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Lo scienziato Jean Novalic ha individuato una cometa che si


avvicina alla Terra. La fine del mondo sembra vicina e gli
uomini scatenano tutti i loro istinti. Due influenti banchieri
ingaggiano una lotta senza regole; il primo è un seguace di
Novalic e vuole promuovere un'alleanza fraterna tra tutti i
popoli della terra, mentre il secondo vuole invece speculare sul
panico provocato dall'annuncio di una imminente guerra
mondiale. Il primo banchiere, presidente di una seduta
straordinaria di tutti i paesi del mondo, proclama la repubblica
universale.

“La fin du monde”, Abel Gance, 1931

Le emissioni globali di anidride carbonica (CO2), causa principale del riscaldamento globale,
raggiungeranno livelli record alla fine del 2010. Lo afferma uno studio, pubblicato su “Nature
Geoscience”, condotto dai ricercatori del “Global Carbon Project”, un consorzio di scienziati che fornisce
ogni anno un aggiornamento sulla produzione mondiale di gas serra, secondo cui l’atteso calo delle
emissioni, dovuto al rallentamento economico indotto dalla recessione mondiale, nel 2009 in realtà è
stato molto contenuto (-1,3% rispetto all’anno precedente), circa la metà di quanto era stato previsto. Per
contro, nel 2010 le emissioni sono tornate a salire con un incremento di circa il 3%, valore che è tra i
massimi livelli registrati a partire dall’anno 2000. La studio registra che in molti Paesi occidentali, tra cui
gli Stati Uniti, i quantitativi di CO2 immessi in atmosfera sono calati nettamente. Ciò è avvenuto in
particolare nel Regno Unito, dove si è registrata una diminuzione dell’8,6%. Ma questi progressi sono
stati abbondantemente annullati dagli incrementi delle emissioni nei Paesi emergenti, soprattutto di Cina
e India, che hanno messo a segno aumenti, rispettivamente, dell’8% e del 6,2%.

Clima. 2010 sarà anno record per emissioni gas serra 25 novembre 2010

GCP : Global Carbon Project

Il Pianeta è uno ma viviamo come se ne avessimo a disposizione uno e mezzo. Continuando a spremere
le risorse a questo ritmo, entro il 2030 avremo bisogno di due Terre. E già ora, almeno su alcuni aspetti,
siamo oltre i confini planetari. E' questo il giudizio sullo stato di salute della Terra elaborato dal WWF
nell'edizione 2010 del “Living Planet Report”, il rapporto biennale realizzato in collaborazione con la
“Zoological Society” di Londra e il “Global Footprint Network”, lanciato in contemporanea mondiale online.
Crollano le specie globali ed esplode l'impronta ecologica dell'uomo sul Pianeta. Le specie arretrano del
30% con picchi fino al 60% nei paesi tropicali e nelle nazioni più povere (anche al 70% per le specie
d'acqua dolce), mentre la pressione antropica sulla natura è doppia rispetto agli anni '60 - quella di
carbonio addirittura 11 volte superiore (pari alla metà dell'impronta ecologica globale) - e la domanda di
risorse richiede già oggi la capacità bioproduttiva di 1,5 pianeti. ''Siamo già oltre i confini planetari -
afferma Gianfranco Bologna, direttore scientifico del “WWF Italia” - almeno su tre aspetti: il flusso di azoto
che è la nuova bomba che sta esplodendo, la biodiversità e i cambiamenti climatici''. Ci troviamo,
prosegue, ''in un deficit ecologico in cui soltanto 1/4 delle terre emerse conserva la sua naturalità'' e in cui
''i sistemi naturali non hanno più le proprie caratteristiche'' (la perdita di natura è legata alla minaccia di
mancanza d'acqua). In questo frangente storico - secondo Bologna - la biocapacità della Terra, cioè la
sua capacità di rigenerarsi, è ferma al 50%. L'Italia lascia un'impronta sul Pianeta grande ''ben 5 ettari
globali'' e soltanto ''per soddisfare il suo stile di vita'': un valore che proiettato a livello globale
richiederebbe quasi tre pianeti (2,8 per la precisione se tutti vivessero come noi). In classifica mondiale,
l’Italia si piazza al 29simo posto per la pesantezza della propria impronta ecologica pro-capite, mentre
siamo secondi solo all'Olanda per scarsità di natura disponibile a testa. E anche la nostra dieta, tanto
celebrata in passato, oggi viene messa sotto accusa perché considerata poco sostenibile. Ma il paese
che spreme più a fondo il Pianeta sono gli Emirati Arabi Uniti, il cui stile di vita richiederebbe risorse per 6
mondi (4,5 secondo stile Usa, 4 per Australia, quasi 3 per l'Unione Europea). L'impatto dovuto alla perdita
della natura, aggiunge il direttore scientifico del WWF, viene pagato soprattutto dai paesi poveri o da
quelli in Via di sviluppo con ''ricadute direttamente sulle popolazioni più vulnerabili''. Per non
compromettere le generazioni future - si osserva nel report - basterebbe che ogni abitante si
“accontentasse” di 1,8 ettari globali'. Considerando che nel 2050 la popolazione globale dovrebbe
arrivare a 9,2 miliardi è ''urgente'' rientrare nei limiti del Pianeta e ''investire nel capitale naturale''.
L'auspicio del WWF è che ci sia "quanto prima un affiancamento tra contabilità economica e contabilità
ecologica", nel frattempo si possono seguire i suggerimenti contenuti in un decalogo - per ''il futuro
sostenibile e la green-economy'' - pensato sia per i grandi accordi internazionali che per i piccoli gesti
quotidiani.

WWF, nel 2030 necessarie le risorse di 2 'Terre' Ansa 13 ottobre 2010

WWF Italia - Il Living Planet Report 2010

Le temperature medie su scala mondiale sono già salite di 0.7 gradi negli ultimi 130 anni. Nel 2007, l’
“Organizzazione Internazionale sui Cambiamenti Climatici” (IPCC) ha reso noto al mondo che, agli attuali
ritmi di crescita di emissioni da combustibili fossili, andremo incontro ad un innalzamento della
temperatura media di circa 6 gradi entro la fine del secolo che porterà all’estinzione di massa delle specie
in un pianeta praticamente inabitabile. La rivista “Proceedings for the National Academy of Sciences” ha
riportato che le attuali emissioni derivate dai combustibili fossili stanno eccedendo il limite, superando il
peggiore degli scenari.

Molti scienziati concordano che senza una drastica riduzione delle emissioni entro il 2020, si avrà un
innalzamento della temperatura di 4 gradi entro la metà del secolo con conseguenze catastrofiche,
inclusa la scomparsa delle barriere coralline, lo scioglimento dei maggiori ghiacciai, la totale perdita del
mare di ghiaccio Artico, di gran parte della Groenlandia e dell’Antartide ovest, l’acidificazione e il
surriscaldamento degli oceani, il collasso della foresta pluviale amazzonica e la scomparsa della terra
ghiacciata Artica, solo per nominarne alcune. Ognuno di questi collassi ecosistemici potrebbe innescare
un processo incontrollato di surriscaldamento. Peggio ancora, gli scienziati del Laboratorio Nazionale di
Berkeley e dell’Università della California prospettano che siamo sulla strada di un aumento delle
temperature su scala mondiale di 8 gradi entro novanta anni.

Numerose prove dimostrano che il picco nella produzione di petrolio è imminente. Ciò avviene quando la
produzione mondiale arriva al suo massimo livello e metà delle riserve mondiali di petrolio grezzo sono
andate esaurite dopo di che diviene geologicamente sempre più difficile estrarlo. Ciò significa che
passato questo limite, la produzione mondiale non potrà più raggiungere il massimo livello e quindi
diminuirà fino all’esaurimento delle riserve. Fino al 2004 la produzione mondiale di petrolio è cresciuta
continuamente dopo di che ha raggiunto una stabilità fino al 2008. Poi fra luglio e agosto 2008 la
produzione è scesa di quasi un milione di barili al giorno. Sta ancora diminuendo, persino secondo i dati
forniti dalla BP (che ogni anno finge che il picco produttivo non avverrà fino al 2040): nel 2009 la
produzione mondiale di petrolio era scesa del 2.6% rispetto al 2008 ed è ora sotto i livelli del 2004. La
volatilità del prezzo del petrolio dovuta dal picco di produzione è stata la causa principale che ha
provocato la recessione economica del 2008. Il collasso del sistema dei mutui ipotecari è stato innescato
dal colpo infertogli dal caro petrolio che ha aumentato il costo della vita e condotto a una cascata di
insolvenze. Uno studio dell’economista americano James Hamilton ha confermato che non ci sarebbe
stata alcuna recessione senza l’esplosione dei prezzi del greggio. Mentre la recessione ha contratto la
domanda, permettendo al prezzo del petrolio di ridursi, gli esperti ora mettono in guardia da un imminente
crisi nella fornitura di petrolio intorno al 2014. Mentre i cambiamenti climatici intensificano i disastri
naturali quali la siccità dei paesi colpiti dalla fame, le inondazioni nel sud dell’Asia e le ondate di caldo in
Russia e quando l’impatto del picco dei prezzi del petrolio finalmente ci colpirà, i costi per le economie
nazionali esploderanno e la produzione mondiale di cibo calerà.

Il riscaldamento globale ha già esasperato la siccità e portato una decrescita della produttività agricola
nello scorso decennio, comprendendo un calo del 10-20% delle coltivazioni di riso. La percentuale di terre
colpite dalla siccità è raddoppiata passando dal 15% al 30% fra il 1975 e il 2000. Se il trend continuasse,
entro il 2025, 1,8 miliardi di persone vivrebbero in regioni con scarsità di acqua e due terzi della
popolazione mondiale potrebbe essere soggetta a mancanza di acqua. Entro il 2050, gli scienziati
prospettano che le coltivazioni mondiali di cereali potrebbero scendere di una percentuale compresa fra il
20% e il 40%. I rilevamenti degli scienziati del SAGE dell’Università del Wisconsin e del Madison
mostrano come la Terra stia perdendo fertilità a causa dei recenti sviluppi dell’agricoltura. Nessuna
sorpresa quindi che la produttività dei terreni agricoli sia stata fra il 1990 ed il 2007 dell’1,2%, circa la
metà se paragonata al 2,1% del periodo 1950-1990. Allo stesso modo, il consumo di grano ha superato la
produzione per sette anni su otto fra il 2000 e il 2008. Oltre i cambiamenti climatici, il costo ecologico dei
metodi industriali sta rapidamente erodendo il suolo negli USA, trenta volte di più del ciclo naturale. Le
vecchie praterie hanno perso metà del terreno fertile in 100 anni di coltivazione e ci impiegano 500 anni
per recuperarne un solo pollice. L’erosione sta riducendo la produttività del 65% all’anno. La dipendenza
dell’agricoltura industriale dalla fonti energetiche ad idrocarburi, con dieci calorie di combustibile fossile
necessarie per produrre una sola caloria di cibo, sta a significare che l’impatto del picco del prezzo del
petrolio contrarrà notevolmente la futura produzione agricola mondiale.

Ma il petrolio non è l’unico problema. Numerosi studi mostrano come le riserve naturali di idrocarburi
saranno costantemente ridotte entro metà del secolo fino a divenire così scarse da risultare inutili a fine
secolo. L’ex geologo della Total, Jean Laharrere prospetta che la produzione mondiale di gas avrà il suo
picco intorno al 2025. Le nuove tecnologie per l’estrazione di gas naturale negli USA potrebbero
prolungare tale periodo di alcuni decenni ma solo se la domanda futura non aumenterà. L’indipendente
EGW (“Energy Watch Group”) di Berlino prefigura che anche la produzione mondiale di carbone avrà il
suo picco nel 2025, mentre il giornale Science afferma che ciò potrebbe avvenire nel 2011. L’EGW
afferma inoltre che la produzione di uranio per l’energia nucleare raggiungerà il culmine nel 2035.
Secondo il Gruppo di Studio sull’Esaurimento degli Idrocarburi dell’Università di Uppsala, l’utilizzo di
petrolio non convenzionale, come il greggio ultra pesante e le sabbie bituminose, non sarà in grado di
evitare il picco di produzione. Maggiore attenzione è stata riservata al torio che certamente promette di
più dell’uranio, ma, come sottolineato dall’Istituto per l’Energia e la Ricerca Ambientale di Washington,
necessita dell’uranio per generare una catena di reazioni nucleari e, nonostante decenni di ricerche, non
è stato ancora costruito alcun tipo di reattore commerciabile.

L’esponenziale espansione della moderna società industriale nel corso degli ultimi due secoli, favorita
dall’ideologia liberale della “crescita illimitata” che la ha accompagnata, è legata indissolubilmente a due
fattori:

1. L’apparentemente illimitata disponibilità di energia fornita dalla natura attraverso le riserve di


combustibili fossili;

2. La volontà dell’uomo di sovrasfruttare l’ambiente senza la consapevolezza dei limiti e dei confini
esistenti.

Ma il 21esimo secolo è l’era dell’esaurimento irreversibile delle riserve di idrocarburi e tutto ciò implica
che la società industriale, nella sua attuale forma, non può durare oltre questo secolo. Ciò significa che
questo secolo rappresenta non solo la fine dell’epoca degli idrocarburi ma l’inizio di una nuova era del
post-carbone; dovrebbe quindi essere considerato come un’epoca di “ transizione civile”. Le crisi
sopracitate sono sintomi di un economia politica, di un ideologia e di un sistema di valori non più
sostenibili che stanno crollando sotto il loro peso e che nelle prossime decadi saranno riconosciuti come
obsoleti. La domanda che rimane naturalmente è “Che cosa prenderà il loro posto?”.

Pur non essendo in grado di evitare che varie catastrofi e collassi sociali avvengano, abbiamo ancora la
straordinaria opportunità di creare un alternativa per una nuova, sostenibile ed equa civiltà del post-
carbone. L’imperativo ora per le comunità, gli attivisti, gli studenti ed i politici è quello di iniziare a
delineare i contorni di questa nuova visione ed il percorso da seguire. Ogni modello di un “nuovo mondo”,
se si devono sostituire le profonde radici della struttura del modello economico corrente, avrà il compito di
esplorare come si possono sviluppare nuove sovrastrutture sociali, politiche ed economiche che vadano
nella seguenti direzioni:
1. Distribuzione diffusa su larga scala della proprietà delle risorse produttive affinché tutti membri della
società abbiano una partecipazione nei processi produttivi agricoli, industriali e commerciali invece di una
piccola minoranza che monopolizza le risorse per i propri interessi;

2. Partecipazione decentralizzata nelle politiche economiche attraverso cooperative di produttori e


consumatori per facilitare il coinvolgimento nei processi di decision making delle imprese;

3. Ridefinire il concetto di crescita economica focalizzato meno sul materiale “prodotto interno lordo” e più
sulla capacità di sostenere valori quali la salute, l’educazione, il benessere, la longevità e la libertà politica
e culturale;

4. Sostenere la diffusione di nuove infrastrutture per l’energia rinnovabile ispirate a modelli di successo
quali quello del distretto di Woking nel Surrey (UK);

5. Riforma strutturale del sistema bancario, finanziario e monetario tramite l’abolizione dell’interesse, in
particolare la fine del sistema di creazione di moneta dal nulla attraverso il prestito al governo con
interesse capitalizzato;

6. Eliminazione dell’incontrollato sistema del credito basato su un fallimentare modello di valutazione


quantitativa del rischio in favore di un meccanismo che consenta una maggiore regolamentazione della
pratiche di prestito da parte degli stessi correntisti;

7. Sviluppo di strutture politiche partecipative a base popolare che siano transnazionali ed allo stesso
tempo orientate alla comunità locale attraverso cui semplificare la governante locale e garantire un
maggiore coinvolgimento popolare nelle istituzioni politiche;

8. Sviluppo di parallele strutture economiche partecipative a base popolare che siano transnazionali ed
allo stesso tempo orientate alla comunità locale al fine di facilitare l’emergere di un modello equo e
solidale di scambio e di prestiti fra Nord e Sud;

9. Nascita di un paradigma scientifico post-materialista e di una visione del mondo che riconosca che il
modello attualmente in voga della fisica e della biologia mina le tradizionali concezioni meccanicistiche
dell’ordine naturale, puntando a una comprensione più olistica della vita e della natura.

10. Nascita di un paradigma etico post-materialista che riconosca i valori e gli ideali progressisti quali
giustizia, carità e generosità come più adatti alla perpetuazione della specie e in armonia con l’ordine
naturale, a differenza dei convenzionali comportamenti materialisti associati al consumismo neoliberale.

LA FINE DEL MONDO CHE CONOSCIAMO E L’ASCESA DELL’ERA POST CARBONE 11 ottobre
2010 di Nafeez Mosaddeq Ahmed Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Francesco
Scurci

World on course for catastrophic 6° rise, reveal scientists Independent 18 Novembre 2009

Feedback Loops In Global Climate Change Point To A Very Hot 21st Century ScienceDaily 22
maggio 2006

The Cancer Stage of Capitalism: Our social immune system is being overwhelmed by growing
out-of-control money market cancer IPRD 01 Agosto 1996

«Hybris è oggi tutta la nostra posizione nei confronti della natura, la nostra violenza sulla natura per
mezzo delle macchine e della inventività così incapace di pensiero di tecnici e ingegneri; hybris è la
nostra posizione nei confronti di Dio; hybris è la nostra posizione nei confronti di noi stessi, poiché
compiamo esperimenti su di noi, che non ci saremmo mai permessi con alcun animale (…) Noi oggi
facciamo violenza su noi stessi, non c’è dubbio, noi schiaccianoci dell’anima» (Nietzsche, “Genealogia
della morale”).

«Ora il mondo appare come un oggetto, nei cui confronti il pensiero calcolante mette in opera i propri
assalti. La natura diventa un unico gigantesco serbatoio, la fonte di energia per la tecnica moderna e per
l’industria. Questa relazione fondamentalmente tecnica dell’uomo nei confronti del mondo intero sorse
dapprima nel secolo XVII, in Europa e soltanto in Europa» (Heidegger, “Gelassenheit”).

È con la Modernità che ha preso corpo un’idea di natura radicalmente opposta a quella “classica”, greca.
È tra Rinascimento e ’600 che viene affermandosi l’idea della natura come un oggetto che sta di fronte a
noi, un “Gegenstand”, pura fatticità, che in quanto tale può essere trattata come prodotto, analizzata, e
infine utilizzata dall’osservatore (dal soggetto: altra categoria moderna) che occupa il punto centrale e
dominante di questo universo. È il punto di vista di questo osservatore a regolare e governare l’universo
degli oggetti che gli si presentano innanzi come fatticità, come “res extensa” (idea cartesiana della
natura). Mai avrebbe potuto un “greco” pensare/tradurre l’idea di natura, di “phisis”, in res extensa, in
natura naturata, perché, per lui, la natura era già da sempre “salva”, eterno germogliare, imprevedibile:
infinita produttività, permanente germogliare ed “emersione” (“fisis”, appunto, come nella radice
indoeuropea “fio” è “emergere”) di carattere divino. A determinare un’ulteriore, radicale differenza, rispetto
alla concezione classica della natura (anticipando quello sguardo prospettico dell’osservatore moderno
che saprà inquadrare e dominare la natura), sarà lo stesso cristianesimo, con l’inscrivere il nostro
rapporto con la natura nei termini e nella dimensione dell’ “uti” e non del “frui”: dell’utilizzare e non del
fruire: solo con Dio possiamo stare nella relazione di beatitudine disinteressata; alla natura e al suo
incessante divenire e oltrepassare possiamo invece accostarci nei termini dell’uti, in ciò aprendo la strada
a quel tipicamente moderno “impiego” della natura da parte della tecnica – natura come fondo
manipolabile-calcolabile, a nostra piena disposizione. La moderna scienza della natura trova così il
proprio fondamento nella metafisica volontà di potenza, sull’idea cioè ripresa da Nietzsche, e che le
citazioni poste in esergo esprimono con netta plasticità, di una incessante ed interminabile vocazione del
nostro agire, “umano, troppo umano”, tracotante nei confronti della natura. Nei primi decenni del
Novecento, sarà Spengler ad esprimere con straordinaria lucidità questo mutato rapporto, questa inedita
“stimmung”, affermando che «[…] non possiamo guardare una cascata senza trasformarla mentalmente
in energia elettrica»: la percezione estetica della natura lascia il posto al sopravanzante “occhio”, che sa
meditare sull’impiego tecnico, calcolante, della stessa. Oggi, nel tempo della tecnica planetaria
dominante, le nostre domande e le nostre inquietudini si sono fatte più radicali, dal momento che siamo
consapevoli che l’azione dell’uomo (il nostro agire), sganciata da ogni fondamento assoluto o “arché”, si è
resa più libera e, per ciò stesso, tremenda, inquietante. Essa evoca prometeicamente quel “deinon”
(“perturbante”, “tremendo”, “inquietante”) dell’uomo, su cui, nello stasimo dell’Antigone, andava
interrogandosi Sofocle, affermando che «[…]di molte specie è l’inquietante, nulla tuttavia di più
inquietante dell’uomo s’aderge». È tale la crescita, non solo dell’apparato scientifico-tecnologico a nostra
disposizione, ma anche della capacità di modificare la natura attraverso un processo di quasi totale
“tecnicizzazione” e di riproducibilità artificiale, che l’enorme estendersi della sfera di ciò che possiamo
fare sembra diventare sempre più indipendente dall’uomo. La tecnica da mezzo è diventata fine essa
stessa.

«Tutto funziona. Questo è appunto l’inquietante, che funziona e che il funzionare spinge sempre oltre
verso un ulteriore funzionare e che la tecnica strappa e sradica l’uomo sempre più dalla terra».

Così Heidegger nella famosa intervista del 1976, pubblicata postuma, intitolata “Ormai solo un Dio ci può
salvare”: espressione a cui ricorre lo stesso Heidegger, in risposta ad una domanda dell’intervistatore.
Questo ci ha detto Heidegger: che la tecnica compie il destino nichilistico della metafisica proprio
attraverso la rimozione della finitezza. L’uomo tecnologico vive così, sicuro di sé, nel senza fondo
dell’oblio della propria finitezza. E se l’orizzonte dei suoi pensieri non è più la terra, che egli abita tra
nascita e morte, perché la terra è stata inghiottita dalla logica della produzione e del consumo e ridotta,
come l’uomo stesso, a materiale d’impiego, l’uomo non potrà essere in grado di intravedere la possibilità
reale di un “altro pensiero”, che sappia cogliere l’essenza della tecnica. Se l’homo technologicus
concepisce il mondo come ciò di cui i “soggetti” dispongono, dunque come il grande oggetto di ogni
manipolazione, piuttosto che come “l’altro” a cui rispondere delle nostre decisioni, in quanto “quest’altro”
ne prestabilisce i limiti inoltrepassabili, ciò significa che non sapremo abbandonare la certezza illusoria di
trovare nella tecnica lo strumento per avere il mondo nelle nostre mani. Se non si tratta di procedere oltre
la tecnica, né contro di essa, ma di corrispondere alla sua essenza, come farlo dal momento che la
tecnica si pone oggi come l’illimite, come qualcosa che si erge di fronte a noi come una necessità
obbligata, come una potenza indipendente dalla nostra volontà? Oppure: pur nella radicale cesura che il
Moderno ha inaugurato nel rapporto tra natura e tecnica, segnando quasi il dominio e “l’autonomia” di
quest’ultima sulla prima, è ancora possibile per noi appellarci a quella sentenza eschilea secondo cui, «la
tecne è senza forza rispetto ad Ananke»? Come a dire che vi è, si dà, dentro la natura, un suo dispositivo
invariante davanti a cui, alla fine, tutte le “tecnai” umane non possono riprodursi pienamente e
autonomamente, inciampando e facendo attrito in quella “necessità” (Ananke) che è inscritta nei codici
naturali.

Forse che, lontano da ogni illusione profetica (come giustamente sa di dover essere la filosofia), il nostro
pensare sarebbe in grado di reggere “l’urto” di questa sfida, quella sorta di blochiano “principio speranza”,
che lo stesso Heidegger (rinnovando la domanda di Hölderlin) provava a formulare così: «[…] lì dove
cresce il pericolo, cresce anche ciò che salva»?

Roberto Fai Uomo, natura, tecnica e-mmaginale 26 giugno 2010

NATURA VS. CULTURA

ULTIMATUM ALLA TERRA 2

MONDI IN COLLISIONE

IL MONDO MAGICO

Tra i Tucano dell'Amazzonia si ritrova un mito analogo a molte culture antiche di incesto cosmogonico,
che narra come il Padre Sole, il dio creatore, si unì incestuosamente con
la figlia al momento della creazione; tale evento viene commemorato in
rituali di trance che celebrano le rigide regole esogamiche vigenti
attualmente nella società (Reichel-Dolmatoff). Secondo i Tucano, lo
stesso incesto primordiale avrebbe prodotto una pianta allucinogena
(Banisteriopsis caapi) in grado di provocare visioni estatiche che
vengono paragonate esplicitamente al rapporto incestuoso. Scopo
dichiarato di tali visioni è un ritorno all'utero nel principio dei tempi, in cui
si possono vedere le divinità tribali, la creazione dell'universo e
dell'umanità, la prima coppia umana, la creazione degli animali e
l'istituzione dell'ordinamento sociale, con particolare riguardo alle leggi
esogamiche. L'individuo in stato allucinatorio che penetra nel grembo
primordiale paragona se stesso a un fallo che penetra nel grembo
materno.

«Il sacro è un elemento della struttura della coscienza e non un


momento della storia della coscienza. L'esperienza del sacro è
indissolubilmente legata allo sforzo compiuto dall'uomo per costruire un
mondo che abbia un significato» (Mircea Eliade, Discorso pronunciato al Congresso di Storia delle
religioni di Boston il 24 giugno 1968).

La radice di “sakros”, è il radicale indoeuropeo “sak”, il quale indica qualcosa a cui è stata conferita
validità ovvero che acquisisce il dato di fatto reale, suo fondamento e conforme al cosmo (Wikipedia). Il
Sacro e il Religioso riguardano l’umanità, sono fenomeni culturali originari che hanno elaborato un
complesso simbolismo mitico-rituale insieme ad una praxis religiosa. Secondo l’antropologo René Girard,
l'origine della cultura non è né economica (Marx), né sessuale (Freud), ma religiosa, come aveva intuito
Émile Durkheim. L'elaborazione dei riti e dei divieti da parte dei gruppi proto-umani o umani prenderà
forme infinitamente varie, ma sempre obbedendo ad una prescrizione pratica, una praxis, molto rigorosa,
volta a prevenire le crisi generate dalle rivalità che genera il desiderio, che contraddistingue gli esseri
umani, animali desideranti. Nel religioso arcaico, secondo Girard, si può rintracciare l'origine di ogni
istituzione culturale, dalla filosofia (che nasce come riflessione sul religioso), alla letteratura (che passa
dal mito al romanzo passando per la leggenda, il poema, la fiaba, ecc.), alla politica.

René Girard – Wikipedia

La tesi di Girard è confortata dalla “neuro-teologia”, un campo di studio scientifico che dimostra come il
cervello umano sia, nella sua unicità e complessità, predisposto universalmente al fenomeno religioso,
anche se questa predisposizione può variare da individuo a individuo. Alla luce di questa scoperta, non si
può non rivalutare quell’insieme di “praxis” religiose, che troppo facilmente abbiamo liquidato come
“primitive”, che avevano saputo cogliere, a differenza degli uomini cosiddetti “civilizzati”, la vera essenza
della natura umana, volta verso il trascendente. Forse, l’uomo è nato proprio per questo, forse, è proprio
questa la sua missione evolutiva: stabilire un ponte, un contatto diretto con Dio, realizzare il Regno di Dio
in Terra.

APOCALISSE CULTURALE

Ne “Il Mondo Magico”, De Martino caratterizza l’esperienza magico-religiosa come un processo che, a
partire da una condizione di crisi psichica in grado di portare all’annullamento del soggetto, consente di
ridischiudere le potenzialità operative all’interno di un mondo nuovamente armonico. Nel momento in cui il
primitivo si mostra incapace di relazionarsi adeguatamente all’oggetto, e quindi di comprenderlo nella sua
relazione con tutto ciò che gli è intorno, ecco che l’oggetto assume il carattere dell’assoluto, dell’irrelato, e
al prorompere di tale aspetto corrisponde l’annientarsi del soggetto nell’oggetto (nichilismo feticista).
L’esito di tale processo si manifesta chiaramente nell’ “olonismo”, che esprime quella condizione in cui si
perdono le coordinate con le cose, le loro differenze, e la differenza tra sé e il mondo: essa non è altro
che il riflesso dell’estrema disarmonia tra l’uomo e il mondo, che s’impone rischiando di togliergli anche il
più minimo e scontato segno di umanità, la facoltà razionale, conducendolo alla follia. In seguito a questo
radicale farsi altro come nullificazione, deve seguire una riconquista del sé: la magia o la religione
offrono l’occasione per scendere sullo stesso piano dell’irrazionale e dell’irrelazionale, capovolgendo però
il rapporto di dominio.

Per l’indiano d’America è tanto importante svolgere il rituale grazie a cui garantirsi la riuscita della caccia
del bufalo, quanto la caccia stessa. Le due azioni non sono in contraddizione, anzi l’una, e precisamente
la prima, è per l’altra. Se il primitivo si concentrasse soltanto sul secondo momento, e «conoscesse
storicamente la situazione di fatto», si renderebbe conto della bassissima probabilità di riuscita dei suoi
compiti, della totale accidentalità a cui è affidato l’esito dell’opera, e quindi della totale insensatezza a cui
è affidata la propria vita. Paradossalmente, proprio un approccio unicamente razionale, nelle condizioni
labili in cui vive, lo lascerebbe indifeso ed esposto alla crisi senza compenso della presenza.

De Martino legge la ripetizione rituale come una forma di arresto deliberato, istituzionalizzato, del flusso
del divenire profano, arresto che media l’evasione nel regno extratemporale delle origini mitiche al cui
interno si trovano i modelli di risoluzione delle varie crisi che compromettono l’integrità della presenza. De
Martino definisce questo artificio culturale come “destorificazione religiosa”, che, attraverso il velo
protettivo dei simboli mitici, consente di affrontare le situazioni rischiose per la presenza umana. Ma
affinché possa essere recuperato questo piano mitico, extratemporale, metastorico, occorre disfare il
tempo profano, cancellarne ogni traccia, nelle cerimonie festive, mediante la praxis religiosa.

«ora questo ethos coincide con la presenza come volontà di esserci in una storia umana, come potenza
di trascendimento e di oggettivazione»

“ethos del trascendimento”, ovvero potenza psico-magica, apocalisse culturale, in grado di risolvere ogni
crisi, rifondare un rapporto tra sé e il mondo pienamente adeguato, ricostruire attraverso l’atto magico-
rituale un mondo culturalmente e socialmente fondato (vedi lo studio di De Martino sul tarantinismo “La
Terra del Rimorso”).
De Martino compara la condizione psichica del primitivo con quella del malato mentale: «Nella nostra
civiltà il dissociato è in conflitto col proprio ambiente storico: la sua funzione sociale non è riconosciuta, la
credenza altrui non lo conforta, e soprattutto egli non trova in se stesso e nel patrimonio della educazione
ricevuta i grandi temi ideologici vivi e attuali, attraverso i quali dirigere e interpretare il suo stato psichico,
piegandolo a un fine culturale e umano». Per De Martino, non la dissociazione psichica del primitivo, ma,
ad esempio, la fredda e irrazionale figura del nazista, in bilico tra storia e metastoria, costituisce il tratto
patologico dell’umano. Siccome per de Martino il piano sociale e quello storico sono strettamente
connessi – per cui accettare la sfera della condivisione collettiva implica quasi automaticamente
accogliere quella dei valori dell’umanità – ecco che la determinazione del tratto patologico pare assumere
una caratterizzazione decisamente più formale: «nella schizofrenia, al contrario – cioè, a differenza del
magismo – l’esserci non è più deciso e garantito come dovrebbe in rapporto alla situazione storica in cui
si trova […]. Questa inautenticità storica pone l’individuo isolato e sprovvisto davanti al suo rischio:
l’evasione dal mondo storico, che è poi il vero tratto morboso». La fuga dalla cruda realtà.

«Un mondo è sempre un mondo culturale, cioè è sempre esperibile per entro un certo ordine di
valorizzazioni intersoggettive umane, entro un progetto comunitario dell’operabile. Ciò che sostiene il
mondo è l’ethos valorizzatore».

Nella fase più matura del suo pensiero, De Martino si rende conto che la dimensione caratterizzata dalla
“coinonia” (comunione) tra gli esseri e dall’indistinzione tra io e mondo, nella misura in cui viene pensata
non nei termini del patologico, può esser ben descritta come dimensione precategoriale e al contempo
culturale. È a partire da questo nodo concettuale che il nostro autore ha sentito sempre più l’esigenza di
approfondire i suoi studi sulla fenomenologia e l’esistenzialismo. Non è un caso che il linguaggio che
viene privilegiato ne “La Fine del Mondo” riprende fortemente la terminologia di “Essere e Tempo”:
determinante, in tal senso, la ripresa del concetto heideggeriano di mondo e la sua capacità di superare
la tendenza a pensare l’uomo come un che di isolato e dato. In generale, esso offre lo sfondo domestico
e familiare di ogni possibile agire e di ogni possibile conoscere.

La prospettiva demartiniana, che rifiuta la riduzione dei dispositivi magico-religiosi a maschera o


sovrastruttura d’altro - o ancora a mero “instrumentum regni” - riconosce ad essi una dimensione
peculiare nel garantire l’ “esserci nel mondo” nei momenti critici del divenire.

Alla domanda: "Gli spiriti ci sono?", la risposta sarà dunque la seguente: «Se per realtà si intende il dato
deciso e garantito del nostro mondo culturale, gli spiriti non ci sono. Ma se riconosciamo una forma di
realtà che nel corso del dramma esistenziale magico storicamente determinato emerge come riscatto di
una presenza in rischio, dobbiamo altresì raccogliere la realtà degli spiriti per entro la civiltà magica. In
questo senso, gli spiriti non ci sono, ma ci sono stati, e possono tornare nella misura in cui abdichiamo al
carattere della nostra civiltà, e ridiscendiamo sul piano arcaico dell'esperienza magica».

Filosofia e antropologia, valore e trascendenza, nelle ultime riflessioni di Ernesto De Martino


Alessio Di Stefano bottegascriptamanent anno IV, n. 31, Marzo 2010

BACCHANALIA (parte 2)

APOCALISSE PSICOPATOLOGICA

«Giorno d'ira quel giorno, giorno di angoscia e di afflizione, giorno di rovina e di sterminio, giorno di
tenebre e di caligine, giorno di nubi e di oscurità, giorno di squilli di tromba e d'allarme sulle fortezze e
sulle torri d'angolo» (“Dies Irae”).

Crisi della presenza, ovvero la perdita della capacità di essere nel proprio tempo. La crisi della presenza
può avere due esiti: portare alla patologia (breakdown=crollo) oppure a un processo di rinnovamento. Nel
primo caso De Martino parla di apocalisse psicopatologica. Nel secondo caso, la persona può superare la
crisi all’interno di un processo che coinvolge le intersoggettività del gruppo/comunità di cui fa parte: in
questo senso si parla di apocalisse culturale come via di trasformazione della sofferenza individuale.
Nell’apocalisse psicopatologica la crisi colpisce soprattutto la percezione e fruizione degli oggetti del
mondo familiare, che perdono la loro “domesticazione”, cioè il loro legame con le memorie culturali latenti.

Il concetto di “apocalisse psicopatologica” fa riferimento a numerosi casi di disturbi mentali, turbe


psichiche e stati d’angoscia esistenziale, cui vanno soggetti molti scampati ad eventi sismici. In queste
occasioni, la distruzione della domesticità, dei legami familiari, del complessivo sistema di
rappresentazioni, lungi dall’essere riassorbita grazie all’ausilio della cultura, comporta la perdita dello
slancio di valorizzazione della vita che si risolve in “nuda e irreversibile crisi”, dai tratti esclusivamente
improduttivi e disintegranti, in un vissuto di fine del mondo senza ritorno.

Su questo aspetto sono fiorite abbondanti testimonianze riportate dai cronisti e da parte di psicologi e
psichiatri quali Giulio Cesare Ferrari, Guglielmo Mondio, Renato Caminiti, Giuseppe D’Abundo, Paola e
Cesare Lombroso, che avevano condotto le loro osservazioni nei centri di ricovero e, in qualche
circostanza, già sui luoghi toccati dal sisma, avendo partecipato in prima persona alle operazioni di
soccorso.

Al contrario, all’interno delle “apocalissi culturali”, il tema della fine appare una parte costitutiva di un
processo dinamico e dialettico teso tra le opposte polarità crollo-recupero, crisi-riscatto. Il rischio del
vissuto privato e incomunicabile, di un mondo che finisce, viene qui ripreso e reintegrato secondo valori
intersoggettivi e comunicabili nel livello di cultura che gli appartiene e nei valori che lo contraddistinguono.
Il suo superamento, sebbene fra molte difficoltà, e la sua conversione in rinascita avviene tramite il
ricorso a determinate strategie volte a conferire un valore all’accaduto e a recuperare la pratica della
convivenza civile: ne sono espressione, ad esempio, il penoso allontanamento dalle terre natie o il fermo
proposito di ricominciare nei luoghi devastati, insieme a comportamenti più immediati e irrazionali come la
ripresa vitalistica della sessualità, giudicata come scandaloso emblema della rottura dell’equilibrio
strutturale e della scomposizione dei normali parametri della quotidianità e, al contempo, come bisogno
istintivo e prepotente di allontanarsi dalla cruda realtà e suprema protesta contro la morte, cui si
aggiungono meccanismi di elaborazione e “calendarizzazione” del lutto, consistenti in processioni e
momenti rituali aggreganti quali processioni, messe, commemorazioni e feste religiose, ancora più
necessari per via del carattere innaturale, improvviso e crudele, assunto dal trapasso dei defunti che non
possono beneficiare dei conforti religiosi e del rituale del cordoglio di parenti e amici.

In un’ottica psico-magica, folklorico-popolare, la mancata sepoltura, fenomeno abbastanza diffuso da


interessare sia chi restava sottoterra sepolto dalle rovine sia coloro che venivano gettati nelle fosse
comuni, finiva col determinare l’impossibilità di pacificazione del defunto che non sarebbe riuscito a
raggiungere la dimora eterna, restando irrequieto a manifestarsi ai vivi.

Non è affatto un episodio isolato, quindi, quanto accadde in occasione dell’evento tellurico del 1783 in
molti centri calabresi, su tutti Radicina, dove, ancora due mesi dopo l’accaduto, la gente si rifiutava di
scavare per portare alla luce i cadaveri sepolti, affinché venissero bruciati in conformità alle misure di
profilassi adottate, perché sconvolta dal pensiero che i defunti fossero stati strappati al mondo da una
sorte affatto addomesticata secondo i dettami del tempo. La vicenda venne sbloccata solo grazie
all’intervento dei parroci che effettuarono delle specifiche prediche allo scopo di convincere i fedeli della
liceità dello scavo, in quanto atto di pietà cristiana capace di dar pace ai morti e prevenire le epidemie, e
ribadire l’empietà e la peccaminosità del gesto contrario.

Il tema della colpa, dell’autoaccusa, dell’indegnità morale, appare strettamente collegato a un altro
aspetto particolarmente pregnante connesso ai terremoti, cioè alla loro capacità di originare ampie
riflessioni di valenza tanto scientifica quanto etico-filosofica. L’atavica e tragica “convivenza” dell’uomo
con i fenomeni sismici unita alla sua conseguente necessità di darsi delle spiegazioni valide per la
comprensione di un evento così spaventoso ha avuto l’effetto di determinare nel corso della storia una
lunghissima tradizione di riflessione filosofica sull’argomento, che ha avuto origine con l’elaborazione di
numerosi miti e interpretazioni sia simboliche sia scientifiche dello stesso e che ha continuato a protrarsi
fino ad oggi, offrendo probabilmente il suo massimo fulgore in occasione del terremoto di Lisbona del
1755, allorché vennero stimolate le riflessioni di alcune fra le più eminenti figure intellettuali del tempo
quali Kant, Voltaire e Rousseau.
Attraverso i secoli, quindi, molte sono state le interpretazioni date dei terremoti; tra queste la più diffusa è
consistita nella percezione della catastrofe quale terrificante espressione del “Dies Irae”, dell’ira di un Dio
potente e vendicativo che, fin dai tempi antichi, sulla falsariga dell’interpretazione segnica biblico-
evangelica, richiamava al ravvedimento i peccatori e invitava a riflettere sulla fragilità della condizione
umana, inesorabilmente segnata dalla colpa del peccato originale.

Un topos questo della “punizione celeste” che continua incredibilmente a riaffiorare con una certa facilità,
se si tiene presente come per il sisma aquilano del 2009 siano stati registrati commenti lasciati su alcuni
forum e siti internet da alcuni fanatici estremisti islamici di questo tenore: si passa dal messaggio
«Finalmente hanno avuto anche loro giorni neri. Oh Allah, uccidili e falli vagabondare» all’implorazione
«Oh Allah, rendi stabili presso di loro il terremoto e le disgrazie, maledici l’Europa, Israele e gli Stati
Uniti».

Né appare meno singolare il pensiero rivolto dal direttore di Radio Maria, don Livio Fanzaga, nei confronti
dei «fratelli del Centro Italia che sono entrati in una settimana di Passione e di sofferenze», secondo il
quale «Il Signore ha voluto che in questa settimana santa, in qualche modo anche loro partecipassero,
diciamo così, alle sofferenze della sua passione».

Per contro, il terremoto poteva assumere i contorni di segno terrificante della provvidenza divina volto ad
alimentare la paura degli ingiusti e la speranza dei tanti deboli, dal momento che veniva identificato come
un sovvertimento dell’ordine storico vigente, una trasformazione violenta del corpo della società, capace
di additare, in termini di giustizia, quel che la quotidianità terrena non riusciva a offrire.

«L’uomo magico è esposto al rischio della labilità nelle sue solitarie peregrinazioni, allorché la solitudine,
la stanchezza connessa al lungo peregrinare, la fame e la sete, l’apparizione improvvisa di animali
pericolosi, il prodursi di eventi inaspettati ecc., possono mettere a dura prova la resistenza del ‘ci sono’.
L’anima andrebbe facilmente ‘perduta’ se attraverso una creazione culturale e utilizzando una tradizione
accreditata non fosse possibile risalire la china che si inabissa nell’annientamento della presenza» (“Il
Mondo Magico”).

Conferenza Rhegium Julii: Scosse della terra, scosse nell’anima orent 25 marzo 2010

L'apocalisse culturale psico-magica attinge dalla memoria storica collettiva in cui le esperienze individuali
sono diventate tradizione conservata e tramandata. Non è mai frutto di uno sforzo individuale. Per questo
i fenomeni psicopatologici assumono l'aspetto di crisi senza orizzonte, in cui il riscatto culturale non
avviene, perché il malato è isolato, lasciato solo, assolutamente non in grado di plasmare culturalmente la
propria crisi, alienato non solo da se stesso ma dalla propria cultura.

L'apparato religioso simbolico-magico che riscatta la presenza in crisi è sempre da inserire all'interno
della dinamica storica di una civiltà. Tra i malati, la perdita della presenza è avvertita come disastro di
portata cosmica perché il mondo crolla, o acquista la duttilità della cera, proprio con il decadere della
presenza dal piano storico, con il suo destorificarsi. Se la magia religiosa in forma rituale dà forma al caos
minaccioso, ricompone il nulla che avanza, se il mondo magico è un mondo ancora incluso nella sfera
delle possibilità umane, suscettibile di cambiamenti e di plasmazioni culturali, per gli psicopatici, il mondo
è ugualmente malleabile, indefinito, ma non plasmabile culturalmente, perché l'individuo è catapultato
fuori dalla storia e viene a costituire una monade isolata dalla cultura, in uno spazio-tempo metastorico
senza possibilità di ritorno.

Mentre nel magismo la presenza che si va riscattando è partecipe di un mondo culturale - la crisi è
plasmata e controllata attraverso la ripetizione di gesti e tecniche che costituiscono un patrimonio
collettivo e storico - quando la crisi è senza orizzonte, come nel caso dello schizofrenico, l'uscire fuori
dalla storia causa la perdita totale di quel patrimonio atto a garantire o a riscattare la presenza. Gli
schizofrenici vengono confinati fuori dalla storia e quindi impossibilitati a sfruttare le tecniche magico-
religiose. L'individuo alienato è incapace di reinventare da solo tutto il mondo culturale che sarebbe
necessario per vincere la crisi. Sebbene anche lo schizofrenico abbia i suoi amuleti, le sue manie, sono
assolutamente insufficienti per restituire la presenza al mondo.

Come negli stati olon, latah e amok crolla la distinzione tra presenza e mondo, e quindi in luogo di vedere
le foglie di un albero agitate dal vento l'olonizzato diviene esso stesso l'albero e le foglie, così gli individui
affetti da psicopatologie gravi, come la schizofrenia, non avvertono più alcuna distinzione tra io e mondo,
tra soggetto ed oggetto, ma si trovano a vivere in un mondo dai confini incerti, fluidi, e senza possibilità di
riscatto.

Il mago vive invece la dissoluzione e il riscatto della sua presenza anche per gli altri. Il dramma magico è
dramma storico a carattere pubblico. La seduta sciamanica è rito collettivo, oltre che individuale.

Lo stregone - figura centrale nel mondo magico - evidenzia come il dramma della crisi della presenza e il
suo riscatto, oltre che problemi individuali, siano problemi collettivi che vanno risolti collettivamente.
Attraverso lo stregone l'intera comunità si apre al dramma del rischio e del riscatto. Il mago, lo stregone,
lo sciamano sono coloro che all'interno della tribù, poiché dotati di particolari facoltà paragnomiche,
possono entrare in contatto con il sovrasensibile e hanno la capacità di risolvere le crisi di tutti.

Attraverso l'iterazione di un contenuto acustico (tamburo, cantilena) e l'iterazione di un contenuto visivo


(fissare un oggetto) lo sciamano entra in trance, ossia in quella condizione di stato abnorme di coscienza
in cui la presenza risulta attenuata. Polarizzando la propria presenza in un certo contenuto, tramite la
ripetizione dell'identico, lo sciamano le impedisce di andare oltre quel contenuto. Di conseguenza questa
diviene labile, si spegne. Lo sciamano è padrone assoluto della propria labilità, perché al momento della
sua prima crisi - la chiamata sciamanica - ha saputo portarsi fino alle soglie del caos e ha saputo
stringere un patto con esso. Ha quindi acquistato attitudini paragnomiche e la capacità di portarsi al di là
dei propri limiti facendosi di conseguenza ordinatore della labilità altrui. Durante la trance la presenza
dello stregone è disfatta e poi rifatta così com'era avvenuto al momento della vocazione. Dunque ogni
seduta ripete e riattualizza l'esperienza della vocazione, iniziazione e morte simbolica da cui lo sciamano
riemerge carico di poteri.

Sventare il rischio della scomparsa della presenza è compito di quello che de Martino chiama «l’eroe
della presenza, il Cristo magico, cioè lo stregone».

L’inossidabile pregiudizio che vizia l’approccio occidentale al mondo magico è quello di aver
assolutizzato, come se fosse l’unica possibile, la propria concezione della presenza intesa come un
qualcosa di certo fondata sulla nozione cristiana di persona: per questa ragione, se le credenze e i riti
dell’uomo del mondo magico ci paiono superstiziosi, «ciò accade perché indebitamente
(antistoricamente) le commisuriamo al ‘ci sono’ deciso e garantito del nostro mondo culturale».

Il Mondo Magico scompare quando la crisi della presenza non è più problema primario nell’esistenza
individuale e collettiva, perché la presenza è ormai stata fissata, consolidata, garantita. Ma quando, di
nuovo, la crisi si riacuisce, quando i confini della presenza nel mondo vanno riassottigliandosi, allora il
mondo magico ricompare nella forma di apocalisse psicopatologica, in assenza di una apocalisse
culturale.

Il MONDO MAGICO

MONDO MAGICO, FINE DEL MONDO ED ETNOCENTRISMO CRITICO IN ERNESTO DE MARTINO

THE FOUNTAIN

NEUROTEOLOGIA

GLI ORFANI DI DIO

«Se Dio non esiste tutto è lecito».


«In somma il principio delle cose, e di Dio stesso, è il nulla».

Il nichilismo è l'essenza dell'Occidente, perché l'umanità occidentale, dopo aver creduto in Dio, è giunta
all'annunzio della sua morte. Dunque, per essa, tutto ciò che poteva avere un senso nella vita, che
venisse dall'altro, trascendente, ora è scomparso; la luce si è spenta e la morte di Dio è la fine, meglio:
l'essere-per-la-fine.

L’uomo contrassegnato da una finitudine costitutiva è un esserci radicato in una “situazionalità”


inaggirabile ed è in costante trascendimento rispetto a una realtà massiccia e, insieme, opaca: come ha
insegnato Sartre ne “L’Essere e il Nulla”, la coscienza umana è costantemente impegnata ad opporsi alla
datità dell’essere, nullificandola (nichilismo esitenzialista).

Venuta meno la prospettiva della fede (morte di Dio), all’esistenzialismo moderno non resta altro che il
semplice “pathos dell’esistere”, destinato a confrontarsi con l’istanza suprema del nulla. Solo pensando
l’uomo come una nullità si può sviluppare una “filosofia dell’esistenza” incentrata sul ripiegamento nel se
stesso esistenzialista, ad una interiorità isolata dal piano storico e intersoggettivo, una differenza
irriducibile, posta in una condizione angosciosa di apocalisse perenne: l’ “essere per la morte”, il qui e
ora, con cui l’uomo si apre continuamente al proprio esserci e al proprio destino. L’unico Grund possibile
è il rapporto con l’immediato, l’abisso dell’estasi dionisiaca, psicopatologia dell’apocalisse permanente.

L’esistenzialismo rappresenta il culmine dell’umanesimo (e anche la sua fine), in quanto è l’uomo - e non
più il rapporto con Dio - isolato, atomizzato, a dare un senso alla propria esistenza e al mondo stesso, col
suo eterno naufragare nel nulla in cerca di una continua trascendenza solipsistica.

Sartre dirà che «l’esistenza precede l’essenza», e che «l’uomo è condannato ad essere libero».

«Quelli che nasconderanno a sé stessi, seriamente o con scuse deterministe, la loro totale libertà, io li
chiamerò vigliacchi; gli altri che cercheranno di mostrare che la loro esistenza è necessaria, mentre essa
è la contingenza stessa dell'apparizione dell'uomo sulla terra, io li chiamerò mascalzoni».

Kierkegaard, filosofo dell' "angoscia" esistenziale, intesa come vertigine della libertà di scelta, spiega
come la disperazione assalga il pensatore ateo, "positivista", scientista e materialista, in quanto rifiuta di
riconoscersi come una realtà spirituale finita, di fronte all'offerta di salvezza da parte di Dio. E come
assalga anche colui che ritiene, in conformità con la concezione della filosofia dell' "Idealismo",
soprattutto nella forma espressa da Hegel, di essere in se stesso un'entità divina e quindi di non aver
bisogno di una salvezza che venga da Dio. Ciò non può che risolversi in un esito nichilistico poiché non
c’è più la speranza di salvezza eterna offerta dalla metafisica: l'uomo ha di fronte a se solo il nulla.

Proclamando che "Dio è morto", Nietzsche non ha fatto altro che affermare la divinità dell'essere e della
coscienza umana ergendosi a profeta del nichilismo.

[...] L'errore fondamentale sta sempre nel fissare la coscienza -- invece che come strumento e dettaglio
della vita complessiva -- come criterio, come stato sommamente pregevole della vita: insomma l'errata
prospettiva dell'a parte ad totum -- perciò tutti i filosofi mirano istintivamente a fantasticare di una
coscienza universale, di una comune vita e volontà coscienti di tutto ciò che accade, di uno «spirito», di
un «Dio». Ma bisogna dir loro che proprio per questo l'esistenza diventa una mostruosità; che un «Dio» e
un sensorio universale sarebbero assolutamente qualcosa per cui si dovrebbe condannare l'esistenza...
Proprio l'avere noi eliminato la coscienza totale che pone fini e mezzi costituisce il nostro grande sollievo
-- in tal modo cessiamo di dover essere pessimisti... Il nostro maggior rimprovero all'esistenza era
l'esistenza di Dio. [...]

Nietzsche teologo: «Dio» come apice istantaneo della volontà di potenza

STORIA DELLA MORTE DI DIO


TEOLOGIA POLITICA

La teologia politica offre un modo di pensare della condotta umana che collega queste idee ad altre molto
più nobili ed alte sulla esistenza di Dio, la struttura del cosmo, la natura dell’anima, le origini di tutte le
cose e la fine del tempo. Per più di 1000 anni, nell’Occidente si è stati ispirati dall’immagine trina del Dio
cristiano che governa il cosmo e guida gli uomini attraverso le rivelazioni, la coscienza individuale e
l’ordine naturale. E’ stata una immagine potente e magnifica che ha permesso ad una civiltà di diventare
potente e magnifica. Ma tale immagine è sempre stata difficile da tradurre in un ordine o forma politica:
Dio diede dei comandamenti; il Figlio arrivò e li reinterpretò ed una volta partito anche lui, rimase lo
Spirito Santo a vegliare su di noi.

Non era chiaro quali lezioni politiche trarre da tutto ciò. Dovevano i Cristiani ritirarsi da un mondo corrotto
che era stato abbandonato dal Redentore? Dovevano governare le città terrestri con Chiesa e Stato
insieme, inspirati dallo Spirito Santo? O avrebbero dovuto costruire una Nuova Gerusalemme per
accelerare la venuta del nuovo Messia? Durante il Medio Evo si discusse molto su questi punti. La
cittadinanza pubblica era contro la pietà privata, il diritto divino dei re contro il diritto alla resistenza, la
città dell’uomo contro quella di Dio, legge canonica contro misticismo, imperatore contro Papa, Papa
contro i consigli di chiese, ecc…

Nel tardo Medio Evo, dopo le scissioni di Lutero e Calvino, non esisteva un unico Cristianesimo e
soprattutto non esisteva una unica teologia politica cristiana. Ne seguirono guerre di religione, dove
cristiani uccidevano altri cristiani. Ci fu qualcuno che tentò di trovare una soluzione a tale follia: il filosofo
inglese Thomas Hobbes. Tradizionalmente, la teologia politica ha cercato di interpretare dei
comandamenti divini ed applicarli alla vita sociale. Nel suo testo principale, il “Leviatano” (1651), Hobbes
ignorò la sostanza di tali comandamenti e parlò invece di come e perché gli esseri umani credevano che
Dio li avesse rilevati. Fece la cosa più rivoluzionaria che un pensatore possa fare: cambiò il tema della
questione, da Dio ed i suoi comandamenti all’uomo e le sue credenze. In questo modo, riteneva Hobbes,
possiamo capire perché le convinzioni religiose portano cosi spesso a conflitti di natura politica.

La crisi del Cristianesimo e le sue guerre avevano creato un audience recettivo al pensiero di Hobbes e
perciò ricevette la dovuta attenzione. La sua idea era che la mente umana fosse troppo debole ed in
preda alle emozioni per avere alcuna conoscenza fondata del divino. Insomma, una argomento di buon
senso. Inoltre, egli riteneva che quando un uomo parla di Dio in realtà costui si riferisce alla sua
personale esperienza che è tutto ciò di cui può disporre. E cosa caratterizza maggiormente l’esperienza
dell’uomo per Hobbes? La paura. Lo stato di natura dell’uomo è quello di essere sopraffatto dall’angoscia.
Nessuna meraviglia, quindi, se l’uomo si circonda di idoli a cui attribuisce potere divino in cui cercare
protezione, pensava Hobbes. Ma c’e’ di più, perché una volta che immaginiamo un Dio onnipotente che ci
protegga, iniziamo anche a temerlo. Per Hobbes erano questo tipo di paure religiose che avevano
scatenato un mercato di preti e profeti che si cimentavano nell’interpretazione delle richieste di Dio.
Luterani, Calvinisti, Anabattisti, Quaccheri, Ranters, Muggletonians, Fifth Monarchy Men. Ognuno con il
loro percorso per la salvezza degli uomini e con un disegno di società.

In quegli anni, tutti erano consapevoli di cosa volesse dire vivere nella paura e quindi prestarono
attenzione alle idee di Hobbes, che si limitò a diffondere una idea: che fosse possibile costruire una delle
legittime istituzioni politiche senza basarle sulla rivelazione divina. Egli sapeva che all’epoca era
impossibile mettere in discussione il credere alle rivelazioni divine. Il massimo che si poteva fare era
esprimere dei dubbi e sospetti sui profeti che dicevano di parlare di politica in nome di Dio. Il nuovo modo
di pensare politico non avrebbe avuto a che fare con la politica di Dio, ma con gli uomini come credenti in
Dio e avrebbe cercato di evitare che si uccidano tra di loro.

Hobbes non era un liberale né un democratico, egli credeva che il consolidare il potere in un uomo fosse
l’unico modo per sollevare i cittadini delle loro paure reciproche. Tuttavia, nei secoli successivi, pensatori
occidentali come John Locke, che adottò l’approccio di Hobbes, iniziarono ad immaginare un nuovo
ordine politico il cui potere sarebbe stato limitato, diviso e ampiamente condiviso. Dove chi detiene il
potere si sarebbe alternato con altri in modo pacifico, dove la legge pubblica avrebbe regolato i rapporti
tra i cittadini e le istituzioni e dove numerose religioni avrebbero prosperato l’una accanto all’altra libere
dall’interferenza dello Stato.

La teologia politica, Hobbes e Rousseau .1 Giuseppe Veltri

“L'impero e l'imperatore cristiano in Eusebio di Cesarea. La prima teologia politica del cristianesimo”, di
Raffaele Farina, presentato come tesi di dottorato nel 1965 nella facoltà di Storia Ecclesiastica della
Pontificia Università Gregoriana e pubblicato a Zurigo nel 1966, è strutturato sulla base dell'interazione
tra teologia, ecclesiologia e politica nella riflessione di un Eusebio che interpretò il trapasso tra la dura
persecuzione di Diocleziano, Galerio e Massimino all'aperto favore per la Chiesa da subito manifestato
da Costantino come vittoria della verità sull'errore, del bene sul male e come inaugurazione della pace
messianica.

In un contesto ideologico universalmente diffuso nel mondo antico, che da sempre aveva attribuito al
capo dello Stato anche la suprema autorità religiosa, Eusebio ha considerato l'incipiente Impero Romano
cristiano come il Regno di Dio in Terra, in una visione rigidamente monarchica, che vedeva realizzata,
nella figura dell'imperatore cristiano l'immagine del Lògos divino, e, nella vittoria finale della verità
sull'errore, la realizzazione del disegno divino teso a riscattare l'uomo peccatore dall'errore che lo aveva
asservito alle potenze avverse, tramite un percorso provvidenziale che, dipanatosi tra Antico e Nuovo
Testamento, si era finalmente concluso grazie all'opera di Costantino, vicario di Dio Re sulla Terra, così
come Cristo è vicario di Dio Re in cielo.

Questa grandiosa, ancorché largamente utopica, concezione unitaria del rapporto tra Chiesa e Impero,
don Farina illustra al meglio in tutti i suoi aspetti: carattere monarchico unico universale dell'Impero,
significato della pax romana ormai diventata pax christiana, provvidenzialità dell'Impero Romano, sua
identificazione con la Chiesa, l'Imperatore nuovo Mosè, nel quale si sono realizzate le promesse
dell'Antico e del Nuovo Testamento e nel quale si dovrebbe realizzare la coincidenza di politica e morale.
Don Farina ha dimostrato che Eusebio ha inteso l'Imperatore cristiano come capo della Chiesa. Tenuto
conto che, se la concezione eusebiana dell'Impero cristiano ebbe in occidente vita breve a causa della
radicale trasformazione provocata dalle invasioni dei barbari, essa però restò in vita in Oriente per tutta la
durata dell'Impero bizantino, e che anche in Occidente fu operante, per più di un secolo, il concetto che
l'Imperatore in quanto capo dell'Impero lo era anche della Chiesa (il ché ha suscitato difficoltà in ambienti
e in epoche in cui il potere papale era ormai saldamente stabilito e l'ideologia ormai dominante cercava di
retroiettarlo fin quasi alle origini della Chiesa).

Oggi non abbiamo più difficoltà a ravvisare nell'Imperatore del IV secolo il capo, come dell'Impero, così
anche della Chiesa, e valutare sulla base di questa prospettiva il suo operato nella vita della Chiesa: ma
al tempo in cui don Farina attendeva alla sua tesi, questo chiarimento, in ambito cattolico, era ancora di là
da venire, e va perciò apprezzata anche da questo spinoso punto di vista la sua capacità di aderire al
difficile argomento senza farsi influenzare dai pregiudizi ancora forti nel suo ambiente.

«Credo che all'ideologia imperiale di Eusebio si possa dare il titolo di energia politica (...) Non escludo in
Eusebio il movente di giustificazione dell'Impero di Costantino, ma non posso ammettere che la sua
dottrina imperiale si dica teologia politica soltanto per questo scopo, come vogliono alcuni (...) Eusebio
vede verificate in Costantino e nel suo impero le caratteristiche dell'impero e dell'imperatore ideale.
D'altra parte mi sembra ingenuo escludere assolutamente dalle intenzioni di Eusebio lo scopo di fondare
teologicamente l'impero di Costantino. Perciò credo che l'ideologia imperiale di Eusebio possa dirsi una
visione teologica, nei principi e nel metodo, dell'impero romano cristiano, una realtà né astratta né futura,
ma concreta, reale e presente. Si può dire, insomma, teologia politica, e non in un senso deteriore di
opportunismo di "teologia di corte". Una tale denominazione, intesa così unilateralmente, sarebbe solo un
giudizio di apprezzamento, non giustificato, di una mentalità moderna che stabilisce un paragone tra il
presente e il passato; non sarebbe una definizione oggettiva (...) Eusebio è dunque teologo politico» (pp.
250-260).

Quando è nata la teologia politica 16 ottobre 2009


I PERSUASORI OCCULTI

INFOWAR

La teologia politica è stata una presenza nella vita intellettuale occidentale fin dentro il XX secolo, quando
aveva dismesso il paradigma medievale e trovato ragioni moderne per cercare ispirazione politica nella
Bibbia. A tutta prima questa moderna teologia politica esprimeva una visione apparentemente illuminata
ed era accolta da coloro che avevano a cuore le sorti della democrazia liberale. Ma dopo la Prima Guerra
Mondiale prese una piega apocalittica: "uomini nuovi" ansiosi di abbracciare il futuro presero a produrre
giustificazioni teologiche per le più ripugnanti - ed empie - ideologie del tempo, nazismo e comunismo.

Il revival della teologia politica nell'Occidente moderno è una storia umiliante. E ci ricorda che
quell'approccio di pensiero non è appannaggio di una sola cultura o religione e nemmeno appartiene
soltanto al passato. È un antico abito della mente che può essere ripreso da chiunque cominci a guardare
al legame divino tra Dio, uomo e mondo per trovarvi l'ordine politico legittimo. Questa storia ci ricorda
anche come la teologia politica possa essere adattata alle circostanze ed essere rilanciata, anche di
fronte a forze apparentemente irresistibili come quella della modernizzazione, della secolarizzazione e
della democratizzazione. Un istinto ci spinge a collegare le nostre vite terrene, in qualche modo, all'aldilà.
Quello slancio può essere soppresso, si possono apprendere nuovi modi, ma la sfida della teologia
politica non scomparirà mai del tutto fintanto che resisterà quell'istinto. Così siamo eredi della Grande
Separazione solo se lo vogliamo essere, se facciamo uno sforzo consapevole per separare i princìpi di
fondo della legittimità politica dalla rivelazione divina. Ma si richiede più di questo. Poiché la sfida della
teologia politica non accenna a placarsi, dobbiamo continuare a essere consapevoli della sua logica e
della minaccia che rappresenta. Questo impone vigilanza, ma ancora di più richiede consapevolezza di
sé. Bisognerà ricordare sempre che non c'era niente di storicamente inevitabile nella Grande
Separazione, che fu e che rimane un esperimento. In Europa, le ambiguità politiche di una religione, il
cristianesimo, scatenarono una crisi politica che sarebbe stato possibile evitare, ma che non fu evitata e
diede luogo alle guerre di religione; la conseguente carneficina rese i pensatori europei più ricettivi alle
idee eretiche di Hobbes sulla psicologia religiosa e alle relative implicazioni politiche; col tempo quelle
idee politiche furono liberalizzate. Ma fu comunque solo dopo la Seconda Guerra Mondiale che i princìpi
della moderna democrazia liberale si radicarono pienamente nell'Europa continentale. Quanto
all'esperienza americana è delle più eccezionali: non esiste altra società industriale pienamente
sviluppata con una popolazione tanto impegnata nelle sue diverse fedi (e in fedi così esotiche) e al tempo
stesso nella Grande Separazione. La nostra retorica politica, che deve molto ai movimenti settari
protestanti del XVII secolo, vibra di energia messianica, ed è solo grazie a una forte struttura
costituzionale e a varie fortunate rotture che la teologia non ha mai seriamente messo in crisi la legittimità
di fondo delle nostre istituzioni. Le diverse posizioni religiose degli americani sono potenzialmente
esplosive su temi come l'aborto, la preghiera nelle scuole, la censura, l'eutanasia, la ricerca biologica e
innumerevoli altre questioni che però in genere vengono affrontate nei limiti della Costituzione. È un
miracolo. E i miracoli non possono essere ordinati. Malgrado tutto il bene derivato dallo spostamento
dell'attenzione politica da Dio all'uomo iniziato da Hobbes, rimaneva però l'impressione che la sfida della
teologia politica sarebbe scomparsa una volta interrotto il ciclo della paura, quando gli esseri umani
avessero finalmente potuto esercitare la loro autorità sulle faccende umane. Ed è ancora quella l'idea
quando parliamo di "cause sociali" del fondamentalismo e del messianismo politico, come se il
miglioramento delle condizioni materiali o lo spostamento dei confini generasse automaticamente una
Grande Separazione. Niente nella nostra storia o nell'esperienza contemporanea conferma questa
convinzione, eppure non ci rassegniamo ad abbandonarla. Così, quando oggi incontriamo la vera
teologia politica, ci troviamo in una trappola intellettuale: o presumiamo che la modernizzazione e la
secolarizzazione alla fine ne avranno ragione, oppure la affrontiamo come una minaccia esistenziale
incomprensibile e per descriverla come meglio ci riesce usiamo termini familiari come fascismo. Ma
nessuna di queste reazioni ci aiuta a capire meglio il mondo in cui viviamo. Un mondo in cui milioni di
persone, soprattutto nell'orbita musulmana, credono che Dio abbia rivelato una legge per governare tutti
gli affari umani. Tale fede modella la politica di importanti nazioni musulmane, e anche l'atteggiamento di
un gran numero di fedeli che si trovano a vivere nei paesi occidentali - e in democrazie non occidentali
come la Turchia e l'Indonesia - fondate sui princìpi loro estranei della Grande Separazione. Sono questi i
punti di frizione più significativi, a livello internazionale e nazionale, con i quali dovremo imparare a
convivere. Analogamente dobbiamo trovare il modo per accettare il fatto che le nazioni occidentali oggi
sono abitate da milioni e milioni di musulmani che hanno grandi difficoltà ad adattarsi a società che non
riconoscono le rivendicazioni politiche basate sulla loro rivelazione divina. Come la legge degli ebrei
ortodossi, la sharia vuole coprire l'intera vita, non solo una certa sfera privata arbitrariamente demarcata,
e il sistema giuridico ha poche risorse teologiche per definire l'indipendenza della politica da precisi ordini
divini. Una brutta situazione ma ce la siamo voluta noi, musulmani e non musulmani. Tolleranza e
reciproco rispetto possono essere d'aiuto, così come regole chiare negli ambiti più critici, come lo status
delle donne, la giurisdizione dei genitori sui figli, la protezione della sensibilità religiosa da discorsi o atti
ritenuti offensivi, lo standard dell'abbigliamento nelle situazioni pubbliche eccetera. I paesi occidentali, per
tenere testa al problema, hanno adottato strategie diverse, certuni proibendo alcuni simboli religiosi come
il velo nelle scuole, altri permettendoli. Ma dobbiamo riconoscere che all'ordine del giorno non c'è la
difesa di nobili princìpi, ma la necessità di tenere testa al problema, ed è bene anche ridimensionare le
nostre aspettative. Fintanto che un gran numero di persone crede nella verità di una teologia politica
globale, non ci si può aspettare la piena riconciliazione con la democrazia liberale moderna.

La teologia politica minaccia l'Occidente Corriere della Sera 17.12.07

«Desta stupore osservare come nell’affrontare ogni problema politico ci si


imbatta sempre in una questione teologica» (Proudhon).

Nel libro “Teologia Politica”, Schmitt avanza la famosa tesi dell’analogia tra i
concetti teologici e i concetti della moderna dottrina dello Stato. Questi ultimi
deriverebbero dai primi attraverso un processo di secolarizzazione e ne
conserverebbero la struttura sistematica. Dunque una comprensione
sociologica dei concetti giuridico-politici (e qui si avverte l’eredità di Weber) è
possibile solo attraverso la comprensione della loro dimensione teologica,
ossia della loro provenienza e della struttura sistematica che ha dato loro
forma.

Affermando l’esistenza di un’analogia tra concetti teologici e concetti giuridici,


Carl Schmitt non inventava nulla di nuovo, ma riprendeva, dal suo punto di
vista, ciò che in quegli anni avevano messo a fuoco le ricerche di Durkheim,
Freud, Troeltsch, Weber, Kelsen e cioè il parallelismo tra immagini di Dio e
immagini della società. La particolarità della posizione di Schmitt stava però, in primo luogo, nel
concentrare l’analisi sulla formazione dello Stato moderno; in secondo luogo, nel coniare un’espressione,
quella appunto di “teologia politica”, che metteva al centro della questione non genericamente il momento
del religioso (ossia il culto, i simboli, le pratiche, le immagini del divino, la fede), ma specificamente il
momento della teologia, ossia il momento della concettualità, della messa in forma razionale; in terzo
luogo, nel brandire questo concetto come un’arma polemica. La polemica schmittiana, a questo
proposito, si svolge su di un duplice fronte, teorico e pratico. Sul piano teorico, la teologia politica è
riaffermazione del nesso tra teologia e diritto contro chi – da fronti opposti – ne celebrava la separazione.
Sul piano pratico, Schmitt si scagliava contro l’ateismo delle dottrine anarchico-socialiste e contro
l’agnosticismo liberale che, privo di una teologia o di un’antiteologia, rappresentava ai suoi occhi la
dissoluzione della politica, ossia il trionfo del disordine costituito.

Accanto a questo significato fondamentale, da Schmitt ribadito nel corso di tutta la sua opera, il concetto
di “teologia politica” sembra lasciare intravedere – sia pure in forma non sistematica – qualche cosa di più
di una mera “sociologia dei concetti giuridici” o di uno strumento di battaglia politico-culturale. La sua
riflessione sul politico lo porta infatti a postulare una costitutiva “apertura alla trascendenza” di ogni
sistema politico che, radicandosi nel sistema dei bisogni e strutturandosi attorno all’ ”eterno nesso” del
rapporto protezione-obbedienza si articola in forma di sistema a partire non solo da una prestazione
esistenziale, ma anche da una pretesa di legittimità, in qualche modo connessa ad una interpretazione
della verità.

«Perché il potere ha bisogno della gloria? Se esso è essenzialmente forza e capacità di azione e di
governo, perché assume la forma rigida, ingombrante e “gloriosa” delle cerimonie, delle acclamazioni e
dei protocolli? Qual è la relazione fra economia e Gloria?... », si chiede Agamben. «Queste domande...
restituite alla loro dimensione teologica hanno permesso di scorgere nella relazione fra oikonomia e
Gloria qualcosa come la struttura ultima della macchina governamentale dell’Occidente».

G. AGAMBEN, “Il Regno e la Gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo, Homo
sacer II”, 2, Vicenza, 2007,

La teologia politica fonda nella fede nell’unico Dio la trascendenza del potere sovrano e coglie nel potere
la sua finalità soteriologica. Schmitt cerca di distinguere la sua posizione da tutti «i possibili confusi
parallelismi di concezioni religiose, escatologiche e politiche», ribadendo come l’analogia sistematica tra
concetti teologici e concetti politico-giuridici appartenga al caso specifico del “razionalismo occidentale”
che accomuna la chiesa cattolica con tutta la sua razionalità giuridica e lo Stato moderno. Qui non c’è
solo la delimitazione a un caso storico, ma la sottolineatura della centralità della ratio. Non a caso si parla
di “teologia politica” e non di “religioni politiche”. Il problema su cui Schmitt richiama l’attenzione non è
solo e non è tanto il fatto che ad una determinata visione teologica corrisponda una determinata visione
politica, per cui si può parlare di “teologia politica” di questo o quell’autore, ma che la teologia in quanto
tale, ossia in quanto teo-logia, ratio che dà forma concettuale al discorso su Dio, sia “politica”, sia cioè da
un lato inserita nella storia – perché no? – anche nella lotta esistenziale e dall’altro dia forma alle relazioni
umane. Forma, forma razionale, forma giuridica. È questo il cuore della teologia politica schmittiana, di
una teologia che è politica in quanto teo-logia, ossia discorso razionale su Dio, che struttura le relazioni
tra uomo e Dio e tra gli uomini. Su questo cuore Schmitt si ritrova con Peterson, con il Peterson di “Was
ist die Theologie?”, scritto citato da Schmitt per lo stretto rapporto che lì si stabilisce tra il linguaggio
giuridico e il linguaggio teologico del Nuovo Testamento.

Se questa è la teologia politica, la sua liquidazione non può certo venire dal saggio sul monoteismo di
Peterson. Il problema non è l’applicazione pratico-politica di una teologia in senso rivoluzionario o
controrivoluzionario, ma la teologia in quanto tale in quanto discorso razionale e dunque giuridico-politico.
Per questo la liquidazione della teologia politica può venire solo da parte di chi vuole liquidare la teologia
in quanto discorso razionale, e cioè da parte di chi si fa portatore di un sapere radicalmente de-
teologizzato come unica forma di razionalità. Questo è per Schmitt il pericolo: «una conoscenza
nient’altro che umano-terrena», «l’uomo nuovo che è il prodotto dell’uomo stesso», il contrario del
concetto teologico di creazione dal nulla e cioè «la creazione del nulla inteso come condizione della
possibilità dell’autocreazione di una mondanità sempre nuova».

La deteologizzazione del sapere è depoliticizzazione. Con ciò non è diminuita l’aggressività umana, ma
anzi essa è accresciuta. Non c’è più teo-logia: «Stat pro ratione Libertas et Novitas pro Libertate». Con
queste parole si chiude “Politische Theologie II”. Se dovessimo accogliere quest’ultima provocazione
schmittiana, dovremmo dire che la questione teologico-politica del presente non è l’irruzione sulla scena
del mondo di fenomeni religiosi aventi valenza politica – quali ad esempio i nuovi fondamentalismi - ma è
il problema della deteologizzazione, della fine del discorso su Dio che struttura la relazione tra Dio e
l’uomo e pone l’uomo alla mercè dell’uomo stesso nelle vesti di sempre nuovo creatore.

Il filosofo tedesco Jürgen Habermas, da sempre feroce critico di Carl Schmitt, nel suo discorso a
Francoforte dell’ottobre 2001 dal titolo hegeliano “Fede e Sapere” prende le mosse dall’intreccio tra
religione e politica che caratterizza le società contemporanee, divise tra secolarizzazione e
fondamentalismi, e si conclude con un preoccupato richiamo al venir meno della struttura concettuale
teologica di fronte alle nuove tecnologie genetiche. «La creaturalità – dice Habermas – dell’uomo fatto ad
immagine di Dio esprime un’intuizione che nel nostro contesto può dire qualcosa anche a chi, in sede
religiosa, non sia musicalmente dotato di orecchio. Hegel sapeva distinguere tra ‘creazione’ di Dio e
semplice ‘derivare’ da Dio. Dio rimane un “Dio di uomini liberi” soltanto se non livelliamo l’assoluta
distanza tra il creatore e la creatura. Ossia solo finché il divino ‘dar forma’ rimane una determinazione
che non blocca l’autodeterminazione dell’uomo […]. Ora non c’è nessun bisogno di credere alle
premesse teologiche per capire come verrebbe a crearsi una dipendenza del tutto diversa da quella
causale qualora – cancellata la differenza implicita nell’idea di creazione – al posto di Dio subentrasse un
pari eguale a noi, qualora cioè fosse messo nella condizione di interferire secondo preferenze proprie
nella combinazione casuale dei cromosomi parentali […]. Non verrebbe così distrutta anche la libertà
umana?».

Michele Nicoletti - "Teologia politica" e filosofia politica 16 ottobre 2005

IL NOSTRO FUTURO POSTUMANO

IL NOSTRO FUTURO POSTUMANO 6

TEOLOGIA CIVILE

Il processo di “secolarizzazione” sviluppatosi a partire dall’illuminismo


tocca nel Novecento, per Eric Voegelin, il suo apice. Nel 1938,
Voegelin definisce le ideologie totalitarie come “religioni politiche”, o
“religioni secolari” (Aron), che divinizzano Stato, classe o razza quali
uniche fonti di senso per l’agire dei singoli, nella piena ed evidente
manifestazione della decadenza d’ogni fondamento teologico. La
storia dell’Occidente può, allora, esser riletta come una sorta di
processo di degenerazione della politica indotta dal corrompimento
del fondamento teologico, come attestano Leo Strauss ed Eric
Voegelin per un verso, ed Hannah Arendt e Karl Löwith per un altro. Il
trionfo dei totalitarismi del Novecento segna una progressiva
ridivinizzazione del mondo, ma nel corso della storia occidentale, in
tre grandi epoche, «a carattere rivoluzionario e critico», è avvenuta
l’elevazione della scienza politica «alla piena dignità di scienza
dell’esistenza umana nella società e nella storia, e di scienza dei
principi dell’ordine in generale».

L’incertezza è l’autentica essenza del Cristianesimo: il senso di


sicurezza che dava il vivere in un “mondo pieno di déi” andò distrutto
con la scomparsa di quegli déi; quando il mondo è dedivinizzato, la
comunicazione col Dio trascendente si riduce al tenue vincolo della
fede, «la fede è sostanza di ciò che dobbiamo sperare e prova di ciò che non vediamo» (Ebrei, 11, 1). Il
destino trascendente dell’uomo, allora, non può essere rappresentato sulla Terra se non dalla Chiesa:
«la sfera del potere è sottoposta a una dedivinizzazione radicale: è diventata temporale». Se «per
dedivinizzazione bisogna intendere quel processo storico attraverso il quale la cultura del politeismo
venne praticamente a morire per atrofia e l’esistenza dell’uomo nella società venne riordinata, in base
alle esperienze della destinazione dell’uomo, per grazia del Dio che trascende il mondo, verso la vita
eterna nella visione beatifica», solo in Occidente la doppia rappresentanza della società attraverso i due
poteri, spirituale e temporale, comportò che entrambi i poteri, Stato e Chiesa, cercarono di costruire per
sé un mondo insieme materiale e spirituale. Il concetto di modernità ed il periodizzamento della storia
tentano di ridivinizzare la società, e tale «ridivinizzazione moderna» ha la sua origine nelle componenti
ereticali del Cristianesimo primitivo, le cui varianti sono state esecrate da Ireneo nell’”Adversus
haereses”, che trovano ampio spazio nella lettura chiliastica dell’Apocalisse giovannea.

Fu Gioacchino da Fiore ed il suo “Terzo Regno”, la “Terza età”, per Voegelin, ad infrangere
definitivamente la concezione agostiniana della Societas Christiana, «quando applicò il simbolo della
Trinità al corso della storia», ossia quando lo schema trinitario, che al massimo sembrava permettere una
duplice articolazione dei due ordini, spirituale e temporale, col papa e l’imperatore «come supremi
rappresentanti sia in senso esistenziale che trascendentale»,venne secolarizzato, ovvero “applicato” al
corso delle vicende storiche, al periodizzamento della storia. «L’escatologia gioachimita è, quanto al suo
contenuto, una speculazione sul significato della storia... Nella speculazione tradizionale si era introdotta
l’idea giudaico-cristiana di una fine della storia intesa nel senso di un costatabile stato di perfezione. La
storia non si svolgeva più ciclicamente, come pensavano Platone e Aristotele, ma procedeva verso una
propria direzione e destinazione».Giusta la distinzione agostiniana tra storia profana e storia
sacrotrascendentale, «solo la storia trascendentale, compreso in essa il pellegrinaggio terreno della
Chiesa, è diretta verso il suo adempimento escatologico». La storia profana si riduce, invece, ad
«un’attesa della fine», non ha alcuna direzionalità. La polis di Platone ed Aristotele, «i grandi noetici», era
«governata dal ritmo dello sviluppo e della decadenza, e la ritmica incarnazione e disincarnazione
dell’essenza nella realtà politica è il mistero dell’esistenza: non è un eidos addizionale». La verità
soteriologica del Cristianesimo offre una verità, un compimento, che «però si realizza oltre la natura»,
infatti «la storia non ha alcun eidos, perché il corso della storia si protende nell’ignoto futuro». Dinanzi a
tal sorta di mistero credere ad un significato della storia, per Voegelin, è puramente illusorio, ed ora
«questo eidos illusorio si forma trattando un simbolo di fede alla stregua di una proposizione relativa a un
oggetto di esperienza immanente». Nel simbolismo cristiano si possono distinguere due componenti, una
teleologica ed una axiologica, che ricompaiono come varianti dell’immanentizzazione, sia nel senso di
una «interpretazione progressista della storia», sia nel senso di un’utopistica «trasformazione
rivoluzionaria della natura umana», ove ogni possibile eidos non ha alcun valore in quanto la struttura
della realtà, in quanto natura (creata), permane immutabile (la dialettica è l’arma della modernità gnostica
perché tenta di rimettere insieme, in circolo, finito ed infinito, trascendenza ed immanenza), ragion per cui
risulta fallace «ogni misticismo attivistico di uno stato di perfezione, da conseguire attraverso una
trasformazione rivoluzionaria della natura umana, come per esempio nel marxismo». Pertanto qualunque
«tentativo di costruire un eidos della storia fatalmente conduce all’erronea immanentizzazione
dell’eschaton cristiano».

Le cosiddette «esperienze gnostiche, in tutta la loro varietà, sono il centro da cui si irraggia il processo di
ridivinizzazione della società», di cui son emblematici - per gli esponenti del “neo-gnosticismo”, come
Ernst Topitsch e lo stesso Voegelin - tutti i «diabolici tentativi di realizzare un mondo-di-sogno», dai
puritani agli illuministi, ai comunisti, su cui si sofferma spesso Voegelin nei suoi scritti investigando la
sostanza dello gnosticismo moderno. Tali «esperienze gnostiche» rivivono nella modernità in un
significato di «compimento escatologico», dapprima legate al fiorire della civiltà occidentale del Medioevo,
da Cluny a Dante e Gioacchino, dall’umanesimo sino al Condorcet, ossia una civiltà espansiva che
ricusava il senso agostiniano del saeculum senescens, poi proprio «come centro attivo di irradiamento
dell’escatologia immanentistica», attraverso Riforma protestante, illuminismo, positivismo, liberalismo,
comunismo, fisicalismo: ora tutti «i simboli intellettuali elaborati dai vari tipi di immanentisti risultano
frequentemente in conflitto tra loro... ». Le scienze sociali oggi evitano di analizzare criticamente i
disordini nella vita politica e sociale avvenuti negli anni Trenta, non preoccupandosi della “verità
razionale”. Leo Strauss polemizza col “progetto escatologico” di Heidegger e con lo “scientismo” delle
weberiane scienze sociali a-veritative. Ora convalidata la differenza o distanza tra la natura organica o
vegetativo-biologica e l’esistenza umana, Voegelin evidenzia che l’essere umano costituisce «il centro
spiritualmente creatore della società e della storia».

Se «ogni società ordinata è portata da una base sociale della coscienza, così come si esprime volta a
volta nella teologia civile...», la moderna gnosi è la possibilità costante di disgregazione dell’Ordine. La
civitas antica si presentava come comunità di uomini e déi, come un ordo ontologicamente giusto, un
compatto intreccio di politica e religione, rotto dal sorgere della scienza politica. Questa, mancante di un
fondamento trascendente, dopo il fallimento del tentativo di una theologia politica in età tardo-imperiale, è
responsabile del sorgere di due modelli gnostici, il primo legato all’immanentizzazione gioachimita, il
secondo movente dall’hobbesiana eliminazione del Trascendente. «La morte dello spirito è il prezzo del
progresso... Il totalitarismo è la forma conclusiva alla quale approda ogni civiltà votata al culto del
progresso... E il totalitarismo del nostro tempo dev’essere considerato come l’approdo finale della ricerca
gnostica di una teologia civile». Lo gnosticismo moderno si pone, allora, come “teologia civile” della
società occidentale, contiene in sé un «fattore di autodissoluzione», legato a due fattori negativi, il primo è
la «distruzione della verità dell’anima», il secondo è «il suo disprezzo del problema dell’esistenza», legato
al visionarismo utopico di un «mondo di sogno contro esistenziale», affondante nella «fallace
immanentizzazione dell’eschaton cristiano».

Se il Cristianesimo aveva dedivinizzato il mondo in maniera «radicale e intransigente», con un destino di


totale secolarizzazione o mondanizzazione, tale dedivinizzazione ha aperto un vuoto pericoloso che ora
tenta di colmare la modernità gnostica con la sua particolare forma di ridivinizzazione della società; tale
rottura di una società politica “ordinata” di uomini e déi è letta da Voegelin nel quadro della categoria di
Esodo (mutuata da Agostino) come radicale grado di “sradicamento” della Trascendenza. «Agostino
pone i conflitti tra il popolo eletto e gl’imperi sotto il simbolo dell’Esodo ed intende i processi storici
dell’uscita, dell’esilio e del ritorno come figurazioni della tensione dell’essere tra tempo ed eternità».

Infranta ogni compatta unità di politica e religione, e sostanzialmente restata senza alcun fondamento
ogni «ricerca di una teologia civile», qualsiasi forma di teologia politica, per Voegelin, proprio perché
ormai non potrà esser altro che mera categoria della secolarizzazione, divien impossibile a darsi, anzi
non ha più alcuna ragione d’esistere. Ma l’esigenza fondamentale di Voegelin resta pur sempre che la
società umana non debba mai esser del tutto dedivinizzata, privata d’ogni principio “veritativo”, altrimenti
essa cadrà facilmente preda delle varie forme di teologia civile della modernità gnostica, fonte d’ogni
disordine. «L’immanentizzazione dell‘eschaton cristiano consentì di conferire alla società nella sua
esistenza naturale un significato che il cristianesimo le aveva negato»: il mito di una società perfetta,
infatti, raggiungibile nell’esistenza terrena. Voegelin è, invece, intimamente lontano dal tipo
dell’intellettuale “impegnato” e progressista della modernità, che pretende a tutti i costi di incarnare le
proprie idee nella realtà in base alla loro semplice forza autoconvinzionale, ossia quel tipo d’intellettuale
della modernità gnostica «che ‘demonicamente’ decide quale debba essere per lui il ‘valore’ supremo».

Tra “teologia politica” e gnosi: quale restaurazione dell’Ordine politico?

«Per chi non ha fede esiste una sola certezza: l’inevitabilità della morte».

Il cristianesimo è nato come manifestazione di una fede nuova e rivoluzionaria, che ha influenzato l’intera
storia dell’umanità. La verità si è rivelata agli uomini attraverso un atto non spiegabile razionalmente, un
atto che costituisce uno scandalo della ragione: l’Infinito che si incarna nel finito, che entra nel tempo e
quindi nella storia. Il Verbo che si fa carne, Dio che si fa uomo, che viene al mondo come singolo uomo
(Gesù), soffre, muore sulla Croce e risorge, salvando gli uomini dai loro peccati e annunciando l’avvento
del Regno dei Cieli sulla Terra. Tutta la realtà umana è integrata nella salvezza promessa da Gesù nel
Nuovo Testamento, una salvezza che non riguarda il singolo uomo, ma il mondo nella sua concretezza
storica.

Testamento indica il “patto”, l’alleanza che Dio, per pura benevolenza, offre agli uomini; la “nuova
alleanza” è sancita, mediante l’istituzione dell’Eucarestia, dal sangue di Cristo, versato per tutti gli uomini,
in remissione dei peccati. I poveri di spirito, gli afflitti, gli affamati, i perseguitati, gli ultimi di questo mondo
saranno i primi nel Regno dei Cieli.

La concezione escatologica della storia espressa nel messaggio cristiano non è ciclica (come per i greci),
ma rettilinea. Nello scorrere del tempo si verificano eventi decisivi e irripetibili, che sono come tappe di un
processo. La fine dei tempi è anche il fine per cui gli eventi sono stati creati. La storia, che va dalla
Creazione alla caduta, dall’Alleanza al tempo dell’attesa del Messia, dalla venuta di Cristo al Giudizio
Finale, acquista per i cristiani un senso sia nel suo insieme sia nelle sue singole fasi.

Col Cristianesimo, la metastoria irrompe nella storia e fonda un sistema di valori sul quale poggerà
totalmente l’esistenza terrena, nell’attesa della fine…

La religione cristiana non rinuncia ai dispositivi mitico-magico-religiosi per la destorificazione del tempo e
la periodica iterazione rituale del mitico evento fondatore (la passione e la resurrezione di Cristo), ma il
piano divino fondante si innesta sul piano terreno per dare un senso al mondo, alle esistenze individuali e
ai rapporti intersoggettivi, in vista del Giudizio Finale e la venuta del Regno di Dio sulla Terra, del riscatto
per gli “uomini di buona volontà”.

Nel Cristianesimo, il ricorso all’orizzonte mitico-rituale e alla destorificazione, che per De Martino è
l’essenza della religione, perde dunque la sua funzionalità inerente alla reintegrazione della presenza.
Paradossalmente, proprio quell’umanesimo rivoluzionario, integrale, predicato dal Cristianesimo - la
morte di Dio e l’avvento del Figlio, del Verbo fatto carne - finirà per scontrarsi con la destorificazione
religiosa che caratterizza i rituali e i miti cristiani, provocando una crisi che si riflette nel weberiano
“disincanto del mondo”.

L’umanesimo integrale sancisce il valore permanente senza alcuna limitazione dell’irruzione metastorica.
Nella prospettiva cristiana, la morte si spoglia della sua carica tragica e drammatica poiché rispetto alla
morte paradigmatica di Cristo non è più un finire ma la premessa di una resurrezione, il preludio ad una
nuova esistenza di ordine sovrumano.

«Al germe di consapevolezza della storia che è racchiuso nel simbolo cristiano è da attribuire l’energia
con la quale l’Occidente ha condotto innanzi il processo di laicizzazione del mondano operare,
sconsacrando e restituendo all’umano una sfera sempre più vasta di operazioni culturali […] entro la
civiltà cristiana la progressiva autonomia dell’umano dal divino ha intensificato il suo ritmo».

Ernesto de Martino e la formazione del suo pensiero: note di metodo di Clara Gallini

Secondo René Girard, la rivelazione cristiana è rivoluzionaria perché per la prima volta presenta un mito
in cui la vittima predestinata al sacrificio - quello che prima era il capro espiatorio - è mostrata
apertamente come innocente e ciò distrugge il precedente ordine fondato sul meccanismo sacrificale. Nei
Vangeli si rivela un Dio totalmente estraneo da ogni logica di violenza e sistematicamente dalla parte
delle vittime. Il Cristianesimo, insieme al Giudaismo, ha svelato le strutture sacrificali di ogni forma
culturale e allo stesso tempo ha desacralizzato il mondo, rendendo possibile un rapporto utilitario con la
natura. Questa situazione mette progressivamente l'uomo in uno stato di sempre maggiore responsabilità
e sempre minore inconsapevolezza. La Rivelazione ha tolto alla società umana la possibilità di risolvere i
propri conflitti in modo sacrificale, rivolgendosi ad una divinità trascendente; per questo, la fine della
violenza, se mai si raggiungerà, sarà possibile solo se ogni individuo vorrà accogliere attivamente e
responsabilmente il contenuto dei Vangeli.

LA VIOLENZA E IL SACRO

«Dobbiamo renderci conto che la Morte di Dio è un evento storico, che Dio è morto nel nostro cosmo,
nella nostra storia, nella nostra esistenza».

La stessa consapevolezza a cui è pervenuto de Martino è stata manifestata negli anni ’60 dai Teologi
Radicali, o anche “teologi della Morte di Dio”, secondo cui a causa della secolarizzazione non era più
possibile credere in un Dio trascendente che agisce nella storia umana e che la Cristianità avrebbe
dovuto continuare ad esistere senza farvi più riferimento: il Cristianesimo, invece di portare Dio nella vita
umana, è capitolato alla secolarizzazione del mondo moderno. È allora solo nel profanesimo più radicale
che l'uomo potrà d'ora in poi sperare di ricatturare il sentimento e la comprensione del sacro.

Come dice Heidegger, «è proprio attraverso la sdivinizzazione che il rapporto con gli Dèi si trasforma in
esperienza vissuta religiosa» (cf. “Sentieri Interrotti”).

STORIA DELLA MORTE DI DIO 3

GNOSTICISMO E RIVOLUZIONE

[…] È dovere del credente sincero indicare a tutti il Maligno, accusarlo apertamente e veracemente,
mettere in guardia tutti da lui e rendere vana la sua astuzia. Dobbiamo soprattutto rivolgerci ai governi
cristiani, e testimoniare di fronte a loro - il credente è tenuto infatti a predicare ed a testimoniare di fronte
ai re, ai príncipi ed alle autorità - onde si accorgano infine quale pericolo mortale minaccia l’ordine
costituito e soprattutto la religione, l’unico fondamento dello Stato, se essi non estirpano proprio le radici
del male. Non c’è più niente di fermo, di sicuro, di stabile se “il vigoroso errore” di quella filosofia è
ulteriormente tollerato. Essi sono in grado di dedurre il finale dell’infelice tragedia che questa filosofia è
costretta a rappresentare, e di cui i suoi seguaci sono gli attori, dal fatto che già nel momento presente
ogni autorità divina ed umana è negata, scossa e resa vacillante da questa gente; la quale, se ha
cominciato col rovesciare la religione e col dare un colpo mortale alla Chiesa, vorrà certo rovesciare
anche il trono. Oh! Vi supplichiamo con lacrime di dolore e di compassione, e con sospiri che ci sono
spremuti dal pericolo che corrono “i piccoli, che hanno fede”, permettete che vi ammoniamo: siate senza
pietà con questa banda; a voi è data la spada onde istituiate in questo mondo un ordine gradito a Dio;
pronunziate la sentenza contro questi distruttori del santuario. Eseguite il giudizio di Dio. A voi essi sono
affidati. […].

È suonata l’ora nella quale il peggiore, il piú superbo, l’ultimo nemico del Signore sarà abbattuto. Questo
nemico però è anche il piú pericoloso. I francesi - il popolo dell’Anticristo - avevano, con scandalosa
pubblicità, di giorno pieno, in piazza, alla luce del sole, che non ha mai visto tale empietà, e sotto gli occhi
dell’Europa cristiana, negato l’esistenza del Signore dell’eternità, assassinando l’unto di Dio ed avevano
commesso un idolatrico adulterio con la meretrice, la ragione; ma l’Europa, piena di santo zelo, represse
tali orrori e si unì in una santa alleanza per gettare in catene l’Anticristo e per innalzare di nuovo gli eterni
altari del vero Signore. Allora venne - no! allora si chiamò, si coprì di attenzioni, si protesse, anzi, si onorò
e si stipendiò lo stesso nemico che si era sconfitto all’esterno, e ciò nella persona di un uomo che era più
forte del popolo francese, di un uomo che ridiede forza legale ai decreti di quella diabolica Convenzione,
che dette ad essi nuovi fondamenti, assai più solidi, e che trovò il modo di metterli in circolazione sotto il
nome, insinuante e particolarmente attraente per la gioventù tedesca, di filosofia. Si chiamò Hegel e se
ne fece il centro dell’Università di Berlino! Quest’uomo - ammesso che lo si possa ancora chiamare uomo
- quest’uomo corruttore, pieno di odio per tutto ciò che è divino e sacro, incominciò quindi, protetto dallo
scudo della filosofia, ad attaccare tutto ciò che gli uomini dovrebbero considerare alto e sublime. Una
schiera di discepoli si unì e mai - in tutta la storia - si è visto un’obbedienza, una devozione, una fiducia
cieca come quella che ad Hegel fu tributata dai suoi discepoli e seguaci. Lo seguirono dove egli li
conduceva, lo seguirono nella lotta contro l’Uno.

(B. Bauer, “La tromba del giudizio universale contro Hegel, ateo e anticristo. Un ultimatum”).

Hegel, con apparente innocenza, ha osservato che la Riforma ha separato il sentimento religioso dalla
filosofia (scolastica). Ciò ha favorito un confronto-scontro fra la religione e la ragione il cui esito è stato la
distruzione della religione. Nella maligna e sorniona osservazione che nella Riforma il contenuto religioso
si è separato dalla filosofia (dalla Scolastica), che esso si è trasferito nella sua purezza, per sé, nel cuore,
nel sentimento, e che è diventato qualche cosa che riguarda soltanto il cuore non si esprime che la
speranza di eliminare tanto piú facilmente la religione. Ora cioè, crede Hegel, che la religione è stata
recisa dalla ragione, dal pensiero, ormai il pensiero sarebbe emancipato, sarebbe in libertà come il
contenuto religioso ed il cuore: ed allora si potrebbe passare ad una vera lotta tra le due parti, senza
intermediari, ad una lotta sul cui esito, la distruzione della religione, non ci sarebbero dubbi.

(“La Sinistra hegeliana”, Testi scelti da Karl Löwith, Laterza, Bari, 1960).

BRUNO BAUER BRANI ANTOLOGICI A cura di Alessandro Sangalli

Marx si abbeverava all’oasi dello storicismo Hegeliano e ne restava contaminato. Egli comprendeva che
se fosse riuscito nella straordinaria impresa di svelare il divenire della Storia, di indicarne il fine ultimo e di
fornire gli strumenti operativi per la sua realizzazione, poteva essere proprio lui il “nuovo salvatore” che
l’umanità attendeva per uscire dal deserto del nichilismo, sorto per effetto dell’impetuoso sviluppo del
processo di secolarizzazione. Egli faceva propria la struttura teorica della dialettica hegeliana, ma era
necessario conferirle una dimensione operativa. Essa doveva essere «raddrizzata....rimessa a reggersi
sui piedi». Se fino ad allora i filosofi si erano limitati ad interpretare il mondo, ora essi dovevano anche
operare per la sua trasformazione. La filosofia doveva individuare la radice di tutte le ingiustizie del
mondo e fornire gli strumenti operativi per estirparla. Essa doveva essere contemporaneamente
conoscenza scientifica e prassi salvifica.

Marx individuava proprio negli elementi costitutivi della modernità le cause di tutti i mali. La modernità
aveva esaltato e scatenato gli aspetti più perversi dell’animo umano in quanto aveva scisso l’uomo dalla
Natura, dagli altri uomini e dalla sua stessa intima essenza divina. L’istituzionalizzazione della proprietà
privata costituiva il peccato originale che aveva provocato la Caduta dell’umanità nel «tempo della
corruzione universale». Il mercato, la logica catallattica e la libera concorrenza avevano ridotto la società
in «un deserto popolato da bestie feroci». Il Parlamento non era altro che «un ciarlatoio nazionale» e la
democrazia rappresentava «una contraddizione intrinseca, un falso, una semplice ipocrisia». Insomma,
secondo Marx, la proprietà privata, il mercato e la democrazia avevano generato «l’innaturalità della vita
moderna». Per ricomporre l’unità originaria perduta, per risacralizzare il mondo era necessario, quindi,
sopprimere gli elementi profanatori, primo fra tutti la proprietà privata. Marx assegnava questa funzione
soteriologica al comunismo. «Il comunismo - infatti - si sa già come reintegrazione e ritorno dell’uomo a
se stesso, soppressione dell’umana autoalienazione... il comunismo è la positiva soppressione della
proprietà privata quale autoalienazione dell’uomo, però reale appropriazione dell’umana essenza da
parte dell’uomo e per l’uomo; è il ritorno completo, consapevole, compiuto all’interno di tutta la ricchezza
dello sviluppo storico, dell’uomo per sé quale uomo sociale, cioè dell’uomo umano. Questo comunismo è,
in quanto naturalismo, umanismo, e, in quanto compiuto umanismo, naturalismo. Esso è la verace
soluzione del contrasto dell’uomo con la natura e con l’uomo, la verace soluzione del conflitto fra
esistenza ed essenza, fra oggettivazione e affermazione soggettiva, fra libertà e necessità, fra individuo e
genere. E’ il risolto enigma della storia e si sa come tale soluzione».

E’ evidente che il socialismo scientifico costituiva contemporaneamente una teoria e una prassi. Infatti
esso era stato concepito da Marx «non solo come autocoscienza che l’assoluto ha di se stesso, ma -
spiega Luciano Pellicani - anche come un sapere capace di modificare la statuto ontologico della realtà,
prassi rivoluzionaria nel senso più pieno e radicale della parola: vale a dire capovolgimento del mondo
capovolto». Marx affidava alla prassi rivoluzionaria il compito di condurre l’uomo fuori dal deserto del
nichilismo verso «l’ultima forma di organizzazione dell’umana famiglia»: il comunismo, appunto, che il
filosofo di Treviri descriveva come il “Paradiso in terra”.

Per effetto della teodicea storicistica marxiana i tentativi di risacralizzazione del mondo hanno assunto,
durante la prima metà del Ventesimo secolo, una forma “criptica”: essi non sono stati condotti in nome di
Dio, ma per volontà della Storia da coloro che ritenevano di averne risolto “l’enigma”. L’antica forma di
conoscenza sacra - la gnosi - assunte le sembianze di una superiore “scienza profana”, ha promesso -
negli scritti di Bucharin - la “resurrezione dell’umanità”. «La gnosi - spiega Pellicani - questa tentazione
permanente dello spirito umano, che nasce dall’ardente desiderio di possedere un sapere capace di
risolvere tutti gli enigmi del mondo e di indicare il metodo per porre fine allo scandalo del male, a partire
dal momento in cui il disincanto ha tolto ogni plausibilità al pensiero mitico-religioso, è stata, per così dire,
costretta ad assumere forme criptiche. E’ accaduto che coloro che ho chiamato gli orfani di Dio hanno
cercato una soddisfazione surrogatoria dei loro bisogni metafisici rimasti scoperti dal progressivo ritirarsi
del sacro dalla scena; e lo hanno fatto elaborando teorie nelle quali l’umanità appare un Dio degradato in
marcia verso il suo originario stato di perfezione. La reazione romantica contro l’illuminismo, da
Rousseau sino all’idealismo tedesco, è stata essenzialmente un disperato tentativo di eliminare la
spaventosa solitudine in cui si sono venuti a trovare gli intellettuali abbandonati dalla fede ma non dal
desiderio di assoluto, riallacciando l’Antica Alleanza fra l’uomo e il mondo. E’ così riemersa la gnosi sotto
forma di filosofie della storia, le quali, grazie all’immanentizzazione dell’escaton giudiaco-cristiano - il
millenario regno di Dio - hanno riattualizzato la visione provvidenzialistica della realtà».

Eschaton - Wikipedia

I progetti che hanno animato l’azione degli orfani di Dio sono stati, nella loro sostanza, nuove “strutture di
fede”, “nuove religioni”, anche se si sono presentati come il contrario di una religione. La loro azione
muoveva verso una sorta di futuro remoto: gli obiettivi da perseguire erano la risacralizzazione di tutto ciò
che era stato consacrato e la restaurazione di un mitico ordine sociale esente dal male. Quel preciso
ordine, del quale non esistono testimonianze storiche, ma che essi hanno indicato come preesistente allo
stato di corruzione generale prodotto dal processo di secolarizzazione.

Lo scontro fra il progetto gnostico, nelle sue varie forme in cui si è manifestato attraverso i secoli, e
l’avanzata della modernità ha radici antiche. Esso non è stato che la manifestazione più cruenta ed
esasperata di quel conflitto fra le due tradizioni - il razionalismo greco ed il messianesimo giudaico-
cristiano, che da circa duemila anni ha animato le vicende dell’Occidente. Un dualismo che si è
materializzato in uno scontro titanico e crudele. Nel corso dei secoli ci siamo trovati di fronte all’identico
programma pantoclastico dei movimenti millenaristici che, sotto diverse spoglie, dal Basso Medioevo sino
all’età contemporanea, sono apparsi sulla scena della storia. Un programma che, muovendo dalla
nostalgia dell’unità perduta, contemplava: la volontà di rovesciamento dell’esistente, l’aspirazione a un
ordine totalmente altro, la necessità di una Guerra Santa per estirpare le radici del male dal mondo. Esso
prometteva, inoltre, una salvezza terrena e collettiva. E dichiarava di voler purificare il mondo eliminando
le cause della sua corruzione. Prima, fra tutte, la proprietà privata. Fonte, questa, della satanica cupidigia
e, quindi, di tutte le ingiustizie. Una purificazione radicale, da condurre con ogni mezzo, compreso l’uso
sistematico del terrore. Lo gnosticismo rivoluzionario traccia la sua parabola storica dalle lotte dei
movimenti ereticali del IV secolo d. C. fino al “grande fallimento” dell’esperimento sovietico.

Il momento cruciale per la storia dello gnosticismo rivoluzionario è rappresentato dall’ “esperimento
giacobino”. Esso ha costituito l’anello di congiunzione tra il passato ed il futuro del fenomeno
rivoluzionario. Il movimento giacobino è stato - secondo Carlyle - “lo sforzo supremo, dopo diciotto secoli
di preparazione per realizzare la religione cristiana”. Ed altresì, tale movimento è stato eletto quale
modello a cui ispirarsi da tutti i movimenti rivoluzionari del XX secolo, decisi a radere al suolo la società
moderna.Il primo passo verso la trasformazione dell’esperimento giacobino nel paradigma della
rivoluzione permanente è stato compiuto dai babuvisti. Essi auspicavano una rivoluzione molto più
radicale che distruggesse irreversibilmente alla radice tutte le istituzioni del passato ed affermasse quella
che Babeuf definiva come “religione della pura eguaglianza”. Dal babuvismo al socialismo il passo è
breve.

Nel contesto dello gnosticismo rivoluzionario, il socialismo non è riducibile esclusivamente ad una
manifestazione di risentimento delle vittime della Grande Trasformazione, ma appare in tutto il suo
significato: la sua meta consiste nel superamento dell’alienazione e la creazione di una nuova religiosità
immanente e priva di trascendenza della comunità umana e della storia. Nel variegato panorama delle
famiglie socialiste quella che, più delle altre, può essere iscritta a pieno titolo nella tradizione dello
gnosticismo rivoluzionario è certamente quella marxista-leninista. Lenin riusciva nella titanica impresa di
rovesciare l’ordine capitalistico, e di istituzionalizzare il primo dominio totalitario. Il totalitarismo leninista,
inoltre nel corso del nostro secolo, ha ispirato le scelte rivoluzionarie del proletariato esterno alla civiltà
occidentale in risposta all’aggressione culturale della “modernità invasora”, come l’ha descritta Ortega Y
Gasset. Nel solco tracciato da Lenin hanno preso vita, tra gli altri, il comunismo cinese, quello vietnamita
e quello cambogiano. Anche il totalitarismo nazista, pur considerando le specificità storiche ed
ideologiche che lo hanno caratterizzato, può essere “compreso” nella parabola storica dello gnosticismo
rivoluzionario. In questo significato, Norman Cohn ha sostenuto che il bolscevismo e nazionalsocialismo
hanno rappresentato gli ultimi avatara del millenarismo giudiaco-cristiano.

Totalitarismo e rivoluzionarismo hanno costituito i due aspetti indisgiungibili di quel progetto metapolitico
che ha animato il XX secolo: erigere la Città dell’uomo, divinizzata, sulle macerie della Città di Dio,
irrimediabilmente devastata dalla catastrofe culturale prodotta dall’avanzata della modernità. Ovvero dalla
Morte di Dio e dal nichilismo ateo esistenzialista. La “sindrome totalitaria” è stata una fuga dalla società
aperta, dai suoi insostenibili effetti disgregatori ed anomici, verso una società chiusa, immobile, sacra.
Tutte le rivoluzioni del XX secolo, anche se condotte in nome di una superiore forma di progresso
dell’umanità, non sono state altro che disperati tentativi di arrestare l’avanzata della Morte di Dio.
Tentativi disperati, in quanto, puntualmente, l’esito finale indotto dal rovesciamento violento dell’ordine
esistente, lungi dall’edificare il promesso Regno Della Libertà e della Felicità, hanno edificato universi
concentrazionari dominati dal terrore e dalla paura.

La morte di Dio Alle radici del pensiero politico della Modernità

CULTURE DELL’APOCALISSE

Tutta la modernità è intrisa di utopie: religiose, scientifiche, artistiche,


architettoniche. A cominciare dalla Riforma protestante, dall'economia politica
liberale, e dalle Rivoluzioni inglese, francese e americana. Secondo Norman
Cohn, sono le grandi crisi del mondo occidentale ad attivare episodicamente
la "mentalità" apocalittica, finalistica e giudeo-cristiana. Vero inconscio di
Utopia. Vale per gli gnostici dei primi secoli cristiani, e per i movimenti ereticali
legati al primo implodere del feudalesimo. Come per il corteo di eresie
sprigionate dalla rivolta di Lutero: da Giovanni di Leyda a Thomas Müntzer.
Per Cohn, la sconnessione dei legami sociali - grande peste, eclisse dell'impero, guerre civili negli stati
nazionali con ascesa di nuove classi proprietarie - libera pulsioni salvifíche di massa negli "esclusi".
Pulsioni sorrette da un "immaginario" antico: il profetismo biblico e cristiano. Che arriva a travasarsi in
ideologie anticristiane, etniche o illuministiche. Sta di fatto altresì che il nucleo antico dell' "attesa" e
dell'avvento imminente - normalizzato e "differito" dalla Chiesa - opera nel profondo della storia
occidentale. Anzi, è quel nucleo, come ha spiegato Karl Löwith, a imbastire il "Senso" stesso della storia
con le sue promesse e la sua "ragione" misteriosa. Ecco allora riaffiorare quel "Senso", che ricomincia
dalla nascita di Cristo, nelle moderne e tarde "crisi di sistema" dell'Europa cristiana. Nelle sette studiate
da Max Weber, pure alla base della mistica economica del capitalismo. E nel trapianto del
protestantesimo calvinista nel Nuovo Mondo. Nell'ideologia dei pionieri. Strato arcaico e puritano che
permea ancora tanti aspetti dell'America "liberale". Dal mito del successo, alla legge del taglione, al
politically-correct, al fondamentalismo dei telepredicatori. Quanto a Marx, non era esente da profetismo.
Figlio di ebrei convertiti, era un Paolo di Tarso proletario. Che pure intercettò nella storia movimenti reali
con la sua scienza economica. Tuttavia, col Novecento accade qualcosa di inedito. Crollano l'ideologia
cristiana del progresso e la fiducia riformista. E il mondo implode con le guerre. Dalle ceneri delle antiche
fedi laicizzate nascono capi carismatici e fabbricatosi di miti. E' uno strano passaggio: dal nichilismo al
profetismo politico. E accanto ai profeti c'è un alleato incontrollabile: la Tecnica.

C'erano una volta i fanatici dell'Apocalisse e poi vennero i capi carismatici Sito Web per la
Filosofia

NICHILISMO COSMOLOGICO

Nel suo ultimo libro, "Il Grande Disegno", il fisico Stephen Hawking
sostiene che «non è necessario invocare l'intervento di Dio per accendere
l'interruttore e far partire l'universo». «La creazione spontanea è la ragione
per cui le cose esistono invece del nulla, per cui esiste l'universo, per cui
esistiamo noi - scrive Hawking nel libro - dato che esiste la legge di
gravitá, l'universo puó crearsi da solo dal nulla». Hawking pare aver
abbandonato definitivamente la convinzione di Sir Isaac Newton e altri
scienziati cristiani secondo cui l'Universo deve essere stato creato da Dio
perché non avrebbe potuto nascere dal caos. Secondo Hawking, così
come la teoria dell'evoluzione della specie rende superfluo il ruolo di un
creatore nel campo della biologia, le nuove teorie scientifiche rendono
superfluo un creatore dell'Universo. Il "Big Bang" non è stato un evento
straordinario che può essere spiegato solo con l'intervento divino, ma una
conseguenza inevitabile delle leggi della scienza.

Dio non esiste sostiene Stephen Hawking a pochi giorni dalla visita
del Papa in Gran Bretagna ilsole24ore 02 settembre 2010

Hawking: Dio una variabile non necessaria Punto Informatico 03 settembre 2010

CREAZIONE SENZA DIO

«Tutto ciò che è avvenuto avverrà, tutto ritorna»

Secondo Nietzsche, il cristianesimo è nient’altro che nichilismo: l'etica dell'amore, della pietà e della
mortificazione del corpo in vista di una ipotetica felicità ultraterrena è solo una perversione dello spirito,
una patologia dell'umanità. Esiste però secondo Nietzsche un nichilismo attivo e positivo: l'atteggiamento
proprio dell'oltreuomo che accetta la "morte di Dio" e con essa la fine di ogni metafisica ed è capace di
reggerne psicologicamente le conseguenze.

[…] Ciò che io racconto è la storia dei prossimi due secoli. Io descrivo ciò che viene, ciò che non può fare
a meno di venire: l'avvento del nichilismo. Questa storia può già ora essere raccontata; perché la
necessità stessa è qui all'opera. Questo futuro parla già per mille segni, questo destino si annunzia
dappertutto; per questa musica del futuro tutte le orecchie sono già in ascolto. Tutta la nostra cultura
europea si muove in una torturante tensione che cresce da decenni in decenni, come protesa verso una
catastrofe: irrequieta, violenta, precipitosa; simile ad una corrente che vuole giungere alla fine, che non
riflette più ed ha paura di riflettere. - Chi prende qui la parola sinora non ha fatto altro che riflettere: come
filosofo ed eremita d'istinto, che ha trovato vantaggio nell'appartarsi, nel restar fuori, nel ritardare, come
uno spirito audace, indagatore e tentatore che già si e' smarrito in ogni labirinto dell'avvenire;…che
guarda indietro mentre narra ciò che avverrà, come il primo nichilista compiuto d'Europa, che ha già
vissuto in sé sino il nichilismo sino alla fine, e ha il nichilismo dietro di sé, sotto di se, fuori di se […] (Wille
zur Macht)

L'Oltreuomo è un nichilista esistenziale perché ha compreso che è lui stesso a dare significato alla vita e
al mondo. E’ un nichilista dionisiaco poiché accetta la tragicità della vita e assapora il piacere del divenire,
inteso come alternanza di vita e morte. E’ un nichilista fatalista che affronta la vita con un “pessimismo
coraggioso”. E’ un nichilista etico, perché si è liberato dai logori concetti del bene e del male. E’ un
nichilista prometeico, che tende oltre l’umano troppo umano. Ed è anche un nichilista cosmologico,
perché vive solo per l’istante, unico centro del suo tempo: l’Eterno Ritorno dell’attimo. Il nichilismo più
estremo, più radicale, che fa del movimento un continuo annientamento e una continua trasvalutazione di
ogni valore. Totale assenza di finalità, rinuncia prestabilita a qualsiasi progettualità esistenziale, pura
volontà di potenza. L’essere che si trasforma in tempo.

“Dio l'abbiamo ucciso e con lui è scomparso anche l'uomo vecchio, ma quello nuovo (Oltreuomo) è ancor
di là dall'apparire”.

L’epoca del nichilismo è l’epoca del tramonto della storia. L’oltreuomo o post-uomo si colloca in un tempo
non più storicizzabile. L’oltre-umano o post-umano significa l’apertura di un’alterità infinita che attraversa i
generi e li scompone, in un trans-genere che si espande come differenza generalizzata.

Secondo Bateson e Deleuze, la volontà di potenza, energia distruttrice e creatrice, è apprezzamento delle
differenze. Non si tratta di una generica energia cosmica, di un caos indifferezziato, di una energia
indistinta, perché la volontà di potenza distingue e individua i viventi; è forza di individuazione nel
transindividuale (Deleuze) contingente. Dionisiaca ma anche apollinea. In quanto potenzialità
differenziante essa raccoglie gli enti non secondo un ordine categoriale (ontologia), di struttura (logica) o
morale (etica), bensì in quello che, con Derrida, potremmo chiamare il dominio del “disparato”, il campo
mutevole delle separazioni contigue, dei limiti delle singolarità. In quanto impulso vitale irriducibile al
pensiero, la volontà di potenza è anche il pensiero della vita, la sua realtà, in cui, contro Hegel, la lotta per
la sopravvivenza non è lotta “di puro prestigio”, bensì per l’autoffermazione del comune (la vita come ciò
che è comune). Il processo di individuazione insomma è volontà di potenza che assume la potenzialità
delle interpretazioni, cioè, anche, l’interpretazione come potenzialità molteplice. Non si tratta dunque di
pensare il significato della vita, quanto di attivare quelle potenzialità che contraddistinguono le facoltà
umane: il linguaggio, la relazione sociale. Ciò che, alla fine della modernità, emerge come caratteristico
dell’essere umano.

La gioia del nichilismo di Opossum3e

Bataille è stato il primo a parlare di “eterologie”, di un sapere che non deve essere ricondotto al già-noto,
ma deve aprirsi come spazio in cui gioca l'esperienza del non-sapere, del limite, dell'incommensurabile.
Bataille vede l'eterno ritorno come dissoluzione dell'identità verso l'Altro. Il filo di Arianna che Nietzsche
vagamente ricerca nei “biglietti della pazzia” è una totale assenza di finalità, una rinuncia prestabilita a
qualsiasi progettualità esistenziale. Per Bataille è questa la volontà di deserto e il pathos della solitudine
di Nietzsche: la possibilità di vivere l'attimo sconnesso dallo scopo.
Il superuomo, che Bataille ribattezza qui “uomo-totale”, è colui che vive l'attimo non come prometeica
determinazione pragmatica, ma come pura ed evanescente assenza di motivazione: il superuomo di
Bataille è simile all'Ulrich dell' “Uomo senza qualità” di Musil. Tuttavia Bataille si affretta a distinguere fra il
mondo dei fini e quello del non-senso, teorizzando per il suo uomo totale la possibilità di una terza
alternativa che prescinda dai due mondi e contemporaneamente le presupponga entrambi. L'azione pura
sconnessa dai fini, porterebbe alla trascendenza dell'azione sull'uomo totale che sarebbe così
interamente risolto e dissolto in una praxis solipsistica e avulsa da qualsiasi scopo. Viceversa, l'uomo
totale non può trascendere l'azione, sottomettendola ad un fine o ad uno scopo, pena una ricaduta
nell'utilitarismo del Just-in-time che rifiuta qualsiasi applicazione immediata. L'uomo totale ha così, per
Bataille, una terza possibilità: circoscrivere l'azione ad un principio di libertà, purché sia un principio
razionale. La ragione deve limitare l'energia, la “parte maledetta”, secondo l'istanza di principi libertari e
ragionevoli.

In ogni tipo di trasgressione codificata possiamo individuare gli stratagemmi per circoscrivere e
controllare i margini esterni del sistema sociale. Alla resistenza sono concesse delle piccole nicchie,
comunque sotto il rigoroso controllo della ragione che ne sorveglia l'evoluzione. Ma Bataille non si avvede
del pericolo insito nella trasgressione conformistica e scorge in questo principio di libertà razionale,
l'equivalente della possibilità di raggiungere un'azione, che non si pone come finalità eterogenea. È
convinto di aver raggiunto Zarathustra, nella sua danza, nel suo riso. L'uomo totale può avvicinarsi al
superuomo solo affrancandosi da ogni perché, da ogni scopo: l'immanenza, cioè l'agire liberato, è
l'avvento del regno del riso.

Più avanti, Bataille introduce i termini del “culmine” e del “declino”, da intendere rispettivamente come
esuberanza ed esaurimento consequenziale. Il culmine – il wille zur macht, la parte maledetta – è
paragonato al castello di Kafka, in quanto come quest'ultimo è inaccessibile. Il culmine può essere
raggiunto soltanto involontariamente, evenienzalmente: la dissolutezza stessa, sempre secondo Bataille,
una volta che diventa un obiettivo di vita, cessa di essere tale. Per arrivare veramente al culmine della
dissolutezza si deve restare innocenti, puri. È presente in queste pagine un chiaro richiamo ai Tantra, che
d'altronde Bataille conosce bene. Tutto il pensiero di Bataille sembra orientarsi verso una mistica
negativa, una teologia senza il Dio cristiano. Verso una dissoluzione dell'identità nell'assenza, nel non-
sapere.

«Il culmine non è “ciò che bisogna raggiungere”; il declino non è “ciò che bisogna eliminare”. Come il
culmine alla fine non è che l'inaccessibile, il declino è fin dall'inizio l'inevitabile».

Ma se il culmine, la catarsi dell'energia eccedente, può essere raggiunta individualmente e non


socialmente solo se abbandoniamo la ricerca di uno scopo, di un motivo determinato, non resta che
aprire il nostro quotidiano al tempo del gioco. Per Bataille si può distruggere la trascendenza – l'identità,
l'Io – solo con il riso. La risata e la danza di Zarathustra non sono però espressione della volontà di gioco
ma apertura al gioco:
«La risposta che ci vien data al desiderio è vera soltanto se non afferrata».

La chance può solo accadere, non può essere ricercata. La chance, come l'ereignis heideggeriano, è lo
spazio in cui l'uomo, evenenzialmente, può venire a trovarsi. In Bataille vi è volontà di chance, solo nel
senso che, quando la possibilità accade si deve mettere in gioco la vita stessa per realizzarla, o più
esattamente – dato il carattere casuale della chance – per viverla. Questo mettere in gioco sé stessi, fino
a correre il rischio di perdere il bene più prezioso – la vita – è ciò che si deve intendere per esperienza-
limite. L'esperienza-limite è stata quindi aperta non dallo slancio di una volontà titanica, ma da una
chance, da un evento casuale. Bataille si affretta a dirci che il vero seguace di Zarathustra, ovvero l'uomo
totale, non è colui che vive pericolosamente, ma colui che ha non ha più niente da fare o da realizzare
nella sua esistenza. Si è con Zarathustra solo se non si ha più fede in ciò che si compie. È la Liberazione,
il Satori dello Zen: si mette totalmente in gioco l'identità, l'Io, in una possibilità che si apre
improvvisamente, nella sua casualità, all'interno del nostro quotidiano. Non si persegue più la volontà di
chance quando si rischia per qualcosa che non è evenenziale ma finalistico, per esempio una
concatenazione di obiettivi parziali per un grande progetto. Ecco perchè l'uomo totale di Bataille somiglia
all'Ulrich musiliano nel suo non persistere negli intenti: anche se mette in gioco la sua vita, non si sa mai
dove sarà l'attimo successivo. Mette in gioco se stesso in ciò che accade cercando di raggiungere
l'impossibile nella casualità della chance, non riesce però a vivere il quotidiano, inteso come impegno
giornaliero e progressivo:

«Non aver nessuna esigenza finita. Non ammettere limiti in alcun senso».

Nel prosieguo del suo testo, Bataille identifica la volontà di chance con l'amor fati nietzscheano. Si
sofferma anche a contrapporre la volontà di chance e la temporalità a Dio e al tutto: se si vuole la chance
non si può desiderare, sempre secondo Bataille, Dio. Verso la fine del suo libro, Bataille sottolinea ancora
la quasi identità della sua idea della chance con quella dell'eterno ritorno nietzscheano. In entrambi i casi
la condizione essenziale dell'amor fati è l'assenza di uno sforzo, il vivere l'attimo come leggerezza e
nonsenso:

«Se non esiste più un grande meccanismo in nome del quale si possa parlare: come tendere l'azione,
come domandar di agire, che fare?».

La risposta se la da Bataille stesso, quando dice di volere unicamente la chance, sia come scopo che
come mezzo in sé. Bataille definisce “teopatico” questo stato di immanenza in cui si risolve
completamente l'identità nella chance, aggiungendo anche che questo culmine è ciò che trasforma
l'essere in tempo – qui è evidente il richiamo al famoso passo di Nietzsche sul culmine della
contemplazione – ovvero lo apre all'immanenza, in una non differenziazione dell'essere dall'oggetto
possibile. È davvero impossibile non avvedersi di questa apertura mistica nel pensiero del francese, il
quale usa termini come teopatia e parla di stati di indifferenziazione con l'essere, che sembrano essere
usciti più dagli scritti di un Meister Eckhart che di un nietzscheano. Per Bataille, Nietzsche è soprattutto il
profeta di una volontà ossimoricamente assente di finalità, totalmente priva di una qualsiasi direzione
utilitaristica: già il termine volontà di potenza è equivoco. Vi è volontà di potenza solo perché si richiede
una catarsi dell'energia eccedente, solo perché la parte maledetta si spengerà nel dispendio. Ma per
Bataille la soggettività si esaurisce in un'azione liberata dagli scopi, che proprio per questo non si ferma
all'essente, alla datità, ma va oltre verso il possibile. A nostro avviso il Possibile di Bataille è
il Trascendens del pensiero mistico: infatti, si rinuncia al progetto dell'esserci, che è ciò che getta
l'autenticità della dimensione esistentiva, per limitarsi ad abitare lo spazio del Possibile. In Heidegger la
dimensione esistenzialistica si evolve in un movimento spiraliforme centrifugo che porta a focalizzare
l'attenzione non più sull'esserci, ma sull'ereignis, sull'av-vento. Non vi è nel suo pensiero una reale svolta,
tra un primo e un secondo Heidegger: i due momenti si rimandano presupponendosi a vicenda.
Heidegger prima tratta dell'esserci dell'uomo, poi dell'ereignis, ovvero la radura in cui si aprono le
possibilità, ma anche la progettualità dell'uomo. In Bataille, viceversa, è assente qualsiasi parvenza di
progettualità: anzi, la chance accade proprio perché non si ricerca più niente nella vita. In altre parole,
perché si annulla l'io e l'identità. La peculiarità del misticismo di Bataille risiede nella sua negatività, nel
suo rifiuto della trascendenza, nella sua assoluta immanenza, che si determina come un panteismo ateo:

«Lo stato di immanenza implica una completa esposizione al gioco, tale che soltanto un evento
indipendente dalla volontà possa disporre di un essere così a fondo [...] il gioco è la ricerca, di sorte in
sorte, degli infiniti possibili».

Bataille, da buon nietzscheano, identifica questo stato di immanenza come un essere “al di là del bene e
del male”, alla libertà dei sensi ed al rifiuto dell'ascesi: è la via del tantrismo dove si usa l'energia del
corpo per raggiungere la mokśa, la liberazione finale. La sua originalità consiste nel tentativo di coniugare
un nietzscheanesimo, finalmente denazificato, con una mistica negativa d'ispirazione orientale.

Bataille, mistico nietzscheano dell'eterno ritorno di Antonio D'Alonzo Esonet

Il secolo appena trascorso è stato da più parti definito come il secolo del nulla proprio perché, da
Nietzsche in poi, la filosofia occidentale si è confrontata per la prima volta con l'impossibilità di dare
ragione dell'esistenza dell'uomo e del mondo, con la crisi delle meta-narrazioni, delle ideologie e delle
dottrine fideistiche.

L’impressione è che la cultura contemporanea si definisca in sostanza post-moderna, cioè come


riflessione sul mondo dopo la morte di Dio, dove ‘morte di Dio’ non significa solo la fine di vecchie forme
di teologia, ma morte o eclisse di valori e di principi, anche di carattere laico. Non soltanto la morte di
alcune forme di religione, ma la morte delle rappresentazioni dell’uomo che hanno come punto comune e
come centro quei valori forti che potevano essere la religione o la libertà. In questo senso la filosofia
contemporanea in gran parte si autodefinisce post-moderna, intendendo con questa definizione una
riflessione su come sia possibile vivere e sopravvivere in assenza di questi punti di riferimento precisi,
forti, condivisi dalla maggior parte delle persone. Di fronte a questo ci sono naturalmente delle difficoltà,
nel senso che non è facile trovare queste fonti di sopravvivenza. Penso che all’interno di questa ricerca
diretta a trovare modi di sopravvivenza dopo la morte di Dio ci sia anche la diffusa moda delle ricerche
che hanno l’oriente come meta. Questo, naturalmente, comporta altri problemi, perché noi, andando ad
Oriente, troviamo solo risposte diversamente forti, cioè non troviamo, per lo più, pensieri critici.

Dopo Nietzsche, la filosofia è giunta al punto di dire che non è più possibile dare risposte metafisiche forti
(pensiero debole). Anche in una delle più grandi costruzioni filosofiche del Novecento, come quella di
Heidegger, il fatto che egli dica che è necessario ritornare a pensare l’essere prima della metafisica - cioè
a ripensarla in maniera completamente diversa da come è stata pensata da Parmenide a Nietzsche - o è
una risposta debole, nel senso che questo concetto di Essere è vago, non riesce ad essere codificato,
denominato, strutturato; oppure rischia di essere una ennesima riproposizione di un pensiero forte.
Quindi, anche la risposta di Heidegger non è una risposta definitiva. Anche Heidegger appartiene al
periodo della morte di Dio, cioè al periodo in cui si è verificata la morte delle grandi possibilità di
rappresentazione. Vi sono però anche voci “forti”, come quella di Severino, che ritorna a Parmenide,
riprendendolo nella sua tesi fondamentale secondo cui “l’essere è e che il non essere non è”; attraverso
questa tesi Severino rilegge la modernità, e, in particolare, legge tutto il problema della tecnica in maniera
critica.

La tradizione orientale non si è mai confrontata con la Morte di Dio perché questo problema non l’ha mai
avuto. Bisogna però distinguere tra diverse tradizioni orientali. L’India del Brahamanesimo, dei Veda,
delle Upanishad è completamente diversa (anche se possiamo trovare delle piccole analogie) dal
pensiero cinese. Il problema della trascendenza nel senso forte, monoteistico e personalistico, che ha
attraversato il Cristianesimo e poi l’Islam, la Cina non l’ha mai avuto. Possiamo parlare di spiritualità,
possiamo parlare anche di divino, ma di un divino diffuso nella natura, nella potenza degli esseri. Una
posizione di trascendenza forte, da cui si intende dipenda la creazione del mondo, non è mai esistita. Su
questo tema c'è un bellissimo libro di François Jullien, “Processo o Creazione” (1991, Edizioni Pratiche),
dove l'autore mette in contrapposizione da un lato proprio la rappresentazione cinese del mondo e
dell’esistenza, che è all’insegna dell’idea di un processo che non ha né inizio né fine, un processo di
continue trasformazioni; e, dall'altro, il principio della creazione, che implica un movimento che invece
parte da un punto, cioè dall’atto creativo di Dio, e finisce in un punto costituito dal giudizio universale.
Questa è una vera e propria differenza non facilmente sormontabile. Quindi, il problema della Morte di
Dio, l’Oriente, e in particolare l’Estremo Oriente, non l’ha mai avuto. L’India lo ha avuto in qualche
maniera, ma in una maniera assai diversa. Il grande pensiero metafisico Indiano, il Brahmanesimo, prima
del Buddhismo, ha risolto il problema della divinità in maniera molto chiara, ricorrendo all’idea di Atman /
Brahman come Assoluto neutro e infinito, che, in quanto infinito, può manifestarsi in infiniti modi; ergo:
anche in infiniti Dei. In questo senso il pensiero Indiano classico è riuscito a conciliare monoteismo e
politeismo.

All’interno del Brahamanesimo si sono formulate varie teologie che hanno affrontato il problema
dell’esistenza. Nei Veda qualsiasi azione umana, banale o importante, è sacralizzata in modo da dare un
senso preciso ad ogni azione umana. In particolare, nelle “Leggi di Manu” voi vedete previsti sacrifici per
ciascun atto della vita quotidiana che viene sottoposta così ad una sacralizzazione estrema di cui noi
forse non abbiamo mai avuto memoria (forse solo con l’ebraismo e la sua tradizione talmudica abbiamo
avuto qualcosa di simile). Nel suo modo di dare una ragione all’esistenza in senso religioso forte, il
Brahamanesimo sicuramente non ha eguali, anzi, a volte appare quasi soffocante, perché non c’è azione
o gesto che sfugga a questo senso di sacralità.

Per quanto riguarda la metafisica occidentale, dopo le soluzioni poste prima da Cartesio e poi da Hegel, è
stato Feuerbach a radicalizzare la soluzione in direzione immanente, laddove sostiene che non è Dio che
crea l’uomo, ma sono gli uomini che creano gli Dei (li creano nel senso che producono importanti racconti
in base ai loro bisogni).

Il confronto con le filosofie orientali può ancora essere fecondo ma non per ripristinare forme di antiche
certezze. Per esempio, il Buddhismo ha delle possibilità di risposte enormi, ma sicuramente non di ordine
metafisico. Sono di ordine pratico, esperienziale, basate soprattutto sull’esperienza della meditazione;
detta in maniera ancor più semplicistica, ha enormi possibilità di analisi e di terapia psicologica. Il Dalai
Lama diceva, ancora nel 1974, che il Buddhismo in Occidente avrà un ruolo rivoluzionario perché può
donare enormi tesori in termini di psicologia, di analisi psicologica, di analisi dei comportamenti e
soprattutto di analisi e terapia delle emozioni, cosa di cui noi ci siamo occupati ben poco o che abbiamo
interpretato in maniera meccanicistica, facendo gli esperimenti in modo comportamentistico,
meccanicistico. Tra le tante cose che il Buddhismo può darci, un posto di rilievo è occupato certamente
da una considerazione del problema etico che porta ad un’etica radicalmente diversa da quella
occidentale. Inoltre può aiutarci ad affrontare il problema ecologico, nel senso indicato dalla massima
“proteggendo me stesso proteggo gli altri, e proteggendo gli altri proteggo me stesso". Ciò significa una
cosa molto semplice (da formulare): l’uomo, se vuole sopravvivere e vivere meglio, deve far sopravvivere
e vivere meglio gli altri esseri e l'ambiente che lo ospita, e, viceversa, per far sopravvivere e vivere meglio
gli altri e il proprio ambiente, è necessario che egli stia bene con se stesso. Al centro viene posta
l’esperienza analitica, introspettiva, che tradizionalmente tutte le scuole buddhiste, dal Buddha in poi,
hanno sostenuto essere praticabile attraverso la meditazione. La pratica della meditazione diventa
centrale, perché è attraverso la meditazione che si fa esperienza della struttura e delle qualità essenziale
della realtà tutta, sia interna che esterna. Meditazione non in senso occidentale, come speculazione-su,
riflessione-su qualcosa, ma come attenzione a qualsiasi fenomeno, da quello più vicino a ciascuno (la
respirazione) fino a quelli più astratti come i concetti di senza-spazio e di senza-tempo, passando per
l’attenzione alle emozioni, agli stati interiori e alle azioni. E’ quindi meditazione anche su cose banali, e
tuttavia, attraverso questo esercizio all’attenzione, si può raggiungere una chiarezza tale che ci permette
di risolvere molti dei problemi posti dalla nostra vita quotidiana...

Tutta l’arte contemporanea è una testimonianza di una perdita del centro, o, come diceva Sedlmayr, di
una perdita della luce, di un polo focale. Detto questo, il ventaglio delle avanguardie è enorme. Nel senso
che, se voi prendete i tentativi di Malevic, di Kandinskij e di Klee, trovate che sono tre tentativi di dare
risposte a questa assenza. Per certi aspetti, per esempio in Kandinskij quando parla dello spirituale
nell’arte, sembra che voglia ritornare ad una prospettiva metafisica. Credo che qui ci possa essere una
vicinanza tra alcune grandi esperienze dell’arte contemporanea con il discorso che facevamo anche oggi
del senza forma [N.d.r. Pasqualotto qui si riferisce alla conferenza su “Arte e ascesi in oriente”]. Cioè:
attraverso le forme e i colori riuscire ad indicare qual è la fonte, il fondamento di tutte le forme e di tutti i
colori. Mi riferisco soprattutto al Malevic del “Quadrato bianco”, oppure allo spirituale nell’arte di cui parla
Kandinskij: l’arte povrebbe indicare ciò da cui provengono le sue rappresentazioni. Questo sarebbe un
modo (assai vicino alla mistica) di indicare il non rappresentabile, nella consapevolezza che ad esso si
può soltanto alludere, non lo si può descrivere compiutamente. Quindi ci potrebbe essere uno spirituale
nell’arte dopo la morte di Dio, da riscoprire in modi assai diversi da quelli tradizionali, teologici o
metafisici.

La globalizzazione, da alcuni definita europeizzazione o americanizzazione, sta divorando rapidamente


pezzi di intere civiltà, soprattutto in Asia e Africa. A mio avviso, l’Oriente nel giro di cinquant’anni non
esisterà più, almeno quell’Oriente tradizionale che abbiamo studiato e fin troppo amato. Ovvero rimarrà
nei musei, in alcune riserve come quelle degli indiani d’America. Uno dei segnali più recenti e drammatici
è stato dato dal suicidio rituale di Mishima che si uccide perché capisce che un intero mondo non è più
comprensibile e vivibile all’interno di una prospettiva dettata dall’americanismo. Questo avveniva
quarant’anni fa. In questi quarant’anni abbiamo avuto un’accelerazione spaventosa di tali processi di
occidentalizzazione guidata dall’american way of life. Tuttavia, siccome le cose sono sempre pù
complesse di come noi ce le rappresentiamo, può anche essere che queste nuove forme di
globalizzazione innestino anche riflessi condizionati contrari. Per esempio: Il Giappone negli ultimi
vent’anni ha riscoperto in maniera massiccia e ha riorganizzato molti settori delle sue arti tradizionali
come quella della cerimonia del tè e quella del bonsai: queste arti sono state spesso trivializzate, ma
nello stesso tempo, sono state diffuse in maniera massiccia, per cui le giovani generazioni di giapponesi
hanno potuto recuperare - e certe volte conoscere per la prima volta - importanti tradizioni del loro paese.
Magari ascoltando amici americani o europei che ne parlavano entusiasti.

Forse soltanto Hegel ha affrontato la tematica dell’identità e della diversità in senso forte, anche se
sempre in senso molto generale, formale, logico. Prova ne sia che quando Hegel deve parlare di altri
popoli (per esempio nelle “Lezioni di filosofia della storia”) dice cose terribili, ai limiti di un razzismo folle e
senza freni. Ciò nonostante, nella “Scienza della logica” dimostra in modo incontrovertibile che l’identità
dipende dalla diversità, e cioè che l'identità in sé e per sé non esiste. Ritengo che questa acquisizione sia
una delle massime conquiste filosofiche che l’antropologia ha invece ottenuto “sul campo”, per via
sperimentale. L’antropologia, infatti, fin dalle sue origini è stata costretta a porsi il cruciale problema
dell’identità: quando noi dobbiamo conoscere l’altro, cosa facciamo? Come ci rapportiamo? Credo che i
filosofi dovrebbero leggere più libri di antropologia, anche se questa, per ragioni “disciplinari”, eccede
nell’ossequio ai “dati di fatto”. Sarebbe sensato riprendere in mano Levi Strauss, e poi venire avanti, fino
agli attuali dibattiti sullo straniero, sul diverso, ecc. Uno dei pochi filosofi che si è cimentato in modo
sistematico con questi temi è Waldenfels che ha scritto una poderosa “Fenomenologia dello straniero”.

Anche il lavoro che Francois Jullien sta è da considerarsi fondamentale. Il suo ragionamento in base al
quale dobbiamo conoscere la Cina proprio perché essa costituisce il nostro “altro” più altro, più lontano,
più diverso, è ci dice che la nostra identità può costruirsi solo in maniera critica, ossia esponendosi ad un
confronto con modi di pensiero che ci costringono a rivedere i nostri. Non solo con i concetti di “processo”
e di “creazione” ma anche ad esempio con il concetto di “efficacia”: noi lo intendiamo in una prospettiva
lineare che parte da un punto (l’intenzione) e arriva ad un altro (il risultato); loro affrontano il problema in
termini completamente diversi, considerando l’efficacia come il modo migliore per trovare nella realtà la
via che conduce a buon esito un’impresa. Non si tratta di un’imposizione nostra sulla realtà, ma si tratta di
diventare capaci di ‘leggere’ nella realtà quegli indizi che ci possano condurre alla soluzione migliore così
come si apprende dall’ “I Ching”, come ben illustrato da un testo di Jullien (“Trattato dell’efficacia” Einaudi,
2004). Questo esporsi al diverso, di cui parla Jullien, comporta la necessità di ripensare alla valenza, al
valore e al significato delle nostre stesse categorie. E quindi in questo senso il dialogo tra oriente e
occidente diventa fondamentale, direi quasi necessario.

La morte di Dio e le sapienze orientali Intervista a Giangiorgio Pasqualotto

NICHILISMO POSTMODERNO

«Tutto è sdrucciolevole e pericoloso sul nostro cammino, e il ghiaccio che ancora ci sostiene è diventato
ben sottile: noi tutti sentiamo il caldo sinistro vento del disgelo: qui dove ancora camminiamo, fra poco più
nessuno potrà camminare».

Nella drammatica separazione tra fede e ragione si sono create le premesse per un divorzio lacerante
che confina la ragione nella controfigura di se stessa, il razionalismo, e la fede in un fideismo alienante.
Tale aporia è alla base dell’epoca post-moderna.

Nell’avvertire l’inconsistenza dei grandi racconti della modernità, il postmoderno ha operato un


indebolimento della razionalità, creando quell’effetto di spaesamento teoretico ed etico legittimante
l’indifferente validità di molteplici Weltanschauungen. Pur in una accezione euristica, la postmodernità
esprime il sintomo di una sospensione (forse apparente) di criteri conoscitivi della realtà, suggerendo quel
politeismo di princìpi che rappresentano una sosta vietata nel territorio metafisico. Per questo, sebbene il
termine nichilismo rimandi alle controversie che connotano la genesi dell’idealismo tedesco, è solo nel
Novecento che emerge come problema per il pensiero, nel momento in cui la sua forza devastante e
inquietante si esplicita come «il rifiuto di ogni fondamento e la negazione di ogni verità oggettiva”.

Il nichilismo, dunque, unisce il moderno al postmoderno. Se «il nichilismo non si confonde con l’idea di
modernità, tuttavia esso è costantemente impegnato a fare i conti con quegli esiti della modernità:
l’impellere della responsabilità soggettiva dinanzi a un mondo che perde il suo intrinseco significato e la
sua consistenza, l’ateismo, la tecnicizzazione... che vengono visti e denunciati come patologogici». La
frattura della tradizione è il segno del tempo nuovo che si distacca dalla semplice continuità con il passato
e dal sistema di attese rivolte al futuro, una inedita atopia «entro cui classificare le nostre esperienze e il
nostro sapere». La centralità del soggetto, inaugurata dalla «singolarità senza analoghi» della riflessione
cartesiana del cogito, muta la leggibilità del mondo affidandola all’esprit de geometrie e rende la libertà
criterio di verifica del progetto creativo di Dio. Ciò che scaturisce è la necessità di giustificare l’origine
senza ragione del mondo prescindendo dal principio-creazione; ma la conseguenza è l’allontanamento di
Dio dalle scene della storia che sposta irrimediabilmente il baricentro dell’autocomprensione dell’uomo
non più misurabile sulla triade metafisica Dio-uomo-mondo. Il passo ad un esito ateistico della modernità
è sostanzialmente preparato. «L’avvento del soggetto come principio della modernità segna al contempo
l’ora metafisica della ‘morte di Dio’». «Il mondo vero è diventato favola», perché la verità è solo illusione,
favola, luogo, cioè, di una esperienza che non può vantare alcuna pretesa di autenticità. Il nichilismo
sembra preparare un pensiero postmetafisico, in quanto mostra come la storia dell’essere è nel suo
assentarsi, nel suo differire dall’ente. In tale differire, non serve concentrarsi sull’ente, in una letale
negligenza nei riguardi dell’essere, ma dispiegare quella volontà di potenza che il dominio incondizionato
dell’ente assume, allorché il soggetto diventa unico protagonista della illimitata oggettivazione di ciò che
è. E’ questo il tempo della tecnica quale espressione della metafisica della soggettività che tutto
subordina «alla logica del mercato, alla tentazione di un potere demiurgico sulla natura e sullo stesso
essere umano». Nel quadro della fugacità delle cose, gli stessi presupposti della calcolabilità e
producibilità dell’ente si convertono nella incapacità di controllare lo strumento della tecnica, figura
postmoderna della provvidenza che riduce l’uomo a materiale d’uso. La tecnica rappresenta,
paradossalmente, la fine del soggetto, o almeno di quel soggetto interprete dell’ideologico potere della
ragione calcolante.

Nella pretesa di una non-fondatività, il nichilismo postmoderno intende rilevare la pluralità e la


provvisorietà della humana conditio, assumendo quale trascendentale quello della caducità e mortalità.
Non meraviglia, quindi, che la “crisi del senso” (crisi della presenza) quale dato emblematico «della
nostra condizione attuale (...) sfocia in uno stato di scetticismo e di indifferenza o nelle diverse
espressioni del nichilismo», che si riflette anche sull’esperienza del sacro anonimo e di una mistica atea.
L’etica neopagana quale etica del finito autosufficiente e misurato gnosticamente sulla certezza di sé,
sembra incarnare l’epoca della indifferenza postmoderna in una teoresi di piccolo cabotaggio e nella
ineluttabilità della posthistoire. Nell’allestire un soggetto «senza speranza né possibilità alcuna di
raggiungere la meta della verità», il nichilismo fatica a riconoscere l’insostituibilità della domanda
ontoteologica, avvinto dalla profondità della superficie che baratta il fondamento per il fenomeno.
Parametro emblematico di questa spossatezza del soggetto, non è solo l’oblio della memoria, ma anche
quel culto neo-mitico che deresponsabilizza il soggetto in virtù della presunta innocenza del divenire. Di
fronte all’ingiustificabile, il confortevole nichilismo non riesce a cogliere l’eccedenza di un quid che
disturba la vita e disloca il pensiero, ma preferisce sfumare la serietà del mysterium iniquitatis, dando così
un non luogo a procedere che si concentra nella evasività della filosofia e nell’aporia dell’ “ottimismo
razionalista”. Allo stesso modo, la derealizzazione del mondo verso il movimento del simbolico e della
estetizzazione della vita, altro non è che il prendere congedo dalla istanza veritativa, in una sorta di
strategia di difesa che preferisce verità frammentarie o mezze verità

SECOLARISMO E NICHILISMO IN FIDES ET RATIO di Carmelo Dotolo

Tra le diverse costellazioni di pensiero che hanno caratterizzato gli ultimi decenni del Novecento, è
indubitabile che la “condizione postmoderna,” profetizzata a metà degli anni ’70 da François Lyotard (cui
faceva eco in Italia il “pensiero debole” di Vattimo ed altri), sia stata quella che più di tutte sia riuscita ad
incidere nella coscienza del tempo, nelle dinamiche culturali ed estetiche di quel tornante di fine secolo,
probabilmente perché le plurali tonalità soggettive dell’epoca, contrassegnate dalla percezione di un
tramonto delle utopie e di un “senso della fine”, meglio corrispondevano a quella sentenza o
“dichiarazione di morte” che sia Lyotard sia Vattimo avevano pronunciato nei confronti della Modernità e
dei suoi “grandi racconti” o metanarrazioni. La perentoria presa d’atto della “fine del Moderno” investiva le
figure, i codici e gli orizzonti che avevano segnato l’affermazione dell’epoca lungo tre secoli: per cui,
adesso, venendo essa meno, trascinava con sé come detriti oramai consunti quei corollari e dispositivi
che le avevano consentito di dispiegare la sua “metafisica influente”: il soggetto, la politica, lo Stato, l’idea
di progresso, il senso della storia, il carattere futurizzante della temporalità. Da quel momento, tra
letteratura e filosofia, estetica e scienze umane, le forme di pensiero che si sono contese il campo sono
state tutte attraversate (condividendo o respingendo “l’ideologia inconsapevole” di cui la condizione
postmoderna si faceva portatrice) da quel dibattito, da quei problemi lungo assi culturali divergenti e
spesso conflittuali. Se il postmoderno invitava a prendere atto dello scarto irreversibile apertosi tra
esistenza e progetto, “spazio d’esperienza” e “orizzonte delle attese”, provando a giocare irenicamente la
carta di un nichilismo compiuto (magari suggerendo una soggettività indebolita e “convalescente” protesa
a godere l’esistenza nel clima di un progressivo addolcimento della condizioni di vita, sulle tracce di un
Nietzsche e Heidegger “debolmente” interpretati da Vattimo), il corpo a corpo che la “nuova condizione”
sollecitava era tra chi intravedeva solo scenari apocalittici nel clima di “distruzione dell’esperienza” che la
nuova fase portava con sé e chi provava a immaginare un “barlume di speranza” pur nello scenario
nichilistico e omologante di un mondo resosi una immensa “società dello spettacolo”, secondo le
profetiche intuizioni che Guy Debord veniva avanzando già sul finire degli anni ’60.
LA SOCIETA’ DELLO SPETTACOLO

Un mondo in crisi perpetua, orfano del sacro (morte di Dio), incapace di riscoprire e rifondare dei valori
condivisi (morte dell’arte), un mondo senza più una storia, senza più un principio di realtà (il delitto
perfetto), dominato dagli interessi personali (narcisismo) e in balia delle manie, individuali e collettive
(apocalisse psicopatologica), che sprofonda inesorabilmente nel caos.

Un mondo globalizzato atomizzato de-storificato, in cui la crisi della presenza non può mai risolversi
perché tutto si svolge nell’eterno presente della comunicazione di massa, una falsa mitologia senza
memoria votata al nichilismo feticista, una apocalisse psicopatologica e culturale allo stesso tempo.

BENVENUTI NEL MONDO DELL' IRREALTÀ Mario Perniola


STORIA DEL DELITTO PERFETTO
Psycho-killer 6
RELIGIONE E CAPITALISMO

«L’inferno che si apre sulla terra quando l’uomo dimentica Dio e a Lui si sostituisce, usurpandogli il diritto
di decidere che cosa è bene e che cosa è male, di dare la vita e la morte» (Benedetto XVI).

L’uomo è sempre più faber e consumans e sempre meno sapiens, come previsto da Marx e tanti altri, un
uomo chiuso in se stesso, autoreferenziale che, calcando le orme di Narciso, finisce per considerare il
suo io sacro e l’altro un’appendice.

Secondo Max Weber, lo spirito capitalistico, che vede nel conseguimento del profitto la sua principale
ragione d’essere, si è potuto affermare solo grazie alla rivoluzione socio-culturale innescata dalla Riforma
protestante, la quale iniziò per finalità religiose ma che involontariamente favorì il diffondersi della
secolarizzazione. In particolare, il credo calvinista secondo cui il benessere generato dal lavoro è un
segno della grazia divina mentre il povero è colui che è fuori dalla grazia di Dio (un ribaltamento del
cristianesimo cattolico).

Secondo Benjamin, il capitalismo non rappresenta soltanto, come in Weber, una secolarizzazione della
fede protestante, ma è esso stesso essenzialmente un fenomeno religioso, che si sviluppa in modo
parassitario a partire dal Cristianesimo. Come tale, come religione della modernità, esso è definito da tre
caratteri: 1. è una religione cultuale, forse la più estrema e assoluta che sia mai esistita. Tutto in essa ha
significato solo in riferimento al compimento di un culto, non rispetto a un dogma o a un'idea. 2. Questo
culto è permanente è "la celebrazione di un culto sans treve et sans merci". Non è possibile, qui,
distinguere tra giorni di festa e giorni lavorativi, ma vi è un unico, ininterrotto giorno di festa, in cui il lavoro
coincide con la celebrazione del culto. 3. Il culto capitalista non è diretto alla redenzione o all'espiazione
di una colpa, ma alla colpa stessa. «Il capitalismo è forse l'unico caso di un culto non espiante, ma
colpevolizzante... Una mostruosa coscienza colpevole che non conosce redenzione si trasforma in culto,
non per espiare in questo la sua colpa, ma per renderla universale... e per catturare alla fine Dio stesso
nella colpa... Dio non è morto, ma è stato incorporato nel destino dell'uomo» (Benjamin, “Il capitalismo
come religione”).

Proprio perché tende con tutte le sue forze non alla redenzione, ma alla colpa, non alla speranza, ma alla
disperazione, il capitalismo come religione non mira alla trasformazione del mondo, ma alla sua
distruzione. E il suo dominio è nel nostro tempo così totale, che anche i tre grandi profeti della modernità
(Nietzsche, Marx e Freud) cospirano, secondo Benjamin, con esso, sono solidali, in qualche modo, con la
religione della disperazione. «Questo passaggio del pianeta uomo attraverso la casa della disperazione
nell'assoluta solitudine del suo percorso è l'ethos che definisce Nietzsche. Quest'uomo è il Superuomo,
cioè il primo uomo che comincia consapevolmente a realizzare la religione capitalista». Ma anche la
teoria freudiana appartiene al sacerdozio del culto capitalista: «Il rimosso, la rappresentazione
peccaminosa... è il capitale, su cui l'inferno dell'inconscio paga gli interessi». E, in Marx, il capitalismo
«con gli interessi semplici e composti, che sono funzione della colpa... si trasforma immediatamente in
socialismo».
GIORGIO AGAMBEN: BENJAMIN su CAPITALISMO e CRISTIANESIMO

Il capitalismo nasce quando la volontà di incrementare il profitto abbandona il sostegno religioso che ha
contribuito in misura rilevante a farla nascere. E questo è ancora discorso esplicito di Weber. Il
capitalismo ha infatti come scopo l'incremento del profitto, non la salvezza dell'anima. Oggi la Chiesa
cattolica riconosce che la civiltà borghese capitalistica produce ricchezza in quantità incomparabilmente
maggiore dell'economia pianificata del socialismo reale; ma per la Chiesa cattolica, come per le Chiese
protestanti, lo scopo della ricchezza prodotta dall'agire capitalistico è il bene comune, il bene della società
intera; cioè lo scopo non può essere l'incremento del profitto privato. Ma un agire è capitalistico proprio
perché ha come scopo questo incremento. E la volontà di profitto che ha come scopo ultimo la salvezza
dell'anima non è, o solo apparentemente è, la volontà di profitto che ha come scopo l'incremento del
profitto; ossia non è capitalismo - se con questo termine si indica appunto l'agire economico razionale che
ha come scopo tale incremento (una differenza, questa, che è invece assente nel discorso di Weber).

Anche la compatibilità che oggi sembra sussistere tra Chiesa cattolica e capitalismo - e anzi tra
cristianesimo e capitalismo - è dunque soltanto apparente. Nonostante la connessione tra "etica
protestante" e "spirito del capitalismo", la civiltà borghese capitalistica è essenzialmente in contrasto con
la civiltà cristiana. Non è dunque necessario attendere la "globalizzazione" del mercato per sospettare
che la compatibilità tra cristianesimo e logica del mercato possa andare in crisi: è in crisi sin dall'inizio. La
globalizzazione del capitalismo è globalizzazione di ciò che sin dall'inizio è in contrasto col cristianesimo.
Ma la globalizzazione non è semplicemente la dominazione planetaria del capitalismo. Il capitalismo può
dominare il Pianeta perché la tecnica di cui esso si serve sviluppa una potenza mai raggiunta dall'uomo.
Si tratta di comprendere che il capitalismo è destinato a rapportarsi alla tecnica in modo analogo a quello
con cui l’ "etica protestante" si è rapportata alla volontà di profitto (ossia a ciò che Weber chiama "spirito
del capitalismo"). Non solo: proprio per questa analogia - proprio perché si deve pensare "l'etica
capitalistica e lo spirito della tecnica" - si tratta di comprendere che come la volontà di profitto si è liberata
dal sostegno costituito dall'etica protestante, così la tecnica è destinata a liberarsi dal sostegno in cui
consiste il capitalismo stesso.

Alla fine del suo saggio Weber rileva che la volontà di profitto non è rimasta, come pensava il teologo
protestante Richard Baxter, un "sottile mantello che si possa gettar via in ogni momento": il mantello si è
trasformato in una "gabbia d'acciaio" e lo "spirito dell'ascesi" - chissà se per sempre - è fuggito da questa
gabbia. In ogni caso, il capitalismo vittorioso, da quando si fonda su una base meccanica, non ha più
bisogno di questo sostegno, ossia dell'ascesi. Nessuno sa ancora chi in futuro abiterà in quella gabbia.
Weber non scorge cioè, in compagnia di tanti altri, che la gabbia d'acciaio del capitalismo sta diventando
essa stessa - insieme al cristianesimo, alla democrazia e a tutte le grandi forze della tradizione
occidentale - un'abitatrice di quella ben più grande e potente gabbia d'acciaio che è la tecnica del nostro
tempo. La volontà di profitto che ancora si illude di servirsi della tecnica è destinata a diventare un mezzo
al servizio della volontà, in cui l'essenza della tecnica consiste nell'incrementare all'infinito la propria
potenza.

Da sempre in lotta tra di loro, civiltà borghese e civiltà cristiana sono dunque sottoposte al comune
destino di abitare entrambe la gabbia della tecnica, ossia di subordinare i loro scopi allo scopo della
tecnica. Ma questo destino comune può anche stabilire una forma di solidarietà apparente, tra civiltà
borghese e civiltà cristiana, analoga a quella che si era stabilita tra esse, nel secolo Ventesimo, di fronte
al nemico comune costituito dal socialismo reale. Apparente, ma anche tanto più intensa quanto
incomparabilmente maggiore è la potenza della tecnica rispetto a quella del socialismo reale e di ogni
altra forza dell'Occidente. La "gabbia" della tecnica è infatti qualcosa di abissalmente diverso dalla
semplice "base meccanica" di cui parla Weber. Possiede un'ampiezza e un respiro in grado di soddisfare
tutte le esigenze dello "spirito" che essa contiene, sia esso lo spirito religioso, o economico, o filosofico, o
artistico, o politico. Pertanto è "d'acciaio" non perché soffochi lo "spirito", ma perché la sua dominazione è
un destino inevitabile. La globalizzazione, nella sua essenza, è globalizzazione della subordinazione del
capitalismo e di tutte quelle altre forze alla tecnica. In modo ancora più radicale del capitalismo, la tecnica
non ha come scopo la salvezza ultraterrena dell'anima, ma l'aumento indefinito della propria terrena
potenza.
L'anima e il profitto di Emanuele Severino

TECNO-GNOSTICISMO

«Vogliamo trascendere tutti i limiti della condizione umana, vogliamo vivere in eterno, vogliamo lasciarci
alle spalle la biologia e diventare software, vogliamo lasciare la terra, colonizzare lo spazio intergalattico
e diventare il sistema operativo dell’ universo».

1) L’umanità si fonderà con la tecnologia, rapidamente ed in modo sempre più esteso e profondo.
Questa è una nuova fase dell’evoluzione della nostra specie, che sta cominciando ad essere
evidente ai nostri giorni. La divisione fra il naturale e l’artificiale sarà prima sfumata, e poi sparirà.
Alcuni di noi continueranno ad essere umani, ma con un’espansione radicale e crescente delle
opzioni disponibili, ed una diversità e complessità radicalmente aumentate. Altri cresceranno fino
a divenire nuove forme di intelligenza, molto al di là del dominio umano.

2) Svilupperemo tecnologie di intelligenza artificiale cosciente e mind uploading. Il mind uploading


permetterà di estendere indefinitamente la vita di quelli che sceglieranno di lasciarsi la biologia alle spalle
(uploads). Alcuni uploads sceglieranno di fondersi con altri uploads e con intelligenze artificiali. Questo
richiederà un ripensamento e una riformulazione della nozione di identità personale, ma saremo capaci di
farvi fronte.

3) Raggiungeremo le stelle, e ci espanderemo nell’universo. Incontreremo altre specie nel cosmo, e ci


fonderemo con loro. Potremmo anche raggiungere altre dimensioni dell’esistenza, oltre quelle di cui
siamo attualmente consapevoli.

4) Svilupperemo realtà sintetiche interoperabili (mondi virtuali) capaci di contenere esseri coscienti. Alcuni
uploads sceglieranno di vivere in mondi virtuali. La divisione fra realtà fisiche e sintetiche sarà prima
sfumata, e poi sparirà.

5) Svilupperemo tecnologie di ingegneria spazio-temporale ed una “magia futura” basata sulla scienza,
molto al di là delle nostre attuali comprensione ed immaginazione.

6) L’ ingegneria spazio-temporale e la magia futura permetteranno di realizzare, attraverso la scienza,


molte delle promesse delle religioni—e molte cose meravigliose che nessuna religione ha mai sognato.
Un giorno saremo capaci di resuscitare i morti “copiandoli al futuro”.

7) La vita intelligente diverrà il fattore principale nell’evoluzione del cosmo, e guiderà questo nelle
direzioni volute.

8) Radicali progressi tecnologici ridurranno drasticamente la scarsezza delle risorse materiali, in modo da
rendere possibile un’abbondanza di ricchezza, crescita ed esperienza, per tutte le menti che così
desiderano. Nuovi sistemi di auto-regolazione emergeranno per mitigare la possibilità che la mente
esaurisca, oltre ogni controllo, le vaste risorse del cosmo.

9) Nuovi sistemi etici emergeranno, basati su principi che includeranno la diffusione di gioia, crescita e
libertà nell’universo, e anche su nuovi principi che non possiamo ancora immaginare.

10) Questi cambiamenti miglioreranno in modo fondamentale l’esperienza soggettiva e sociale degli
esseri umani, delle nostre creazioni e dei nostri successori, portando a stati di consapevolezza personale
e condivisa le cui meravigliose vastità e profondità andranno molto al di là dell’esperienza dei “vecchi
umani”.

Il Manifesto Cosmista Estropico 20 settembre 2009


Transvision 2010 Intervista a Giulio Prisco

Se siamo consapevoli di certe analogie fra l'immaginario del nostro secolo e i miti gnostici, lo dobbiamo in
primo luogo ad Hans Jonas e a Carl G. Jung. Grazie alle loro ricerche abbiamo cominciato a riconoscere
le affinità fra le inquietudini del soggetto moderno, coinvolto in un processo di "mondializzazione" che
annienta le identità locali e ne ricombina i frammenti generando inedite sintesi culturali, e le visioni
sincretiste suscitate da un processo simile ma ben più lontano nel tempo, che risale cioè a quella tarda
antichità romano alessandrina che mise a contatto i miti della classicità pagana con l'ebraismo, con la
tradizione indoiranica e con l'astro nascente della religione cristiana. Fu appunto l'imprevedibile corto
circuito fra tradizioni tanto diverse da sembrare inconciliabili che, due millenni fa, diede vita all'arcipelago
delle eresie gnostiche. Un insieme di culti estremamente variegato, e tuttavia caratterizzato da due
credenze di fondo comuni. In primo luogo la convinzione che l'universo fosse il regno d'un dio minore e
malvagio, un mondo nato per "errore" dopo la degradazione del Pleroma (lo stato di unità e perfezione in
cui riposava originariamente la "vera" divinità, una Entità trascendente e inconoscibile che, per motivi
imperscrutabili, aveva accettato di "uscire da sé" e si era lasciata imprigionare dalla materia). Ma
soprattutto, la convinzione che l'anima umana rappresentasse un frammento (o scintilla divina) del
Pleroma, che la sua missione consistesse nell'assumere coscienza (gnosi) della propria natura e che,
una volta raggiunta, tale consapevolezza avrebbe consentito di ricostituire l'unità originaria. In altre
parole: l'uomo non deve attendere salvezza da Dio ma donarla a se stesso, e potrà farlo non appena
scoprirà di essere un Dio imprigionato nelle tenebre della materia e inizierà a salire verso la luce dello
spirito.

Hans Jonas ha messo in luce quanto questo annuncio di salvezza somigli alle moderne escatologie
progressiste. In entrambi i casi l'uomo occupa il centro della scena ed assume il ruolo di Salvatore. Ed in
entrambi i casi il mondo e il presente vengono rifiutati come malvagi, in nome di una luce che si
accenderà nel futuro. Come conciliare, tuttavia, il materialismo delle moderne ideologie progressiste con
l'odio gnostico nei confronti del mondo materiale? Qui viene in soccorso l'analisi di Jung sulla grande
trasformazione innescata dall'alchimia e dall'ermetismo rinascimentali, quando l'anima moderna muoveva
i primi passi e, mentre si appropriava delle immagini salvifiche della mitologia gnostica, ne amplificava il
significato cogliendo la costitutiva ambivalenza che si cela dietro la demonizzazione della materia. Il
Faust alchemico scende nelle tenebre della materia perché sa che proprio lì è imprigionata la luce dello
spirito. Il dualismo radicale della gnosi (bene/male, luce/tenebre, spirito/materia) contiene un potenziale di
inversione che l'alchimia ha intuito per prima e che la scienza moderna ha poi dispiegato, trasferendo
sulla materia il valore supremo. Ma la gnosi moderna non si è emancipata dal dualismo. Il rovesciamento
di valore cui abbiamo accennato, infatti, mentre trasferisce sulla materia gli attributi di trascendenza,
perfezione, bontà che l'antica gnosi attribuiva allo spirito, proietta simmetricamente sullo spirito i fantasmi
negativi che l'antica gnosi proiettava sulla materia (vedi la condanna marxista della religione in quanto
"oppio dei popoli", o il fastidio con cui il riduzionismo scientifico reagisce alle chiacchiere sull'anima,
liquidando le manifestazioni dello psichismo umano come epifenomeni). Dell'eredità dualista della gnosi,
insomma, non sembra facile sbarazzarsi, al punto che dietro ogni ideologia "monista" (il fatto che si
invochi l'unità dalla parte dello spirito oppure da quella della materia non cambia le cose) è lecito dubitare
il tentativo di esorcizzare il dilemma, facendone sprofondare nell'ombra uno dei termini.

Una delle vie più importanti di diffusione del neognosticismo è stata l'eredità escatologica delle sette
protestanti, particolarmente attiva nella tradizione anglosassone (vedi l'analisi di Harold Bloom) nella
quale continuano a prosperare versioni secolarizzate di quelle visioni, sia in campo letterario sia in campo
scientifico-filosofico. Dalle grandiose visioni politico religiose di un William Blake, per esempio, è possibile
risalire, attraverso gli incubi metafisici evocati da Edgar Allan Poe e Philip. H. Lovecraft, fino alla gnosi
fantascientifica elaborata dall'ultimo Philip K. Dick. Ma è l'intera narrativa contemporanea di fantascienza
ad essere permeata dall'idea che la salvezza stia nel futuro e che il compito dell'uomo su questo pianeta
consista nel "creare" (cioè nel divenire egli stesso) Dio più che nell'adorarlo, come ha esplicitamente
dichiarato un maestro del genere quale Arthur C. Clarke. Un'idea simile, pur se formulata in modo meno
ingenuo, attraversa l'intera storia dell'evoluzionismo, da Darwin (e da Marx, in quanto filosofo che ha
applicato i principi dell'evoluzionismo in campo sociale) ai giorni nostri. La presenza di una vena gnostica
nell'evoluzionismo è stata considerata come la deviazione di una minoranza di pensatori eretici finché a
rivendicarla sono stati autori mistici e "vitalisti", come Bergson e Teilhard de Chardin. Ma non appena la
"gnosi scientifica" (attraverso le opere di Gregory Bateson, Francisco Varela, Ilya Prigogine e molti altri)
ha invaso territori meno sospetti (teoria dei sistemi, termodinamica, neuroscienze, ecc.) è diventato
impossibile ignorarne l'esistenza. E una sua rimozione appare ancora più problematica da quando esiste
la Rete. Non solo perché la Rete è un mezzo potente di "democratizzazione" del sapere scientifico, nel
senso che offre ai non addetti ai lavori (in misura maggiore dei media tradizionali) la possibilità di
appropriarsi del linguaggio e delle immagini della tecnoscienza, esaltandone il potenziale mitico. Ma
anche perché è l'immagine stessa della Rete (in quanto macchina sincretista che mette a confronto
parole, immagini e tradizioni di ogni tipo; supercervello che trascende le identità dei soggetti che
contribuiscono ad alimentarne l'intelligenza prodigiosa, diffusa e impersonale; modello di un'entità, il
cyberspazio, che sembra in grado di superare le tradizionali opposizioni fra spirito e materia) a suggerire
quale potrebbe essere la forma che assumerà il Dio a venire.

Sarà forse l'Entità onnipotente, onnisciente e onnipresente che, secondo il fisico Frank Tipler, è destinata
a venire alla luce in un remoto futuro per risvegliare tutti noi e farci rivivere in uno spazio paradisiaco
simile da quello promesso dalle antiche religioni? Nei meandri della Rete circolano i germi di una nuova
religione? L'immaginario alimentato dalla tecnoscienza sta generando una tecnoescatologia? Le culture
"cyberdeliche" di fine millennio sono le avanguardie di una tecnognosi? Il critico americano Mark Dery ne
è convinto, e ha cercato di dimostrarlo in una serie di saggi che tracciano la mappa del nuovo arcipelago
gnostico. Le sette gnostiche dei primi secoli dell'era cristiana potrebbero essere classificate in tre grandi
aree: un'area più legata alla tradizione ebraico-cristiana, caratterizzata da una radicale esaltazione della
trascendenza dello spirito e da una altrettanto radicale condanna della materia e del corpo; un'area più
influenzata dalla tradizione pagana, che nel corpo individua piuttosto uno strumento di trasgressione e di
sfida nei confronti dei valori morali e delle regole imposte dalle religioni tradizionali, infine un'area che
subisce soprattutto influssi orientali ed aspira ad una trascendenza che superi la dicotomia mente/corpo.
Fra i tecnognostici di fine millennio è possibile riconoscere modelli simili, anche se, come avveniva per gli
omologhi antichi, le singole correnti presentano spesso un miscuglio di differenti tendenze.

La corrente più semplice da analizzare è forse quella neopagana (che potremmo accostare agli antichi
seguaci di Simon Mago, il meno "raffinato" dei maestri gnostici). I Tecnopagani (o Tecnosciamani, come
a volte preferiscono definirsi) credono che la magia del passato e la tecnologia del futuro siano la stessa
cosa. Preso atto che le tecnologie hanno raggiunto livelli di complessità tali da renderne incomprensibile il
funzionamento, hanno iniziato a concepire un programma di software come l'equivalente di un
incantesimo, il computer diviene così l'altare dove si celebra la magia delle parole, di un linguaggio
capace di produrre effetti nel mondo materiale. Ma il software può fare di più: l'apparizione di "agenti
intelligenti" dimostra che certi programmi possono comportarsi come se fossero "vivi". Il sacro viene
riposizionato nell'universo virtuale che inizia a popolarsi di entità sovrannaturali, di spettri nella macchina,
come le divinità voodoo che abitano il cyberspazio in "Count Zero", un famoso racconto di William
Gibson. L'interfaccia non è più la procedura che consente agli umani di usare i computer come semplici
strumenti, bensì il luogo in cui essi evocano i poteri dei loro "familiari elettronici". Ma Gibson e la narrativa
cyberpunk testimoniano l'esistenza di una componente neopagana politicamente e culturalmente più
radicale, una componente che immagina la relazione corpo macchina in termini più "fisici", vale a dire
come ibridazione diretta dei due termini (il cyborg come versione postmoderna di centauri e chimere).
Analogamente alle sette gnostiche che ricorrevano a pratiche orgiastiche per irridere i valori delle religioni
tradizionali, il neopaganesimo cyberpunk esprime la volontà di resistenza del corpo sia contro lo
spiritualismo, sia nei confronti della propria "colonizzazione" da parte della tecnica. E' il corpo martoriato
dei romanzi di James Ballard e dei film di David Cronenbreg, è l'amore per il junk, la spazzatura
tecnologica, che manifestano i personaggi della narrativa cyberpunk, o di pellicole come "Mad Max" e
"America 1999 fuga da New York". E' la "politica insurrezionale a bassa tecnologia" (come la definisce
Mark Dery) praticata dal gruppo dei Survival Research Laboratories. E tuttavia i "veri" tecnognostici,
autori di sofisticate mitologie in grado di reggere il confronto con quelle elaborate dagli antichi seguaci del
vescovo Valentino, vanno cercati fra le culture cyberdeliche californiane. Nel crogiolo che le ha forgiate
troviamo "L'ecologia della mente" di Gregory Bateson, il "Tao della fisica" di Fritjof Capra e il sincretismo
New Age, fra misticismo orientale ed evoluzionismo alla Teilhard de Chardin. Il grande sogno è quello
della "Teogenesi", del processo di un Dio immanente che coincide con l'universo, di una Mente che
diviene autocosciente attraverso l'evoluzione della specie umana. Era il sogno dei Valentiniani, era il
sogno dei mistici rinascimentali ebraici, come Lurja, era anche il sogno di Alchimisti ed Ermetici. Oggi è il
sogno dei tecnognostici che credono di riconoscere nella Rete la figura del Dio a venire. Come il filosofo
francese Pierre Lévy, che in Internet vede il potenziale di una "intelligenza collettiva" che egli sembra
concepire, al tempo stesso, come una versione postmoderna del "general intellect" di Marx, e come una
sorta di entità trascendente dotata di vita propria (versione cyber di Gaia, il Dio-Pianeta adorato dagli
ecologisti).

Come al solito, dietro a ogni visione monista è tuttavia in agguato il dualismo ricacciato dietro le quinte.
Così la gnosi sistemica e "mentalista" di Bateson non ha allievi solo a sinistra. Dalle interpretazioni
"riduzioniste" che il suo pensiero ha ricevuto da Douglas Hofstadter e da Kevin Kelly, infatti, è nata
un'altra setta tecnognostica, radicalmente dualista e fedele al tradizionale odio gnostico per la "carne".
Una corrente alla quale appartengono gruppi come gli Extropiani e i Transumani di Los Angeles e, più in
generale, tutta l'area che si ispira al concetto di "postumano". L'odio e il distacco nei confronti del corpo,
considerato un hardware biologico (o wetware) ormai inadatto al nuovo ambiente della "infosfera", si
manifesta per esempio nella filosofia dell'artista greco-australiano Stelarc, noto per le sue performance
nel corso delle quali tenta di vincere l'obsolescenza del corpo creandosi, con mezzi dolorosissimi, un
corpo da cyborg. Ancora più radicale la tensione a trascendere i limiti fisici (ma anche quelli imposti da
valori morali e convenzioni politiche) manifestata dagli extropiani. Convinti di non "essere" corpi, bensì
menti che "hanno" un corpo (o meglio, di essere banche dati, memorie, programmi, software in grado di
"girare" indifferentemente su qualsiasi tipo di hardware), gli extropiani perseguono l'ambizioso obiettivo di
divenire immortali. Una mente sana dovrebbe forse rassegnarsi a morire solo perché il suo corpo
invecchia e si ammala? Come superare questo "inconveniente"? Riducendo la coscienza a puro spirito,
dopo averla "copiata" nella memoria di un computer. Delirio? A sostenere la tesi non è un pazzo ma il
noto studioso di robotica Hans Moravec, il quale, rifacendosi alle teorie di Marvin Minsky, ragiona così: se
noi siamo, in ultima analisi, solo una certa forma di organizzazione della materia, perché non ipotizzare
che questa forma possa sopravvivere al cambiamento del proprio supporto materiale? In attesa che il
"download" di personalità umane nei computer si riveli praticabile, gli extropiani ci esortano a prolungare
la vita ricorrendo all'ibernazione, alle manipolazioni genetiche (compresa la clonazione) e alle
nanotecnologie. Com'è facile intuire, i seguaci di questo trascendentalismo informatico si dichiarano
anarco-capitalisti, liberisti e iperindividualisti (alla Negroponte), antiecologisti e seguaci di un ottimismo
scientifico e tecnologico che non ammette eccezioni. E, per fugare ogni dubbio in merito alla natura
religiosa del loro materialismo scientifico, dichiarano che, dopo il declino delle religioni tradizionali, solo la
speranza di un'immortalità cibernetica può sostituire quella di un'immortalità metafisica, assumendo la
funzione di obiettivo e valore supremo per l'emergente civilizzazione globale. Come gli antichi gnostici, gli
extropiani si raccolgono in piccole comunità (nexus) che rifiutano i valori della società tradizionale e ogni
autorità politica (sognano "a world without governments"). E, come gli antichi gnostici, odiano i limiti che il
corpo ("wetware") impone alle loro aspirazioni di immortalità e di trascendenza. Per rendere immortale il
loro spirito si preparano a trasformarlo in software, in modo da poterlo trasferire nei corpi incorruttibili
forgiati della tecnoscienza. In attesa che la carne possa così divenire Verbo, aspirano a prolungare
indefinitamente la loro vita "terrestre" con l’aiuto della scienza. Fieramente avversi al pessimismo
catastrofico degli ecologisti, adorano il progresso tecnologico da cui si aspettano solo cose buone ("we
embrace the future").

Il Dio della Rete di Carlo Formenti

Nell'arcipelago tecnognostico di Carlo Formenti

METAFISICA DELL’INFORMAZIONE

Accanto all’espansione tecnologica dell’era informatica il XX secolo ha visto anche un’espansione per
quanto riguarda la comprensione che abbiamo della natura dell’informazione. Attraverso teorici del calibro
di Claude Shannon, l’umanità ha iniziato a comprendere la relazione fondamentale che sembra esistere
tra linguaggio, informazione, energia ed entropia. Ha iniziato a svilupparsi una fisica dell’informazione che
suggerisce che le relazioni informative sono importanti quanto quelle materiali e quelle causali mediate
nello spazio e nel tempo. Alcuni cosmologi guardano ora al cosmo come ad un sistema di tipi diversi di
processi di informazione, forse anche ad un “infoverso”. Così l’era informatica segna un cambiamento
nella nostra visione del mondo, così come della tecnologia, l’avvento di un nuovo paradigma. I pensatori
che meglio ne hanno esplorato le implicazioni metafisiche non sono né dei mistici né degli scienziati
informatici. Piuttosto sono stati degli scrittori di fantascienza come Thomas Pynchon, Philip K. Dick, Isaac
Asimov e Michael Moorcock. L’essenza di questa visione mistica può essere riassunta come segue:

1. L’universo è un sistema vivente, che si auto evolve e che è multidimensionale. Laddove il flusso
dell’informazione viene ostacolato e ristretto (sistemi chiusi) nascono l’entropia e la
degenerazione;

2. all’interno di sistemi aperti che ricevono trasferimento di energia e di informazione dall’esterno, le


strutture dissipatorie in realtà espellono l’entropia, aumentano l’improbabilità e promuovono la
complessità; l’importanza dell’informazione in definitiva sta nel rendere l’universo auto-cosciente
per poter vincere la propria inevitabile morte entropica del calore.

I tecnognostici guardano all’era informatica come ad un processo chiave in fase di sviluppo; alla bio-
nanotecnologia come alla possibilità che la vita possa iniziare ad avere un controllo maggiore sulla
materia e sul nostro codice genetico; alla neurobiologia come processo di svelamento del codice
cerebrale; a Internet come processo di interconnessione planetaria che servirà a combattere processi
entropici come il surriscaldamento globale e altre forze di disgregazione ecologica. Il tempo di crisi in cui
viviamo è visto dai tecnognostici come preludio all’inizio di una nuova avventura per il genere umanom o
meglio, post-umano: stiamo per ricomporre una Rete universale di intercomunicazione cosmica; siamo
vicini al punto di comprendere il nostro universo come un infoverso in cui la mente è una forza chiave,
piuttosto che un epifenomeno accidentale; la guerra contro l’entropia e la morte, condotta attraverso
l’apertura di porte fino ad ora rimaste sigillate, può essere vinta….

Alcuni fisici come Frank Tipler suggeriscono che tutta la vita cosciente si riunirà in una supermente, il
“Punto Omega”, con cui porre sotto il proprio controllo il cosmo, annullando la fine del calore. Questo
punto di vista è l’inverso del Deismo, postulando in definitiva il Creatore alla fine del tempo piuttosto che
all’inizio. Il concetto di Tipler è che vari processi negentropici stanno attualmente portando l’universo
verso l’improbabilità, in questo caso verso la cosa più improbabile che si possa immaginare, una Mente
Universale. Ma si può adottare una specie di posizione debole nei confronti della teoria tipleriana e
affermare semplicemente che l’universo sta diventando sempre più auto-cosciente (attraverso gli
organismi di senso della vita cosciente) e dunque un sistema sempre più auto-organizzato che riduce la
propria entropia. Secondo questa teoria, l’universo è un sistema chiuso, finito, anche se sterminato. Ma il
nostro è l’unico universo? O non coesiste con altri universi paralleli, interconnessi attraverso i “wormhole”
dello spazio-tempo, nel qual caso è forse un sistema aperto capace di importare negentropia
dall’esterno? Per di più la predizione della fine del calore non tiene conto del caos. Come è stato
suggerito il caos non è la stessa cosa del disordine. Ciò che i fisici chiamano caos (processi iterativi non
lineari) spesso sono di fatto descrizioni di sistemi che obbediscono a termodinamiche di non equilibrio: in
altre parole appaiono essere negentropici ed inoltre, come indicano gli esami dei frattali e degli strani
attrattori, il caos mostra una specie bizzarra di ordine non-ovvio e di livello superiore.

Seguendo Teilhard de Chardin, alcuni “info-mistici” non idealisti suggeriscono che, mentre l’universo è
composto di materia, sta evolvendo verso l’informazione pura o la mente pura. Mentre la materia
nell’universo sta cadendo nell’entropia, all’ultimo vita e coscienza potrebbero riuscire a sfuggire a questo
destino divenendo forme di informazione che sono indipendenti dalla materia, per esempio schemi di
organizzazione, ed entrare nell’iperspazio o in altre dimensioni. Definisco questi mistici come non idealisti
in quanto essi accettano l’emergenza: non vedono la mente come precedente alla materia, ma piuttosto
come qualcosa che è emerso dalla materia e che alla fine riuscirà ad abbandonare il proprio substrato
materiale. Potrebbe essere la via di fuga dall’entropia.

La metafisica ritorna sempre alla questione teleologica, alla ricerca di senso, di scopo, di significato.
L’infomisticismo inizia dalla premessa che sembrano esserci cose significative riguardo all’universo, le
curiose costanti che sono le basi del Principio Cosmologico Antropologico Forte (l’universo sembra
ottimizzato per l’emergenza di osservatori coscienti che, in accordo con un’interpretazione della
meccanica quantistica, occorre che esistano per collassare la funzione d’onda dell’universo). Ma tende
verso il panteismo, in quanto ciò è in definitiva parte del Progetto dell’Universo di salvarsi dall’entropia, un
fatto di necessità e di legge naturale piuttosto che di un’intenzione primaria. L’emergenza di sistemi
riproduttivi (auto-replicanti), riflessivi (auto-organizzanti) e poi riflettivi (auto-coscienti), capaci di
preservare e anche creare ordine, fa parte di questo “piano”.

Philip K. Dick nei suoi romanzi di fantascienza ha suggerito che fino ad un certo
punto la Terra faceva parte di un qualche vasto network informatico pan-
galattico con centro attorno ad Albemuth o Sirio, ma che poi la connessione fu
danneggiata (per ragioni sconosciute, anche se la data che egli da per questo
evento corrisponde alla distruzione del Tempio di Gerusalemme nell'anno 70
dell'era cristiana). Con la conseguenza, secondo Dick, che una Prigione Nera di
Ferro discese attorno alla Terra. Trovando che la Terra era tagliata fuori dal
resto dell’universo, le popolazioni di Sirio inviarono un satellite (VALIS) per
cercare di lacerare il rumore che oscurava il pianeta con l’ “invasione divina” di
un segnale puro, razionale e ristoratore. Dal punto di vista tecnognostico i
sistemi isolati e chiusi devono necessariamente degenerare. L’entropia vi entra
una volta che non possono più scambiare con il resto dell’universo materia,
informazione ed energia. Gli esseri umani lo farebbero molto rapidamente se
non prendessero costantemente nuova materia dall’ambiente; apparentemente
l’uomo rimpiazza ogni molecola delle sostanze nel proprio corpo all’incirca ogni
sette anni. Gli organismi viventi e i sistemi ordinati in definitiva sono dei gorghi o vortici, schemi di
organizzazione che risucchiano continuamente nuova materia e nuova energia. Espellono entropia
nell’ambiente (materia di scarto) ma la riducono in loro stessi (non possono farlo per sempre, alla fine la
vita multicellulare deve soccombere all’entropia sotto forma di morte biologica.) Ma i sistemi chiusi sono
sistemi entropici. I fondamentalismi bloccano nuove idee, le società chiuse bloccano le innovazioni e le
comunità biotiche chiuse bloccano l’introduzione di nuovi flussi genetici. Cadono nell’entropia più
rapidamente dei sistemi aperti. Così il problema della teodicea o dell’esistenza dell’entropia si spiega
come un malfunzionamento nella comunicazione. Lo scopo della Terra non è semplicemente quello di
riunire tutte le menti umane in un pianeta-mente come Gaia, in definitiva la meta è di spezzare la Prigione
Nera di Ferro e riunirsi al network galattico riducendo lo stato entropico entro cui si trova attualmente.
Dick accenna anche che questo potrebbe significare il trionfo sulla morte. Alcuni biologi pensano che gli
organismi acquistino errori genetici attraverso la loro vita (sia attraverso il deterioramento per l’uso o una
qualche preprogrammazione che da entrambe le cose), e che la morte avvenga allorché gli errori
superino talmente tanto il segnale o il codice dell’organismo da non riuscire più a mantenersi in una
omeostasi dinamica. L’incapacità del corpo a funzionare taglia il sangue al cervello e così si estingue il
codice della personalità o identità della persona. La morte è l’estinzione dell’informazione (ma la
riproduzione sessuale e culturale ne preservano un po’, nella forma del gene e del meme).

© 2001 Steve Mizrach, apparso originalmente in tre parti distinte dal titolo originale Tecgnosis,
Infomisticism, and the War Against Entropy – The Metaphysics of Information – The Techgnostic Vision.
Traduzione italiana Danilo Santoni

All’entropia si contrappone l’extropia, ovvero l’uploading della coscienza umana – sinapsi dopo sinapsi –
in un software di emulazione installato su un computer. L’idea è di trasferire tutte le funzioni del cervello
umano all’interno del programma, fino a rendere inutile la struttura fisica, fino allo spegnimento del corpo
con un semplice click di interruttore. Questa cyberutopia, descritta con dovizia di particolari da Hans
Moravec in “Mind Children” (1988), postula l’inessenzialità del corpo all’essere umano. Questo
orientamento – noto come transumanista - è l’estrema evoluzione delle concezioni cibernetiche e tecno-
(otti)mistiche, che restano prigioniere della dualità corpo-mente della tradizione razionalistica occidentale
e la ripropongono anzi come trascendenza tecnologica. A quest’idea che la realtà virtuale significhi la fine
dell’umano e consenta di eludere il problema del corpo, risponde la critica cyber-femminista. Katherine
Hayles, nel suo saggio “How We Became Posthuman” (1999), ci spiega come questa estasi della
smaterializzazione sia una fregola tutta maschile. Allucquère Rosanne Stone scrive: «Gli sviluppatori del
cyberspazio prevedono un momento in cui potranno dimenticarsi del loro corpo. Ma è importante
ricordare che le comunità virtuali sono originate dal corpo fisico e a esso devono ritornare. Nessun corpo
virtuale riconfigurato, per quanto bello sia, ritarderà la morte di un cyberpunk con l’AIDS. Anche all’apice
del soggetto tecnosociale, la vita è vissuta dai corpi». A proposito del corpo reale, in M. Benedikt (a cura
di), “Primi passi nella realtà virtuale”, Genova, Franco Muzzio, 1993.

Ancora più chiaro è Derrick De Kerckhove: «La generazione suggerisce che il corpo è obsoleto e va
interamente sostituito dalle tecnologie. Questo è romanticismo alla rovescia, assai lontano dalla
psicologia che sta alla base di questa incipiente simbiosi tecnologica. La maggior parte delle tecnologie
elettroniche non portano all’abbandono del corpo, ma alla ridefinizione della nostra vita sensoriale per
consentire una combinazione della mente privata e collettiva» (“La pelle della cultura. Un’indagine sulla
nuova realtà elettronica”, Ancora-Milano, Costa & Nolan, 2000).

Tecnognosi, infomisticismo e la guerra contro l’entropia

Paolo Costa, Transumanesimo e trascendenza tecnologica

Nel suo libro - Internet e la Madonna Sul visionarismo religioso in rete, Paolo Apolito -
lei afferma che la tecnologia opera un reincantamento del mondo, ma
contemporaneamente contribuisce allo snaturamento del sacro. Ci può spiegare
meglio qual è il motivo di questo processo? E che tipo di sacro è quello dell'era di
Internet?

Le ragioni dello snaturamento dipendono dal fatto che il sacro tecnologico (nel caso
della mia ricerca il visionarismo tecnologizzato) soltanto nominalmente si riferisce a
qualcosa che sia in qualche modo inattingibile. L'uso degli strumenti tecnologici per
accedere alle figure sacrali, alla dimensione sacrale, non è diverso dall'uso di questi
strumenti per accedere a realtà geograficamente o temporalmente lontane, ma
ricostruibili nella finzione letteraria o artistica: il che significa che questo sacro tecnologico perde la
dimensione della trascendenza. Nella coppia di relazioni d'uso che sono alla base di Internet - il virtuale e
l'attuale - il virtuale è una forma di trascendente di tipo tecnologico ma non religioso in senso classico,
poiché è assolutamente traducibile o accertabile, attraverso lo spostamento dal virtuale (potenzialità della
navigazione) all'attuale (il concreto sito cui si approda). Il passaggio dal virtuale al reale non è come nel
sacro classico il passaggio dal Cielo alla Terra, cioè dalla dimensione trascendente a quella immanente,
ma è un passaggio di codici.

Qual è il ruolo di Internet nel mondo del visionarismo religioso?

Dentro la Rete abbiamo prima di tutto le documentazioni delle visioni fisiche off-line: in tal modo i
navigatori possono accedere a forme di veggenza indiretta e debole. Inoltre, chi ha l'accesso ad Internet
può avere una visione prospettica e globale delle centinaia di siti, e dare una valutazione delle apparizioni
basata sugli incroci che gli consente il mezzo e che lui stesso si costruisce.

Esistono documentazioni di apparizioni avvenute dentro Internet?

La Madonna in realtà non appare dentro la Rete, perché non serve. Una Madonna che appare in Rete
dovrebbe compiere un doppio passaggio: passare dal trascendente del "Cielo" al virtuale e poi dal
virtuale ad Internet. In realtà, dentro la Rete il passaggio dal virtuale (le innumerevoli apparizioni e
annessi documentate in Rete) all'attuale (la concreta esperienza interattiva attuata col computer del
singolo navigatore) consente esattamente l'analogo di ciò che si svolge off-line: cioè il passaggio dal
trascendente al fisico. I segnali di quello che potrebbe succedere, anche se io non credo che ciò avverrà
molto facilmente, già ci sono. In Rete circolano alcuni giochi ironici, che però per alcuni sono ironici, per
altri, invece, non lo sono affatto: per esempio esiste un sito dove Gesù fa l'occhiolino: un sito scherzoso,
ma che molti prendono per vero. Il problema dell'apparizione, anche nella realtà, non è tanto se la
Madonna è vera o falsa, quanto la credibilità dell'evento. Se nella Rete ci sono alcune persone che
quell'occhiolino lo vedono vero, quella è un'apparizione. D'altra parte, il mio compito, come antropologo, è
proprio di decifrare i segnali umani dentro i quali si costruiscono questo tipo di idee e di credenze. Ho
pensato a lungo all'eventualità che la Madonna si manifesti in Rete, ma tendo ad escluderla. Se questo
avvenisse, ci sarebbe ancora un barlume di trascendenza, esisterebbe una decisione extra-tecnologica
che prima o poi utilizza la tecnologia per introdursi. Ma la tecnologia è auto-referente: nel momento in cui
ingabbia dentro di sé il sistema e la cultura dell'apparizione, il passaggio trascendente-immanente diventa
il passaggio virtuale-attuale. Io vedo come conseguenza di questo processo un certo oscuramento del
divino, perché il divino è l'unico virtuale che non potrà mai diventare attuale.

Siamo dunque di fronte a una perdita del sacro?

Piuttosto, a una perdita del divino. Perdiamo il sacro trascendente, ma non il nuovo sacro, che è altro dal
religioso. Alla base del sacro, infatti, c'è la considerazione di alcuni significati intesi da una comunità
come particolarmente forti, pregnanti: il sacro è la separazione e l'enfatizzazione di questi significati. Non
c'è bisogno di Dio perché ci sia il sacro: il sacro si costruisce quando una comunità proietta tutto ciò che
può essere importante intorno ad alcuni oggetti, ad alcune idee. Da questo punto di vista, la tecnologia
sta assumendo in pieno questa nuova forma, con il suo uso enfatizzato e carico di significato.

Ci può fare qualche altro esempio di nuove forme del sacro?

La dimensione del sacro è molto frastagliata. Oggi fare una tipologia del sacro potrebbe farci andare
dall'economia a certe forme di uso della politica. Se si pensa al ruolo delle personalità carismatiche nella
politica contemporanea, si capisce che certi suoi ambiti si possono intendere solo richiamando la
dimensione del sacro.

È possibile dare una definizione di questo sacro contemporaneo, del quale stiamo parlando?

Il sacro attuale è staccato dalla religione: secondo me questa è la mutazione più forte in atto. Oggi esiste
un sacro non religioso, che si apre ad alcune particolari dimensioni della vita contemporanea e non è
concentrato in un unico sistema di attività e di credenze, come la religione, anzi si frammenta, si
trasforma, si rende contingenza di sacralità che esiste in un momento, ma in un altro può scomparire o
riprodursi altrove.

Alla luce di queste considerazioni, esistono ancora delle possibilità di fede nel mondo occidentale?

Da decenni, gli studiosi segnalano una crescente difficoltà della fede ad esistere nel mondo moderno o
addirittura post-moderno. L'antropologia e la sociologia degli anni '60 davano per spacciata la religione
cattolica, che invece ha vissuto momenti forti, anche se sempre in relazione a figure carismatiche, come
ad esempio Wojtila o Padre Pio. La religione come istituzione o come sistema di credenze non ha molta
forza oggi: persino in Italia, il mondo religioso percepisce di essere una componente del Paese, non più il
Paese intero; negli Stati Uniti, la religione ha ancora un peso, ma non come struttura istituzionale,
piuttosto come ideologia. Oggi c'è una grande libertà dell'individuo a costruirsi una propria fede: molte
volte nascono dei movimenti, ma a volte questa libertà individuale si esprime nel convincimento
personale, nella costruzione del senso della fede, nell'individuazione personale di nuove strade. Non
esistono più percorsi unificati, ognuno si sente legittimato a scelte singolari.

Lei traccia un quadro stimolante e complesso delle variazioni sociologiche, antropologiche e psicologiche
introdotte da Internet. In particolare, ho notato anche una certa preoccupazione e una certa criticità
rispetto alle mutazioni che Internet sta causando. Ha un'idea di come si svilupperà tale processo di
trasformazione?

Non faccio delle previsioni definitive, ma secondo i fili che ho isolato, che sono solo alcuni dei tanti
percorsi possibili, mi sembra molto chiaro che andiamo verso la perdita della trascendenza, verso il
trasferimento del sacro dalla religione ad altre dimensioni, verso la centralità dell'individuo, infine verso il
depotenziamento della comunicazione, della religio come legame. Potrei prefigurare un futuro in cui le
religioni e il sacro diventano avventure ed esperienze personali. Al termine di questa analisi, traggo un
sentimento di sospetto: Internet non mi sembra il migliore dei mondi possibili, perché mi pare che abbassi
la qualità di ogni tipo di sentire. Anche il sentire religioso diventa piuttosto un consumo religioso.
Quali sono i vantaggi e i rischi principali per gli individui causati dalla Rete?

Da una parte mi sembra molto interessanti la possibilità di stabilire un gioco diverso con l'identità e di
riaprire i cancelli ingessati delle relazioni umane. Quello che mi piace meno è che questo rimescolare le
carte delle identità, delle relazioni, delle costruzioni di senso può essere interamente ricondotto dentro i
circuiti delle logiche tecnologiche, essere vincolato dal mezzo. Vedo come un rischio l'opinione diffusa
della neutralità del mezzo, perché non esiste: il corpo dell'utente della tecnologia è già dentro la
macchina, o ai confini indistinti con essa, così che risultano già vincolati molti ambiti della creatività. Il
rischio più forte secondo me è la caduta dello spirito critico.

In conclusione, ci può riassumere le tesi centrali del suo libro?

La tesi centrale è che nel post-moderno si dimostra la compatibilità tra ciò che fino a pochi decenni fa
sembrava incompatibile, cioè tra procedure razionali del pensiero e fenomeni arcaici. Per esempio, il
sacro tecnologico è un misto indistricabile di elementi dell'uno e dell'altro e assume caratteri totalmente
nuovi, che sono quelli dell'immanenza radicale e della dipendenza dell'uomo non da un Dio ma da un
mezzo di cui lui stesso è co-protagonista. Ciò significa che la dimensione religiosa diventa dipendente da
quella della tecnologia, che è il terzo contendente emerso nell'atavica contrapposizione tra scienza e
religione. Il tecnologico ormai si appresta a dominare l'universo della religione: il miracolo è creduto vero
quando ce n'è prova certa, scientifica. Intorno a questo tema, il mio percorso etnografico poi ha verificato
la forza della dimensione dell'individuo nel rapporto con il sacro e dall'altra i confini della religione, lo
svaporamento dei confini della religione e delle sue istituzioni, infine la crisi dell' autorità gerarchica.

Nell'era tecnologica, un sacro senza trascendenza Intervista all'antropologo Paolo Apolito

LA FAVOLA POSTMODERNA

Solo un vertiginoso progresso tecnico-scientifico potrà salvare l’umanità. L’esito del progresso è la
trasformazione dell’umanità in postumanità, attraverso l’uso consapevole della cibernetica e
dell’ingegneria genetica, al fine di salvare la vita intelligente dall’estinzione.

Lyotard mette in chiaro che la sua “favola postmoderna”’ va interpretata in termini realistici: si tratta di una
previsione futurologica plausibile, per quanto ipotetica. «La durata della vita di una stella è determinabile
scientificamente. Una stella è una brace nel vuoto che trasforma gli elementi consumandosi. Inoltre è un
laboratorio. La brace finisce con l’estinguersi, il bagliore della brace può essere analizzato e la
composizione può essere definita. Si può prevedere quando si estinguerà la brace. Lo stesso succede
con la stella chiamata Sole. Il racconto della fine della Terra non è fittizio, ma molto realistico». Il divenire
postumano è frutto di un’applicazione tecnica e dunque la sua valutazione rientra nel campo della “tecno
etica”. Ma se il mutare forma è l’unica strada percorribile per salvare l’intelligenza, la cognizione, la
conoscenza, allora esso può e deve essere valutato anche nella prospettiva dell’etica della scienza pura.
Se il fine dello scienziato è la scoperta della verità sul mondo e la vita intelligente è lo strumento per
conseguire tale verità, egli non ha solo il dovere di rispettare le norme deontologiche che la comunità
scientifica si è data (per esempio, non anteporre alcun interesse alla ricerca della verità), ma ha anche il
dovere di difendere e promuovere l’esistenza della vita intelligente. Anzi, ha il dovere di potenziare per
quanto possibile l’intelligenza, in termini qualitativi e quantitativi, al fine di raggiungere lo scopo del
disvelamento dei segreti dell’esistenza. Potenziamento che può avvenire tramite l’ingegneria genetica, la
costruzione di sempre più sofisticate macchine pensanti o, in prospettiva ultima, la fusione
dell’intelligenza biologica ed elettronica e dei relativi supporti. In questo senso precipuamente etico, il
divenire postumano è – per usare i termini di Lyotard – eventualità, necessità, obbligazione. Il piano neo-
gnostico, o tecno-gnostico, è sostituire la carne con nuova carne sintetica, in maniera tale da rendere il
cervello capace di funzionare con l’aiuto delle sole energie disponibili nel cosmo. Lyotard insiste sul fatto
che la sua storia è realistica perché il realismo è l’arte di costruire la realtà, di conoscere la realtà e di
saper costruire la realtà. Dopo tutto, il miglior modo per prevedere il futuro è costruirlo. Inoltre, le capacità
di costruire la realtà aumentano nel tempo, proprio grazie al progresso tecnico-scientifico.
Il transumanesimo, la classe delle filosofie centrate sull’idea dell’orizzonte postumano, è un movimento
“post-postmoderno”. Ha infatti le radici ben piantate nel solco della tradizione umanista moderna, in
particolare nell’illuminismo. Si nota in esso un recupero decisivo della fiducia nel progresso tecnico-
scientifico, come unica fonte di salvezza. Rispetto alle filosofie moderne, però, si contraddistingue per la
sua gioiosa accettazione dell’eventualità che il soggetto della storia cosmica non sia l’uomo, ma la vita
cosciente e intelligente. Il mutamento di prospettiva è essenziale e tale mutamento spiega anche la
differenza fondamentale nei confronti della classe di filosofie catalogabili sotto l’etichetta
postmodernismo. Che ci sia un ponte che porta dal postmoderno al postumano è stato notato da altri
osservatori. Scrive Fornari (2005) su “Avvenire”: «Il post-umano è stato preparato dai filosofi della
decostruzione come Jacques Derrida, Gilles Deleuze,Félix Guattari, Michel Foucault. È sostenuto dalle
femministe radicali del tipo di Donna Haraway e Rosi Braidotti. Alimenta il movimento cyborg, che
teorizza organismi in parte biologici (ottenuti anche con ibridazione) e in parte meccanici ed elettronici. Il
trans-umanismo, che tra i propri seguaci raccoglie anche studiosi italiani, è considerato la terra promessa
dai californiani dell’Extropy Institute (Max More, Ray Kurzwell e Marvin Minsky), nella quale secondo
Jongen “si articola – come sempre in maniera provvisoria e ingenua – l’avanguardia di un’umanità
impegnata a ergersi da soggetto a progetto”».

Dalla prospettiva post-postmoderna, appare chiaro che, finché ci sarà intelligenza nell’universo, l’universo
avrà senso. E avrà senso anche se l’intelligenza sarà artificiale o non biologica. Ciò che si emancipa
progressivamente è l’intelligenza. Non deve inoltre sfuggire il fatto che l’intelligenza prende anche la
forma di conoscenza dell’essere, ossia di scienza pura. Vista indipendentemente dal suo attuale supporto
umano, la scienza pura non è altro che l’autocoscienza dell’universo. Quindi, a ben vedere, è la scienza
pura la vera protagonista della storia. È vero: noi umani non siamo il fine dell’evoluzione cosmica, ma
nella misura in cui riusciamo a concepire scienza pura, ad essere scienza pura, siamo comunque
protagonisti decisivi di questa favola. Ponendoci in questa prospettiva esistenziale, siamo però già andati
oltre il postmoderno, verso nuovi orizzonti etici.

Tratto da “Etica della scienza pura. Un percorso storico e critico” (Sestante Edizioni, Bergamo 2007).

Dal postmoderno al postumano: il caso Lyotard di Riccardo Campa

Postumani si diventa per l’esaltazione della tecnologia insita nell’organismo o


per affinamento, per la crescita (ottenuta sempre tramite la tecnologia) delle
nostre energie psichiche e della cultura derivante dall’essere postumano? In
uno scenario in cui la tecnica gioca un ruolo sempre più determinante e
addirittura potrà forse assurgere presto a ranghi quasi senzienti (la Singolarità
Tecnologica) è normale pensare a una sofisticazione della specie umana
sempre maggiore, data dalla presenza di innesti bio e nanotecnologici
all’interno dell’organismo umano (in quello che già oggi è diventato il corpo
transumano) che potranno portere a un mutamento sostanziale delle abitudini e
della vita dell’individuo ex umano.

Nel film cyberpunk “Hardware”, un nomade in odor di occulto portava la


distruzione all’interno di una comunità semplicemente lasciando diffondere
tecnologia malevola in forma di robot militare; quel nomade nel film è dotato di
un’indole sovrumana, o meglio, inumana; indossa la tecnologia, la usa, ma essa è solo un mezzo e non
l’obiettivo finale. Lui scruta il cielo e ne ottiene informazioni non visibili ai normali umani e il malevolo che
è insito nelle cose risponde subito, usando anch’egli la tecnologia: infatti, il robot-golem si risveglia dalle
sabbie del deserto dove affonda smembrato e prende di nuovo vita; viene quindi portato dal nomade tra i
civili ed è così pronto a diffondersi e a distruggere gli umani.

Sfuggendo al controllo, l’evolversi tecnologico potremmo quindi essere in balia di eventi superiori
annegati nell’evolversi tecnologico, che ci potrebbero portare a ragionare in termini esulanti dalla biologia
e alla comprensione istintiva degli incommensurabili incastri dimensionali, architettonici e matematici che
costituiscono le grandezze fisiche intorno a noi e che ora non riusciamo a intendere profondamente; noi
umani siamo già in crisi con la quarta dimensione e chissà quante altre ne esistono. Viene spontaneo
chiedersi come potremo mai gestire l’incommensurabile immaginandoci soltanto degli umani
tecnologicamente potenziati.

Ed ecco delinearsi, quindi, la necessità e la bellezza di essere su un piano superiore di consapevolezza


(tramite la tecnica) su cui sviluppare coscienza e intelletto, il proprio esistere intimo, il comprendere la
matematica e le dimensioni al pari di un mago del passato, di un maestro mistico che interpreta le regole
aliene della fisica a lui sconosciute con l’intuito sovrannaturale del sonnambulo. Saremo, in quell’ipotesi,
dei postumani che useranno la tecnologia scientemente, che si muoveranno oltre la tecnologia stessa
consapevoli del cosmo che ci circonda e che (magari non tutti, ma quelli che contano sì) si sentiranno
superiori a ciò che l’umanità era prima, che fremeranno per raggiungere le vette di cognizione permesse
dall’accrescimento strutturale tecnologico? La mia personalissima visione delle cose future è questa:
saremo postumani immersi in uno stadio più alto di esistenza, in corsa verso la suprema forma di vita a
noi ancora sconosciuta, incorporea, in cui le follie biologiche saranno abbandonate così da abbracciare la
pura energia, così da guardare quasi con commiserazione alle attuali ristrettezze carnali e tecnologiche
— necessarie, tuttavia al raggiungimento dei futuri traguardi eterei.

Ho parlato di un diverso modo di essere postumano, frutto di una mia visione della realtà nata da
suggestioni e percezioni totalmente mie, forse non così frequenti nel pensiero attuale. Ho tratteggiato
vagamente di un insolito modo di interpretare la crescita: potranno mai raggiungerla tutti gli umani
dimenticando il senso di dominazione, di sopraffazione e violenza che alberga nel nostro animo (presente
fin nei giochi sessuali estremi)? Potremo mai comprendere e ambire ai traguardi di una civiltà superiore
senza cadere nelle spire dell’elitarismo, senza considerare appartenente a una razza inferiore chi non
sarà alla nostra altezza? O sarà soltanto un eternarsi della lotta biologica tra specie di animali dissimili,
ognuna supportata da un innato senso di superiorità? Se quest’ultima ipotesi si avvererà, il concetto di
branco (non di società) prenderà ancora animalescamente il sopravvento: quale delle due mandrie
vincerà, il postumano o l’umano?

Il postumano, probabilmente, non potrà essere migliore dell’umano: ne raccoglie la sua eredità, così
come (se Sitchin dovesse davvero aver ragione) gli umani raccolsero l'eredità dei nephilim — esseri
spregevoli dal punto di vista umano, esseri che però insegnarono loro le devianze più abiette…

Le porte della memoria silenziosa si aprono a me e illustrano il vocio assordante di quello che ho intorno,
che ho sempre avuto intorno ma che non ho mai udito. Con te le orde dell'occulto si aprono e mi
trascinano nell'etereo, laddove non sono più umano e nemmeno postumano - solo inumano. Lo capisco
ora, ora che sono accresciuto dalla sapienza e dalla tecnologia.

Su cosa può significare essere postumani (ex umani) per trascendenza


tecnologica

OUT OF CONTROL

«conoscenza storica delle religioni significa risolvere senza residuo in ragioni umane ciò che
nell’esperienza religiosa in atto apparvero ragioni numinose» (De Martino, 1957: 76).

Se valutare il "sacro" come prodotto storico e quindi operabile e sottoposto a processi di decisione umana
poteva parere negli anni in cui de Martino avanzava la propria proposta un esercizio esotico per pochi, la
necessità di indagare la “ierogenesi,” piuttosto che di assistere alla ierofania, appare oggi in tutta la sua
urgenza, di fronte, peraltro, a strategie retoriche che, anche dove non vanno esplicitamente ad affermare
lo scontro di civiltà, strutturano le "mappe" delle "religioni in guerra". Esse trovano sponda in prospettive
epistemologiche che sottraggono artatamente alla storia le "religioni" per poi dibattere se esse, in quanto
fenomeno antropologico, siano o meno legate alla violenza, arrivando talvolta a postulare un legame tra
"violenza" e "sacro" come se entrambi i termini si dessero e non si producessero. Ed ecco che le "religioni
in guerra" o "le guerre di religione", o ancora i "fanatismi religiosi", si vengono naturalmente a
contrapporre alla razionalità implicita nelle guerre condotte da eserciti professionisti, variamente intese
come "operazioni chirurgiche" o "missioni di pace", in cui razionale è anche la previsione del danno
collaterale, salvo poi stupirsi di fronte alle matematiche combinazioni degli attacchi terroristici dell’11
settembre.

Solo tre mesi fa il direttore di “The Economist” John Micklethwait denunciava il ritardo della Realpolitik
nell’elaborazione di un know-how per trattare con l’ "irrazionale", davanti alle "linee del fronte" che
attraversano il pianeta (Micklethwait, 2007: 32-33). La parola "religione" non comparirebbe infatti
nell’indice tematico di Diplomazia di Henry Kissinger, che comunque – avverte Micklethwait – rispetto a
questa manchevolezza, avrebbe già recitato il mea culpa. Per fortuna il ritardo si sta, però, colmando: il
direttore dell’ “Economist” si rifà allora a Madeleine Albright e alla sua rievocazione di una riunione del
Dipartimento di Stato sull’Irlanda del Nord, avvenuta alla fine degli anni Novanta, in cui un diplomatico
avrebbe detto scoraggiato: «Chi avrebbe mai pensato che ci saremmo trovati a parlare di un conflitto
religioso alla fine del Ventesimo secolo?». Ed ecco spudoratamente risolta la questione irlandese in un
"conflitto religioso", strumento utilissimo anche per interpretare l’ "Iraq Fiasco": «L’11 settembre –
Micklethwait chiosa – ha cambiato tutto. Dieci anni fa una proposta della Cia di studiare il fenomeno
religioso era stata respinta perché considerata "pura sociologia". Oggi non succederebbe più. Ma di errori
se ne commettono ancora. Quando l’America è intervenuta in Iraq, molti si preoccupavano che la politica
estera di George W. Bush fosse diretta da Dio: in realtà sarebbe stato utile che Donald Rumsfeld e
compagni avessero capito qualcosa di più sulla religione – soprattutto sulla differenza tra sciiti e sunniti»
(Micklethwait, 2007: 32).

Interrogarsi sui modi e sulle ragioni per cui le situazioni belliche possano essere appiattite sulle religioni,
quasi a presentare queste ultime quali motori immobili di una storia che da esse procede, non significa
non fare i conti con quei processi in cui ciò che ci appare sub specie religionis finisce per diventare un
"dispositivo simbolico importante nelle politiche d’identità" (Pace, 2004:X): comporta piuttosto il ribadire la
necessità di individuare tali situazioni come processi, che una comparazione non omologante ma
contrastiva e differenziante può cogliere nella loro irriducibile peculiarità, arrivando, se occorre, a mettere
in discussione l’utilità stessa della categoria del "religioso" nell’interpretarli..

D’altro canto proprio la prospettiva demartiniana, che rifiutava la riduzione dei dispositivi magico-religiosi
a maschera o sovrastruttura d’altro – o ancora a mero instrumentum regni – e riconosceva ad essi una
dimensione peculiare nel garantire l’esserci nel mondo nei momenti critici del divenire, contiene, credo,
suggestioni ancora vive ad interrogare il nostro presente. Le sintassi, i lessici e le ortoprassi, che siamo
abituati a pensare "religiosi", in virtù del loro stesso affondare radici in una storia plurisecolare in cui non
s’era ancora elaborata l’ideologia e la prassi della "tolleranza di tutti contro tutti", sembrano sottrarre alla
latenza quelle tensioni non riconosciute dall’esorcismo post-moderno della politica come conflitto. Essi
arrivano talvolta a proporre – la cronaca italiana di questi ultimi giorni lo evidenzia con forza, mostrandoci
l’usura del nesso sintagmatico "Stato-Chiesa" nell’interpretarla – proprio quella "universalizzazione
metaforica di istanze particolari" (Žižek, 2003:44), che la politica post-moderna, come tecnica gestionale,
non è in grado o non vuole attivare, riuscendo soltanto a rimettere in scena il mito dell’economia
spoliticizzata, nella "generale accettazione del capitale e dei meccanismi di mercato quali
strumenti/processi neutri e utilizzabili così come sono" (Žižek, 2003:86). Basti soltanto pensare al
quotidiano rituale – più o meno laico – dei telegiornali della sera che trasfigura nel ruolo prototipico della
"vittima" tutto ciò che resiste nella sua drammatica evidenza ad una rappresentazione che si nutre della
melassa di "sinergie" e "obiettivi comuni", i corpi bruciati di Torino, come quelli asfissiati di Marghera,
"morti bianchi" assimilati a quelli della cronaca nera, in virtù della messa in scena delle lacrime e dei
silenzi di sopravvissuti oscenamente esposti agli occhi di uno spettatore, in attesa di conoscere se vi sarà
o meno il perdono.

De Martino affermava nell’opera postuma “La fine del mondo” che una cultura è tale solo se è
espressione di un sapere intersoggettivo che si contrappone a una "minaccia" che isola e separa: «Ciò
che importa è l’intersoggettività dei valori, il mantenere l’apertura a questa intersoggettività, la volontà
sempre rinnovantesi di comunicare agli altri il nostro mondo privato e di accogliere sempre di nuovo nel
nostro intimo le voci comunicanti degli altri uomini, i messaggi che essi ci inviano» (De Martino,
1977:210), qualcosa in fondo di paragonabile a quel "senso-del-mondo" individuato da Hannah Arendt,
quel "sesto senso che si identifica con la capacità da parte degli esseri umani di orientarsi nel mondo e di
porsi in comunicazione reciproca" (Fistetti, 2007:59).

"Intersoggettività dei valori", così come "sesto senso", non possono che interrogarci su quale sia il "noi" in
cui decidiamo e scegliamo di stare, se il "noi" oggetto prodotto da scansioni orizzontali tra "culture",
"sistemi simbolici" e "religioni" o sul "noi" soggetto, che attraversa tali scansioni e ritrova evidenti
prossimità su un piano verticale costituito dai poli, rimossi ed attualissimi, dell’egemonia e della
subalternità: è in fondo la stessa esposizione ad una precarietà strutturale ad unire – seppur in termini
profondamente diversi in rapporto all’esposizione al rischio – ciò che al tempo di de Martino era separato.
Ricordando il proprio incontro con i subalterni del Sud, l’autore di “Furore simbolo valore”, aveva infatti
affermato: «Il sentimento che realmente provo è anzitutto un angoscioso senso di colpa. Dinanzi a questi
esseri mantenuti al livello delle bestie malgrado la loro aspirazione a diventare uomini, io –
personalmente io intellettuale piccolo-borghese del Mezzogiorno – mi sento in colpa. Altri, forse,
ravviserà nel fondo di questa situazione una testimonianza del peccato originale: si libererà così del peso
di un’analisi incomoda, trasfigurando in cielo la responsabilità interamente umana di questa condizione
umana. Ma io trovo qui solo la testimonianza della mia colpa, non della colpa. Io non sono libero perché
costoro non sono liberi, io non sono emancipato perché costoro sono in catene». (De Martino, 1962:132)

Alla sensibilità contemporanea questi toni possono apparire populistici; certo è il nostro presente a privare
di tali afflati la riflessione di de Martino sull’ "io" che «insieme a tutti nella storia sta e insieme a tutti nella
storia cade» ( De Martino, 1962:133), là dove non c’è nessuno che possa permettersi oggi di coltivare
quei sensi di colpa "intellettuali" e "piccolo-borghesi" garantiti dall’illusione di poter contemplare, magari in
collera, dalle cime di un’akropolis definitivamente conquistata, l’affannarsi di chi ne è escluso.

L’umanesimo contemporaneo di Ernesto de Martino Chiara Cremonesi

«Dall'esserci comunitariamente condizionato e comunitariamente aperto della decisione attuale nasce il


mondo».

L'ethos non si esaurisce mai in una singola realizzazione: è l'umanità, molteplicità di singoli che si
cercano (polarità uomo-donna, maschle-femminile, yin-yang) e si generano nel tempo; è limite esteriore e
materiale, resistenza e stimolo alla inesauribilità del trascendere; è progetto comunitario dell'utilizzabile
(corpi, oggetti ...); è comunicazione dei bisogni e dei valori (linguaggio) ma anche trascendimento di
questo progetto verso altre forme (poesia, scienza, morale). I simboli, religiosi e civili, sono strumenti per
controllare la crisi.

«In questa prospettiva il principio non è né 'la materia' né lo 'spirito', poiché‚ l'uno e l'altro si costituiscono
dentro la tensione del trascendimento; non è l'intersoggettivo né il singolo, perché il trascendimento
comporta sia l'intersoggettività che opera con tutto il peso condizionante di una tradizione sociale, sia il
singolo che liberamente si apre all'intersoggettivo rinnovando la tradizione; e soprattutto non è il privilegio
indebito e la feticistica assolutizzazione di una particolare valorizzazione categoriale (per esempio il
naturalismo scientifico, il tecnicismo, l'estetismo, il legalismo, il moralismo, l'economicismo, il
mitologismo, il ritualismo)».

L'etos del trascendimento è segno di apertura al futuro e perciò è caratterizzato dalla temporalità.

Eppure, se un giorno, per una catastrofe cosmica, nessun uomo potrà più cominciare perché il mondo è
finito? Ebbene, che l'ultimo gesto dell'uomo nella fine del mondo sia un tentativo di ricominciare da capo:
questa morte è ben degna di lui, e vale la vita e le opere delle innumerevoli generazioni umane che si
sono avvicendate sul nostro pianeta.

La fine di 'un' mondo è una condizione normale nella storia culturale umana. Continuamente tutte le
situazioni finiscono. Ogni crisi, però, per quanto intollerabile consente sia pur piccoli margini di ripresa.
«E' la fine del mondo, in quanto esperienza attuale del finire di qualsiasi modo possibile, che costituisce il
rischio radicale». Sembrerebbe avvalorarsi la tesi per la quale ogni attimo è un finire. (631:) Per gli
animali non c'è fine: la fine è la fine della specie. L'uomo passa da un mondo all'altro grazie all'energia
morale che sopravvive alla catastrofe dei mondi per generarne altri. Il rischio della caduta di energia è
immanente: la fine 'del' mondo, non di 'un' mondo: è la fine dell'esserci, della presentificazione. Questo
rischio è normalmente coperto e tale copertura è la cultura. Nella riflessione scopriamo la necessità di
tale momento negativo, che da rilievo allo sforzo morale e che è messo a nudo dalla follia.

http://alamein.tripod.com/dmart77b.htm

Il fondamento dell'esistenza non è l'essere ma il dover essere. Lo slancio valorizzatore intersoggettivo


della vita, la rinnovantesi progettazione comunitaria dell'operabile, l'emergere da situazioni mediante
l'impegno di deciderle: questo fonda la finitezza del singolo e l'inesauribilità del suo compito operativo e,
insieme, garantisce l'apertura del singolo all'essere, la sua possibilità di assicurarsi mediante
l'intersoggettività dell'opera secondo valore, il riscatto dal puro "stare".

Il doverci essere nel mondo come principio fondamentale comporta il rischio di non esserci in nessun
mondo possibile. La cultura è la lotta contro questo rischio per mantenere aperta la possibilità di un
mondo "umano". «La 'fine del mondo' è una possibilità antropologica permanente».

[...] mano a mano che la percezione dell’economia della salvezza nel tempo storico si appanna nella
Chiesa, si vede l’economia stendere il proprio dominio cieco e derisorio su tutti gli aspetti della vita
sociale. Allo stesso tempo, l’esigenza escatologica che la Chiesa ha trascurato ritorna sotto una forma
secolarizzata e parodistica nei saperi profani, che sembrano fare a gara per profetizzare in tutti i campi
delle catastrofi irreversibili. Lo stato di crisi e d’emergenza permanente che i governi del mondo
proclamano oggi è proprio la parodia secolarizzata del perpetuo aggiornamento del giudizio ultimo nella
storia della Chiesa.

All’eclissi dell’esperienza messianica del compimento della legge e del tempo corrisponde un’ipertrofia
inaudita del diritto, che pretende di legiferare su tutto, ma che tradisce con un eccesso di legalità la
perdita di ogni vera legittimità. Qui e ora affermo, misurando le parole: oggi sulla terra non vi è più alcun
potere legittimo, e i potenti del mondo stessi sono tutti rei di illegittimità [...]

«si attendeva il Regno ed è arrivata la Chiesa»

«Venire (erchetai)» è al presente, proprio come il Messia è chiamato nei Vangeli ho erchomenos, colui
che viene, che non cessa di venire. Un filosofo del XX secolo, che aveva ascoltato la lezione di Paolo, lo
ripete a suo modo: «Ogni istante è la porta stretta attraverso la quale può passare il Messia» (W.
Benjamin).

confondere il tempo e il messaggio messianici con il tempo e il messaggio apocalittici.

L’apocalittica si situa nell’ultimo giorno, il giorno della collera: vede la fine dei tempi e descrive ciò che
vede. Il tempo che vide l’Apostolo, al contrario, non è la fine dei tempi. Se si volesse esprimere con una
formula la differenza fra il messianico e l’apocalittico, si dovrebbe dire che il messianico non è la fine dei
tempi, ma il tempo della fine.

Messianico non è la fine dei tempi, ma la relazione di ogni istante, di ogni “kairos”, con la fine dei tempi e
con l’eternità. Così ciò che interessa Paolo non è l’ultimo giorno, l’istante nel quale il tempo finisce, ma il
tempo che si contrae e che comincia a finire. O, se si preferisce, il tempo che resta fra il tempo e la sua
fine.

La Tradizione giudaica conosceva la distinzione tra due tempi o due mondi: l’ “olam hazzeh”, ossia il
tempo che va dalla creazione del mondo sino alla sua fine, e l’ “olam habba”, il tempo che viene dopo la
fine del mondo. Questi due termini, nella loro traduzione greca, sono presenti nel testo delle epistole: ma
il tempo messianico, il tempo che l’Apostolo visse e il solo che gli interessa, non è né l’olam hazzeh né
l’olam habba: è il tempo che resta fra questi due tempi, quando si verifica nel tempo la cesura
dell’avvenimento messianico (il quale, per Paolo, è la resurrezione).
Come possiamo rappresentarci questo tempo? In apparenza, se lo si trasferisce come si fa in geometria
con un segmento su una linea, la definizione che ho dato ora - il tempo che resta fra la risurrezione e la
fine del tempo - non pone difficoltà. Ma è tutt’altra cosa se lo si cerca di pensare sul piano dell’esperienza
del tempo che questo implica. Va da sé infatti che vivere nel “tempo che resta” o vivere il “tempo della
fine” non possono che significare una trasformazione radicale dell’esperienza e anche della
rappresentazione abituali del tempo.

Non è più la linea omogenea e infinita del tempo cronologico profano (rappresentabile ma vuoto di
qualunque esperienza), né l’istante puntuale e altrettanto impensabile della sua fine. Ma non è nemmeno
un semplice segmento prelevato sul tempo cronologico e che andrebbe dalla risurrezione alla fine del
tempo.

È un tempo che pulsa all’interno del tempo cronologico, che lo lavora e lo trasforma dall’interno. È, da
una parte, il tempo che il tempo impiega per finire, dall’altra il tempo che ci resta, il tempo di cui abbiamo
bisogno per fare finire il tempo, per giungere alla meta, per liberarci della nostra rappresentazione
ordinaria del tempo.

Mentre quest’ultima, in quanto tempo entro il quale crediamo di essere, ci separa da ciò che siamo e ci
trasforma in spettatori impotenti di noi stessi, al contrario il tempo del Messia, in quanto tempo operativo
(kairos) nel quale cogliamo per la prima volta il tempo (il chronos), è il tempo che noi stessi siamo. È
chiaro che questo tempo non è un altro tempo, che avrebbe il suo luogo in un altrove improbabile e
venturo. È, al contrario, il solo tempo reale, il solo tempo che abbiamo, e fare esperienza di questo tempo
implica una trasformazione integrale di noi stessi e del nostro modo di vivere.

È ciò che Paolo dice in un passaggio straordinario, che è forse la più bella definizione che egli abbia dato
della vita messianica: «Vi dico, fratelli: il tempo si è fatto breve (ho kairos synestalmenos esti: il verbo
systello indica sia il fatto di calare le vele sia il modo in cui un animale si abbassa caricandosi per
spiccare un salto); d’ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero; quelli che
piangono, come se non piangessero; quelli che gioiscono, come se non gioissero; quelli che comprano,
come se non possedessero; quelli che usano i beni del mondo, come se non li usassero pienamente» (1
Cor 7,29-31).

Qualche riga prima, Paolo aveva detto, a proposito della vocazione messianica: «Ciascuno rimanga nella
condizione in cui era quando fu chiamato. Sei stato chiamato da schiavo? Non ti preoccupare; anche se
puoi diventare libero, approfitta piuttosto della tua condizione!» (1 Cor 7,20-21). Hos me, “come se non” ci
dice ora che il senso ultimo della vocazione messianica è di essere la revoca di ogni vocazione. Proprio
come il tempo messianico trasforma dall’interno il tempo cronologico, così la vocazione messianica,
grazie a l’hos me, al “come se non”, è la revoca di ogni vocazione, che cambia e vuota dall’interno ogni
esperienza e ogni condizione fattuale per aprirle a un nuovo uso.

È un punto importante, poiché ci permette di pensare correttamente questa relazione fra le cose ultime e
le cose penultime che definisce la condizione messianica.

Può un cristiano vivere soltanto di cose ultime? Un grande teologo protestante, Dietrich Bonhoeffer, ha
denunciato la falsa alternativa fra radicalismo e compromesso, che parte per entrambi i casi dal separare
nettamente le realtà ultime e le realtà penultime, quelle cioè che definiscono la nostra condizione sociale
e umana di tutti i giorni. Ora, come il tempo messianico non è un altro tempo, ma una trasformazione del
tempo cronologico, così vivere le cose ultime è prima di tutto vivere in modo altro le cose penultime.

La vera escatologia forse non è altro che la trasformazione dell’esperienza delle cose penultime. Poiché
le realtà ultime hanno prima luogo dentro le penultime, queste - contro ogni radicalismo - non si possono
semplicemente rifiutare; ma - per la stessa ragione, e contro ogni possibilità di compromesso - le cose
penultime non si possono considerare come ultime. È con il verbo katargein che non vuol dire
“distruggere”, ma rendere inoperante, letteralmente “dis-operare” - che Paolo esprime la relazione fra ciò
che è ultimo e ciò che non lo è. La realtà ultima disattiva, sospende e trasforma la realtà penultima, ma è
tuttavia al suo interno che essa entra in gioco interamente.

Ciò permette di comprendere la situazione propria del Regno in Paolo. Al contrario della corrente
rappresentazione escatologica, va ricordato che per lui il tempo del Messia non può essere un tempo
futuro. L’espressione con la quale indica questo tempo è sempre “ho nyn kairos”, il tempo dell’adesso.
Come scrive in 2 Cor 6,2: «[Idou nyn] Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!».

“Paroikia” e “parousia”, soggiorno da straniero e presenza del Messia, hanno la stessa struttura che è
espressa in greco con la preposizione para: quella di una presenza che distende il tempo, di un già che è
anche un non ancora, di un ritardo che non è un rimando a più tardi, ma uno scarto e una disgiunzione
all’interno del presente, che ci permette di cogliere il tempo.

Si vede bene dunque che l’esperienza di questo tempo non è qualcosa che la Chiesa possa scegliere di
fare o di non fare. Non vi è Chiesa, se non in questo tempo e per mezzo di questo tempo.

Che ne è di questa esperienza del tempo del Messia, nella Chiesa di oggi? Il riferimento alle cose ultime
sembra a tal punto sparito dal discorso della Chiesa, che si è potuto dire non senza ironia che la Chiesa
di Roma ha chiuso l’Ufficio escatologico. Ed è con un’ironia senza dubbio ancora più amara che un
teologo francese ha potuto scrivere «si attendeva il Regno ed è arrivata la Chiesa». È un’immagine
potente, sulla quale dovremmo riflettere.

Considerando quanto detto sopra sulla struttura del tempo messianico, è chiaro che non si tratta di
rimproverare alla Chiesa il compromesso in nome del radicalismo. Non si tratta nemmeno, come ha fatto
il più grande teologo ortodosso del XIX secolo, Fëdor Dostoevskyi, di presentare la Chiesa di Roma sotto
la figura del Grande inquisitore. Si tratta di un’altra cosa, ossia della capacità della Chiesa di cogliere ciò
che Matteo 16,3 chiama i segni dei tempi, ta semeia ton kairon.

Quali sono questi segni, che il Vangelo oppone al vano desiderio di interpretare l’aspetto del cielo? Se la
storia è penultima in riferimento al Regno, questo - si è visto ha il suo luogo prima di tutto e sopra tutto
nella storia. Vivere nel tempo del Messia esige dunque la capacità di leggere i segni della sua presenza
nella storia, di riconoscere nel suo corso il sigillo dell’economia della salvezza. Agli occhi dei padri - ma
anche per i filosofi che hanno riflettuto sulla filosofia della storia, che è e resta (anche in Marx) una
disciplina essenzialmente cristiana - la storia si presentava come un campo di tensioni, percorso da due
correnti opposte: la prima - che Paolo, in un celebre ed enigmatico passaggio della Seconda lettera ai
Tessalonicesi, chiama to catechon - che ritiene e differisce senza sosta la fine del mondo lungo la linea
del tempo cronologico, infinito e omogeneo; l’altra che, mettendo in tensione l’origine e la fine, non cessa
di interrompere e portare a termine il tempo.

Chiamiamo legge o stato la prima polarità, votata all’economia, ossia al governo infinito del mondo; e
chiamiamo Messia o Chiesa la seconda, la cui economia - l’economia della salvezza - è essenzialmente
finita. Una comunità umana non può sopravvivere se queste due polarità non sono compresenti, se non
esiste fra di esse una tensione e una relazione dialettica.

Ora, è esattamente questa tensione che oggi è spezzata. A mano a mano che la percezione
dell’economia della salvezza nel tempo storico si appanna nella Chiesa, si vede l’economia stendere il
proprio dominio cieco e derisorio su tutti gli aspetti della vita sociale. Allo stesso tempo, l’esigenza
escatologica che la Chiesa ha trascurato ritorna sotto una forma secolarizzata e parodistica nei saperi
profani, che sembrano fare a gara per profetizzare in tutti i campi delle catastrofi irreversibili. Lo stato di
crisi e d’emergenza permanente che i governi del mondo proclamano oggi è proprio la parodia
secolarizzata del perpetuo aggiornamento del giudizio ultimo nella storia della Chiesa.

All’eclissi dell’esperienza messianica del compimento della legge e del tempo corrisponde un’ipertrofia
inaudita del diritto, che pretende di legiferare su tutto, ma che tradisce con un eccesso di legalità la
perdita di ogni vera legittimità. Qui e ora affermo, misurando le parole: oggi sulla terra non vi è più alcun
potere legittimo, e i potenti del mondo stessi sono tutti rei di illegittimità. La giuridicizzazione e
l’economicizzazione integrale dei rapporti umani, la confusione fra ciò che possiamo credere, sperare,
amare e ciò che siamo tenuti a fare o a non fare, dire o non dire segna non soltanto la crisi del diritto e
degli stati, ma anche e soprattutto quella della Chiesa. Poiché la Chiesa non può vivere se non tenendosi,
in quanto istituzione, in relazione immediata con la fine della Chiesa.

E - non bisogna dimenticarlo - nella teologia cristiana vi è una sola istituzione che non conoscerà la fine e
il dissolvimento: ed è l’inferno. Qui si vede bene - mi sembra - che il modello della politica di oggi - che
aspira a un’economia infinita del mondo - è propriamente infernale. E se la Chiesa spezza la sua
relazione originale con la paroikia, essa non può che perdersi nel tempo.

Ecco perché la domanda che pongo, senza di certo avere alcuna autorità per farla se non quella di
un’abitudine ostinata a leggere i segni dei tempi, si riassume in questa: si deciderà la Chiesa a cogliere la
sua occasione storica e a riprendere la sua vocazione messianica? Poiché il rischio è che essa stessa sia
trascinata nella rovina che minaccia tutti i governi e tutte le istituzioni della terra.

Chiesa e secolarizzazione La vocazione messianica di Giorgio Agamben

IL REGNO DI SATANA

GLI ULTIMI GIORNI

«Il maestro di metamorfosi acquista effettivo potere quale sciamano. Durante i


suoi accessi estatici, egli aduna presso di sé spiriti che sottomette, parla la loro
lingua, diviene un loro pari e può comandarli al loro modo. Diviene uccello
quando viaggia per i cieli e animale marino quando scende in fondo al mare. Egli
può tutto; il parossismo che raggiunge deriva dall’accresciuta e rapida sequenza
di metamorfosi che lo scuotono finché non ha scelto fra di esse il suo vero
scopo» (Canetti 1981, p.462).

Georges Lapassade ha definito come società dello sciamanesimo quelle che


«trasformano le allucinazioni in visioni» (Lapassade 1993, p. 16). Ebbene, ciò è
proprio quello che la nostra cultura attribuisce al “malinconico”. Tale procedura di
trasformazione dell'allucinazione in visione è ben descritta da Giorgio Agamben,
sulla scia di alcune intuizioni freudiane: «se il mondo esterno è infatti
narcisisticamente negato dal malinconico come oggetto d'amore, il fantasma
riceve però da questa negazione un principio di realtà ed esce dalla muta cripta interiore per entrare in
una nuova e fondamentale dimensione. Non più fantasma e non ancora segno, l'oggetto irreale
dell'introiezione malinconica apre uno spazio che non è né l'allucinata scena onirica dei fantasmi, né il
mondo indifferente degli oggetti naturali; ma è in questo intermediario luogo epifanico, situato nella terra
di nessuno fra l'amore narcisistico di sé e la scelta oggettuale esterna, che potranno collocarsi le
creazioni della cultura umana <...> è nello spazio aperto dalla sua ostinata intenzione fantasmagorica che
prende avvio l'incessante fatica alchemica della cultura umana per appropriarsi del negativo e della morte
e per plasmare la massima realtà afferrando la massima irrealtà» (Agamben 1977, pp. 32-33).Queste
parole, nel delineare un rapporto stretto fra malinconia e cultura nelle civiltà umane, ci suggeriscono già il
rapporto decisivo, che indicheremo in seguito, fra sogno e cultura nello sciamanesimo. Ma dalle analisi di
Agamben possiamo individuare, oltre alla malinconia, un altro tratto pertinente alla conoscenza dello
sciamanesimo: il feticismo: «come nella Verleugnung feticista, nel conflitto fra la percezione della realtà,
che lo costringe a rinunciare al suo fantasma, e il suo desiderio, che lo spinge a negare la percezione, il
bambino non fa né una cosa né l'altra, o, piuttosto, fa simultaneamente le due cose, smentendo, da una
parte l'evidenza della sua percezione e riconoscendone dall'altra la realtà mediante l'assunzione di un
sintomo perverso, così, nella malinconia, l'oggetto non è né appropriato né perduto, ma l'una e l'altra
cosa nello stesso tempo. E come il feticcio è, insieme, il segno di qualcosa e della sua assenza, e deve a
questa contraddizione il proprio statuto fantomatico, così l'oggetto dell'intenzione malinconica è nello
stesso tempo reale e irreale, incorporato e perduto, affermato e negato» (Ibidem, pp. 26-27). Tali
caratteri, che nelle pagine successive del suo lavoro Agamben estende ad alcuni procedimenti del
linguaggio come la metonimia e la metafora, nonché alla sfera oggettuale dei giocattoli e della merce, ci
sembrano particolarmente appropriati per cogliere il senso degli oggetti rituali sciamanici.

L'impostazione ideologica “metafisica” di Mircea Eliade, infatti, non ci sembra cogliere nel segno con la
sua interpretazione tesa a riconnettere il simbolismo degli oggetti rituali sciamanici ad un significato
cosmico (manifestazione dell'illud tempus primordiale, ecc.). Ciò che ci sembra discutibile di tale
impostazione non è tanto il suo vero o presunto “irrazionalismo”, quanto la sua persistente “semiologia”.
In altri termini, per quanto Eliade venga spesso incluso fra i maestri di un’ ”ermeneutica instaurativa”, non
si può non cogliere i limiti di una riduzione delle immagini ai loro significati, da lui costantemente praticata.
Ad esempio, nel parlare del simbolismo del costume sciamanico, Eliade scrive che «il costume
sciamanico costituisce di per sé una ierofania ed una cosmografia religiosa: esso non rivela soltanto una
presenza sacra ma anche simboli cosmici e itinerari metapsichici. Ove lo si esamini attentamente,il
costume ci dà a conoscere il sistema dello sciamanismo nella stessa trasparenza propria ai miti e alle
tecniche sciamaniche» (Eliade 1992, p. 169). Questa lettura è molto più “semiologia” che “simbolica”;
eppure il riferimento ai sogni del candidato avrebbe dovuto mettere sull’avviso Eliade che lo sciamano
non “riduce” i simboli, neppure interpretandoli in chiave “cosmica” o “metafisica”, ma li “amplifica”,
attraverso una specifica “arte del sognare”: «Il candidato nei suoi sogni deve riuscire a vedere il luogo
esatto ove si trova il suo futuro costume e deve poi andare lui stesso a cercarlo» (Eliade 1992, p. 171).

Il modello semiologico si pone sotto il segno di Edipo, quello simbolico sotto il segno della Sfinge: «ogni
interpretazione del significare come rapporto di manifestazione o di espressione (o, all'inverso, di cifra e
occultamento), fra un significante e un significato (e tanto la teoria psicoanalitica del simbolo che quella
semiotica del linguaggio appartengono a questa specie) si pone necessariamente sotto il segno di Edipo,
mentre si pone invece sotto il segno della Sfinge ogni teoria del simbolo che, rifiutando questo modello,
porti innanzitutto la sua attenzione sulla barriera fra significante e significato che costituisce il problema
originale di ogni significazione» (Agamben 1977, p. 165). Agamben tratta tale problema nella parte IV del
suo volume, non a caso intitolata “L’ Immagine Perversa”. Anche lo psicanalista James Hillman, nel
riprendere alcune intuizioni di Gaston Bachelard sull'attività deformante dell'immaginazione, parla di
“patologizzazione” dell'immagine: «l'immagine patologizzata o deformata è fondamentale per l'alchimia e
per l'arte della memoria, che presentano entrambe metodi complessi per fare anima. È all'immagine
patologizzata del sogno, alla figura bizzarra, particolare, malata o ferita - l’elemento di scompiglio - che
dobbiamo rivolgerci per trovare la chiave del lavoro del sogno. <...> La deformazione patologizzata che
restituisce a un'immagine la sua capacità di perturbare l'anima al punto che, portando un'immagine in
prossimità della morte la fa al tempo stesso rivivere. Perché è il sogno scioccante, di cui è paradigma
l'incubo quello che maggiormente ricordiamo, quello che risveglia la memoria dell'anima» (Hillman 1996,
pp. 122-124).

Quale esempio migliore da questo punto di vista si può dare se non quello relativo ai sogni iniziatici
sciamanici? Vasta è la bibliografia su smembramenti del corpo, lacerazioni della carne e torture varie.
Basti il seguente riassunto di Eliade: «i momenti importanti di un'iniziazione sciamanica comportano: 1. la
tortura e la lacerazione del corpo; 2. il raschiamento delle carni fino alla riduzione del corpo a scheletro;
3. la sostituzione delle viscere e il rinnovamento del sangue; 4. un soggiorno abbastanza lungo agli Inferi,
durante il quale il futuro sciamano viene istruito dalle anime degli sciamani morti e da "demoni"; 5.
un'ascensione al Cielo per ottenere la consacrazione dal Dio del Cielo. A differenza dei neofiti delle altre
iniziazioni, il futuro sciamano subisce in modo più radicale l'esperienza della morte mistica. Egli rischia
più di una volta di precipitare nella "pazzia", e affronta questo pericolo nella speranza di accedere a
un'esistenza totalmente diversa dall'esistenza profana» (Eliade 1988, p. 147).

Questo riassunto va tenuto costantemente a mente se, parafrasando Hillman, si vuole lavorare sullo
sciamanesimo tenendo dietro al lavoro dello sciamanesimo. Studiare lo sciamanesimo dal punto di vista
della Sfinge e non di Edipo non esclude l'analisi, ma implica un atteggiamento diverso da quello
consueto. Insiste Hillman: «il dividere in parti analitico è una cosa e l'interpretazione concettuale è
un'altra. Può esserci analisi senza interpretazione. L'interpretazione trasforma il sogno nel suo significato.
La traduzione del sogno prende il posto del sogno. La dissezione invece opera un taglio nella carne e
nelle ossa dell'immagine, esamina il tessuto delle sue connessioni interne e si muove tra i suoi pezzi,
eppure il corpo del sogno è ancora lì, sul tavolo. Non ci siamo chiesti che cosa significa, ma chi, che
cosa, e come è» (Hillman 1996, p. 124).
Rinunciare a ridurre lo sciamanesimo ad una costellazione di significati, palesi od occulti che siano, non
significa mettersi a sciamanizzare tout-court, ma assumere innanzitutto il punto di vista della conoscenza
onirica, mettendo da parte ogni idea di sciamanesimo come esoterismo, in cui presunti iniziati detengono
la conoscenza di significati occulti solo da essi trasmissibili; l'origine di tali concezioni “esoteriche” fa
tutt'uno con le culture cosiddette “alte”, nelle quali si attua un passaggio, come efficacemente sintetizza
Francesco Saba Sardi a proposito dell’avvento degli Incas, “dallo sciamano al sovrano”: «se lo sciamano
cerca la solitudine, diventa sognatore, ha visioni, il sovrano si circonda di solitudine (è solo in cima al suo
inaccessibile trono) le sue visioni si traducono in scelte politiche, il suo comportamento è bizzarro e
idiosincratico (capricci di re) <...> Se lo sciamano è concretamente dotato di "poteri meravigliosi", che
rivelano l'accesso allo stato di ek-stasis, il sovrano domina le forze: vince l'acqua che incanala, la siccità
che previene con l'accortezza, la carestia alla quale ovvia creando scorte di viveri. Non ha effettivi "poteri
meravigliosi", ma è come se li avesse: gli vengono attribuiti senz'altro ex lege <...> Mentre lo sciamano
non pretende di essere un dio, il sovrano tale si dichiara. Gli sciamani sono dunque al suo servizio e, a
tale scopo, li isola in santuari, li chiude in recinti, li obbliga a pronunciare profezie a lui favorevoli <...>
Ancora, se lo sciamano "ascende" o "discende" lungo l'albero-centro del mondo per raggiungere il cielo o
il mondo ctonio, il sovrano dichiara il santuario, il palazzo, la città regale centro del mondo» (Saba Sardi
1982, pp. XLV-XLVI).

Alla subordinazione della conoscenza onirica nell’ antichità, con il connesso statuto dell’immaginazione
che essa possedeva, fa seguito la sua emarginazione nella modernità, con la conseguente nascita della
follia: «e, dal momento che è la fantasia che, secondo l’antichità, forma le immagini dei sogni, ciò spiega
il particolare rapporto che, nel mondo antico, il sogno intrattiene con la verità e con la conoscenza
efficace. Ciò è ancora vero nelle culture primitive…l'espropriazione della fantasia si manifesta nel nuovo
modo di caratterizzarne la natura: mentre essa non era, in passato, qualcosa di soggettivo, ma era
piuttosto la coincidenza di soggettivo e oggettivo, di interno e di esterno, di sensibile e intelligibile, ora è il
suo carattere combinatorio e allucinatorio, che l'antichità relegava sullo sfondo, a emergere in primo
piano. Da soggetto dell'esperienza, il fantasma diventa il soggetto dell'alienazione mentale, delle visioni e
dei fenomeni magici, cioè di tutto ciò che resta escluso dall'esperienza autentica». (Agamben 1978, p.
19).

Se questo è vero, allora la dimensione onirica nelle società sciamaniche non è uno specifico aspetto della
cultura, quanto la modalità che fonda la conoscenza e dunque la cultura stessa. Tra coloro che meglio
hanno colto questo punto essenziale vi sono l’etnopsichiatra George Devereux e, sulla sua scia,
l’antropologo Roger Bastide, i quali hanno segnalato i limiti etnocentrici delle attuali teorie sul sogno.
Devereux, in particolare, riferisce, a proposito della cultura mohave (in questo non dissimile da altre
culture sciamaniche), che, contrariamente a quanto sostiene Mircea Eliade, il mito non è riattualizzazione
dell'illud tempus primordiale, ma creazione continua. La cultura sciamanica non è “contro” la storia,
piuttosto per essa storia e sogno sono inscindibili: «il mito della creazione è, d’altronde, un’opera
incompiuta. Il mito della creazione, quale era raccontato, per esempio nel 1900, contiene semplicemente
quelle porzioni della creazione che erano state rivelate in sogno fino a quell’epoca. Così, quando le armi
da fuoco fecero la loro apparizione e inflissero ferite da pallottole, uno sciamano sognò subito di essere
stato testimone di quella fase della creazione che si riferiva alla istituzione iniziale – prototipo costituente
un precedente - di ogni ferita da arma da fuoco e della sua guarigione. In linea di principio, domani o il
giorno dopo, uno sciamano mohave può sognare la creazione di ustioni dovuti a radiazioni o il mal di
spazio e la loro cura. Questi nuovi sogni esigono automaticamente un completamento delle versioni
anteriormente conosciute del mito della creazione, così come la scoperta di un nuovo fossile impone
l’aggiornamento di un manuale di paleontologia pubblicato precedentemente» (Devereux 1978, p.291).
La conclusione è esplicita: «soltanto il sogno rende valido l’apprendimento culturale: chiunque può
imparare a cantare un canto terapeutico, ma questo è una terapeutica inefficace e rimane un atto
puramente extraculturale e individuale, se non è appoggiato e convalidato da sogni sciamanici
appropriati…mi sembra che i Mohave interpretino la loro cultura in termini di sogno, anziché interpretare i
loro sogni in termini di cultura» (Ibidem, p.293).
A partire dalle conclusioni di Devereux, Bastide formula una vera e propria “teoria generale del sogno”,
nella quale contrappone la «naturalizzazione del sogno presso i primitivi» alla «culturalizzazione del
sogno negli occidentali». Nel primo caso il sogno «permette il passaggio, dal soggettivo al collettivo,
attraverso la comunicazione ad altro e l'accettazione degli altri» (Bastide 1976, p. 56). Ma nel secondo
caso «si è spezzato il legame tra il sogno e la realtà per respingere il primo nell'immaginario e costruire la
realtà sull'efficacia» (Ibidem p. 58). Sono due processi, quello del primitivo e quello dell'occidentale,
decisamente antitetici. Come riassume ancora Bastide «separando l'onirico dal mondo reale, facciamo
dell'onirico un "aldilà del mondo", un "altro luogo"; possiamo certamente compiacerci in lui (per reazione
alla nostra società industriale e costruire, per la nostra gioia, ogni giorno nuove fabbriche di sogni
opposte alle fabbriche dei prodotti di consumo pratico), ciò non toglie che in noi il sogno non abbia più
legami con la storia o la metafisica, perlomeno per gli "spiriti forti". Al contrario, per i primitivi il sogno è
incorporato nella realtà, segue la storia, fabbrica la storia e nello stesso tempo è il riflesso del
trascendentale, la parola esplicitata dei morti e degli dei» (Ibidem, p. 61).

Se questo è vero, allora possiamo cogliere il punto di contatto “politico” fra la funzione dello sciamano e il
compito dell'intellettuale, definito da Benjamin «solo ex negativo: egli "deve organizzare il pessimismo" e
portare avanti "la distruzione dialettica" delle immagini false sulle cui proiezioni si costruisce lo spazio
sociale. <...> Le manifestazioni storiche della società vengono comprese come immagini oniriche: è
compito dello storico interpretare la loro complessa dinamica. Lo storico, esattamente come il Messia nel
giorno del compimento della storia, ha il compito di rimettere a posto le immagini "impazzite", e, in questo
modo, di attribuire al mondo il suo vero significato» (Witte 1991, pp. 106-108).

Si compie così il passaggio “dal sovrano allo sciamano”, fine della storia e inizio del regno messianico
secondo Benjamin, per il quale «comprendere la storia dell'umanità come il suo sogno, significa capire
che le vere pulsioni e i veri desideri dell'umanità, ad esempio quelli di compimento e di felicità, trovano
espressione nella storia solo in forma spostata, censurata e rimossa. Questo lavoro onirico preclude
all'umanità la possibilità del risveglio che porterebbe alla fine della storia e all'inizio del regno messianico.
La dottrina dei sogni storici del collettivo riflette quindi il volto ambivalente dei fenomeni storici che
esprimono sia il fallimento che, nel contempo, la riuscita <...> Per non riprodurre semplicemente il sogno,
come fanno Aragon e i surrealisti, rimanendo però all'interno del mito, è necessario analizzarlo,
riconoscere e sciogliere il "nesso espressivo" esistente fra la situazione economica del XIX secolo e le
sue strutture socio-culturali e portare in questo modo alla superficie il contenuto utopico in esso
racchiuso. La dialettica è lo strumento di quest'analisi, il "montaggio letterario" il suo metodo» (Witte
1991, p. 180).

«Le forze dell'ebbrezza possono essere conquistate per la rivoluzione solo ad opera di quella
surdeterminazione della dynamis profana che la rende produttiva di effetti trasferendoli sul vettore, diretto
in senso opposto, della "intensità messianica" <...> L'illuminazione profana ha a che fare col quotidiano e
con il mistero quando riguarda l'ebbrezza come luogo aporetico, in cui, appunto, quotidiano e mistero
s'incrociano» (Masini 1983, p. 24).

Parafrasando Benjamin, possiamo dire che oggi alla spettacolarizzazione dello sciamanesimo, si debba
rispondere con la sciamanizzazione dell’arte. Se la spettacolarizzazione dello sciamanesimo traduce il
mondo dello sciamano nel mondo della veglia, la sciamanizzazione dell’arte restituisce piuttosto il mondo
della veglia al mondo dello sciamano. Da questo punto di vista potremmo assimilare quest'ultimo lavoro a
quello di uno specchio deformante, che restituisce appunto un'immagine spostata, una prospettiva
rovesciata. Ma questo è dopo tutto proprio il senso di una escatologia realizzata, la quale non attende il
millennio perché si sa già avvenuta. Escatologia realizzata è il paradosso per cui l'ostacolo è la chiave, il
quotidiano il mistero, ovvero, sciamanicamente, la follia è la guarigione.

La sciamanizzazione dell’arte di Antonello Colimberti

COSMOGENESIS

IMMORTAL AD VITAM (L’ULTIMO ESORCISMO)


PORNO CYBORG

L’UOMO-MACCHINA

APOCALISSE E NOLONTA’

FUNNY GAMES

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