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• PROFILO

1. LA GRAMMATICA
1.1 DEFINIZIONE E DESTINATARI
2. FONOLOGIA
2.1 ACCENTO
2.2 ORTOGRAFIA
2.3 MAIUSCOLE
2.4 DEL RADDOPPIARE LE CONSONANTI
2.5 DITTONGO MOBILE
2.6 TRONCAMENTI E ACCRESCITIVI
2.7 APOSTROFO
2.8 DIVIDERE LE PAROLE IN FIN DI RIGA
3. MORFOLOGIA
3.1 NOME
3.1.1 NUMERO
3.1.2 GENERE
3.2 ARTICOLI
3.3 AGGETTIVI
3.4.1 COMPARATIVI
3.4.2 SUPERLATIVI
3.4 PRONOMI
3.5 PREPOSIZIONI
3.6 AVVERBI
3.7 CONGIUNZIONI
3.8 VERBO
3.8.1 PERSONA, NUMERO E TEMPO
3.9 RADICALE E DESINENZA
3.10 VERBI AUSILIARI
3.11 VERBI IRREGOLARI
3.12 PASSATO CONTEMPORANEO
3.13 GERUNDIO

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4. SINTASSI
4.1 PROPOSIZIONI
4.2 SOGGETTO
4.3 INTERPUNZIONE
4.4 ATTIBUTO
4.5 VERBI OGGETTIVI - VERBI SOGGETTIVI
4.6 MODI ASSOLUTI
4.7 MODO CONGIUNTIVI
4.8 MODO INDEFINITO

LA GRAMMATICA RAGIONATA DELLA LINGUA ITALIANA

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CAPITOLO 1
LA GRAMMATICA

La grammatica, è un insieme di regole che permettono di scrivere e


parlare in maniera soddisfacente e competente.
Secondo l’autore, non basta il voler fare: bisogna l’arte, cioè il saper
fare, così per scrivere come per il saper parlare, o per la musica, per ogni
cosa.
D’altronde l’arte non si ottiene senza studio.
Inizialmente i bambini sentono le voci altrui e poco alla volta,
provando e riprovando, la gola, le labbra, la lingua, si abituano a proferir le
parole sentite, cominciando da mamma, papà, pappa, eccetera; le quali oltre
ad essere le cose più facili sono le cose che vedi più spesso, che intendi
meglio, che desideri di più.
<< Attraverso l’esercizio la lingua diventa più spedita, l’intelletto
conosce tante cose, e riesce a nominarle, distinguerle, confrontarle >>.
Secondo Poggi, aiutati dall’esempio, cognizione e dall’esercizio, le facoltà si
allargano; acquisendo di giorno in giorno maggiore abilità. << Quindi per
poter parlare bene bisogna prima ragionare bene, attraverso la mente >>.
Complessivamente, per imparare un’arte secondo l’autore ci vuole
l’esempio, le cognizioni, le regole e l’esercizio.
E in sostanza, l’esempio “non è altro che il vedere e sentire quel che
gli altri fanno”. ( pag. 7 )
La cognizione, “il conoscere ciò che dobbiamo fare”. ( pag. 7 )
Le regole, “il sapere cosa dobbiamo fare”. ( pag. 7 )
L’esercizio, “il provarle a fare”. ( pag. 8 )
Con queste qualità e con il passare del tempo, acquisiremo, l’abilità,
ovvero “la capacità di fare”. ( pag. 8 )

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Sottolineando che senza le regole non saremo sicuri se vada bene o
male il nostro dir a quel modo, non riusciremmo ad intendere il perché.
Dunque Poggi sostiene che per andar sicuri e risparmiar tempo,
conviene saper << la Grammatica; ovvero tutto l’insieme delle regole che
rendono sicuri di parlare e scrivere correttamente >>.

CAPITOLO 2
FONOLOGIA.

2.1 Accento.
Per l’ autore il segno dell’accento finale viene posto:
1. “In tutte le parole tronche che terminano in vocale”.
2. “Nei monosillabi che terminano in dittongo, eccetto qua e qui”.
3. “Nella terza persona singolare indicativo dei verbi composti da fare e
stare”.
4. A distinguere è verbo da e congiunzione
dà verbo da preposizione
dì nome di preposizione
là avverbio la articolo
li avverbio lì articolo
né congiunzione ne pronome
sé pronome se congiunzione
si avverbio si pronome
sù avverbio su preposizione

5. L’autore mostra, che il segno dell’accento su la terzultima sillaba su le


parole sdrucciole in modo tale d’attribuire un significato diverso alla stessa
parola.

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Per esempio:
àncora nome ancora avverbio
bàcino verbo bacino nome
càpitano verbo capitano nome
dèstino verbo destino nome
pànico aggettivo panico nome.

“Se l’accento va sull’ultima vocale come in stracciò, quella parola si


chiama tronca;
Se invece cade sulla penultima sillaba come in Carlino, la parola si
chiama piana;
Se l’accento cade sull’antipenultima, come abito, rapido, fabbrica,
ecc, la parola si chiama sdrucciola; Ed infine se cade nella quartultima,
come regolino, obblighino, ecc, la parola si chiama bisdrucciola.” ( pag. 10 )

2.2 Ortografia.
L’autore nota che, l’ortografia sta per saper scrivere; e tutto questo
comprende: la capacità di rappresentare le parole con le necessarie lettere, il
fornire al bisogno l’apostrofo o l’accento, la capacità di divedere
convenientemente le sillabe, e la maestria di utilizzare una giusta punteggiatura
per poter dettare i tempi in maniera idonea. ( pag. 172 )

2.3 Maiuscole.
L’autore sottolinea che le parole che iniziano in maiuscolo sono:

1. Ogni parola che inizia un periodo;


2. Ogni nome proprio o cognome;
3. Ogni nome comune quando è in figura di nome proprio, o in posizione di
soggetto;
4. Ogni aggettivo di persona quando è posto come nome proprio;
5. La prima parola di un detto o sentenza altrui che riportiamo;
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6. La prima parola d’ogni verso in poesia. ( pag. 172 – 173 )

2.4 Del raddoppiare le consonanti.

<< Entrano spesso a comporre parole nuove certe preposizioni, alcune delle
quali sono dette “separabili” perché potrebbero stare anche da sé, altre sono
“inseparabili”, ovvero si trovano in composizione, ma non mai da sole, perché in tal
caso non avrebbero senso o l’avrebbero diverso >>.
Questo sono: dis, co, sub, ob, ri, re.
Le preposizioni separabili a, da, contra, sopra, fra, entrano in composizione,
raddoppiando la consonante successiva, qualunque essa sia.
Per esempio:
a e correre formano accorrere
Da poco dappoco
Contra segno contrassegno
Sopra tutto soprattutto
Fra tempo frattempo

Inoltre la proposizione tra raddoppia la t in trattenere e trattenimento.


Riguardo alle inseparabili ricordiamo che con ed in diventano co e i innanzi ad
l,m,r, e le raddoppiano: Collaudare, commiserazione, correggere, illuminato,
irrompere, ec.
Ancora la preposizione inseparabile ra vuole sempre il raddoppiamento
della consonante che la segue: Raccogliere, rapporto, rassegnato.
Portano raddoppiamento anche i verbi è, fa, sta, fu, dà, e tutte le parole sillabe
con l’accento sull’ultima. Per esempio: Fammi, dalle, dimmi, evvi, perciocche,
ec.

2.5 Dittongo mobile.


Vi sono parole dove è presente il dittongo uo: per esempio: muovere. E qui
l’ autore indica che non c’è niente di particolare, ma se partisse l’accento,
sparisce il dittongo, perdendo l’u. Per esempio: muòvo, muòvi, moviàmo, muòve,
ecc.

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Anche il dittongo ie per lo più è soggetto a questa regola. Infatti si utilizza, per
esempio: sièdo, sièdi, siède, piède, mièle, quiète, ecc.

2.6 Troncamenti e accrescitivi.


Per dolcezza e speditezza di pronuncia a volte si tronca nella fine di una
parola una vocale o tutta una sillaba. Per esempio: amor, star, fuggian, diè, gran
(per grande), bè (per belli), ec.
“E’ importante che non tronchiamo mai una vocale che cade in un punto o
in una virgola, o altro segno di punteggiatura”.

2.7 Apostrofo.
Oltre a quello che sappiamo sull’apostrofo, l’autore sottolinea che è importante
sapere che:
1. La preposizione da non si apostrofa mai, solo nel caso in cui e seguita da
un’altra a: per esempio: da affittare, non d’affittare.
2. Come non si può troncare, cosi né apostrofare una parola davanti a qualche
segno di punteggiatura.
3. Non si apostrofano e ne si troncano, parole che terminano in dittongo, né
accentate sull’ultima, né monosillabe, eccetto lo, di.
4. Si troncano, ma non si possono apostrofare gl’indefiniti dei verbi, amor,
finir, dover, ec.;
5. Si apostrofano gli imperativi và, fa, stà, dà, di.

2.8 Dividere le parole in fin di riga.


L’autore afferma che quando alla fine della riga e la parola non c’entra
intera; per rispettare l’ortografia non dobbiamo rompere la sillaba, e non
dimenticare di mettere il segno -. ( pag.177)
Le regole da seguire sono:

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1. Le vocali possono separarsi purchè non facciano dittongo: Tra-endo, ma-
estro, Lu-igi, e non giu-oco, bu-ono, pi-anta.
2. La consonante sola fra due vocali fa sillaba con la vocale seguente: Ma-
te-ria, pa-ro-la.
3. Le doppie consonanti devono separarsi: Bat-tere, strap-pare.
4. Due consonati diverse vanno una con la vocale che la precede e l’altra
con quella che la segue: An-tonio, par-tire, in-terno.
5. Le parole composte, la cui prima parte sia un avverbio o una
preposizione, separabile o no, sarà bene dividerle secondo la loro composizione:
Mal-contento, in-esatto, tras-curare.
6. Non possiamo lasciare in fin di riga l’apostrofo, ma portiamo quella
lettera o sillaba alla riga seguente: An-ch’io, quan-d’era.

CAPITOLO 3
MORFOLOGIA

Ulisse Poggi sostiene che da sempre si sono svolti e si svolgo studi


sopra la definizione di parola, sancendo diversi valori semantici sopra questo
termine; E crede che si dovrebbe definire parola, tutto ciò che si trova tra due
spazi bianchi, oppure che la parola è quell’insieme di sillabe che unendole si
ottiene un significato dato arbitrariamente in tempi molto remoti (eccetto i
neologismi).
Curiosamente l’autore tratta, nel capitolo della morfologia, aspetti che
oggi giorno sono ricordati come aspetti della sintassi.

3.1 Nome.

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Con sicurezza l’autore mostra che tra le varie parole vi è la categoria
dei nomi, che appunto hanno il privilegio di attribuire il significato a qualche
cosa.
<< Quindi le parole che significano qualche cosa si chiamano nomi
>>. Dunque Daniele è un nome, muro è un nome, monte lo è anche.

3.1.1 Numero.
Quando il nome significa solo una cosa il nome si dice singolare, di
conseguenza se vuol dire più cose il nome sarà plurale.

3.1.2 Genere.
L’autore inoltre evidenzia che, zio, monte, cavallo, sono nomi
maschili, mentre zia, donna, casa, sono classificati come nomi femminili.
Riepilogando: la differenza tra singolare e plurale si chiama differenza
di numero, quella dal maschile al femminile è invece differenza di genere.

3.2 Articoli.
Quasi sempre all’interno di una proposizione vi è la presenza di alcune
parole, chiamate articoli. ( pag. 28 )
Queste parole hanno una molteplice funzione all’interno del discorso;
Infatti, permettono di riconoscere a priori se il nome è maschile o femminile,
singolare o plurale.
Hanno, inoltre, anche la virtù d’attribuire un significato differente al
sostantivo.
Ovvero, servono a conferire un’identità al sostantivo, diversa da quella
comune; “L’articolo serve dunque a determinare, cioè a mettere in certi
confini il significato generale”. ( pag. 30 )
Le parole come: il, lo, questo, cotesto, quello, servono a determinare e
si chiamano articoli determinativi; le parole uno, qualche, qualunque,

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alcuno ed altre simili servono a non determinare e si chiamano articoli
indeterminativi. Entrambi rispondono alla domanda quale? o quali? cosi
dicendo anche quanto? o quanti? saranno articoli, quest’ultimi vengono
ricordati come articoli quantitativi.
Poggi sottolinea che anche stesso, medesimo, tale, altro, primo,
secondo, ec., sono articoli.

3.3 Aggettivi.
Se dunque vi sono parole che servono a significare le cose, bisognerà
che ve ne siano altre per significare la qualità.
<< Le parole che significano le qualità delle cose si chiamano
aggettivi o aggiuntivi, cioè parole che si aggiungono ai nomi >>.
Cosi lungo, corto, bello, brutto, veloce, duro, morbido, leggero, sono
aggettivi, e sono qualità che possono, secondo i casi, adattarsi a qualunque
nome. ( pag. 45 )
Poiché l’aggettivo è una parola che si aggiunge al nome per segnalare
una sua qualità, l’autore ci mette allerta, perché se il nome è maschile,
l’aggettivo deve essere maschile e viceversa nel caso che la qualità è riferita
ad un nome femminile; e se il nome è singolare, tal sarà anche per
l’aggettivo; e cosi al contrario.

3.3.1 Comparativi.
I comparativi, sono quelle parole che permettono di paragonare due o
più qualità; ( pag. 49 )
Quindi avviene una comparazione sottoposta agli aggettivi; es.
Daniele è tanto spavaldo quanto insicuro.
L’autore note che spesso siamo dinanzi a parole come tanto, quanto,
che non si differenziano molto da termini come, cosi….come,

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quanto….altrettanto, e tutti questi sono alcuni esempi dei cosiddetti
“comparativi d’eguaglianza”. ( pag. 49 )
Poggi indica anche i “comparativi di differenza”, dove una qualità è
giudicata minore o maggiore rispetto a l’altra; es. Ormai Saro è più
orgoglioso che pauroso.

3.3.2 Superlativi.
“Per significare una qualità in grado altissimo (o bassissimo, secondo i
casi), si fa che l’aggettivo diventi superlativo; e ciò avviene mutando la sua
desinenza in –issimo”. ( pag. 51 )
Cosi bravissimo vale molto più che bravo, bianchissimo molto più che
bianco, e via dicendo.
Ma questa regola non vale per tutti i superlativi, infatti in alcuni si
aggiunge –errimo, come integerrimo, acerrimo, celeberrimo, ec.
Altri invece possono fare a meno delle desinenze, cosi ugualmente si
può usare ottimo per buonissimo, pessimo per cattivissimo, massimo per
grandissimo.

3.4 Pronomi.
I pronomi sono “paroline” che sostituiscono il nome in un discorso o
in una proposizione. Parole come io, tu, noi, voi, tenendo luogo del nome,
sono appunto alcuni esempi di pronomi, e poiché rappresentano persone
sono detti pronomi personali. “ La persona che parla è detta in grammatica
persona prima; quella a cui si parla, persona seconda”. Non di meno si
chiamano pronomi di persona terza qualunque pronome che rappresenti ciò
di cui si parla; egli, ella, colui, colei, esso, essa, questi, ecc, sono tutti
pronomi di terza persona.
Vi sono pronomi che mutano forma, non solo dal singolare al plurale e
dal maschile al femminile, ma anche secondo come si trovano posti nel

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discorso. Per esempio: tu sei contendo di me, io sono pazzo di te, potremmo
usare: te sei contendo di io, me sono pazzo di tu? Gli ultimi due esempi non
sono classificabili come frasi corrette perché l’uso dei pronomi non avviene
in maniera appropriata.

3.5 Preposizioni.
Noi andremo a Catania.
L’autore illustra che tra il verbo “andremo”, che di sua natura è
soggettivo, e il nome “ Catania” , c’è una parola, “a”: se la togliessimo, ci
fa notare Poggi, che non c’è più relazione sia tra l’idea di “andare” e quella
di “Catania”.
“Questa non è dunque una relazione diretta, come tra un verbo e il suo
oggetto: in tal caso non ci occorrerebbe questo intramezzo; Ma si è di fronte
ad una relazione indiretta, infatti l’azione di andare è tutta in noi, e non si
esercita sopra Catania, che non è altro un oggetto indiretto”.
Per non sbagliare si deve tenere ben chiaro in mente, che quando vi è
la presenza di un oggetto indiretto, dipende sempre da una di queste parole:
di, a, da, in, per, con, senza, su, tra, per, verso, sotto, circa, presso, ed altre
simili, tutte questi parole sono classificate come preposizioni, che “ci
permettono di mostrare la relazione tra le parole o per meglio tra le idee”.

3.6 Avverbi.
Come sappiamo la maggior parte dei verbi, significa, oltre alla
esistenza, anche un’azione, o condizione, o qualità del soggetto.
Ma del termine conviene a volte dire anche il quando, il come, il
quanto, il dove; o confermarla, o negarla, o metterla in dubbio; conviene
insomma, modificare il significato del verbo.
Queste parole che posseggono questa caratteristica sono dette
comunemente avverbi.

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Per capirci meglio:
Avverbi
-Noi torniamo (quando?) “adesso”
-Ci riposiamo (dove?) “ qui”
-Abbiam goduto (quanto?) “molto”
-Siamo andati (come?) “piano”

Le parole si giudicano come gli uomini, ovvero dalle azioni e non dall’aspetto.
L’aggettivo e l’articolo s’accordano con il nome; l’avverbio invece modifica il
verbo o l’aggettivo, ed è invariabile.
Potremmo dire che gli avverbi potrebbero essere definiti anche aggettivi degli
aggettivi, visto che compiono, modificano, affermano o negano il significato
dell’aggettivo verbale e non.
Può essere che un avverbio può modificare un altro:
es. Tu stai poco bene.
Abbiamo tra l’altro:
Avverbi di tempo: oggi,ora, presto, mai, sempre, prima, dopo, subito, ec.
>> di modo: bene, male, volentieri, dolcemente, certamente, cosi, come, ec.
>> di qualità: molto, poco, punto, affatto, più, meno, circa, ec.
>> di luogo: qui, là, dentro, fuori, lontano, vicino, ec.
>> di confermazione: certo, appunto, si, ec.
>> di negazione: non, no.
>> di incertezza: forse, probabilmente ec.
Abbiamo anche avverbi che sono posti in maniera comparativa; Quindi se
troviamo meglio, peggio, e tutte quelle forme comparative che si possono
aggiungere a certi avverbi come le parole: altrettanto, come, quanto, più, meno,
ec. (avverbi comparativi), che sono anch’essi, come notiamo, avverbi.

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Ci sono anche gli avverbi superlativi, come prestissimo, benissimo,
ottimamente, malissimo, pessimamente, moltissimo, ec. Ed alcuni diminutivi e
accrescitivi, come maluccio, benone, prestino, pochetto.
Inoltre non tutti gli avverbi sono composti da una sola parola.
Per es, a poco a poco, alla lunga, in breve, per tempo, alla peggio, di subito, a
piede, a posta, a caso, d’allora in poi, da qui innanzi, ec, si chiama avverbi
composti o locuzioni avverbiali; alcune delle quali si possono scrivere pure
tutto in un unico pezzo, come apposta, abbastanza, ec.

3.7 Congiunzioni.
Talvolta quando sentiamo un bimbo manifestare i propri pensieri, ci accorgiamo
che le varie proposizioni, vengono espulse a singhiozzi, l’una non collegata
all’altra, questo perché il bimbo non è ancora in grado di far uso delle
congiunzioni, che non sono indispensabili a manifestare i nostri pensieri, ma
utilissime, a collegare le diverse proposizioni. Tali sappiamo che sono e, però,
che, dunque, perché, pertanto, anche, poiché, giacchè, ecc.
La più utilizzata congiunzione è la parola e, pronunciata in maniera stretta e
scritta senza accento per differenziarla da è verbo; la quale diventa ed per
dolcezza di suono quando è seguita da una vocale. Vediamo per esempio:
Impegnati a studiare, ed ella ti promuoverà.
Lasciati andare, ed egli ti accetterà.
Capita che la congiunzione non collega due proposizioni compiute ma due o più
nomi o pronomi, due o più verbi, o aggettivi, od avverbi: ad ogni modo, sempre
collega i pensieri.
Alcune congiunzioni collegano e insieme oppongono l’uno all’altro pensiero: per
es.: Un gatto è un gatto, ma non è sempre fedele. Altre congiunzioni non sono da
meno, benché, qualunque, ancorchè, eppure, nonostante, ec. Talune collegano
indicando scelta, come o, ovvero, ossia, oppure; per es.: Dolcezza mia, o ti amo
o t’ammazzo. Altre congiunzioni ci servono per indicare desideri, dubbi,

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condizioni, come se, purchè; per es.: Va piano se vuoi arrivare sano. Ancora
.altre per le negazioni, come né, neppure, nemmeno, ec. Altre spiegazioni, come
cioè; altre prova o dimostrazione, come infatti; altre conclusione, come dunque;
altre un intento, come affinché.
In definitiva dobbiamo tener bene in mente che le congiunzioni sono tutte quelle
parole, semplici o composte, che legano assieme i pensieri parlanti.
Abbiamo detto semplici o composte; ed è vero e facile notare che molte sono un
insieme di più parole: perché, benché, pertanto, poiché, nemmeno, infatti, ec.

3.8 Verbo.
Tra i principi fondamentali della grammatica, non possiamo non avere ben
chiaro in mente cosa sono i verbi.
Il verbo cos’è? Quando e perché viene utilizzato?
Il verbo è la parola per eccellenza. La sua esistenza semplice o
modificata, indica l’affermazione del pensiero ed unisce il soggetto
all’attributo.
Nel verbo conviene sempre considerare la persona, il numero, il
tempo, il modo e la coniugazione. Le persone del verbo sono tre, prima,
seconda e terza.
Con esso rappresentiamo un termine importantissimo, che senza di
esso il discorso non avrebbe conclusione, perché non si capirebbe il pensiero
di chi parla.
Riepilogando tutte quelle parole, senza le quali non si può dire il
nostro pensiero, perché appunto significano essere, o avere, o fare qualche
cosa, si chiamano verbi.
Quindi riposa, andare, dormire, nuotare, avere, tenere sono verbi.

3.8.1 Persona, tempo e numero.

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Com’è noto, essere è un verbo, e il suo tempo è infinito, ma dobbiamo
saper coniugarlo in base alla persona e al numero e appunto al tempo, in
riferimento al sintagma dove è collocato.
Infatti se odiamo dire essere contento e\o io essere contento, sarebbe un
parlare in certo, un modo indefinito. Scriveremo piuttosto io sono contento, e se
mi riferisse a te, direi tu sei contento, e ancora ad un terzo, direi egli è contento.
E cosi, di noi tre insieme direi, noi siamo contenti.
Notiamo che quella parola essere ha mutato forma secondo il pronome
personale, con cui si accompagnava. E cosi funziona per tutti i verbi: tutti
mutano forma secondo che si vuol parlare della prima, della seconda o della
terza persona.
Inoltre dobbiamo tenere sempre ben chiaro che mutando il numero, cioè
dal singolare al plurale, il verbo deve essere modificato.

SINGOLARE
Persona 1* io sono contento
2* tu sei contento
3* egli è contento

PLURALE
Persona 1* noi siamo contenti
2* voi siete contenti
3* eglino sono contenti

Invece di dire io sono contento, potremmo dire io ho contentezza.


Useremmo il verbo avere a discapito del verbo essere.

SINGOLARE

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Persona 1* io ho contentezza
2* tu hai contentezza
3* egli ha contentezza

PLURALE
Persona 1* noi abbiamo contentezza
2* voi avete contentezza
3* eglino hanno contentezza

Sottolineiamo il fatto che ho, ha, hai, hanno, si scrivono coll’h, ma


l’aggiunta di questa consonante non muta il suono, serve solo a distinguere per
iscritto queste voci da o, ai, a, anno, che sono parole di un’altra categoria.
Le forme di tempo presente dei verbi essere e avere sono quelle che abbiamo
steso qui sopra. Vediamo ora quelle del passato.

SINGOLARE
Persona 1* io fui contento
2* tu fosti contento
3* egli fu contento

PLURALE
Persona 1* noi fummo contenti
2* voi foste contenti
3* eglino furono contenti

Adesso con il verbo avere.

SINGOLARE
Persona 1* io ebbi contentezza

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2* tu avesti contentezza
3* egli ebbe contentezza

PLURALE
Persona 1* noi avemmo contentezza
2* voi aveste contentezza
3* eglino ebbero contentezza

Ora vediamo le forme del verbo al futuro:

SINGOLARE
Persona 1* io sarò contento
2* tu sarai contento
3* egli sarà contento

PLURALE
Persona 1* noi saremo contenti
2* voi sarete contenti
3* eglino saranno contenti

Con il verbo avere:

SINGOLARE
Persona 1* io avrò contentezza
2* tu avrai contentezza
3* egli avrà contentezza

PLURALE
Persona 1* noi avremo contentezza

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2* voi avrete contentezza
3* eglino avranno contentezza

3.9 Radicale e desinenza.


Osserviamo che il nome che si dà per metafora, come per esempio è
respir di respiro, è la parte del verbo che porge il succo, il significato sostanziale
a tutte le forme del verbo, inoltre aggiungiamo che respir rimane invariato ed è
denominato radicale.

3.10 Verbi irregolari.


Notiamo inoltre che vi sono i verbi regolari, dove il radicale è fisso e
indispensabile, e i verbi irregolari, come il tempo essere e avere, dove in base il
tempo non solo pigliano diversa desinenza, ma spesso mutano anche il radicale.

3.11 Verbi ausiliari.


Inoltre osserviamo che senza il verbo avere o essere possiamo coniugare il
verbo al passato remoto, come per esempio io sono stato, dove il verbo essere
come ben si nota è irregolare e soprattutto è ricordato come un ausiliare (perché
aiutano), mentre l’altra parola non muta secondo la persona, ma secondo il
genere e il numero.

3.12 Passato contemporaneo.


Ci capita di comporre proposizioni dove si esprime un pensiero su una
cosa che ora è passata, ma che era presente insieme con un’altra, che è passata
anch’essa, questo è il passato contemporaneo; i tifosi incitavano i giocatori a
fare gol, tu stavi bene quando eri con lei, tu eri raffreddato quando eri al mare,
questi sono alcuni esempi del su citato passato contemporaneo.

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Quindi questo tempo non è di modo assoluto, ma di modo relativo, cioè significa
che l’azione o il modo di essere si riferisce ad un altro. In questo modo
appartengono anche il trapassato, il passato perfetto, e il futuro perfetto.

TRAPASSATO
singolare
io ero stato
tu eri stato
egli era stato
plurale
noi eravamo stati
voi eravate stati
eglino erano stati

Si dice trapassato perché si usa quando parliamo di una cosa già finita nello
stesso tempo che ne accade un’altra. Per esempio: Io ero stanco quando Manuele
era venuto, quando andammo in Sicilia tu avevi compiuto i diciotto anni.

PASSATO PERFETTO
singolare
io fui stato
tu fosti stato
egli fu stato
plurale
noi fummo stati
voi foste stati
eglino furono stati

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Questo tempo si dice passato perfetto, perché si adopera quando si parla di una
cosa finita, prima che un’altra incomincia. Per esempio: Com’ebbi udito,
abbagliare, balzai alla finestra, ma il cane, poiché ebbe riconosciuto il capoccia,
si tacque e cominciò a fargli festa.

FUTURO PERFETTO
singolare
io sarò stato
tu sarai stato
egli sarà stato
plurale
noi saremo stati
voi sarete stati
eglino saranno stati

Si chiama futuro perfetto perché si parla di una cosa che sarà già fatta e finita in
un tempo che ora è futuro. Per esempio: Prima di venire a dormi il buon giorno,
avrai adorato il Signore, allorché saremo stati in Germania, sia tua cura munirti
delle cartine topografiche.
Cosi abbiamo elencato i diversi tipi di modo relativo.

3.13 Il gerundio.
Tra le varie forme che un verbo può assumere, non possiamo dimenticarci del
gerundio; che è la forma del verbo la quale finisce in ando per la prima
coniugazione, in endo per le altre.

presente
essendo respirando avendo credendo
temendo sentendo

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passato
essendo stato avendo avuto

Analizziamo alcuni esempi:


Studiando, ti procurerai vera nobiltà.
Studiando, io fo il mio dovere e il mio bene.
Studiando, molti divennero eccellenti.
Se leviamo da ciascuna proposizione i verbi di Modo indipendenti, come ti
procurerai, fo, divennero, ec.,il senso non regge. Dunque il gerundio, a buon
conto, è un Modo dipendente.
Inoltre notiamo che noi abbiamo sempre detto dormendo o avendo dormito,
incondizionatamente dalla persona e dal tempo e numero del verbo da cui il
gerundio dipendeva. Dunque il gerundio è un modo dipendente invariabile.

CAPITOLO 4
LA SINTASSI

Dobbiamo sapere che il giusto e chiaro ordine che diamo alle parole
presenti in una proposizione e chiamata sintassi o costruzione.
Parlare senza sintassi non è parlare, poiché non manifestiamo il nostro reale
pensiero. Quando componiamo una sintassi esatta, abbiamo posto le parole
secondo l’ordine degli elementi della proposizione.
Nella grammatica italiana la sintassi standard è formata ( in ordine ) dal soggetto,
verbo, oggetto; con sigla S.V.O.
Capita di usare una sintassi libera e spontanea, con risultati non sempre esaustivi;
e per tanto possiamo incombere in tre tipi di errori:

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OSCURITà: Quando il discorso è difficile da capire; per es.: Da Giuseppe il
cameriere trafugato invece un fiasco trova un suo paniere in ogni lato ricercato
l’Emma.
AMBIGUITA’: Si ha quando otteniamo diversi valori semantici; per es.: Ha
trovato per la via Lorenzino senza scarpe ne giubbone uno straccione. Qui ci
chiediamo se è Lorenzo che trova l’altro, o al contrario? e quale dei due era
senza scarpe e giubbone?
STENTO: L’abbiamo quando la sintassi pur essendo ben chiara, manca di
naturalezza; per es.: Da una birba una sassata andando a spasso Emilio ebbe,
qui il discorso sembra tirato con le tenaglie.

4.1 Proposizione
Ogni pensiero manifestato con parole si chiama proposizione.
Il verbo dunque è la parola chiave che sostiene la proposizione: se
pensassimo a quanti verbi ci siano in un discorso, noteremmo che le
proposizioni hanno la stessa frequenza del verbo, quindi non vi esiste una
proposizione senza verbo.
Chi parla, prima a pensato a qualche cosa: è manifesta dunque il suo
pensiero in parole, e in questo determinato caso utilizza almeno due termini:
una per dire la cosa di cui pensa ( e questo è il nome); l’altra per dire quel
che se ne pensa ( e questo è il verbo).
Quel nome, o altro che sia, che nella proposizione sta a rappresentare
la cosa a cui si pensa, si chiama appunto il soggetto della proposizione.

4.2 Soggetto
Ogni pensiero che avviene nella nostra testa che poi manifestiamo
parlando, ha un nome principale che si chiama il soggetto. I pronomi io, tu,
egli, ella, rappresentano la persona o la cosa che appunto viene chiamata
soggetto. Fuori dal soggetto, si adopera me, te, lui, lei, loro.

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4.3 Interpunzione
Entrando nello specifico, diamo un’occhiata a ciò che sono i segni
d’interpunzione.
Sono certo che quando ci troviamo a cospetto di una virgola (,)
facciamo una piccola pausa; una maggiore se ci fossimo trovati il punto e
virgola (;) e ancor più lunga con i due punti (:) e una fermata addirittura,
quando giungiamo al punto fermo (.)
Cosi sappiamo quel che valga il punto d’interrogazione (?) e quello
d’esclamazione (!) e i puntini di sospensione (…)
E se vediamo una parola con quella specie di virgolina alta, siamo
davanti all’apostrofo, e notiamo che da quella parola è stata levata l’ultima
vocale.
Quando parliamo di punteggiatura, comprendiamo:
La virgola; che si pone:
1. Tra l’una e l’altra proposizione di un medesimo membro del
periodo.
2. Tra l’uno e l’altro elemento simile nelle proposizioni composte
3. Prima e dopo del vocativo
4. Prima e dopo un inciso.

Punto e virgola; La usiamo per distinguere i membri di un periodo.


Due punti: Vengono posti quando ciò che segue sia una dichiarazione o
comparazione del precedente pensiero.
Punto fermo. Serve per porre fine ad un periodo o sentimento compiuto.
Punto interrogativo? Si mette alla fine di una domanda.
Punto esclamativo! Si pone in fine delle proposizione di meraviglia, sorpresa,
dolore, timore o altro.
Puntini… Significano interruzione o sospensione del discorso.

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Parentesi ( ) Si usano per comprendere in sé gl’incisi, soprattutto quando sono
lunghi.
Virgolette >> Contrassegnano ciò che è stato preso da un altro autore, o che va
distinto dalla rimanente scrittura.

4.4 Attributo.
Il verbo semplice “essere” è il fondamento d’ogni discorso: ma non avviene
quasi mai che noi ci contentiamo di affermare che un soggetto è, o non è, senza
dire altro: quasi sempre diciamo anche come egli è. Per es. Daniele è stupido,
Simona è fedele, ec. La qualità, il modo d’essere, che nel nostro pensiero si
attribuisce al soggetto, si chiama l’attributo.

4.5 “Verbi oggettivi” – “Verbi soggettivi”.


Se parliamo di Catania e non altro, scaturisce che abbiamo in mente la città,
e niente di più. Se aggiungessimo “è”, manifestiamo che abbiamo l’idea del
suo essere, e niente più. Per far intendere ciò che pensiamo riguardo al
soggetto ( Catania ), ovvero il modo d’essere, che qualità le attribuiamo,
bisogna che noi mettiamo l’attributo.
Cosi nella proposizione saranno tre le parti, come nel pensiero dentro
di noi erano tre l’idee: soggetto, verbo semplice e attributo; chiamati termini
della proposizione.
Tutti i verbi fuori di “essere” hanno l’attributo in sé. Per rendere
meglio l’idea notiamo che frasi come: Daniele balla, papà dorme, il Catania
vince, sono tutti esempi che comprendono il soggetto accompagnato dal
verbo attributivo.

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Dunque un soggetto e un verbo attributivo bastano per formulare una
proposizione di senso compiuto. D’altronde però non bastano a significare il
pensiero intero. Se dicessimo, Daniele è andato in palestra, Mario raccoglie
le fave, capiremo benissimo il pensiero, perché abbiamo nominato l’oggetto
su cui và a cadere l’azione, come palestra e fave.
Quei verbi che bastano al soggetto si chiamano soggettivi; mentre
oggettivi quelli che hanno bisogno di un oggetto, su cui si eserciti l’azione.
In definitiva nelle proposizioni sostenute da un verbo attributivo,
troviamo un soggetto e il verbo soggettivo; oppure soggetto e verbo
oggettivo o oggetto.

4.6 Modi assoluti.


Abbiamo visto che i principali tempi del verbo sono tre: presente, passato
e futuro.
Ma entrando nel particolare dobbiamo sapere che il passato può essere più o
meno lontano; quindi il verbo prenderà diversa mutazione, in base al tempo che è
trascorso dell’azione; quindi sottolineiamo il fatto che potremmo avere il passato
remoto, come nel caso ieri andai (cioè lontano), e il passato prossimo, nel
ipotesi che tutto ciò è avvenuto da poco tempo, come sono andato.
Dobbiamo sapere che queste proposizioni s’intendono senza bisogno
d’aggiunger altro; infatti sono classificati indipendenti, perché il verbo si trova in
modo che assolutamente si regge da solo.
Ma se usassimo un comando nella proposizione: Daniele prendi la macchina,
abbiamo composto una frase che si regge da sé; usando il verbo in modo
assoluto.
Dobbiamo dire che i modi assoluti del verbo sono due: uno si chiama indicativo,
perché indica e dimostra il nostro pensiero, e l’altro è il modo assoluto, detto
imperativo, perché si usa per comandare.

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4.7 Modi congiuntivi: soggiuntivo, condizionale, ottativo.
Finito di analizzare le congiunzioni più comuni, possiamo andare avanti e
soffermarci ai modi che le congiunzioni posso assumere. Nel periodo:
Proprio non so darmi pace che l’uomo non sia fornito d’ale! Oh quanto sarei
lieto se fossi un uccellino! abbiamo tre forme del verbo essere: sia, sarei, fossi.
L’uomo non sia fornito d’ale. Qui la proposizione da sé non reggerebbe, mentre
va connessa all’altra, non so darmi pace. Le due proposizioni vengono connesse
tramite la congiunzione che.
Mentre, Sarei lieto se fossi un uccelli, qui le proposizioni se reggono a vicenda,
mediante la congiunzione se.
Nessuna delle tre forme sia, sarei, fossi, sostiene la proposizione quando non sia
congiunta ad un’altra forma.
Ecco che ci troviamo di fronte al modo congiuntivo, che si divide in tre:
Soggiuntivo (sia), perché la preposizione fatta con questo vuole soggiungersi,
cioè mettersi dopo un’altra.
Condizionale (sarei), perché la proposizione fatta con esso ammette una
condizione: Sarei contento, a patto, che io fossi un uccellino.
Ottativo (fossi), perché la proposizione fatta con questo esprime un desiderio.

SOGGIUNTIVO
presente
singolare
io sia
tu sia o sii
egli sia
plurale
noi siamo
voi siete

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eglino siano o sieno

passato
singolare
io sia stato
tu sia o sii stato
egli sia stato
plurale
noi siamo stati
voi siate stati
eglino siamo o sieno stati.

CONDIZIONALE
presente
singolare
io sarei
tu saresti
egli sarebbe
plurale
noi saremmo
voi sareste
eglino sarebbero

passato
singolare
io sarei stato
tu saresti stato
egli sarebbe stato
plurale

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noi saremmo stati
voi sareste stati
eglino sarebbero stati

OTTATIVO
presente
singolare
io fossi
tu fossi
egli fosse
plurale
noi fossimo
voi foste
eglino fossero

passato
singolare
io fossi stato
tu fossi stato
egli fosse stato
plurale
noi fossimo stati
voi foste stati
eglino fossero stati

Per riconoscere alla prima se una forma di verbo spetta ai modi congiuntivi,
dobbiamo provare se vi sta innanzi la congiunzione che, e sarà soggiuntivo;
mettendo dopo la congiunzione se, ci troveremo davanti al condizionale; per
l’ottativo, il se, a differenza del condizionale, lo poniamo prima.

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4.8 Modo indefinito.
Noi tutti sappiamo che vi è una forma che termina in are, ere o ire; questa forma
è ricordata con il nome di Modo indefinito.
Questa è ricordata come il nome del verbo stesso, perché da sola non può
sostenere una proposizione, anzi prende una posizione di soggetto, attributo,
oggetto o complemento; insomma è in condizione di nome.
Rendiamo meglio l’idea con un esempio:
Temere non è provvedere (temere = soggetto.; provvedere = attributo)
Chi pratica lo zoppo impara a zoppicare (zoppicare = oggetto diretto del verbo)
Inoltre la forma indefinita può sostituirsi anch’essa al dipendente variabile; per
es.: Errando s’impara vale quanto coll’errare o nell’errare s’impara.
Questa forma non avrebbe neanche variazioni secondo i tempi. Pure, se stiamo
parlando di un’azione passata, e in questo caso ricorriamo ai verbi ausiliari, con
la loro forma indefinita e con l’aggettivo verbale che termina in ato, uto, o ito.
Come in: essere stato, aver avuto, aver respirato.
Invece quando utilizziamo il futuro indefinito, usiamo l’ausiliare essere, come
essere per essere, essere per avere, essere per respirare,ec.

Presente.
Essere Avere
Respirare Temere Credere Sentire
Passato
Essere stato Avere avuto
Aver respirato Aver temuto Aver creduto Aver sentito
Futuro

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Essere per essere
Essere per essere
Esser per respirare Esser per temere
Esser per credere Esser per sentire

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