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Massimo Luigi Salvadori, Il Novecento.

Un'introduzione, Bari, Laterza, 2002[€ 14,00 –


ISBN 88-420-6727-X]
Gianluca ScroccuUniversità di Firenze
G.Scroccu, "Review of M.L.Salvadori, Il Novecento. Un’introduzione, Bari,
Laterza, 2002", Cromohs, 8 (2003): 1-12< URL:
http://www.cromohs.unifi.it/8_2003/scroccu.html >

1. La storiografia contemporanea
ha riflettuto con molta attenzione
sul secolo appena trascorso,
dedicandogli, anche
recentemente, numerosi lavori di
sintesi e di interpretazione[1]. Il
Novecento, secolo carico di
passioni, ideologie, progresso
tecnologico e scientifico, ma
anche di violenza, stragi e lutti,
ha segnato del resto in profondità
il cammino dell’uomo moderno e
alcune delle domande a cui non si
è riusciti a dare una risposta nel
secolo scorso oggi rimangono
drammaticamente attuali e
coinvolgenti. Tra i lavori di sintesi
più recenti e significativi si
segnala questo volume di
Massimo Luigi Salvadori (il libro è
l’ampliamento di un saggio
precedentemente pubblicato col
titolo Il Novecento: un profilo
storico, come introduzione a
Eredità del Novecento, Istituto
della Enciclopedia Italiana,
2000). Occupatosi già in passato
in maniera assai originale ed
efficace di lavori di sintesi storica
(per citare solo alcune delle sue
opere più recenti, si possono
menzionare L’utopia caduta.
Storia del pensiero comunista da
Lenin a Gorbaciov, 1992 e La
Sinistra nella storia italiana, 1999
entrambe edite da Laterza,
mentre per il Mulino si ricorda
l’ultima edizione di Storia d’Italia
e crisi di regime. Saggio sulla
politica italiana. 1861-2000,
2001), con questo volume lo
storico torinese si è cimentato in
un’analisi dei fondamentali nodi
storici del Novecento attraverso
un saggio interpretativo agile e
denso, dalla scrittura
particolarmente accattivante.
Vista l’ampiezza e la complessità
delle problematiche storiografiche
presenti nel testo, si è preferito,
in questa sede, analizzarne
esclusivamente i principali
elementi interpretativi.
2. All’interpretazione classica di
Hobsbawn, quella del ‘900 come
"Secolo Breve", Salvadori oppone
quella del Novecento come secolo
più lungo della storia universale;
l’autore non crede – come lo
storico inglese ma anche,
seppure da una diversa
angolazione, come Furet – che la
parabola storica dell’URSS segni
irrimediabilmente il Novecento,
perché se è vero che il
comunismo ne è stato una delle
ideologie centrali, altri sono
risultati gli elementi di rottura e
cesura storica che hanno segnato
in profondità il secolo scorso (lo
storico torinese ricorda come già
prima della rivoluzione d’ottobre
vi siano stati elementi destinati a
segnare indelebilmente il secolo,
come il "risveglio dell’Asia" con la
vittoria del Giappone
espansionista sulla Russia
zarista, il crollo dell’impero
cinese, lo sviluppo in India del
movimento indipendentista,
l’agonia dell’impero turco,
l’emergere della potenza degli
Stati Uniti, il ripetuto e
determinato assalto della
Germania alla supremazia
continentale di Inghilterra e
Francia). E questo non solo per
l’indiscutibile rivoluzione che ha
assunto il decennio finale del
Novecento, restato forzatamente
fuori dal quadro tracciato da
Hobsbawn dato il termine ad
quem del suo discorso; ma
soprattutto per il fatto che «mai
in cento anni il mondo, in specie
nei paesi sviluppati, è tanto
profondamente mutato, al punto
da far prevalere in modo netto ed
evidente la discontinuità sulla
continuità, il cambiamento sulla
conservazione, con la
conseguenza che il rapporto tra
gli uomini e il loro ambiente vuoi
politico e socio-economico vuoi
naturale si è, per così dire,
capovolto rispetto al passato. I
mutamenti avvenuti tra il primo e
l’ultimo anno del secolo furono,
infatti, di tale portata per cui, per
la prima volta nella storia
dell’umanità, individui nati
all’inizio del Novecento e vissuti
fino a ottanta-novant’anni si sono
trovati nel corso della loro
esistenza fisica a vivere diverse
vite storiche (pag. 158)». Da
queste premesse nasce, quindi, il
bisogno di partire dall’incredibile
e repentina mutabilità delle
vicende politiche e socio-
economiche dell’uomo
novecentesco per tentare di
interpretare il secolo che ci siamo
appena lasciati alle spalle.
3. Tra gli elementi portanti che
accompagnano l’autore e il
lettore in questo "lungo volo"
nella storia del secolo scorso,
emerge con forza il problema
della redistribuzione del potere
mondiale e la conseguente crisi
della centralità europea nella
storia mondiale (dwarfing of
Europe, secondo la nota
definizione di Geoffrey
Barraclough); Salvadori, per
suffragare questa tesi in maniera
convincente, individua i seguenti
periodi: quello tra il 1898-1905 e
il 1917-1918; quello tra il 1917-
1918 e il 1939-1941; quello,
infine, della seconda guerra
mondiale e delle sue
conseguenze. Il segmento
culturale che arriva sino al primo
conflitto bellico riveste
un’importanza strategica
essenziale nell’analisi dell’autore.
La fede nel progresso che aveva
caratterizzato la storia europea
nel secolo XIX, per cui
l’imponente sviluppo tecnologico
e scientifico-industriale avrebbe
avviato l’umanità verso nuovi
traguardi di convivenza civile, fu
spazzata via dall’emergere di
nuove insicurezze, da una nuova
tendenza a concepire il progresso
e le innovazioni in campo
tecnologico non più soltanto in
senso positivo, ma anche in
chiave distruttiva. Il sentimento
di rigetto delle tendenze politico-
culturali di fine ottocento, carico
di implicazioni anti-borghesi e
anti-democratiche, espresso nelle
sue forme più radicali dalla
vicenda delle avanguardie
artistiche, vero momento di
drastica rottura con il realismo
pittorico in favore della scoperta
dell’individualismo e della libertà
di espressione e riproduzione (e
non a caso il libro ha in copertina
un’opera di uno dei maggiori
esponenti dell’avanguardia
artistica russa, Kazimir Malevič),
contribuì a creare nel primo
decennio del Novecento un nuovo
clima in cui convivevano
insicurezza e straripanti cariche
vitalistiche, che rendevano
oramai superati gli anni della
belle epoque.
4. La prima guerra mondiale e il
carico di violenza, morte e
distruzione che essa portò
cambiarono la prospettiva della
crescita infinita e progressiva
dell’umanità; l’esperienza bellica
segnò e lacerò in profondità
l’esistenza degli esseri umani che
la vissero in tutte le sue
manifestazioni, modificandone
profondamente mentalità e
tessuto sociale. Scrive in
proposito Salvadori che «la fine
della guerra lasciò un’eredità che
da un lato esaltava la potenza
dello Stato, del potere esecutivo,
delle burocrazie dell’industria, dei
mezzi di condizionamento di
massa, dall’altro diffondeva in
maniera estrema il senso della
mancanza di valore della vita
umana e della precarietà
dell’esistenza, l’angoscia per la
perdita di significato
dell’individuo, la convinzione del
carattere risolutivo della violenza
nella soluzione dei problemi
politici e sociali, l’insicurezza di
fronte al futuro (pag. 64)». Si
apriva un periodo cruciale della
storia mondiale: «il liberalismo,
la democrazia, il riformismo
persero in Europa la loro
battaglia nel primo decennio
seguente la fine della grande
guerra (pag.66)». L’autore mette
in evidenza come l’idea liberale e
riformista che concepiva la
competizione politica ben
collocata all’interno del
democratico conflitto istituzionale
(l’unica sede in cui poteva
concepirsi il progresso sociale), fu
definitivamente cancellata
dall’azione dei totalitarismi
incapaci di concepire la politica se
non come lotta contro il nemico.
La fine del primo conflitto
mondiale aveva avuto come
lascito da un lato la crescita della
potenza dello Stato, dell’industria
e dei mezzi di comunicazione di
massa; dall’altro il disprezzo del
valore della vita umana e un
profondo senso della precarietà
dell’esistenza, a cui si era
sommato l’emergere della
convinzione che la violenza
potesse risolvere i problemi
politici e sociali, mobilitando in
chiave nazionalista le masse e
trasformando la democrazia in
una "nuova politica".
5. Un’attenzione particolare viene
destinata dall’autore all’analisi dei
totalitarismi novecenteschi.
Decisamente incisive sono le
pagine in cui Salvadori delinea la
novità dei regimi totalitari
nazifascisti e comunisti rispetto a
quelli autoritari che avevano
caratterizzato la storia
precedente. Se questi ultimi,
infatti, avevano rafforzato
«enormemente le facoltà
dell’esecutivo e tendeva[no] a
stabilire uno stretto controllo
sull’attività legislativa, non
aboliva[no] di necessità la
distinzione tra i poteri, non
sopprimeva[no] il Parlamento,
limitava[no] spesso in maniera
drastica l’azione dei partiti
d’opposizione, reprimeva[no]
quando necessario i movimenti
delle masse senza mirare al loro
inquadramento entro il sistema
politico (pag. 53)», il modello
totalitario tese invece a
configurarsi come «una specie di
moderna teocrazia politica, in
quanto fondato sulla fusione tra il
potere temporale e il potere
ideologico [...]. Così lo Stato
totalitario venne a fondarsi su un
suo principio superiore, che è a
dire su un suo Dio politico-
ideologico, diverso a seconda
delle sue specifiche varianti: il
dominio del proletariato per il
regime comunista di Stalin, la
comunità razziale per il regime
nazionalsocialista di Hitler, lo
Stato per il regime fascista di
Mussolini (pag. 54)». La violenza
divenne il pilastro e il modello di
regolamentazione della vita
politica del sistema di potere dei
regimi totalitari. Ed è per questo
che gli avversari politici
divennero nemici da schiacciare
ad ogni costo, perché concepiti
come ostacolo al cammino verso
il mondo nuovo che queste
dittature volevano instaurare,
fossero i kulaki o i nemici di
classe che nella visione della
nomenclatura sovietica frenavano
l’avanzata del comunismo, o gli
ebrei che nella Germania nazista
ostacolavano la crescita e lo
sviluppo del Reich millenario e
che sarebbero stati trucidati in
quel vero e proprio unicum della
storia che fu l’Olocausto,
risultante di un aberrante disegno
volto all’annientamento biologico
di un popolo.
6. Il 1945 segna nell’analisi di
Salvadori la definitiva sconfitta
della centralità europea e la
nascita di un nuovo tipo di
relazioni internazionali (e in
queste pagine l’autore sembra
richiamare alcune intuizioni di
Habermas). Egli suddivide
l’assetto bipolare derivato dalla
guerra fredda in tre articolazioni:
1) la contrapposizione tra
Occidente ed Oriente, ovvero tra
capitalismo e comunismo; 2)
l’organizzazione sociale e politica
dei due campi in contrasto; 3) la
suddivisione in sfere d’influenza e
la capacità di spostare nel resto
del mondo il conflitto che non
poteva esplicarsi direttamente
(visto il rischio atomico) tra le
due superpotenze. La specificità
della guerra fredda viene
analizzata come un’assoluta
novità nella storia delle relazioni
internazionali per la sua natura,
le sue modalità e per i suoi
effetti, ma anche per le sue
contraddizioni talmente laceranti
che «la storia della guerra fredda
si configurò dunque come
l’incessante preparazione a una
"impossibile" guerra calda (pag.
73)». Salvadori divide la guerra
fredda in tre fasi: la prima (la più
aspra) è quella che va
dall’immediato dopoguerra sino
alla crisi di Cuba, ed è la fase che
portò il mondo sull’orlo del
conflitto nucleare nel 1962; la
seconda, quella compresa tra la
prima metà degli anni sessanta e
il 1979 è quella della coesistenza,
vale a dire dell’Ostpolitik di
Brandt e del reciproco
riconoscimento delle frontiere
delle due Germanie sino alla
firma sulla limitazione degli
armamenti nucleari e della armi
strategiche, ma anche della
tragica e dolorosa pagina della
guerra in Vietnam; la terza è
quella del rilancio della guerra
fredda, con l’invasione sovietica
in Afghanistan e la sfida di
Reagan all’"Impero del Male"
sovietico, conclusasi poi con
l’esperienza del riformismo
mancato di Gorbaciov e il crollo
del comunismo. L’elemento
cardine che caratterizzò questo
conflitto non guerreggiato resta
per l’autore la totale
incompatibilità tra i due mondi,
che egli arriva a paragonare (per
la sua globalità, per l’ampiezza
delle risorse spirituali e materiali
impiegate, per la radicalità
ideologica, politica e sociale), alla
spaccatura che divise il mondo
cristiano da quello islamico in età
medievale e moderna.
Particolarmente incisive sono le
pagine in cui Salvadori analizza le
cause che permisero agli Stati
Uniti di vincere il confronto, sino
al collasso dell’impero sovietico.
La guerra fredda, specie nei suoi
anni più crudi, tese a configurarsi
come una sfida rimandata nel
tempo; e fu nel corso di questa
sfida che l’Occidente mostrò la
sua crescente superiorità,
risultando infine il vincitore,
laddove il mondo sovietico, dopo
un periodo di grandi e persino
strabilianti successi, si trovò
avviluppato in ingovernabili
contraddizioni e in una situazione
di inferiorità che ne
determinarono il crollo finale. Ma
è un altro l’elemento che per
Salvadori segnò la fine, alla
lunga, dell’URSS: il contrasto tra
apparenza e realtà che, vista la
natura totalitaria di quel potere,
finì per scatenare un processo di
implosione. L’apparenza coprì
interamente la realtà, la nascose,
la mistificò in una situazione di
sempre maggiore
autoreferenzialità della
burocrazia al potere, generando
col tempo quello scetticismo e
quella diffidenza che neppure il
tentativo gorbacioviano riuscirono
a cancellare, e questo perché «i
tentativi di attuarlo mostrarono
che il sistema non possedeva le
risorse per autoriformarsi, e che
anzi le riforme tendevano a
distruggerlo, in quanto
scatenavano ingovernabili
contraddizioni al suo interno
(pag. 126)».
7. La crisi economica, i contrasti
politici e la secessione di etnie e
nazionalità che avevano retto
solo sotto il collante dell’ideologia
e del potere totalitario, oltre alla
sollevazione dei paesi dell’Europa
orientale che avevano fatto parte
dell’universo sovietico, portarono
tra il 1989 e il 1991 al crollo
dell’URSS, un sistema di potere
che ben pochi, nota Salvadori,
finirono per rimpiangere: «alla
caduta del comunismo
nell’impero sovietico - il che
spiega molto della profondità del
male che l’aveva colpito – non vi
fu pressoché nessuno che
combattesse per mantenerlo
(pag. 126)». Lo storico torinese
coglie invece nella capacità
dell’Occidente di porre la
discussione sui grandi problemi e
sulle scelte di interesse generale
al centro del dibattito
democratico, evitando di
sottrarre l’azione del governo al
controllo dei Parlamenti, delle
opposizioni e degli elettori,
l’elemento discriminante che
permise agli Stati Uniti e
all’Europa occidentale di vincere
la sfida. Se infatti il sistema di
potere sovietico non si
configurava come un’alleanza,
ma come un impero dove
l’internazionalismo mascherava
l’unanimismo delle decisioni del
Cominform e il partito controllava
politica, forze armate, economia
e vita sociale, soffocando spesso
con l’intervento dell’Armata
Rossa le ribellioni e l’opposizione
al sistema delle popolazioni
sottomesse, il ruolo guida degli
Stati Uniti si configurò attraverso
un’opposta fisionomia.Se nei
confronti di molti paesi africani,
asiatici e sudamericani spesso il
governo statunitense non esitò
ad appoggiare regimi autoritari e
dittatoriali seguendo l’unica
logica della difesa dei propri
interessi all’interno della vicenda
della guerra fredda, gli Stati Uniti
stabilirono invece con i paesi
dell’Europa occidentale in
prevalenza un legame di
leadership liberale derivante dalla
propria egemonia economico-
politica, ben diversa dal dominio
esercitato dall’URSS sui paesi
satelliti. La ricostruzione
economica tanto dell’Unione
Sovietica quanto dell’Europa
dell’Est si presentò sicuramente
molto più ardua che non
nell’Europa occidentale,
circostanza che permise agli Stati
Uniti di riversare grandi risorse a
sostegno dei paesi europei nella
loro sfera di influenza, mentre
l’URSS dovette far fronte
anzitutto alle proprie esigenze in
una condizione disastrosa e, a tal
fine, non esitò a drenare
massicciamente risorse dai già
tanto impoveriti paesi dell’Est
europeo.
8. La fine della seconda guerra
mondiale non causò
esclusivamente lo scontro tra le
due superpotenze, poiché proprio
per la sua valenza globale pose al
centro del percorso storico della
seconda metà del XX secolo due
questioni come la
decolonizzazione e la ridefinizione
di modelli sociali e di sviluppo
all’interno del blocco occidentale.
La scomparsa del dominio
coloniale aggiunse un altro
tassello alla fine della prospettiva
di conquista e dominazione delle
potenze europee, contribuendo in
maniera consistente alla crisi
della centralità europea nella
storia mondiale. Naturalmente,
nota Salvadori, quel processo
riuscì ad attuarsi sia attraverso
fenomeni di decolonizzazione
negoziata, sia attraverso una
decolonizzazione violenta, molto
spesso all’interno della logica
spartitoria della guerra fredda,
quando le due superpotenze
trasferirono quella guerra che
non erano in grado di combattere
l’una contro l’altra all’interno dei
perimetri degli stati africani,
asiatici o sudamericani.Ridefinito
il proprio ruolo politico a livello
internazionale anche in seguito a
quei processi di indipendenza
delle ex colonie, i paesi europei
poterono concentrarsi sul
rapporto tra democrazia e
benessere ponendo le basi per lo
sviluppo del Welfare State. Lo
sviluppo industriale e sociale di
Europa e Stati Uniti aveva
portato le classi lavoratrici a non
poter più essere controllate
secondo i classici mezzi del
paternalismo o della repressione
già durante la belle epoque e
ancor di più dopo la prima guerra
mondiale grazie al
consolidamento e
all’allargamento di quello che
venne chiamato lo "stato del
benessere", le cui radici
affondavano nella Germania
bismarckiana e che conobbe un
ulteriore sviluppo negli anni
Trenta a opera di governi sia
democratici (anche a carattere
conservatore), sia autoritari e
fascisti. Nel trentennio tra il 1945
e il 1975, caratterizzato da una
crescita senza precedenti,
Salvadori vede lo straordinario
processo di elevazione economica
e sociale della società
occidentale, a dimostrazione, tra
l’altro, di come le probabilità di
successo del comunismo
internazionale rispetto al
capitalismo occidentale fossero
pressoché nulle: «i conflitti
politici e sociali, anche i più acuti,
svoltisi nell’Europa occidentale e
guidati dai partiti comunisti e da
una serie di movimenti e
organizzazioni fiancheggiatori,
specie in Italia e Francia, furono
l’espressione di squilibri e disagi,
senza che mai si configurasse un
reale pericolo di rivoluzione.
Pertanto nell’Europa occidentale
la rivoluzione sopravvisse come
un’aspirazione, un mito
ideologico nutrito dai marxisti e
dai radicali di varia corrente. Ma i
rivoluzionari, così ripetendosi ciò
che era già avvenuto nel periodo
tra le due guerre mondiali,
restarono ancora una volta senza
rivoluzione (pag.101)». Se, come
si è detto, le politiche
governative del Welfare ebbero
anche un importante presupposto
politico nella volontà di
contrastare l’influenza del
comunismo sulle masse
lavoratrici, è indubbio che
istituzioni democratiche e
diffusione dello stato sociale
segnarono la chiave del successo
di quel modello, anche se col
tempo il sistema rivelò alcuni
elementi negativi, come il
progressivo aumento del prelievo
fiscale e la necessità di
rinegoziare i patti sociali anche
alla luce di nuove situazioni
emerse nel corso di questo lungo
periodo di benessere sociale (si
pensi soltanto all’innalzamento
dell’età media degli uomini e
delle donne europee o alla
necessità di ridiscutere il sistema
pensionistico).
9. Il consolidarsi di diritti sociali e
la sostanziale stabilità delle
democrazie in gran parte dei
paesi europei rappresentarono gli
elementi capaci di favorire la
costruzione di una struttura
continentale unitaria. Salvadori
mette in evidenza come questo
fondamentale processo di
aggregazione di paesi che per
secoli si erano fronteggiati sullo
scacchiere europeo e mondiale fu
il risultato della capacità
dell'Europa di saper ripartire dal
disastro della seconda guerra
mondiale con una nuova
mentalità e una nuova volontà di
confrontarsi sull'identità del
continente partendo da una
comune base culturale
antifascista, anche se il processo
di integrazione che ne scaturì fu
di tipo economico (funzionalista)
e non politico, come era invece
nelle aspirazioni dei federalisti
europei della prima ora come
Altiero Spinelli. Il crollo
dell’Unione Sovietica ha mutato
profondamente lo scenario
dell’Unione Europea, dinanzi alla
quale si poneva e si pone il
compito di allargare l’Unione
stessa a numerosi altri paesi del
continente, come la Turchia o
quelli già appartenenti alla sfera
di influenza russa. Si è profilato
così alla fine del XX secolo e in
questo inizio di XXI una sfida irta
di difficoltà, legate innanzitutto
alla persistente debolezza e
inadeguatezza dei meccanismi
istituzionali comunitari e, in
secondo luogo, ai problemi posti
dall’inserimento dei paesi
desiderosi di accedervi, ma
ancora molto diversi dai paesi
fondatori per grado di sviluppo
economico e caratteristiche
sociali.Un segnale di queste
difficoltà dell’Unione Europea si è
manifestato rispetto al problema
della cittadinanza. All’interno di
questa questione fondamentale,
Salvadori analizza il processo di
emancipazione femminile nel
corso del Novecento. L’autore
mette in evidenza come la marcia
di progresso dei diritti sociali e di
quelli politici e civili delle donne
abbia avuto la sua scena
principale nei paesi più sviluppati
socialmente ed economicamente,
in particolare sotto la spinta dei
mutamenti socio-culturali degli
anni sessanta e settanta.
Tuttavia anche in Occidente
permangono radicate
disuguaglianze sul piano socio-
economico, accompagnate
sovente dal persistere di
stereotipi e pregiudizi che
rendono diseguale l’inserimento e
l’affermazione della donna in
campi come la politica. Salvadori
non manca di notare come a
differenza della situazione
dell’Occidente, in gran parte del
mondo i processi di
emancipazione femminile siano
andati avanti in maniera alquanto
limitata, sino ad invertire la
direzione come nel caso di
numerosi paesi musulmani, dove
– in concomitanza con l’emergere
di forti movimenti ispirati a una
visione fondamentalista della
religione islamica, contrari alla
laicità dello Stato – le donne
hanno pagato il prezzo maggiore
rimanendo in uno stato di
inferiorità giuridica capace di
giungere sino all’esclusione
dall’istruzione.
10. Rimangono vive, dunque, nel
secolo del progresso tecnico
incessante, le questioni inerenti
la dimensione dell’individuo e il
suo rapportarsi alle
problematiche socio-culturali
della modernità, a partire dal
problema religioso. Salvadori
dedica pagine molto interessanti
all’analisi del processo di
secolarizzazione e di
laicizzazione, diventati tratti
ormai diffusi della società
contemporanea, anche se mette
in evidenza come si sia avuto dal
1945 ad oggi un notevole
risveglio del fondamentalismo,
caratterizzato da un rifiuto palese
della modernità a favore di un
ordine sociopolitico governato da
una presunta legge di Dio
incapace di accettare una
dimensione privata della
religiosità o di qualsiasi forma di
laicismo.Utilizzando la categoria
del "risveglio religioso", l’autore
mette a confronto quello portato
avanti dal cattolicesimo in
seguito al Concilio Vaticano II,
grazie all’ispirazione di pontefici
come Giovanni XXIII o Giovanni
Paolo II, motivato da una
prospettiva di rinnovamento e
aggiornamento specie in campo
sociale e politico (mentre
permangono resistenze e frizioni
in materia di etica e sessualità),
con quello che ha avuto luogo in
alcuni paesi islamici, che ha visto
l’emergere di un
fondamentalismo ispirato alla
suprema missione di abbattere
un mondo visto quale portatore
di intollerabili mali a favore di
una società costruita su basi
religiose in cui la legge dello
Stato coincida con la legge
divina. In virtù di queste
riflessioni Salvadori arriva alla
conclusione che il mito ottimistico
del progresso continuo e illimitato
è definitivamente crollato nel
corso del Novecento. La
conquista di sempre nuove
tecnologie e saperi non hanno
certo diminuito il senso di
angoscia, lo smarrimento e
l’insicurezza di un mondo ancora
diviso da laceranti differenze e
contraddizioni. Sono emersi nuovi
problemi come l’esplosione
demografica, specie delle zone
meno sviluppate, con le
conseguenti ondate di
immigrazione, fonte di problemi
di convivenza di non facile
soluzione, in grado spesso di
suscitare pericolosi rigurgiti
razzisti e xenofobi. Salvadori
riconduce negli ultimi due capitoli
l’analisi su queste problematiche
alla questione della
globalizzazione, «fenomeno dalle
implicazioni non soltanto
economiche, ma anche culturali,
sociali e politiche (pag.150)».
L’autore mette in evidenza come
l’economia dell’epoca della
globalizzazione, in cui il settore
terziario ha acquisito sempre più
rilevanza e nel quale le imprese,
in relazione al rapidissimo
rinnovamento delle tecnologie e
delle forme dell’organizzazione
del lavoro, muoiono e nascono
con un turn-over impensabile
nell’epoca dell’industria
tradizionale, è diventata altresì
un sistema che tende ad
assicurare sempre meno "il
lavoro per la vita", favorendo
l’espulsione degli addetti
"obsoleti" e l’immissione di una
mano d’opera meglio qualificata
alle nuove esigenze.
11.Ma è sulle prospettive socio-
politiche che Salvadori concentra
la sua analisi finale, notando
come dal Novecento l’umanità
abbia avuto un lascito ambiguo,
in cui uno straordinario progresso
scientifico e tecnologico non ha
comportato un parallelo sviluppo
di processi di pacificazione e di
normalizzazione dei rapporti
politici internazionali. Il terribile
attentato terroristico dell’11
settembre 2001 contro le Twin
Towers di New York ha
drammaticamente smentito tutte
quelle teorie sulla "fine della
storia" ispirate dal politologo
Francis Fukuyama che avevano
riscosso grandi successi durante
gli anni novanta. La necessità di
una cultura politica delle regole,
che si manifesti nella esigenza di
garantire la pluralità e la
trasparenza nei mezzi di
comunicazione di massa (non a
caso l’autore richiama nell’ultimo
capitolo del libro le riflessioni
critiche di politologi come Robert
Dahl sulla necessità di
un’informazione pluralista e
indipendente dal potere politico-
economico in grado di garantire
lo sviluppo democratico del
processo decisionale dei
cittadini), oltre che nella capacità
di evitare che le differenze tra gli
Stati in materia di sviluppo
economico e tecnologico possano
riportare a idee di superiorità o di
necessaria supremazia mondiale,
rappresentano per Salvadori
alcune delle principali sfide che si
pongono dinanzi all’umanità del
XXI secolo.Il pericolo di
omologazioni in grado di
cancellare le specificità culturali
resta uno dei problemi
fondamentali del governo del
mondo a cui nessuna
organizzazione statuale può
pensare di dare da sola la
risposta decisiva, in un momento
in cui lo Stato nazionale
attraversa una delle sue più gravi
crisi. Per lo storico torinese «dire
globalizzazione significa
largamente dire
americanizzazione e
occidentalizzazione del mondo,
che è quindi un villaggio globale
posto sotto la tutela dei paesi più
ricchi e orientato in primo luogo a
sostenerne gli interessi
(pag.150)», circostanza che pone
il problema drammaticamente
attuale dei limiti e delle
competenze degli Stati Uniti in
relazione al ruolo di organismi
mondiali come l’ONU o
superstatuali come l’Unione
Europea. La sfida per l’autore è
quella tra una società
assoggettata al mercato
globalizzato e un mercato
regolato e controllato dalla
politica e da istituzioni espresse
con procedure democratiche.
Scrive in conclusione Salvadori
che «a questi modelli dell’agire
politico fa contrasto la cultura
politica la quale unisce la
prudenza critica al coraggio che
si nutre del senso del possibile e
del limite, il diritto degli individui
e dei gruppi a essere liberi, alla
solidarietà attiva che sola
consente alle persone e ai paesi
meno fortunati di acquisire le
risorse materiali e culturali senza
cui non è dato entrare nel circolo
della vita civile. [...] L’ordine e il
disordine internazionale
dipendono e dipenderanno senza
via di fuga dalle risposte date alle
grandi divisioni e alle enormi
disuguaglianze in termini di
potere, di cultura e di reddito che
continuano a dominare la nostra
comune esistenza (pag. 174)».
12. Questo volume pone di fronte
alla consapevolezza che il
problema Novecento e il rapporto
fra memoria individuale e
rappresentazione collettiva è
destinato ad interessare ancora e
a lungo il dibattito tra gli storici.
La prospettiva analitica
dell’autore e l’importanza
assegnata alla crisi della
centralità europea nella sua
analisi pongono interrogativi sul
futuro di una storiografia che
voglia riflettere sul secolo appena
trascorso. Sarà necessario, come
già è stato fatto in opere recenti,
spostare l’attenzione su una
storia sempre più extraeuropea
che privilegi l’approfondimento
delle dinamiche relazionali tra
centro e periferie del mondo?
Un’opzione sicuramente
stimolante, che pone peraltro
alcuni interrogativi non soltanto
in senso epistemologico, ma
anche, ad esempio, dal punto di
vista della didattica.
L’introduzione della storia del
Novecento nell’ultimo anno della
scuola secondaria superiore ha
posto all’attenzione generale il
problema dell’insegnamento della
contemporaneità. Sembra
dunque lecito chiedersi in che
modo sia possibile introdurre lo
studio della storia del ′900
partendo da una dimensione
mondiale in una scuola come
quella italiana che raramente
riesce a superare la prospettiva
nazionale, giungendo al massimo
a lambire quella europea. Così
come è evidente che una
prospettiva simile presupponga
un cambiamento anche sul piano
della metodologia, con la
necessità che alla storia si
affianchino discipline come
l’antropologia e la sociologia,
l’economia, la letteratura e la
cultura popolare e, di
conseguenza, un numero ancora
più vasto di fonti che necessitano
di uno studio attento e di una
profonda capacità critica.

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