronaca attribuisce un cedimento), denunciando le «malas in-
tenciones» riposte dell'Inca38. Va rilevata a questa altezza una accumulazione massi-
ma di indicatori testimoniali e di predicati soggettivi, percettivi o ipotetici («ha-
bían oído que...», «le parecía que no venían de buena intención...», «si cautelo-
samente viniese, como parescía que venia...» ecc.
c) confermato infine il sospetto, risulta a posteriori giustificata la tortura e
si può a cuor leggero metter mano alle armi e dare il segnale d'attacco! E' suffi-
ciente poi rimuovere qualsivoglia connessione tra episodio e contesto generale e
il gioco è fatto.
Stupefacente (e sommamente significativa) la degenerativa variante allo sche-
ma, proposta da Hernando Pizarro, protagonista e relatore della missione al
tempio di Pachacámac, compiuta per abbatter idoli e raccattar ori dopo la prigionia
dell'Inca. Il fratello del conquistador si è spinto in profondità verso sud; teme
verosimilmente d'esser attaccato di sorpresa e pertanto indaga sulla presenza di
contingenti d'armati nei pressi del luogo sacro: «Unos indios, que se atormen-
taron, me dijeron que los capitanes e gente de guerra estaban seis leguas de
aquel pueblo». Per evitare che i nativi scambino prudenza per codardia, Her-
nando si spinge «a aquel pueblo con catorce de a caballo e nueve peones». Ma
dei soldati annunciati, neppure l'ombra! Ed ecco la stupefacente spiegazione:
«Porque, según pareció, había sido mentira lo que los indios habían dicho, salvo
que pensaron meternos temor para que nos volviésemos» (HP, 56). E il suppli-
zio?!! Sta quattro righe più sopra, ma il capitano-cronista se n'è già scordato. E
una confessione estorta tra i tormenti (e pertanto scarsamente attendibile) si
converte in inganno architettato dalla vittima medesima, costretta a mentire.
Trionfo della parola, evangelizzazione, inganno...: mai, certo, tali ingredienti
vennero così sapientemente elaborati e mescolati come nel racconto dell'incontro
e della strage di Cajamarca e dell'assassinio dell'Inca.
V. La parola e il gesto.
Il tasso di finzione dei diversi segmenti di storia è direttamente proporzio-
nale alla loro centralità strategica, alla posta ideologica impegnata su di essi. L'in-
contro e la strage di Cajamarca costituiscono l'indiscusso culmine dell'epopea pe-
ruviana. Naturale che su di essi s'accentrino le attese dei lettori e le cure inte-
ressate degli estensori.
a) L'imboscata spagnola. Che si tratti di una imboscata archittettata dagli inva-
sori è cosa arduamente confutabile. E difatti nessuno cerca di smentirlo.
Lasciamo la parola a Francisco de Jérez:
Luego el Gobernador mandó secretamente a todos los españoles que se armasen en sus
posadas y tuviesen los caballos ensillados y enfrenados, repartidos en tres capitanías, sin
que ninguno saliese de su posada a la plaza; y manda al capitán de la artillería que tuviese
los tiros asentados hacia el campo de los enemigos, y cuando fuese tiempo les
pusiese fuego. En las calles por do entran a la plaza puso gente en celada; y tornò con-
sigo veinte hombres de a pie, y con ellos estuvo en su aposento, porque con él tuviesen car-
go de prender la persona de Atabalipa si cautelosamente viniese, como parecía que
venia, con tanto número de gente como con él venia... (332 a).
Versione ribadita da Gómara (che dal canto suo sottolinea: «Pizarro mandó
que ninguno hablase ni saliese a los de Atabaliba hasta oír un tiro o ver el
estandarte»(228 a), ripresa con identici accenti da Zárate (476 a) e da Oviedo
(che anche in questa occasione si conferma plagiario nei riguardi di Jérez: «E
dijo que él ternía atalayas para que viendo que venía de mal arte, avisaran
cuando hobiesen de salir, e saldrían todos de sus aposentos a caballo, cuando oyesen
decir Santiago», 54 a)39.
...los cuales [papas] habían dado al potentísimo rey de España la conquista y con-
versión de aquellas tierras; y así viene agora Francisco Pizarro a rogaros seáis
amigos y tributarios del rey de España, emperador de romanos, monarca del mundo; y
obedezcáis al Papa, y rescibáis la fe de Cristo, si la creyéredes, que es santísima, y la
que vos tenéis es falsísima...
Y sabed que haciendo lo contrario vos daremos guerra y quitaremos los ídolos, para
que dejéis la engañosa religión de vuestros muchos y falsos dioses (LG, 228 b).
Respondió muy atentamente lo que decía don Francisco Pizarro y lo dice la lengua
[l'interprete], Felipe, indio. Responde el Inca con una majestad [...] [e] hablando con grande
majestad... (foja 385).
...e porfiando a abrille, lo abrió, e no maravillándose de las letras ni del papel, como otros
indios suelen hacer, lo arrojó luego cinco o seis pasos de sí (FO, 55 b).
Pare sintomatico che il cronista della Storia generale e naturale delle Indie ri-
solva in tal cruciale frangente di discostarsi dal consueto paradigma (proposto da
Jérez, com'è noto), per prediligere la più sbrigativa e tendenziosa versione del roz-
zo Hernando Pizarro:
Un fraile dominico díjole cómo era sacerdote e que era enviado por el Emperador pa-
ra que les enseñase las cosas de la fe, si quisiesen ser cristianos. E díjole que aquel
libro era de las cosas de Dios. Y el Atabaliba pidió el libro e arrojóle en el suelo e di-
jo... (HP, 53)44.
Y así, despidiéndose dél, le dijo: "Vaste capitán, pésame dello; porque en yéndote tú, sé que
me han de matar este gordo y este tuerto"; lo cual decía por don Diego de Almagro, que
[...] no tenía más de un ojo, y por Alonso de Requelme, tesorero de su majestad, a los
cuales había visto murmurar contra él [...]. Y así fué, que partido Hernando Pizarro, luego se
trató la muerte de Atabaliba (479 b).
...Se trató la muerte de A. por medio de un indio que era intérprete entre ellos llamado
Felipillo [...] el cual dijo que A. quería matar a todos los españoles secretamente [...] y como
las averiguaciones que sobre esto se hicieron era[n] por lengua del mesmo Felipillo,
interpretaba lo que quería, conforme a su intención. La ca us a qu e l o mo vi ó fu e q ue
e s t e i nd io t e ní a amo r e s c on una de las mujeres de A., y quiso con su muerte gozar
della seguramente... (AZ, 479 b).
Acordaron que pues el Inca había enviado un hermano suyo por embajador, que el
Gobernador enviase otro de los suyos, porque correspondiese en la calidad del
embajador, ya que no podía en los dones y dádivas (40 a).
Los indios les hicieron grandísima reverencia y los miraron con admiración de su aspecto,
hábito y voz, y los acompañaron hasta ponerlos delante del Inca...
Dall'altro,
Los españoles entraron admirados de ver la grandeza y riqueza de la casa real y de la mucha
gente que en ella había...
Aquí vuelve a lamentar el buen P. Blas Valera la desdicha de aquella gente, diciendo que si el
intérprete declarara bien las razones del Inca los moviera a misericordia y a caridad; pero dejó tan
mal satisfechos a los españoles como había dejado a los indios, por no saber bien el lenguaje de
éstos ni de aquéllos (GVI, 44 b).
...allá fueron estos dos dichos caballeros encima de dos caballos muy furiosos enjaizados y
armados y llevaba mucho cascabel y penacho y los dichos caballeros [...] comenzaron a
apretar las piernas, corrieron muy furiosamente que fue deshaciéndose y llevaba mucho
ruido de cascabel. Dicen que [...] con el espanto cayó en tierra el dicho Atahualpa Inca de
encima de las andas. Como corrió para ellos y toda su gente quedaron espantados,
asombrados, cada uno se echaron a huir porque tan gran animal corrían y encima unos
hombres nunca vista de aquella manera, andaban turbados...
Luego tornaron a correr otra vez y corrían más contentos y decían: a Santa María, buena
seña, a señor Santiago, buena seña. [...] Albricias, hermanos míos [...] será Dios servido que
le comencemos la batalla, por todos se espantaron y dejaron en tierra a su rey y cada uno
echaron a huir, buena seña, buena seña (foja 383)51.
Il contrassegno dominante nei Bailes de la Conquista è la visualizzazione d'una
frattura insormontabile: «Durante la rappresentazione –afferma Lore Terracini– si
mantiene quasi uno schieramento frontale; gli attori restano continuamente ai
margini della scena e si riconoscono l’un l'altro solo quando intervengono in essa;
da una parte stanno le ñustas, tra le quali rimane l'Inca, e vicino sta disteso Huaylla
Huisa; dall'altra parte, a una ventina di metri, stanno, vestiti con resti di antichi
elmi e corazze e con divise militari moderne, gli spagnoli, uno dei quali [...] indos-
sa una lisa veste talare»52 . Frattura che viene straordinariamente esaltata dal
mancato incontro (dalla fallita intersecazione) tra i due canali (imperativi e
dialogici) che verticalmente connettono gli esponenti delle due nazionalità in
contatto. Da un lato, la parola-comando scaturisce dal re di Spagna (mosso dalla
volontà di razionalizzare lo sconcerto suscitato dal regale e inconsueto personag-
gio: «¿Quién es aquel hombre que viene con tanto imperio?») (r. 23), concretandosi
nella missiva per l'Inca consegnata a Pizarro. I successivi passaggi della lettera-
simbolo marcano le fasi d'approssimazione al destinatario misterioso: Pizarro
consegna ad Almagro mandato e missiva («Vaya Usted con esta embajada por
orden de mi ilustre amo, donde el señor Rey Inca de los indios») (rr. 52-54); que-
sti, a sua volta, ordina ai soldati di seguirlo nell'avventura peruviana... Parallela a
questa catena ne corre un'altra, interna al bando indigeno. L'indovino Huaylla
Huisa è stato visitato in sogno da sinistri presagi. Si reca al palazzo dell'Inca a rife-
rirgliene... Premonizioni, luttuose visioni s'addensano ad incupire un quadro domi-
nato dall'incertezza, dalla precarietà («¿Qué es esto? Cierto habían estado viniendo
esos enemigos barbudos, orillando el mar rojo, muchos navíos juntando [...]
caras apiñadas como maíz blanco, barbas ásperas partidas en las quijadas como de
macho cabrío, en sus manos fierro como honda hacen relumbrar una estrella de
fuego, y en sus pies fuego como estrella...») (rr. 85 ss.). I sogni van facendosi più
incombenti e minacciosi; le decifrazioni tentate più cogenti, implicando sempre
nuovi soggetti interroganti (Primo Inca, Huayna Cápac Inca ecc.). «Dalla lettu-
ra del testo si ricava quasi l'impressione –asserisce Lore Terracini– che si tratti di
un'unica eterna ambasciata, o meglio di due serie di ambasciate che non riescono
mai a incontrarsi»53 : ma il parallelismo delle modalità di trasmissione non vale a
celare l'eterogeneità degli oggetti passati di mano in mano e delle loro domande.
La corposità della lettera, il suo tono imperativo, opposta alla impalpabilità, al-
l'indeterminatezza del sogno. Uno scarto che vale a denotare l'estensione dello
squilibrio tecnologico!
Avviene, infine, la consegna della lettera del re di Spagna all'Inca. E' un
punto d'incontro, ma illusorio, patentemente mancato. Nessuno sa decifrarne il
contenuto:
¡Ay qué bianca chala esta chala; de aquí mirada se parecen como huellas de una serpiente
que se ha deslizado; bien mirado! otro tanto, se parece a los ojos de mi ñusta tan redondo,
tan redondo, mirándolo por este otro lado se parece al camino de Huaylla Huisa tan
quebrado, tan quebrado; qué chala ésta que no la puedo entender, no la puedo adivinar!...
(rr. 169 ss.).
Le vie si dipartono ancora: la lettera regale corre a ritroso dal Re Inca all'in-
dovino Huaylla Huisa; da questi a Primo Inca («¿Qué chala, qué chala es ésta?
[...] Por este lado se ve como una pata de gallo abierta en tres; por aquí se
parece a la cajita di Huaylla Huisa redonda redonda; de este otro lado se ven
Como montón de hormigas negras...») (rr. 195 ss.); e da questi, ancora, a Huá-
scar Inca, fino a chiudere il cerchio tra le mani del Rey Inca... Un passaggio
senza fine, una interrogazione continua, senza possibile risposta. Fino a che
l'impazienza degli invasori prende il sopravvento: l'inettitudine dei nativi a deci-
frare la chala ne scatena l'ira e l'arroganza:
¿Oh bárbaro, no sabes que este papel es orden importante de mi ilustre rey de España?
(rr. 238 s.).
VII. Conclusioni.
Atahuallpa morirà. Il cosmo intero ne piangerà la scomparsa. Gli indios or-
fani ne attenderanno e invocheranno la resurrezione. Messianismo latente; preva-
lere di immaginarie rappresentazioni e compensazioni. In esse, gli spagnoli ver-
ranno sconfitti. Pizarro punito dal suo re con la morte per aver ecceduto nell'ese-
cuzione del compito affidatogli.
E' il trionfo del sogno. Di quel sogno impalpabile che visitò Huaylla Huisa e
agitò le notti di Atahuallpa, incapace d'interpretarlo. Intanto, gli spagnoli superano
il sogno per volgersi alla prosa delle ordinanze, delle regolamentazioni e disposi-
zioni della pratica coloniale. Una lettera sèguita a veleggiare dalla penisola al
nuovo continente: una lettera iniqua perché oscura, criptica, indecifrabile, osti-
natamente resistente, sorda alle interrogazioni dei nativi.
NOTE
1. Tant'è vero che si dovettero evocare, quali plausibili correlati le «cosas de encantamiento» dei libri di ca-
valleria, allora in grande auge. Cosí Bernal Díaz del Castillo, ammirato della magnificenza della "calzada
de Iztapalapa", principale via d’accesso a Messico-Tenochtitlán, annota: «Nos quedamos admirados, y
decíamos que se parecía a las cosas de encantamiento que cuentan en el libro de Amadís" (Historia
verdadera de la Conquista de la Nueva España, in Historiadores primitivos de Indias, II, Madrid 1946, p. 82 a).
Da parte sua, Francisco López de Gómara gli fa eco nella Conquista de México, in Historiadores primitivos:,
cit., I, p. 415 b. Ho alluso alla questione nel recentissimo Dispositivi e agenti di una aggressione combinata:
Conquistadores, storiografi, missionari in Nueva España, in «Nova americana» 3 (1980). Rimane fonda-
mentale al riguardo I.A. Leonard, Books of the Brave, New York 1964.
2. L. Terracini, Il grado zero della diffusione: il silenzio americano, in «Sigma» XI (1978), pp. 181-190; ivi,
pp. 182-183. Colgo l'occasione per ringraziarla per avermi fornito prezioso materiale bibliografico e per i
molti suggerimenti offerti al presente intervento.
3. Di seguito elenco i testi base cui questo saggio via via si riferirà (mandando in parentesi le sigle relative): F. Ló-
pez de Gómara, Historia genera de las Indias (LG); Francisco de Jérez, Conquista del Perú (FJ); Agustín de
Zárate, Historia del descubrimiento y conquista del Perú (AZ), citati da Historiadores primitivos..., ed. cit.
(rispettivamente I, pp. 155-294; II, pp. 320-348 e pp. 458-574); Gonzalo Fernández de Oviedo, Historia
general y natural de las Indias (FO), Madrid 1954-1959 (in 5 voll.; soprattutto v. V); Hernando Pizarro, Carta
de H.P. a los oídores de la Audiencia de Santo Domingo (HP); Juan Ruiz de Arce, Advertencias de J.R.
A. a sus sucesores (RA); Diego de Trujillo, Relación de D. de T. (DT), tutti ripresi da Conde de Canilleros,
Tres testigos de la conquista del Perú, Madrid 1953 (rispettivamente pp. 47-65; 67-115 e 117-141); Pedro
Pizarro, Relación del descubrimiento y conquista de los Reinos del Perú (PP), in Crónicas del Perú (in 5
vol.), v. V, Madrid 1965, pp. 167-270. A ulteriori cronache spagnole si rinvierà in successive note. Per i Comenta-
rios reales (GVI, I) e la Historia general del Perú (GVI, II) dell'Inca Garcilaso de la Vega si sono utilizzati i
voli. Il e III delle Obras completas, Madrid 1960. Alle parzialissime trascrizioni di Miguel León Portilla, El re-
verso de la Conquista, México 1964, ci si è riferiti per El Primer Nueva Corónica y Buen Gobierno di Felipe
Huamá (o Guamán) Poma de Ayala (pp. 134-159) e per la Instrucción del Inca don Diego de Castro, Titu
Cusi Yupanqui, para el muy ilustre Señor el Lic. Lope García de Castro (pp. 159-164). Utilmente consultabili
le Crónicas peruanas de interés indígena, Madrid 1968 (e soprattutto la Relación de muchas cosas acaescidas
en el Perú, attribuita a Cristóbal de Molina, el Almagrista, ivi, pp. 59-95). Per le operette dialogate del ciclo della
"morte di Atawalpa" si sono confrontate le versioni di Oruro (La conquista de los españoles. Drama indigena
bilingue quechua-castellano, ed. C.H. Balmori, Tucumán 1955) e quella di Chayanta (Tragedia del fin de
Atawalpa, ed. J. Lara, Cochabamba 1957). Ho notizia, senza aver potuto vedere il testo, della descrizione dell'ana-
loga rappresentazione di Toco, raccolta da Mario Unzueta, nel cap. «La fiesta del señor de Kanata», del roman-
zo Valle, Cochabamba 1945. (I corsivi nelle citazioni testuali sono sempre di chi scrive).
4. Traduco il passo che trovo citato in J.O. de Coll, La resistencia indígena ante la conquista, México
19762, p. 195.
5. Per la festa della Vergine del Socavón, la domenica e il lunedì di Carnevale vien rappresentata la
Conquista di Oruro; la versione di Toco è messa in scena durante la festività di Santo Spirito, dal l°
al 3 giugno. Raccolgo queste notizie da N. Wachtel, La visione dei vinti, Torino 1977, pp. 48 ss. e
da L Terracini, «Un contrasto di lingue in due diverse prospettive», in Studi in onore di A. Monteverdi,
Modena 1959, pp. 831-859, alle cui finissime analisi dei testi indigeni largamente mi riferirò nelle pagine
finali del presente saggio.
6. Cfr. il corredo iconografico del Primer Nueva Corónica... di Felipe Huamán Poma.
7. Si allude alla Instrucción di Titu Cusi Yupanqui (citata sopra). Al riguardo cfr. R. Porras Ba-
rrenechea, Los cronistas del Perú, Lima 1962, pp. 432-436.
8. «Questo atto smisurato –afferma Julio Ortega– il cui carattere letterale è anche un atto di fede nella scrittu-
ra che il cronista indio non ha ancora compiutamente assimilato, si chiude su una pagina in bianco: dove, al-
l'atto di consegnare il manoscritto di 1200 pagine e 450 disegni, dovevano venir registrati i nomi dei funzio-
nari che ricevevano il testo e la destinazione che gli riservavano", in «Cuadernos hispanoamericanos», CXX
(1980), pp. 600-611; ivi, p. 610.
9. Cfr. il «Prólogo» indirizzato a Carlos V della Historia general de las lndias, cit., p. 155: «La
mayor cosa después de la creación del mundo, sacando la encarnación y muerte dél que lo crió, es el
descubrimiento de las Indias y así las llaman Mundo Nuevo».
10. Tattica, questa, già esperimentata da Hernán Cortés, nella conquista del Messico, come già si indicava nel citato
Dispositivi e agenti... Si trattò, in buona sostanza, d'inserire cunei al fine di approfondire le contraddizioni tra popolo
e popolo e tra classe e classe (o gruppo e gruppo), dissimilando ove possibile, allo scopo di guadagnare alleati nel cam-
po avverso, seminando indiscriminatamente il terrore, distribuendo cariche e prebende. Quello che si delinea è un pro-
getto embrionale di formazione di élites integrate nel nuovo ordine coloniale. Leggiamo F. de Jérez. E' stata abbando-
nata l'isola di Puna, e il Gobernador «acordó poner en libertad al cacique. El cacique fue contento, con voluntad
de servir a su majestad de allí adelante...» (323 a). Famoso per la collaborazione accordata a Pizarro il cacicco Quili-
masa. Procediamo oltre. La cronaca dello scrivano ufficiale registra il supposto tradimento d'una popolazione indi-
gena. Al pari di Sandoval sul rio Pánuco (Nueva España), il Gobernador ordina che vengano arsi sul rogo i responsa-
bili. Poi convoca il cacicco Lachira «al cual apercibió que de allí adelante fuese bueno, que a la primera ruindad no le
perdonaría». Indi gli affida il comando «hasta que un muchacho, heredero en el señorío de Almotaje fuese de edad para
gobernar» (FJ, 324 b).
11. Così il riassunto di N. Wachtel, op. cit., p. 51.
12. P. Duviols, La destrucción de las religiones andinas (Durante la conquista y la colonia), México 1977,
pp. 89-90.
13. B. de Las Casas, Historia de las lndias, in Obras escogidas, vol. LI, Madrid 1961, 466 b.
14. Facciamo un esempio. L'incontro, potenzialmente decisivo per lo svolgimento dei fatti futuri, tra H. de Soto e
P. de Benalcázar da una parte e l'Inca Huáscar dall'altra (esautorato dal quitegno Atahuallpa e da questi tenuto in
ceppi) degrada nel resoconto dei cronisti in un piatto argomentare sulla convenienza del mantenere ovvero cambiare
fantoccio al fine di controllare le posizioni conquistate nella regione e di incrementare gli utili dell'impresa. Anche
Huáscar infatti invoca libertà e protezione dagli spagnoli (favorendoli di un formidabile supporto legittimatore) of-
frendo loro un riscatto tre volte più cospicuo di quello concordato tra Atahuallpa e Pizarro (egli può, a diffe-
renza dell'usurpatore, attingere all'imperiale tesoro del Cuzco). Zárate censura, con sintomatico disappunto,
l'impaccio di de Soto nel cogliere la straordinaria occasione. Ed attribuisce ad Atahuallpa la lucida intuizione
della convenienza di mandare a morte senza indugi il fratello, ché «para el oro y la afición de los españoles»,
questi «quitarían e1 reino y lo darían a su hermano» (AZ, 478 a).
15. P. Duviols, op. cit., p. 90.
16. Ibidem. Lo studioso francese riporta l'aneddoto (a suo dire, probabilmente apocrifo) delle soldatesche spagnole
che impazienti non attesero la risposta di A. alla concione di fray Vicente, abbandonandosi al saccheggio di un
ricco tempio in prossimità della piazza ove avvenne l'incontro: «A este tiempo los españoles, no pudiendo
sufrir la prolijidad del razonamiento subieron a una torrecilla a despojar un idolo que allí había, adornado
con muchas planchas de oro, y plata, y piedras preciosas; con lo cual se alborotaron los indios y levantaron
grandísimo ruido» (GVI, 52 a.)
17. Cfr. per tutta questa parte Duviols, pp. 373 ss. Conferma tanto saccheggio Pedro Cieza de León: «Se han
hallado grandes tesoros en sepoltura, y se hallarán cada día y no ha muchos años que Juan de la Torre [...]
halló una desas sepulturas que afirman valió lo que dentro della sacó más de cincuenta mil pesos», Crónica
del Perú, Bs. As. 1945, p. 185. Com’è noto, intorno al 1565, a partire dalla regione di Vilcabamba, si produr-
rà una reviviscenza mistica con contenuti messianici e con il ripristino delle antiche huacas. Le visitas di
Francisco de Ávila, H. de Avendaño e José de Arringa (e gli informes che ne derivarono) vennero predispo-
ste, tra l’altro, al fine di contrastare il fenomeno. Cfr. a questo riguardo la Extirpación de la idolatría del Pirú
di Arriaga, in Crónicas peruanas de interés indígena, cit., pp. 191-277. Cfr. La Introducción all’opera di E-
steve Barba, cit., pp. LIII ss.
18. P. Duviols (op. cit., pp. 376 e ss.) riferisce di «alcuni francescani i quali, basandosi su una incerta tradi-
zione, fecero tanti scavi nel loro convento che si rese necessaria una risoluzione della Audiencia de Charcas
per fermarli, pena il crollo dell’edificio. Una impresa, la loro, che produsse la «totale perturbazione» della
vita monastica, con inevitabili ripercussioni nel crollo delle elemosine dei fedeli.
19. Interviene su questo tema B. de las Casas, (Thesauris in Peru (1562), Madrid 1958, p. XVI), il quale as-
serisce che i tesori depositati nelle sepolture dei grandi dovevano essere restituiti agli eredi o alla comunità
indigena ovvero alle chiese degli indios. Sull’argomento interviene anche la Apologetica Historia, Madrid
1909, tributaria in più punti di Cristóbal de Molina, El Almagrista, Relación de muchas cosas…, cit., pp. 59-
95. Opera definita a sua volta «vera e propria Destruyción peruviana.
20. Cfr. anche GVI, I, 232-233. Cfr. anche GVI, I, 232-233, sull'etimo di Rímac (sede di un idolo allocato
ove attualmente è Lima): "El nombre rímac es participio de presente, quiere decir el que habla...". Cfr. A.
Miró Quesada, El Inca Garcilaso..., Madrid 1971, pp. 191 sa.
21. Rinvio ancora al mio Dispositivi e agenti…, cit.
22. Del tutto opposta, anticipiamo, l’opinione del meticcio Garcilaso. Sintomatico a esempio il ri-
baltamento dell’opinione zaratiana sullo stato di anarchia vigente nell’Incario. Atahuallpa, a dire
del meticcio, è impegnato nei bagni di Cajamarca in un’opera di legiferazione: «A.[...] trataba de
reformar y poner en buen orden algunas cosas que con las guerras se habían corrompido, entre las
cuales, por vía de reformación hacía nuevas leyes y estatutos en favor de su tiranía y seguridad de su
persona..." (GVI, II, 40 a). N. Wachtel (op. cit., p. 227) conferma che il progetto di unificazione lin-
guistica perseguito dagli Incas, verrà messo a profitto dagli stessi missionari spagnoli.
23. Tanto verrà oggettivamente confermato dalla sanzione evangelizzatrice. Ma un più ravvicinato
puntello legittima, secondo le crónicas, l'aggressione. Huáscar invia un suo messo a Pizarro per
ottenerne l'aiuto contro l'usurpatore: «Llegaron al Gobernador mensajeros del Cozco [...] haciéndole
saber la rebelión de su hermano A. [...] y le enviaba a decir que le socorriese y le diese favor para
defenderse dél» (AZ, 475 b, e LG, 227 b). Inoltre, l'epilogo della vicenda viene presentato come
conseguenza delle maledizioni lanciate dall'infelice Huáscar, all'atto della sua morte violenta: «Yo
he sido poco tiempo señor de la tierra, y menos lo será el traidor de mi hermano, por cuyo
mandado muero, siendo yo su natural señor» (AZ, 478 b). La manovra autogiustificatoria è suggellata dal-
l'intervento risolutore del demonio: «Lo cual pudo bien ser industria del demonio...» (Ibidem). Anti-
atahuallpiano sarà, per ragioni di discendenza materna, lo stesso Inca Garcilaso: alcune delle contraddizio-
ni tra cui si dibatte il suo progetto storiografico sembrano riconducibili a tale collocazione.
24. A. Metraux, Gli inca, Torino 1969, pp. 71 ss. Cfr. anche Anita Seppilli (La memoria e l' assenza,
Bologna 1979, p. 43) per una conferma della compartimentazione della società andina: «Le scuole incaiche,
dove gli amauta insegnavano scienze erano aperte esclusivamente ai nobili, perché tali matria non
s’addicevano all’apprendimento della gente comune. Ai figli dei plebei si insegnava la professione dei pa-
dri».
25. N. Wachtel, op.cit., pp. 84 ss. Cfr. Il paragrafo Reciprocità e redistribuzione.
26. Specularmente, in Felipe Huamán Poma (cfr. M. León Portilla, op. cit., pp. 142 sa.), Aya-
huallpa si stupisce dei segni di relativo egualitarismo riscontrati tra gli invasori: «Que todos pare-
cían hermanos en el traje y hablar y conversar, come y vestir y una cara».
27. GVI, II, 38 b: «Y en particular trajeron al Gobernador un calzado de los que el Inca traía y dos
brazaletes de oro que llaman chipaua [...] y era insignia militar y de mucha honra y no lo podían traer
sino los de sangre real...».
28. Si rammenti, ad es., il dialogo (fittizio) tra H. Cortés e il signore di Caltanmí, risolto in una
sorta di competizione tra vassalli eccellenti in margine alla esaltazione dei rispettivi sovrani. Ri-
mando in proposito, ancora, a Dispositivi e agenti... Vedi ancora M. Hernández Sánchez-Barba,
Historia y literatura en Hispano-América, Madrid 1978, pp. 34 ss. e, soprattutto, V. Frankl, Imperio
particular e imperio universal en las Cartas de relación de H.C., in «Cuadernos hispanoamericanos»
XCVII (1963), p. 165.
29. Cfr., anche: FO, 48 a: «Hágote saber que el Emperador [...] tiene muchos criados mayores
señores que A.» e più oltre (56-57), dopo la vittoria di Cajamarca, «con alguna artificiosa
jactancia», Pizarro aggiunge: «Con menos que éstos [...] he desbaratado otros mayores señores que
tú». (Si sarà osservato che la minima variante apportata da Oviedo rispetto al passo, citato nel testo,
di Jérez esprime un incremento di disprezzo nei riguardi degli indios).
30. Sciocca, oltreché improvvida, risoluzione, insinua GVI. Ché la magnificenza preservata della civiltà vin-
ta avrebbe conferito lustro ai conquistatori. I quali dunque avrebbero dovuto salvaguardarne le vestigia
«aunque fuera reparándola[s] a su costa para que por ella[s] vieran los siglos venideros cuán grandes
habían sido las fuerzas y el ánimo de los que la[s] ganaron y fuera[n] eterna memoria de sus hazañas»
(GVI, I, 289 a). Cfr. in proposito: A. Miró Quesada, El Inca Garcilaso, cit., p. 217.
31. Contrassegni della «segunda edad» sono: «el orden y el concerto»; l'unità linguistica (massima estensione
d'uso del «runa simi» o «lengua general del imperio»); il monoteismo e il passaggio dal concreto all'astratto
(perspicuamente rilevato nell'episodio della celebrazione della festa del sole, in cui Huayna Cápac con finis-
simo argomentare giustifica la trasgressione del tabù di «fissare il sole», asserendo la superiorità di Pacha-
cámac, o Spirito Animatore dell'Universo (cfr. GVI, I, 346 ss); la partizione della vita ultraterrena in tre
mondi: Hanan Pacha (alto, destinato ai buoni), Hurin Pacha (basso, destinato ai vivi); Ucu Pacha (inferi,
destinato ai malvagi) ecc. Fondamentale al riguardo l'asserzione per cui «Il Dio predicato dagli spagnoli e il
Pachacámac sono tutt'uno». Va considerato tutto il cap. VII del 2° libro (intitolato Alcanzaron la inmortalidad
del ánima y la resurrección universa!) dei Comentarios, cit., pp. 52 ss.
32. Assai vasta la bibliografia in proposito. Tra gli altri, cfr. S. Zavala, La filosofia de la Conquista, Mé-
xico 1947, pp. 27 ss. Sulla linea dell'Aquinate, di John Mayor, fino ai Commentari a San Tommaso del
Caetano, va definendosi una casistica che tende a distinguere infedele da infedele, appunto. Il generale dei
Domenicani, specificamente enumera: a) infedeli sudditi di fatto e di diritto dei principi cristiani (ebrei in-
sediati in Europa); b) infedeli sudditi di diritto ma non di fatto (i turchi che occupano i Luoghi Santi),
contro i quali è legittima la guerra; c) infedeli né di diritto né di fatto sudditi, e contro i quali soltanto
ammessa è la pacifica predicazione dell'Evangelo (coloro che, come gli indios, mai furono toccati dal Ver-
bo).
33. Sotto tale nome va la formula redatta nel 1512, su disposizioni della Junta de Burgos, dal teologo Palacios Ru-
bios, con cui gli indios vengono richiesti d'abiura: con la riserva che, dopo lo scontato diniego, ovvero dopo il silen-
zio di chi non può intenderne la lezione, si possa dar corso alla conquista armata
34. B.de Las Casas, Historia de las Indias, in Obras escogidas, Madrid 1958-1961, II, 460 b. Lo stesso domenicano
offre, nella Brevísima relación de la destruyción de las Indias, IV, 144 a, la più aspra e feroce caricatura del
Requerimiento pronunciato nottetempo in Cholula, ad indios tranquillamente dormienti nelle loro case, pri-
ma dello spaventoso massacro.
35. BdLC, Historia de las Indias, 463 b
36. BdLC, Brevísima relación, 168 b.
37. BdLC, Historia de las Indias, II, cap. 3. Citato in A. Lipschiltz, Marx y Lenin en la América Latina y los
problemas indigenistas, La Habana 1974, p. 188.
38. FJ, 327 a e b: «Hasta que, tornado aparte a un principal y atormentado, dijo que A. esperaba de guerra con su
gente en tres partes [...] con mucha soberbia, diciendo que ha de matar a los cristianos; lo cual dijo este principal que él
lo había oído». Cfr. anche FO, 42 a; HP, 48; et al Destinata a suscitare raccapriccio presso i lettori europei, l'inte-
grazione gomariana: «A. animó también a los suyos, que braveaban y tenían en poco los cristianos, y pensaban hacer
dellos, si peleasen, un solemnísimo sacrificio al sol», 228 a. Singolare, e del tutto assente nella Nueva España, la sot-
tovalutazione dei nemici da parte incaica: cfr. FJ, 330 a; LG, 227 b; FO, 50 a; HP, 54-55. Agustín de Zárate con-
nette tale apprezzamento all'abitudine di montar cavalli (cosa che non manca di stupire se si pensa al loro effettivo
ruolo nella Conquista): «decían que los españoles eran muy pocos y muy torpes y para poco, que no sabían andar a
pie sin cansarse y por eso andaban en unas grandes ovejas, que ellos llamavan cavallos», 476 a. La smentita
non si sarebbe fatta attendere molto. Hernando de Soto (ambasciatore al campo dell'Inca con il fratello del
Gobernador) «por darles a entender que si no fueran amigos bastara él solo para todos ellos, arremetió el caballo
llegando a carrera de ellos y así corrrió y paró cerca del maese de campo» (GVI, II, 40 b).
39. Estremamente esplicito Cristóbal de Molina, el Almagrista, 62 a: «Y los españoles guiaron allí, y
Ilegados donde A. estaba, subcedió lo que es público y notorio, que sin pelear el señor, antes pidiéndoles que
le volviesen lo que habían robado en su tierra y que luego serían buenos amigos, le acometieron de una celada
donde estaban, y mataron grandísima cantitad de indios y prendieron al dicho A. y robaron gran cantitad de
oro y plata, ropa y ovejas y indios y indias de servicio...».
40. EI Inca Garcilaso rileva l'inadeguatezza del quechua ad esprimere concetti di così alto grado d'astrazione:
«Porque para declarar muchas cosas de la religión cristiana no hay vocablos ni manera de decir en a-
quel lenguaje del Perú, como decir Trinidad, Trino y Uno, Persona, Espíritu Santo, Fe, Gracia,
Iglesia, Sacramentos y otras palabras semejantes, porque totalmente las ignoran aquellos gentiles», cfr.
GVI, II, 48 b.
41. Ibidem, 50 a: «Llegando a la segunda mitad de la oración la declaró menos mal que la primera, porque
eran cosas materiales de guerra y armas».
42. Cfr. FJ, 327 a e b; FO, 42 a e 55 b ecc.: López de Gómara aggiunge che A. si negò ad ammettere «que
hobiese otro mayor señor que él», ma il meticcio Garcilaso qualifica l’aggiunta come «fabulosa» e dettata da
«adulación», obiettando che lo stesso invio di «tantos ejércitos a tierras tan alejadas» rendeva evidente la
strapotenza dell’Emperador, II, 53 a.
43. Ben ne intesero la valenza gli anonimi estensori delle operette dialogate del ciclo della Morte di A-
tawalpa, i quali elessero a indiscusso cardine lo sconcerto degli indios per la «bianca chala», la lettera
imperativa consegnata dal re di Spagna a Pizarro e passata di mano in mano all'interno del campo indigeno.
Vedine l'analisi nell'ultimo paragrafo del presente intervento.
44. Per l'analisi della Carta di H. Pizarro, vedi F. Carrillo, Del inicio de la iniquidad en la literatura hi-
spanoamericana, in «Revista de crítica literaria latinoamericana», II (1976), 3, pp. 15-25; ivi, pp. 21 ss.
45. Cfr. il passo di Garcilaso de la Vega el Inca, diffusamente riportato al paragrafo II (I fatti). Per parte
sua, Ruiz de Arce conferma: «Y en la muralla que cercaba la plaza cargó tanta gente de indios sobre ella,
que la derribaron y hicieron un portillo de hasta treinta pasos. Por allí salió mucha gente huyendo, y todos
los demás de a caballo salimos al campo tras ellos», p. 94.
46. Cfr. M. León Portilla, op. cit., pp. 180-181.
47. RA, 95: «Dile a estos cristianos que no me maten y darles he esta casa en que estamos de oro».
48. «Hágote saber que después que A. fue preso [mandó] hacer ayuntamiento de mucha gente de guerra para
venir sobre tí y tu gente y mataros a todos", FJ, 344 b.
49. J. Durand parla a questo riguardo di «armónica inestabilidad»: «Armonia buscada y formalmente lograda;
inestabilidad oculta cuya íntima presencia se da más allá de toda inteligencia, de toda voluntad» (cfr. El Inca,
hombre en prisma, in «Studi di letteratura ispano-americana», I [1967], pp. 41-57; ivi, p. 44).
50. Lore Terracini, Il grado zero della diffusione, cit., p. 183.
51. M. León Portilla, op. cit., pp. 142-143.
52. Lore Terracini, Un contrasto di lingue in due diverse prospettive, cit., p. 834.
53. Ibidem.