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Laboratorio di Filosofia della Musica

Parte Prima

Il ritmo nel tendersi del suono

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§ 1 Introduzione

Filosofia della Musica è termine vago: nell’accezione che ne ha accompagnato l’evoluzione nel
secolo che si è appena chiuso, esso è sembrato essere più un titolo per sviluppare una serie di rifles-
sioni sulle funzioni della musica all’interno della valorizzazione sociale, condivisa dell’esperienza
musicale, che non un autonomo terreno di ricerca. Il novecento ha infatti usato spesso l’espressione
per designare quel campo di problemi che stringono musica e società, secondo un’accezione socio-
logica, che spesso si colora di connotazioni antropologiche, e che analizza il modo in cui il mondo
sociale si rispecchia nella ricezione dell’oggetto musicale. Un altro campo in cui si è ricorso a
quest’espressione è quello dell’etnomusicologia, che studia il costituirsi dell’oggetto musicale e dei
suoi portati simbolici nelle culture tradizionali, europee ed extraeuropee, fino alla cosiddetta socio-
logia della musica, che cerca di interpretare la ricezione e la costruzione dei linguaggi musicali
all’interno della società. Il termine infine emerge nel campo degli studi psicologici legati all’analisi
percettiva dell’oggetto musicale, declinata secondo le prospettive elaborate da varie correnti, che
vanno della psicologia della forma al cognitivismo.
Frequentemente, queste discipline tendono ad incrociarsi fra di loro, ad indagare la dimensione
musicale, secondo tutte queste accezioni, che fra di loro andrebbero, al contrario, diversificate, ed
utilizzano il termine filosofia della musica per alludere ad un contesto, di solito piuttosto opaco, di
problemi comuni.
Un’altra accezione caratteristica del termine filosofia della musica ci porta in un contesto com-
pletamente diverso, ovvero sul piano di tutte quel fiorire di riflessioni teoriche attorno al costituirsi
di nuovi linguaggi musicali all’interno dell’esperienza delle avanguardie del novecento: molti teori-
ci, come Schoenberg , Hindemith, Varèse ma i nomi che dovremmo fare sono molti di più, si pon-
gono il problema di un rinnovamento radicale del linguaggio musicale e si trovano a fare i conti con
una serie di opzioni teoriche quali la scelta fra tonalità o atonalità, l’introduzione di rumori
nell’ambito del mondo dei suoni musicali, la ricerca dello statuto su cui si poggia la consistenza
stessa delle forme musicali ereditate dalla tradizione e nell’ambito di questa riflessione danno luogo
a considerazioni di tipo filosofico sulla consistenza dei materiali che la musica adotta, sulle reazioni
percettive che si accompagnano all’uso di alcuni intervalli, e tendono a vedere in queste indagini
l’inizio di una riflessione filosofica sulla natura del suono, sui modi della sua organizzazione, sulla
natura dei contenuti e delle strutture che danno ragione della consistenza di un linguaggio musicale,
della sua coerenza interna. Questo tema ha un’origine antica, e si lega direttamente ad una tradizio-
ne speculativa che prende le prime mosse da un terreno non immediatamente riconducibile alla pra-
tica musicale ovvero dalla ricerca sperimentale sulle relazioni fra musica e numero, ambito che
prende consistenza dall’analisi pitagorica delle consonanze, ma che ha poi uno sviluppo particolar-
mente ricco durante il Medioevo ed il Rinascimento. In quel quadro non si parla quasi mai di filoso-
fia della musica, ma di un concetto ampio, e di ardua definizione, quello d’armonia, il campo della
ricerca in cui si studiano le regole secondo cui i suoni si legano o si respingono fra di loro. Il con-
cetto d’armonia si colora fin dal principio di componenti metafisiche e rimarrà in uso anche come
indice per tutti i problemi legati alle prime analisi fisicalistiche del suono musicale legate alla sco-
perta degli armonici.
Se ci avventuriamo su un piano più strettamente filosofico, la riflessione sul musicale accompa-
gna la nascita del pensiero occidentale fin dalla filosofia presocratica, ma il termine Filosofia della
Musica è relativamente recente: esso prende piede all’interno delle importanti riflessioni che svi-

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luppa sui Sistemi delle Arti la filosofia del Settecento, che in questo campo recupera tematiche le-
gate all’enciclopedismo seicentesco, e viene ripreso, in prospettive assai diverse, dalla filosofia
idealistica di Schelling e di Hegel, che ricorrono esplicitamente a questa dizione, e sviluppato in
modo assai originale, con una connotazione antinomica rispetto all’impostazione idealistica, da
Schopenhauer, che dedica a questo tema il mirabile terzo libro del Mondo come Volontà e Rappre-
sentazione.
Tracce consistenti dell’impostazione schopenhaeuriana le ritroviamo in due situazioni culturali
ben diversificate, ovvero la tradizione positivista, in cui la musica viene studiata in relazione alle
tematiche connesse alle relazioni con l’ambiente e con la psicologia umana, e, in una posizione più
appartata, nei primi tentativi teorici di Friederich Nietsche. Nel novecento, poi, il termine viene ac-
quisito ed usato in accezioni difficilmente avvicinabili tra loro da Adorno, Jankélévitch, e Bloch.
Di tutto questo importante panorama, tracciato in modo criminalmente evasivo, non ci occupe-
remo affatto.
Lo scopo di queste lezioni sarà riproporre temi filosofici relativi alla musica, in un quadro leg-
germente diverso dalle straordinarie sistematizzazioni, cui abbiamo accennato: parlare di filosofia
della musica vorrà dire scendere sul piano che fa capo alle relazioni che collegano le componenti
temporali alla loro valorizzazione ritmica nella musica, andando a cercare un tessuto di regole, di
relazioni, che agiscono sul terreno delle esperienze elementari legate all’organizzazione della durata
dei suoni sul piano dell’ascolto.
Da questo punto di vista, le valenze estetiche del termine, che risuonano con forza all’interno di
almeno tre fra le griglie interpretative che abbiamo citato, rimarranno, sulle prime, piuttosto in om-
bra. D’altra parte, se la filosofia della musica non ha valenza esclusivamente estetica, il suo cam-
mino intreccia certamente quello di un’estetica musicale, per quanto non vi possa essere pura coin-
cidenza. Anche se il punto di partenza, il mondo della sensibilità, è comune ai due ambiti, le rela-
zioni che essa analizza, poggiano su un terreno più ristretto, e tecnico: i due ambiti collimano fra di
loro nella ricerca del senso dell’esperienza messo in gioco dalle relazioni che legano
l’immaginazione alla sensibilità.
Il tema che affronteremo nel laboratorio è il ritmo, la dimensione della musica che si lega
all’organizzazione della durata del suono: vorremmo tentare di dissodare un terreno preliminare,
spesso non esplicitamente dichiarato da quelle prestigiose correnti filosofiche, legato al piano della
costituzione delle strutture ritmiche, rispetto al piano del loro riconoscimento e della loro struttura-
zione all’interno dell’esperienza dell’ascolto. Il tema dell’individuazione del ritmo si intreccia a
quello della poliritmia che indica l’impiego simultaneo di ritmi diversi nelle singole voci di una
composizione, che entrano in conflitto fra di loro. Spesso i due temi vengono confusi tra di loro, e si
pensa allo studio del ritmo come l’ambito di analisi dei rapporti fra durate che sostengono la poli-
ritmia. Si tratta infatti di dar ragione di come vada inteso il termine durata: cosa vuol dire che un
suono dura nel tempo?

§ 2 I suoni nel tempo

Una lunga tradizione filosofica ci affida la musica come un’arte del tempo, un arte che lavora
con i suoni, oggetti di natura precipuamente temporale. I suoni non occuperebbero luoghi, sono ete-
rei, una volta uditi, sono persi per sempre (Isidoro di Siviglia usava una formula diventata prover-
biale, soni pereunt) e la loro flebile consistenza sarebbe l’immagine di un flusso temporale seg-
mentato dall’attività della coscienza in strutture ritmiche, che si presentano all’evidenza già perfet-
tamente costituite, compiute. Esiste una imponente tradizione filosofica, che dal De Musica di Ago-
stino fino alla riflessione cartesiana vede nel ritmo e nella natura temporale del suono l’oggetto pri-
vilegiato di ogni speculazione filosofica sulla musica: osservare che la musica gioca una dimensio-
ne privilegiata con il tempo sarebbe dunque un’assoluta ovvietà, ovvietà che prende di colpo un
colore inquietante quando proviamo a chiederci sulla base di quale presupposto dichiariamo che i
suoni costituiscano una struttura essenzialmente temporale, pur affermando che i suoni sono, per lo-

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ro natura eterei. Questo significa solo che gli oggetti musicali sono nel tempo, ma, a questo punto,
non si comprenderebbe la differenza fra un suono o un qualsiasi altro oggetto della nostra esperien-
za: che cosa ha di particolare la durata che caratterizza i suoni?
E’ evidente che queste presupposizioni vogliono porre l’accento su un problema: il suono dura
nel tempo in modo completamente diverso da tutti gli altri oggetti che ci circondano. Gli oggetti, ad
esempio, sono contemporaneamente nel flusso temporale, ed a nostra disposizione: si corrompono
in relazione a fenomeni chimici, fisici, che hanno a che fare con la loro costituzione materiale. Sa-
rebbe difficile dire che una cosa invecchia a causa del tempo, ma dire che invecchia nel tempo ci
sembra un’ovvietà. Non potremmo mai dire la stessa cosa di un suono: un suono c’è o non c’è,
emerge sempre grazie al suo durare. Un suono non può invecchiare: il suono ha il carattere di acca-
dere nel tempo, di consumarsi tutto nel tempo, di non essere, per così dire, a nostra disposizione.
Potremmo dire che i suoni sono oggetti temporali, sempre che si riesca a chiarire cosa significhi og-
getto temporale: ma questa definizione sembra ancora poco chiara.
A dire il vero, le presunte ovvietà, di cui dovremmo prendere atto quando parliamo di ritmo, non
sono affatto chiare: cosa significa, segmentare un flusso sonoro dal punto di vista temporale? Quale
misterioso potere deve avere la coscienza per dar vita e sezionare un magma di suoni o strutture,
semplici e fuggenti, come una melodia? Eppure proprio qui si dovrebbe collocare una prima distin-
zione, che separa la percezione di suoni che riescono ad entrare tra loro in relazione, ed il brusio
cieco dei rumori, che non hanno forma, che costituiscono fondali inerti, riattivati in modo altrettanto
misterioso dalla coscienza, che fra i suoni si muove, li riconosce come segnali, li vive come emo-
zione. Proprio su quest’ambito vorremmo collocare una ricerca sul problema della riconoscibilità
del ritmo. Per farlo dobbiamo cercare di dipanare le relazioni che legano all’ascolto della musica al
concetto di tempo. Finora siamo riusciti a dire che i suoni sono nel tempo, ma lo occupano in modo
diverso dagli altri oggetti della nostra esperienza: potremmo dire che cominciamo a capire cosa sia-
no non appena facciamo i conti con il loro modo di durare nel tempo, così diverso da quello dl
mondo di oggetti che ci circondano. La distinzione ontologica sembra ancora debole: dire che, in
generale, il suono dura, impone di chiarire in che modo esso accada nel tempo , o come nel tempo
esso venga a costituirsi: d’altra parte, una notevole parte della riflessione del novecento ha cercato
di capovolgere il problema proponendo quest’altro assioma, per la verità non chiarissimo: la musica
accade nello spazio, lo connota ed in questo essa non differisce dai rumori. L’osservazione sembra
promettente, ma pone immediatamente dei problemi. Proviamo a seguirne l’articolazione.

§ 3 I suoni nello spazio

Ogni luogo, scrive il teorico R. Murray Schaffer 1 ci si presenta come un ambiente abitato da rumo-
ri: rumori naturali, come lo scrosciare della cascata, il fischiare del vento, il battere della pioggia sul
terreno e rumori artificiali, legati all’attività umana. I suoni si stagliano nell’ambiente e lo caratte-
rizzano in modo implacabile: in una spiaggia, ascolteremo sempre il rumore del mare, che si impri-
me nella nostra coscienza come un sigillo, immagine della potenza degli elementi naturali, pronto
ad essere riattivato dal riverberare del suono, che sempre ci ricorda del nostro legame originario con
una natura tradita. I rumori che abitano un luogo si imprimono nella coscienza come un sigillo.
L’esperienza di un luogo è esperienza di un ambiente abitato da suoni, che ne tracciano in modo in-
delebile il profilo. Il suono è aspetto del presentarsi del mondo alla nostra coscienza, una spia che
ne rivela le intime articolazioni. L'esperienza del suono è quindi esperienza di un ambiente, dei mo-
vimenti che lo permeano e delle emozioni che collegano i suoni alla morfologia dei luoghi in cui lo
esperiamo.
Avremo così uno schema che si ripete: luogo, suoni, ambiente, toniche di quell’ambiente, ovvero
suoni che lo caratterizzano ed un’attività della coscienza presa a sublimarne la natura in simboli.
1
R. Murray Schafer, The tuning of the world, McLelland and Stewart Limited, Toronto, 1977, tr. italiana di Nemesio
Ala, Il paesaggio sonoro, Ricordi - Lim, Lucca, 1985.

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Non è un caso che, elaborando una relazione fra suono ed ambiente dalla prospettiva tanto ampia,
risulti molto difficile distinguere il suono musicale dal suono non musicale, come se non esistesse
fra loro una differenza profonda. E così, osserva Schafer, ascoltiamo i rumori come se ascoltassimo
forme musicali in movimento. E, a dire il vero, l’assimilazione d’un termine ad un altro, risulta as-
sai problematica, come risulta equivoco ricorrere ad una nozione misteriosa d’inconscio, su cui si
depositerebbero i detriti dei ricordi passati, fissando le relazioni fra individuo ed ambiente in modo
fisso ed invariabile. Sembra quasi che ci si trovi di fronte alla ritualizzazione di un gesto, il gesto
dell’ascolto, che varrebbe in quanto tale e non in riferimento degli oggetti su cui avrebbe presa.
Dovremmo sempre interrogarci di fronte ad affermazioni impostate in modo così misterioso: cosa
significa ascoltare come, vedere come, intendere come? Vorremmo verificare questa domenda su un
dominio più ristretto.
Nel suo studio sull'origine degli strumenti musicali, Andrè Schaefner 2 ci presenta un eloquente
esempio di trasposizione immaginativa di un dato percettivo. Per poterlo fare, egli evoca proprio un
paesaggio sonoro che, nella peculiare interpretazione di un autore che vede l'origine della musica
nelle prassi corporee, segna un'importante transizione dal corpo, inteso come risuonatore, alla su-
perficie delle acque, assimilabile alle pelli di un tamburo.
Illustriamolo, senza farci intimidire dalla sua opacità: infatti, evocando un diario di viaggio del
secolo passato (J. Dybowski, La Route du Tchad, p.363), Schaefner apre uno scorcio su una serie di
problemi connessi al rapporto fra musica e corpo, o meglio fra attività corporea e valorizzazione
emotiva di un luogo nello spazio.
Il viaggiatore ci narra uno strano cerimoniale: le donne uadda, una tribù del Ciad, nelle ore più
calde del giorno amano entrare in uno specchio d'acqua, per dedicarsi ad un gioco singolare: facen-
do assumere alle mani le forme di un cucchiaio, percuotendo cioè con la punta del polpastrello la
superficie dell'acqua, esse ottengono dei suoni di diverse modulazioni, udibili a grandi distanze.
Lo specchio d'acqua sembra trasformarsi in un'orchestra di tamburi di legno, e quella superficie
impalpabile, assume la funzione di una pelle tesa, che espanderebbe le potenzialità espressive del
corpo. Se l'origine degli strumenti musicali passa attraverso la percussione di parti del proprio cor-
po, che diventano superfici in risonanza, pelle tesa che batte ed amplifica un ritmo, l'acqua è ora
estensione sonora del corpo battente, un luogo musicale a tutti gli effetti. L'acqua e la pelle del cor-
po, intesa come superficie che vibra, producendo suono organizzato, figurazione ritmica, sono di-
ventare l'una il doppio dell'altra, in una grande metamorfosi nel modo d'intendere e di abitare la su-
perficie, che risuona differenziandosi timbricamente in tante aree che di differenziano fra loro per
sonorità: l’omogeneità della superficie d’acqua si frammenta in punti sonori in risonanza, ma cosa
viene richiamato, in questa celebrazione di ritmo e materia?
In una serie di registrazioni dedicate alla musica dei Pigmei Baka del Camerun, Simha Arom ci
racconta un gioco: ragazze e bambini che, facendo un bagno nel fiume, con le mani incrociate a
cucchiaio, si divertono a tuffarsi con vigore, a diverse profondità, nell'acqua, dando luogo al tambu-
ro d'acqua, una base ritmica che accompagna il canto. La tensione della superficie dell'acqua si pre-
sta al gioco delle intonazioni: a seconda del modo in cui viene colpita, il suono percussivo che ne
deriva assumerà un timbro particolare, timbro che individua specifiche peculiarità del singolo colpo
che scuote la superficie. Ad ogni punto della superficie corrisponde infatti una possibilità timbrica:
ancora una volta, non sarebbe possibile giocare la carta del rapporto fra modello e variazione nel
gioco ritmico, se non all'interno dell'individuazione di una regola, che ha maglie ampie, ma si pre-
sta ad un gioco preciso.
Cosa si cela dietro a simili attività ludiche? Che legame potremmo trovare tra acqua e percussi-
vità, che relazioni mettono in moto il modo di giocare con la materialità, che propone il contessersi
di sonorialità e narrazione?

2
A. Schaeffner, Origine des instruments de musique. Introduction ethnologique à l'histoire de la musique instrumentale,
Paris, Payot, 1936, rééd. par Mouton & Co et Maison des Sciences de l'Homme, 1959. trad. it a cura di di Diego Car-
pitella,.Origine degli strumenti musicali, Sellerio, Palermo, 1985, p. 45.

5
Molte cose, naturalmente, ma soprattutto l'idea di segnalare, con forza, la propria posizione nello
spazio e di riverberarla all'infinito. Se con un colpo di piede segnalo, il fatto di occupare un luogo il
gioco con l'acqua trasforma il ribollire della superficie in una potente amplificazione della mia pre-
senza, che ora si estende per tutto lo spazio che mi circonda, in un movimento di tipo concentrico,
dal centro, ad una periferia, sempre più ampia. Il dilatarsi degli orli di quel movimento, attraverso
l'amplificazione della risonanza del battito, ha una forte componente espressiva, che richiama l'idea
di una sottolineatura di un carattere espressivo nell'occupazione di un luogo nello spazio, che va ar-
ticolandosi in un movimento da un qui ad un là3, di cui parla Giovanni Piana nelle sue riflessioni sul
luogo 4. La mia presenza, in questo caso, fa tutt’uno con un gesto, l’irrompere del colpo percussivo.
Solo in questo senso, la superficie dell'acqua fa tutt'uno con il mio corpo sommerso. Ora l'acqua
non fa solo galleggiare, non è solo luogo di un movimento verso una profondità che ci assorbe, in
cui scompariamo, ma è anche superficie differenziata che vibra, e suona, strumento di una elabora-
zione ritmica complessa ed evoluta, che racconta, diffonde, il nostro essere lì, nel riverbero di una
superficie. La regola si fa avvertire con tale forza, che i tuffi si modulano fra di loro, in relazione al-
l'effetto percussivo che produrranno sul tamburo d’acqua: il movimento verso l’oscuro, l'inabissarsi
nello slancio dal basso verso l'alto, l’interrogare la profondità delle acque va pensato ora come ef-
fetto percussivo, esplodere del colpo sulla superficie, in cui si interroga una profondità, per rievoca-
re una presenza che va espandendosi.
Ed accade proprio così, che vogliamo mostrarci, farci sentire sempre più lontano, come se l'onda
acustica fosse un'emanazione: un buon paradigma del carattere diffusivo del suono, così poco ur-
bano, nell’elaborazione estetica legata ad una celebre immagine kantiana, che assimila il diffondersi
del suono a quello di un profumo5, che occupa tutto lo spazio in cui si muove e non permette di sce-
gliere nulla, rispetto alla propria ingombrante, ed eterea, presenza. I suoni non li puoi arrestare.
Rispetto ai suoni prodotti nel gioco, la ricezione potrà articolarsi in due direzioni, secondo la tra-
sparenza o l’opacità con cui viene recepito il suono, rispetto alla sua possibilità grammaticale: un
gioco musicale, basato sulla poliritmia, oppure l'elaborazione linguistica del segnale da inviare a di-
stanza, come mostra questa struttura ritmica dei banda Linda, che traduce un messaggio verbale e
che non rientra, per quella cultura, sul piano del musicale.
Se volessimo riaprire un discorso sul paesaggio sonoro, prenderemmo le mosse proprio da una
grammatica del movimento dello spazio, che muova da istanze espressive, da un suono che segnala
delle presenze, e che non si lascia ancora imbrigliare nelle presunte trasparenze del concetto di se-
gnale, ma che mantiene delle opacità che ci attraggono. Eppure, se arrestassimo il nostro discorso su
questo livello, potremmo solo parlare della tematica di una musica nello spazio, senza ancora aver
scalfito il livello, più profondo, di una serie di relazioni spaziali che siano interne alla musica stessa.
Non a caso, chiamiamo in causa una serie si intrecci relazionali, che vedono valorizzarsi il contras-
segnarsi di un luogo, delle componenti relative alla sua tesaurizzazione sul piano immaginativo, ma
non saremmo in grado di attingere ad un piano grammaticale delle relazioni spaziali, e non solo
perché siamo in presenza di un problema di tipo ritmico.
3
Nel Dedalus di James Joyce troviamo espresso in altra forma l’idea di una valorizzazione espressiva dell’essere qui:
un bambino, smarrito di fronte allo studio delle prime nozioni di geografia, percorre la storia della propria localizzazio-
ne in senso inverso, secondo un tipico procedimento a centri concentrici. Egli sente il bisogno di scrivere sul proprio li-
bro, il proprio nome e la propria localizzazione nello spazio, rispetto alla nozione di universo. Con questo gesto, che ha
una forte carica espressiva, egli si riappropria del proprio qui: Stephen Dedalus, Classe degli Elementi, Collegio di
Clongowes Wood, Sallins, Contea di Kildare, Irlanda, Europa, Mondo, Universo. Cfr. James Joyce, Portrait of the Ar-
tist as a Young Man (trad. it. di Cesare Pavese, James Joyce, Dedalus. Ritratto dell’artista da giovane, Adelphi, Milano,
1990, pp. 34 – 35.
4
La notte dei lampi. Quattro saggi sulla filosofia dell’immaginazione è Editore Guerini e Associati, Milano, 1988. Oggi
reperibile in edizione digitale nell'archivio di scritti di Giovanni Piana presso il sito internet Spazio Filosofico:
http://www.lettere.unimi.it/~sf/index.html

5
Sul tema, vedi P. Giordanetti, Kant e la musica, CUEM, Milano 2001. Il testo, che fa parte della collana di libri in li-
nea Il Dodecaedro, è scaricabile presso il Sito Spazio Filosofico http://www.lettere.unimi.it/~sf/saggi.htm.

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Possiamo comunque fare qualche considerazione, osservando che in un ascolto attivo, preso
dalle dinamiche che muovono la percezione impegnata a stabilire relazioni di somiglianza, l'approc-
cio legato a quella distinzione, fondamentale nel costituirsi dell'ambito della nostra esperienza, non
viene in primo piano, mentre emerge l'attività di un soggetto, che muta il proprio atteggiamento da
una sostanziale passività, ad una serie di azioni, che attivano lo stato percettivo verso la trasposizio-
ne immaginativa di un dato, che diventa oggetto d'esperienza. Tale aspetto vale per molti contesti,
retti da regole che dobbiamo imparare a decifrare, facendo i conti con la materialità dei suoni stessi.
A questo contesto ci riporta anche un ambito molto lontano dalla musica africana, ovvero quello
della musica concreta, come vedremo subito.
In Ianassa, (1980), tratto da Quatre Phonographies de l'eau, François-Bernard Mâche 6 ci vuol
far intendere, nella registrazione di uno sgocciolio, i ritmi di una danza. Il compositore ci sta orien-
tando, ci sta suggerendo delle regole, ci invita ad un gioco interpretativo, che ha di mira le regola-
rità ritmiche che emergono dallo sgocciolare. Concretezza qui significa totale adesione ad un suono
e sua valorizzazione attraverso un irrealistico dilatarsi delle sue proporzioni: attraverso un diffusore
il sommesso gorgogliare della goccia riempie la stanza e si fa ascoltare, passando dallo sfondo al
primo piano, esibendo una caricatura della sua matericità.
L'ascolto non è esperienza del tutto passiva, siamo invitati ad ascoltare andando alla ricerca di
qualcosa, più esattamente di una serie di relazioni ritmiche scandibili, che permettano l'enucleazio-
ne di una forma da quel fenomeno naturale. Il ready-made proposto da Mâche pur alludendo a re-
gole molto strutturate, deve fare i conto con le periodicità di un fenomeno naturale privo di tactus:
siamo di fronte ad un gioco che trae la propria ricchezza da vincoli presenti nel modo in cui si pre-
senta lo sgocciolare.
Riconosciamo un intreccio fra regolarità del ritmo e variazione, che ci fa emergere l'andamento
ondivago d'una danza. Nel focalizzarsi dell'attenzione che sul fenomeno ritmico, in cui regolarità e
variazione debbono presentarsi per adombramenti successivi (se non ci fosse questa dialettica pre-
sente nel materiale, non individueremmo proprio nulla), vediamo passare dal primo piano allo sfon-
do una sequenza ritmica, che ha una struttura scandibile. Tuttavia, se volessimo danzare, ovvero ri-
conoscere il ritmo che sostiene quello sgocciolamento, non riusciremmo a farlo: una delle grandi re-
sistenze della teoria musicale ad assumere il rumore in quanto tale all’interno delle sue analisi, at-
teggiamento mutato significativamente proprio nel novecento, quando quelle fonti sonore diventano
tecnicamente dominabili, trova qui una delle sue motivazioni profonde. Il rumore, la materia, di per
sé, non è facilmente modulabile: rompe gli argini con cui tentiamo di trattenerla, non possiamo
pienamente dominarla. Essa non individuabile una volta per tutte, se non come molteplicità opaca di
suoni che si fanno avanti. Dobbiamo quindi trovare delle formule narrative per poterla tradurre e
manipolare a nostro piacimento, ma il gioco può essere portato avanti solo fino ad un certo punto.
Un evento viene riconosciuto nel momento in cui noi stiamo individuando delle regole, operiamo
selezioni, ed un intero campo percettivo viene riorganizzato attraverso l'animarsi di un gioco inter-
pretativo su materiali che hanno una struttura che sostiene le inclinazioni immaginative con cui lo
interpretiamo.
L'immaginazione nel caso della goccia fa presa su di un aspetto materiale, che ne limita le inter-
pretazioni (non potremmo pensare al canto della goccia, non possiamo intendere quel fenomeno da
questo punto di vista, l'esempio non funzionerebbe più), mentre gli schemi che contrappongono at-
tività e passività vengono meno, perché tentiamo di cogliere delle relazioni. La possibilità non viene
indebolita dall'osservare che l’ascolto orientato verso regole è determinato dalla complicità fra
compositore ed ascoltatore, che fa presa, per entrambi, sulle proprietà fenomenologiche di un mate-
riale, che porta in sé dei limiti difficili da valicare. La complicità qui è un fatto essenziale, e ci dice,
ascolta come se fossi di fronte ad una danza.

6
Per approfondire i temi teorici presenti nell'opera di François-Bernard Mâche, inviamo alla lettura del suo ultimo libro,
Musique au singulier, Éditions Odile Jacob, Paris, 2001. Dello stesso autore, vedi anche Musique, mythe, nature Librai-
rie des Méridiens Klincksieck et Cie, Paris,1991 ( Musica, mito, natura. I delfini di Arione, traduzione italiana di Da-
niele Ballarini, Bologna, Cappelli, 1992).

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Dobbiamo cominciare a porci domande sulla presunta essenza temporale della musica: il battito
del tamburo d’acqua, il disegnarsi del suo profilo ritmico, si danno certamente nel tempo, come
ogni esperienza del mondo che ci circonda, ma la loro essenza non sembra minimamente intaccata
dal fatto che quei suoni spariranno.
Il fatto che sussista una dialettica della corrosione della figura ritmica nel tempo, non ci dice an-
cora nulla su quella figura, né sulle sue regole costitutive. Allo stesso modo, il fatto che la musica si
dia in un paesaggio sonoro così peculiare, non ci dice ancora nulla sulla natura di quei suoni, ma
mette in luce un latente problema espressivo, legato alla loro codificazione. Cominciamo a ripren-
dere un primo discorso sul ritmo, interrogandoci sul significato di questa parola, un significato che
non si può richiudere all’interno di un discorso meramente temporale.
Naturalmente, potremmo insistere sulle caratteristiche astratte e modulari che sempre emergono
quando si comincia a girare attorno al tema del ritmo, in particolare per quanto riguarda l'ambito
della mediazione fra opposizioni legate al contrapporsi di schemi diversificati tra di loro. E ad esso,
potremmo meccanicamente associare delle strutture temporali, di cui l'ascoltatore dovrebbe fare,
astrattamente, esperienza. Ma perché tutto questo accada, dovremmo chiarire immediatamente un
problema: cosa significa riconoscere un ritmo?

§ 3 Il problema del riconoscimento del ritmo

Riprendiamo brevemente la nostra discussione. Siamo partiti dall’idea assolutamente ovvia che i
suoni si diano nel tempo. Abbiamo subito osservato che la questione, posta in questi termini, ci
sembrava troppo vaga: mantenendo una nozione di tempo molto ampia, potremmo dire che qualun-
que cosa scorre nel tempo, e che ci mancano davvero gli elementi per poter sostenere che i suoni
siano oggetti temporali, perché non riusciamo a comprendere il significato di quest’espressione.
Dall’altra parte abbiamo osservato che uno dei principali parametri di riconoscimento del suono è il
ritmo. Dovremmo allora chiederci cosa significhi riconoscere un ritmo.
Il tema, a dire il vero, è molto antico 7 e va molto oltre l'ambito delle riflessioni musicali. Un an-
tico frammento di Archiloco (Fr 67 a), ci suggerisce di non seguire ciecamente le passioni che ci
prendono nella gioia o nello sconforto, ma a riconoscere quale ritmo tenga vincolati gli uomini 8
(giÍgnowske d ) oi)=oj r(usmo\j a)nqrwÍpouj e)Íxei).
La conoscenza del ritmo non è immediata, riconoscere quale sia il ritmo che tiene gli uomini è
uno sforzo, nel fluire delle loro passioni, dobbiamo individuare qualcosa che ad esso si contrappo-
ne, che non muta con il mutare delle loro emozioni. Un ritmo trattiene in una configurazione deter-
minata, in una mobile regolarità un flusso: infatti, se il ritmo vincola o tiene assieme, dobbiamo
pensare che se esso abbia riferimento proprio allo scorrere delle cose, e che la sua capacità sia
quella di regolarne il flusso, di trattenerlo fornendogli una forma appropriata. Il ritmo ( r(uqmoÍj)
presiede alla disposizione dinamica delle parti, rispetto a qualcosa che va muovendosi. Per questo
motivo, continuiamo a volgerci ((giÍgnowske, gignoskein significa continuare a guardare in una
direzione, compiere cioè un atto a carattere iterativo. Opponiamo al flusso la ricerca di una regola-
rità nella trasformazione.

7
Una discussione più elaborata di tale concetto viene presentata su un libro dedicato alla componente musicale nei
frammenti eraclitei, ed è stata usata anche per uno studio sulla musica di Conlon Nancarrow, di imminente pubblicazio-
ne.
8
Cfr. Werner Jaeger, Paideia , (trad. italiana di Luigi Emery), Firenze, La Nuova Italia, 1953 vol I, pp. 240 - 241. Il te-
ma è tratto da Benveniste (É. Benveniste, «La notion du «rythme» dans son expression linguistique», Journal de Psy-
chologie, 1951, ripubblicato in: Émile Benveniste, Problèmes de linguistique generale Gallimard, Parigi, 1966. Cito
dalla traduzione italiana di Maria Vittoria Giuliani: É. Benveniste, Problemi di linguistica generale, Il Saggiatore, Mi-
lano, 1971 p. 394. Per il linguista francese, si tratta d'inclinazioni comuni. Va quindi rilevato uno scarto di senso tra i
due modi d’interpretare il detto d’Archiloco. Per una discussione sul concetto di ritmo, cfr. Giovanni Piana, Filosofia
della musica, Guerini e Associati, Milano, 1991, pp.153 - 157.

8
In un suo saggio discusso da Giovanni Piana 9, Benveniste osservava che per cogliere fino in
fondo il significato del termine, dobbiamo prestare attenzione alla desinenza qmoÍj, che applicata
alle parole astratte, implica un riferimento al modo in cui una nozione viene a realizzarsi: se qeÍsij è
si riferisce all'atto del disporre, qesmoÍj è la particolare disposizione delle parti, la configurazione
che essa assumono in un intero. Potremmo dire che si tratta di un movimento grazie a cui un intero
si assesta, ma non si è ancora stabilizzato, in cui le parti stanno raggiungendo una configurazione
spaziale, non pienamente raggiunto?
In parte si ed in parte no. Scrive Benveniste, «[...] r(uqmoÍj [...] designa la forma nell'attimo in cui
è assunta da ciò che si muove, è mobile, fluido, la forma di ciò che non ha consistenza organica: si
addice al pattern di un elemento fluido...a un peplo che si dispone a piacimento, alla particolare di-
sposizione del carattere e dell'umore 10». Il problema non è quindi la stabilità dell’assetto, o il sem-
plice riconoscimento della forma, ma il gioco che scuote il disporsi di qualcosa che non abbia una
consistenza organica, o spaziale: la caratteristica della fluidità nell’elemento scosso dal ritmo lo
rende qualcosa che è soggetto a continue transizioni, a continui mutamenti. Esso, tuttavia, tende ad
essere frenato dal ritmo stesso, che cerca di contenere, di frenare la fluidità, attraverso un decorso
ordinato di transizioni.
Per questo motivo, il ritmo emerge in situazioni di estrema mobilità, in cui vanno stringendosi
delle relazioni: non abbiamo contorni nitidi, ma il movimento di un peplo, che copre il frastagliarsi
di un contorno, oppure l’agitarsi di una disposizione di carattere, di uno stato d’animo che può mu-
tare da un momento all’altro. In altri termini, siamo su un terreno liminare, scivoloso, sulla soglia
del costituirsi di una forma, più che su quello della forma già data, e dobbiamo pur trovare qualcosa
che ci permetta almeno di localizzare le fasi della trasformazione.
Un esempio tratto dal mondo della percezione visiva, può esserci utile per cercare di dar ragione
delle ambiguità che legano il rapporto intero - parti rispetto al definirsi di un r(uqmoÍj.
Immaginiamo tre punti luminosi, che si dispongano in una configurazione caratteristica. Non ci
sorprenderà che il termine r(uqmoÍj indichi, nella filosofia atomista, la forma dell’atomo stesso, il
suo assumere una morfologia spaziale, di cui faremo esperienza sensibile.

Nessuno avrebbe dubbi nel riconoscere in questa figura gli estremi di una figura triangolare: essa
ha certamente pregnanti caratteri geometrici, anche se non abbiamo, ad esempio, tracciato lati, ele-
menti caratteristici nella definizione delle proprietà continue dello spazio geometrico. Siamo co-
munque su una soglia, rispetto alla quale si va configurando una forma definita, colta, nel suo farsi e
potremmo chiederci perché mai Benveniste sottolinei con tanta accuratezza il carattere mobile,
fluido del concetto di ritmo, perché tutto sembra chiaro. L’insistenza sulla nozione di forma distin-
tiva che non si lascia ossificare nella determinatezza dello sxh=ma, dovrebbe trovare un fondamento
nel processo d'acquisizione della forma tra una fase ancora sottoposta a mutamento ed un momento
in cui l'individuazione si realizzi a pieno.
Guardando ad una configurazione appena più complessa, incontriamo subito problemi che ci
fanno cogliere il significato della distinzione appena proposta. In un primo momento potremmo ri-
9
Trattando del carattere fluido che caratterizza questo livello del configurarsi dello strutturarsi della forma, Giovanni
Piana parla della rigida precarietà di un movimento rappreso (cfr. Giovanni Piana Filosofia della musica, Guerini e As-
sociati, Milano, 1991, pp. 153 - 157).
10
Émile Benveniste, La notion du «rythme» dans son expression linguistique, Journal de Psychologie, 1951, oggi in
Émile Benveniste, Problèmes de linguistique generale Gallimard, Parigi, 1966, (Problemi di linguistica generale, (trad.
italiana di M. Vittoria Giuliani, Il Saggiatore, 1971, p.396.)

9
conoscere nella disposizione spaziale dei quattro punti un quadrilatero, ma alla stessa stregua po-
tremmo individuare gli estremi di una croce. Non riusciamo a sciogliere le ambiguità di una struttu-
ra tanto semplice, e di conseguenza a prendere una decisione.

Basterebbe enfatizzare alcune tendenze interne alla raffigurazione, collocando un punto al centro
della figura per rafforzare il richiamo ad una croce oppure connettendo una fila di punti tra loro
creando la traccia di un lato ed uscire dall'ambiguità iniziale. Mancano quindi una serie di caratteri-
stiche strutturali, orientabili secondo un unico vettore.
Emerge così un livello di raffigurazione della struttura caratterizzato da una fluidità, che va do-
minata attraverso scelte e selezioni di materiali, facendoci oscillare fra due rappresentazioni possi-
bili, che entrano in conflitto tra loro. Potremmo naturalmente investire di forti vettori immaginativi
la presenza simultanea delle due figure nella forma ambigua, o intenderle come complementari.
Nella figura si presenteranno opposizioni: nel momento in cui tracciamo i punti sul centro o lun-
go un lato, le condizioni costitutive della figurazione vengono finalmente in chiaro, e la figura di-
venta uno schema.
Solo in quel caso il r(uqmoÍj andrà a coincidere con lo sxh=ma. Il ritmo è quindi un primo passo
per trattenere la forma. Il r(uqmoÍj si collega al divenire della forma su un terreno che precede non
solo cronologicamente l'avvento dell'identità della figura, sxh=ma: r(uqmoÍj e sxh=ma sono momenti
complementari nello squadernarsi delle relazioni che individuano una struttura ritmica, come mostra
l'esempio tratto dalla psicologia della forma 11.
Potremmo cominciare a costruirci un piccolo vocabolario portatile rispetto al concetto di ritmo:
ritmo e schema potremmo vederli come due fasi nella costituzione di un intero: nel momento do-
minato dal ritmo, l’intero va costituendosi sul piano delle relazioni, viene colto da un’istantanea
che ne indica i contorni, nel momento dello schema l’intero si presenta mostrando in modo più niti-
do le proprie relazioni. E’ chiaro che il problema ritmico si muove tutto all’interno delle transizioni
fra queste due fasi, che si rincorrono continuamente. Il momento di transizione potremmo definirlo
come il momento della raffigurazione. Il ritmo si oppone al fluidità, la trattiene.
Vorremmo cercare di comprendere queste situazioni su di un piano più intuitivo, senza passare
immediatamente su un livello musicale, per mostrare quanto il tema del ritmo sia peculiare nei
processi di raffigurazione. Prendiamo qualche esempio dal mondo delle decorazioni, che si avval-
gono di articolazioni ritmiche estremamente ricche.

§ 4 Cenni alla tematica ritmica nella decorazione

La decorazione presenta sempre un modo di rappresentare lo spazio, un’interpretazione dello


spazio in cui viene presentata una suddivisione. L’idea di suddividere, di misurazione, può richia-
mare la centralità della nozione di misura, ma questo riferimento va interpretato in modo critico,
perché la decorazione, pur suddividendo, non lo fa certo alla luce di una analisi che ponga in que-

11
Cfr. Gaetano Kanisza, Grammatica del vedere, 1980 Il Mulino, Bologna, p.13.

10
stione quanto sia lunga la superficie da decorare. Il problema è di natura diversa, come vedremo su-
bito.
La decorazione indonesiana che presentiamo ha carattere fortemente iterativo, in cui i moduli
ritmici che dividono lo spazio, tendono a ripetersi in una sequenza infinita: tanto connettendo fra di
loro le estremità, creando un anello, che seguendo invece la regolarità del decorso orizzontale delle
figure intrecciate, non troveremmo una soluzione di continuità. Il modello decorativo trova quindi
il proprio fondamento nel ripetersi dell’intreccio fra due moduli che dividono un’estensione con un
andamento regolare. Notiamo, per inciso, che il ripetersi del modulo in forma circolare presuppone
il modello lineare e lo interpreta, quindi, secondo lo schema ciclico del reiterarsi di una narrazione
che riorganizza le sezioni di un’estensione. Se il problema della lunghezza è quindi del tutto estra-
neo all’animazione ritmica di una estensione, non potremmo pensare che ad un’istanza espressiva,
che sta giocando con le regole di suddivisione dello spazio.

Il decorso percettivo con cui si presenta l’iterazione dell’elemento decorativo è un processo con-
tinuo, che si organizza da solo, seguendo un andamento orizzontale: il criterio di unificazione che
presenta la partizione dello spazio da parte del modulo impone però, che, rispetto alla sinteticità con
cui si presenta l’iterazione del modulo che organizza la decorazione, si debbano individuare quelle
relazioni costruttive, che permettono di isolare l’elemento che viene ripetuto, per decifrarne le ca-
ratteristiche strutturali. La prima cosa che dobbiamo fare è cercare un passo, ovvero la regola che
presiede alla scansione della superficie.

Una volta isolato il modulo, la relazione geometrico –matematica che lega i lati delle figure in-
tersecate tra di loro, ci ritroveremmo di fronte ad una matrice che si ripete in una successione mo-
dulare. La matrice è un intreccio di linee, che presenta contemporaneamente due possibili partizioni
dello spazio, che emergono ed entrano in relazione ritmica grazie all’intreccio fra due distinti pro-
cessi di suddivisione dello spazio, che si racchiudono l’uno nell’altro e si inseguono in un gioco po-
lifonico fra intervalli spaziali.
A seconda del gioco di aspetti che propone la nostra decorazione, vedremo squadernarsi due mo-
delli di organizzazione spaziale: un andamento a rombi oppure uno a bande parallele. Essi coesisto-
no e lo snodarsi dei loro andamenti garantisce due possibili rese percettive, che coabitano nel tes-
suto costruttivo della decorazione, in una dialettica fra figura e sfondo. La possibilità di questo gio-
co espressivo fa tutt’uno con il farsi avanti delle componenti decorative nel decorso percettivo, e
postula, al tempo stesso, l’unità del riferimento allo spazio, e la molteplicità dei giochi di valorizza-
zione dell’unità stessa. Vi è un solo spazio, e molti modi di modularlo, di narrarne le possibili arti-
colazioni, di muoverlo in giochi espressivi.
Naturalmente, potremmo andare oltre questo primo livello descrittivo, ed analizzare le relazioni
matematiche, che legano i lati alla diagonale nella figura, ed individuare una proporzione aritmetica,

11
che regge lo snodarsi di quelle suddivisioni dello spazio. Il ritmo potrà essere analizzato stratifica-
zione dopo stratificazione12, ma non è questo il nostro problema.
Questo è buon esempio di poliritmia: il modulo misto, che abbiamo sfiorato, permette che si se-
guano entrambe i tipi di partizione dell’estensione, che viene modulata secondo due direzioni diver-
se e, in certa misura, compatibili. Qui non c’è davvero nulla da decidere, siamo portati ad oscillare
nel gioco proposto dalla decorazione Questa apertura del problema del ritmo, ci permetterà anche di
definire quali elementi di rinforzo possano portare al prevalere di una suddivisione sull’altra. Pren-
diamo un modello più elementare, che ci porta nel mondo delle arti primitive.

La decorazione africana contrappone fra loro due bande, ben individuabili. Nela banda superiore
la continuità garantita dalla retta rafforza l’andamento orizzontale, continuo, che sembra alludere al
moto di un punto che va tracciandola e al gioco ritmico della suddivisione attraverso il rapporto fra
le superfici delimitate dal movimento delle parallele.
Nella banda inferiore si forma invece una decorazione che giustappone due file di triangoli rove-
sciati. In questa sequenza, l’irrompere delle diagonali nel riempimento dell’area del triangolo più
scuro, porta alla luce un ciclo, che propone una partizione ritmica che organizza la scansione, se-
condo una sequenza (4 +1), (4 +1), (4+1)…
Tutta la sequenza, che ancora una volta divide un’estensione secondo un modulo, trova la pro-
pria forza all’interno dell’iterazione, ovvero di una regola, in cui il rapporto figura sfondo gioca an-
cora un ruolo decisivo. Anche qui, l’andamento lineare è presupposto tacito del configurarsi di una
ciclicità. Il ripetersi del ciclo garantisca stabilità all’intrecciarsi del modulo a triangoli alternati, ma
la presenza di un elemento che riappare regolarmente all’interno della scansione, e che apre un sotto
– ciclo caratteristico, si presterà ad ulteriori elaborazioni di tipo spaziale. Linearità e ciclo coesisto-
no nell’iterarsi della suddivisione ritmica. Anche qui il gioco è tutto interno alla struttura, che sem-
bra chiamarci per esibire delle regole, che sappiamo riconoscere. La forma di questo riconosci-
mento coincide con lo stesso decorso percettivo: non potremmo che guardare la figura così, che
adeguarci all’andamento proposto dal suo ritmo.

§ 5 Il ritmo e l’inquadratura

Tutto questo mostra che bisogna sottolineare in modo deciso il significato delle relazioni struttu-
rali, prima ancora del momento di riconoscimento psicologico: se chiudessi il problema all’interno
del rapporto figura-sfondo, emergerebbe un continuo balenare di regole, che danno movimento alla
rappresentazione, secondo schemi che entrano tra loro in un conflitto, ma non avrei ancora trovato
la componente grammaticale della relazione, che ci impone una lettura delle linearità, e segrega-
zioni nel continuo, alla ricerca dell’elemento modulare.

12
Sul tema, vedi il secondo volume di Andrè Leroi – Gourhan, Il gesto e la parola, Torino, Einaudi, 1990, pp. 429 –
435.

12
In altri termini, l’individuazione di un modulo apre immediatamente alla comprensione di regole,
che ripartiscono le nostre estensioni in serie parallele (nel primo caso) o in un tessuto ciclico, che
presuppone un andamento lineare 13.
Anche in questo caso, il problema dell’individuazione del ritmo, anche se ci porta immediata-
mente a confrontarci con il tema della misurazione, non sembra trovare una buona soluzione in quel
contesto. Animare ritmicamente una superficie non significa solo misurarla, ma organizzarla secon-
do una serializzazione, articolarne la suddivisione secondo regole costruttive che la caratterizzino in
modo incisivo. Che il ritmo non si riducesse solo ad una misurazione astratta, e che potesse farsi ca-
rico di elementi ambigui, che rimettano in gioco il rapporto fra modalità delle relazioni nel r(uqmoÍj
ed il loro rafforzamento, legato ad una iterazione, che produce continuità, nello sxh=ma, nella figura
conchiusa, lo mostrava bene l’impossibilità di tracciare una sola figura rispetto ai quattro punti.
All’interno della figura ritmica vengono messe in luce alcune proprietà, alcune relazioni struttu-
rali che configurano lo spazio e ne tematizzano un’organizzazione. Si tratta, se vogliamo riprendere
l’esempio del cammino, piede che batte per terra nell’esplorazione di un’estensione, di scegliere
una modalità caratteristica della misurazione e di farla prevalere su altre, di cercare quindi uno stile
della configurazione: anche in questo senso il ritmo anima un’estensione secondo un progetto
espressivo. Nel procedere della decorazione, infatti, il disegno ritmico isola degli intervalli, struttura
cioè l’estensione secondo una serie di regole: il ritmo, fornisce delle inquadrature, che poggiano
tutte su un tessuto comune di proprietà spaziali di quell’estensione che vanno a suddividere in for-
me diverse . Infatti, potremmo chiederci cosa significhi qui inquadrare? Significa dare una specifica
organizzazione interna all’articolazione spaziale dell’estensione, avendo individuato un punto di vi-
sta. Nell’animarsi dell’intervallo, esso si fa seguire, ed articola e disegna sotto i nostri occhi una
suddivisione dello spazio che non misura proprio nulla. Siamo quindi attratti da un gioco con le re-
gole di organizzazione dello spazio, regole che isolano sezioni che hanno un valore narrativo.
E’ da questo gioco modulare che potremo forse prendere le mosse per dar concretezza ai portati
simbolici di quello che viene isolato all’interno degli intervalli, ma questo è un problema che non
potremmo mai affrontare in questo contesto. Certamente, vi sono interessanti analogie funzionali fra
una partizione ritmica ed il concetto di inquadratura potremmo dire che, attraverso l’inquadratura,
comprendiamo meglio l’articolarsi delle figure nel passaggio da una transizione ritmica all’altra.
Ma il differente statuto ontologico, che separa l’oggetto spaziale da quello temporale, co impone
una distinzione netta. Tali osservazioni sarebbero insufficienti per poter delineare la specificità della
funzione del ritmo nella musica: ci sono però utili, per cominciare ad agitare un problema che ab-
biamo sfiorato più volte nelle nostra introduzione, ovvero quello dell’attività o della passività nella
percezione di un’organizzazione ritmica.
Nel contemplare una decorazione, nel seguire il modo in cui essa inquadra una sezione di spazio
suddivisa secondo le proprie regole, non possiamo far altro che seguire la regolarità di un percorso
percettivo, che trova il proprio senso nella struttura che andiamo percorrendo, seguendone i contor-
ni. Possiamo parlare di inquadrature, di intervalli, solo perché ci troviamo di fronte a qualcosa di
più complesso di una semplice suddivisione dello spazio, di una su misurazione. La scomposizione
per figure tende invece ad organizzare l’estensione secondo un proprio cammino, attribuendole uno
stile specifico.
Daltra parte, dire che una figurazione ritmica suddivide lo spazio è certamente vero, ma non
esaurisce le possibilità dell’inquadratura, anzi rischia di farci perdere il senso costruttivo latente in
quelle partizioni. E dovremmo subito osservare che non si misura così, perché in una misurazione il
ricorso ad un campione di riferimento dev’essere univoco.
L’inquadratura propone quindi un proprio modello narrativo, che differenzia qualitativamente il
modo di articolare un’estensione. Nella poliritmia la compresenza di moduli che si differenziano tra

13
Sul tema delle relazioni fra ritmo e figurazione, oltre al volume di Leroi – Gourhan, vedi il classico studio di Franz
Boas, Primitive Art, Instituttet for sammenlignende kulturforskning, Oslo, 1927 (tr. it. di Alessandra e Barbara Fiore,
Arte Primitiva, Bollati Boringhieri, Torino, 1981, in particolare il capitolo II, «Arti Grafiche e Plastiche. L’elemento
formale nell’arte», pp. 40 – 89.

13
loro mostra semplicemente che lo spazio può essere suddiviso in più modi, secondo intenzioni spe-
cifiche, che orientano la percezione, fornendo andamenti, decorsi, che hanno una loro coerenza lin-
guistica. Isoliamo un intervallo nello spazio, per mettere in luce la possibilità di animare una super-
ficie e per farle raccontare qualcosa, per offrire il respiro di una narrazione.

§ 6 Il suono che vibra nel tempo: l’avanzare sopravanzante

Nello scorrere dello sguardo lungo la figura, nel comprendere le regole della partizione, non fac-
ciamo altre che imparare a seguire una sequenza ordinata in un processo, da cui ci facciamo portare.
Il tema della processualità si fa avanti in modo ancor più consistente quando entriamo in contatto
con l’ambito del ritmo musicale: cosa significa riconoscere un processo in una sequenza temporale,
rispetto ad un brano musicale?
In questo caso l’oggetto non si squaderna davanti ai nostri occhi, non possiamo girargli intorno,
decifrandone le regole di costruzione. Il suono ha appunto quel carattere di evenienza di cui parla-
vamo prima, c’è, come scrive Piana, mentre dura. Esso si appoggia al tempo che scorre, ma la sua
vita prende corpo solo all’interno di quel durare.
Ci troviamo così di fronte ad un grande problema, che lega le relazioni temporali nel campo della
percezione. Siamo così costretti a retrocedere verso una celebre esemplificazione husserliana, che
ha che vedere con l’analisi di una melodia. Incontriamo così due problemi: la dialettica fra ritenzio-
ne e protensione ed il concetto di sintesi passiva, che già emergevano nelle nostre prime ricognizio-
ni sui rapporti visivi.
Dire che una figurazione ritmica suddivide lo spazio è certamente vero, ma non esaurisce le pos-
sibilità dell’inquadratura, anzi rischia di farci perdere il senso costruttivo latente in quelle partizioni.
E dovremmo subito osservare che non si misura così, perché in una misurazione il ricorso ad un
campione di riferimento dev’essere univoco.
Nello scorrere dello sguardo lungo la figura, nel comprendere le regole della partizione, non fac-
ciamo altre che imparare a seguire una sequenza ordinata in un processo, da cui ci facciamo condur-
re: il decorso percettivo è attraversato da una sintesi in cui le regole emergono da sole nella com-
plessità delle loro relazioni .
Dovremmo ancora specificare qualcosa che gioca una funzione fondamentale, all’interno dei
processi su cui stiamo intrattenendoci: mentre guardiamo la decorazione ritmica effettuare le sue
partizioni e le serializzazioni che ne derivano, ci troviamo di fronte ad un processo in cui qualcosa
ci viene dato, e qualcosa dev’essere anticipato.
Possiamo solo immaginare l’inseguirsi della decorazioni lungo la superficie appoggiandoci al
senso del decorso percettivo proposto dalla struttura che stiamo osservando, ma il momento imma-
ginativo trae la regola della continuazione da ciò che ha già imparato a riconoscere . Sembra quasi
che il tema della figurazione suggerisca che tra anticipazione e scene passate si facciano luce delle
funzione sintetiche della percezione.
Il richiamo ad una processualità in cui il tema della temporalità, del presente inteso come antici-
pazione di qualcosa che arriverà alla luce delle regole illuminate dal decorso di una sequenza appe-
na passatasi fa avanti in modo ancor più consistente quando entriamo in contatto con l’ambito del
ritmo musicale: cosa significa infatti riconoscere un processo in una sequenza temporale, all’interno
di un brano musicale, se non poter anticipare quello che arriverà o quanto meno, poter avere una se-
rie di aspettative che verranno soddisfatte o deluse dallo svilupparsi dell’articolazione ritmica del
brano?
Ci troviamo così di fronte ad un problema, che lega le relazioni temporali nel campo della perce-
zione. Siamo costretti a retrocedere verso una celebre esemplificazione husserliana, che ha che ve-
dere con l’analisi di una melodia.
Emergono così due problemi: la dialettica fra ritenzione e protensione ed il concetto di sintesi
passiva, che già emergevano nelle nostre prime ricognizioni sui rapporti visivi. Tutto ciò impone

14
immediatamente un modificarsi delle relazioni fra suono e tempo, alla ricerca delle relazioni che li
collegano.
L’esempio più famoso è certamente quello presente nelle Lezioni sulla coscienza interna del
tempo del 1905 14, cui ricorre anche Witold Rudzińsky, nella sua opera dedicata al ritmo 15. I suoni
accadono nel tempo, hanno una durata, occupano un intervallo fra il loro inizio e la loro fine, un
intervallo che diventa processo: il singolo suono musicale si dà infatti solo nel suo trascorrere,
mentre per le cose il trascorrere è mero consumarsi.
Ma come si costituisce questa processualità interna al suono, e come viene recepita dalla co-
scienza?
Inquadriamo prima il problema husserliano, e vediamo cosa può insegnarci rispetto alla natura
del suono musicale all’interno di una teoria del ritmo.
L’esempio husserliano parte proprio dall’analisi di una melodia, ma la cosa potrebbe valere an-
che per il risuonare di un singolo suono, che dura nel tempo. Husserl usa il termine ritenzione per
indicare il modo in cui, nella percezione attuale di un suono, e di qualsiasi altro vissuto, vengono
percettivamente implicate le scene trascorse e con protenzione il modo in cui verranno implicate
quelle anticipate.
All’interno di un processo percettivo la dimensione temporale del presente assume così il valore
di un limite mobile, di un punto in movimento che si va estendendo da una sequenza appena tra-
scorsa e si protende verso il suo sviluppo.
Il presente si muove sempre all’interno di un decorso percettivo, di un processo quindi se da un
lato ha natura istantanea, un suo ora, che occupa un punto preciso nel decorso delle percezioni,
dall’altra ha una dimensione che si estende e si dilata, che si riaggancia alla sequenza appena tra-
scorsa e tende a risolversi sugli sviluppi di quella che si va preparando.
All’idea di un presente puntuale , o di un presente che si dilata misteriosamente nella durata, si
contrappone l’immagine di un punto, di un proprio ora, che si estende in avanti ed indietro, secon-
do il configurarsi processuale del decorso percettivo.
Perché si dia esperienza, perché l’esperienza sia possibile, dev’essere possibile collocare ogni
istante all’interno di un decorso temporale cui appartiene. Il presente ha così il carattere di una so-
glia, a cui si arriva attraverso un percorso ben determinato (la somma di tutte le scene precedenti) e
attraverso cui si transita per dar ragione dei possibili decorsi successivi.
Stiamo costruendo una sorta di catena, in cui il presente congiunge gli anelli del passato con
quelli del futuro.
L’immagine di un vincolo che orienta il flusso del tempo, che lo trattiene e lo organizza rispetto
ad una propria scansione ritmica si fa particolarmente potente.
Esso ha quindi l’andamento di una sezione del decorso ritenzionale – protenzionale, ma questa
sezione è in movimento, raccogliendo il senso di tutte le fasi precedenti e preparandosi ad entrare
nel decorso della fase che va sopraggiungendo.
Nel suo Elementi di una dottrina dell’esperienza 16, Giovanni Piana osserva che una rappresen-
tazione del presente come linea in cui tutti i punti – istante vadano intesi come limiti, risulterebbe
assai povera, perché ridurrebbe tutto il processo ad un semplice tratto temporale, senza entrare nel
merito del senso del decorso, delle latenze, delle aspettative che nel processo percettivo entrano in
gioco e che chiamano in causa, al tempo stesso la soggettività a cui quel processo si va offrendo ed
il contenuto del decorso percettivo: un’interpretazione del tempo come una linea retta, come somma
di intervalli, di semplici luoghi temporali ove dimora l’istante che viene individuato nella sua posi-
14
Edmund Hussel, Zur Phänomenologie des Innere Zeitbewussteins (Husserliana X) hgg v. Rudolf Boehm, Martinus
Nijhoff, The Hague, 1966, trad. italiana di Alfredo Marini Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo,
Franco Angeli Editore, Milano, 1981, pp. 60 – 71.
15
Witold Rudzińsky, Il ritmo musicale. Teoria e Storia, a cura di Rosy Moffa, Libreria Musicale Italiana Editrice, Luc-
ca, 1993, p. 13- 14.
16
Giovanni Piana, Elementi di una dottrina dell’esperienza, Il Saggiatore, Milano, 1979, pp. 37 – 41. Il testo è oggi re-
peribile in edizione elettronica nell’archivio di Giovanni Piana, presso il Sito Internet Spazio Filosofico, all’indirizzo
http://filosofia.dipafilo.unimi.it/%7Epiana/elementi/e_idx.htm.

15
zione è oggettiva, ma non è in grado di parlare di quell’ora in cui sto ascoltando un suono che at-
trae la mia attenzione, del momento in cui quel suono sta risuonando.
Egli propone quindi un’immagine che abbiamo già visto in azione all’interno dell’analisi delle
nostre decorazioni. Il fluire del tempo va riportata ad una linea, questa volta intesa come immagine
di un movimento. Il punto ora, il presente istantaneo, avanza e progredisce, generando la linea, che
diventa immagine del presente che si estende.

Alla linea progressiva dell’ora attuale che sta passando, al sopravvenire dell’ora dobbiamo associare
la linea regressiva di un punto- ora che passa:

Al disegno manca ancora l’elemento più importante, manca cioè una rappresentazione per la pre-
senza ritenzionale, per ogni punto – ora, dei punti ora trascorsi. Questo implica che vi è una proie-
zione del passato del futuro, che il ricordo non si limita a sprofondare nel nulla, ma lascia una trac-
cia, prepara il cammino verso quell’orizzonte, quel punto esteso che è il presente.

16
La figura ci mostra che nell’istante in cui è presente la scena B, in cui il suono sta risuonando, la
scena A (l’attacco del suono) è ancora ritenzionalmente presente, e così tutto il decorso da A a B. Il
passato non sprofonda in un vuoto, vincola con la sua proiezione il futuro. Il legame tra le rappre-
sentazioni dev’essere ben solido: se cammino per la mia stanza, non posso trovarmi di colpo nel
centro di un bosco: se ciò accadesse, osserva Piana, se si spezzasse quel legame, quel vincolo, signi-
ficherebbe che sto sognando.
Ora si chiarifica meglio perché purezza della linea retta non ci bastava, perché cioè non ci basta-
va isolare le singole scene, le singole sequenze nella loro segmentazione, individuazione, nel tempo.
Il loro luogo temporale si proietta sulla linea verticale della presenza ritenzionale (BA’). Nella
proiezione, quel luogo varia di continuo al variare del punto ora nel movimento progressivo del far-
si del presente. Nel fluire del tempo del tempo, ogni punto temporale, che come istante occupa un
luogo fisso nel tempo oggettivo, ma come presente istantaneo, come momento del proprio ora che si
costituisce, è sottoposto alla continua variazione dei propri valori ritenzionali.
Ogni scena percettiva, ogni processo legato ad un contenuto, come l’ascolto di un singolo suono
che attacca, dura e si spegne, presuppone questa componente temporale, condizione formale della
sintesi percettiva, che deve pienamente dispiegarsi rispetto ai contenuti giocati nel decorso. Vi è un
flusso ed un’organizzazione del flusso, che inquadra una scena dietro l’altra e riesce a dar ragione
della transizione da una all’altra.
Ad ogni nuovo ora, deve legarsi la coscienza ritenzionale di ciò che è appena accaduto e quella
protensionale di ciò che sarà. Se l’andamento del tempo per la soggettività è quello di una catena in
cui ogni istante si collega a quelli appena trascorsi, l’ora si presenta come un continuo variare di
prospettiva sugli oggetti che ci offrono, determinato dalla catena di relazioni che lo collegano alla
sequenza appena trascorsa.
Sembra che il tempo proceda grazie ad una continua espansione dell’orizzonte, che ricorda molto
l’idea di uno spostamento da un qui, il punto in cui mi trovo ora, ad un là, che è l’orizzonte, il punto
di vista determinato dal percorso spaziale, dalla sequenza di tutti i passi che ho percorso per arriva-
re qui. La natura processuale del tempo, il suo riferirsi ad una soggettività è così la condizione for-
male che permette alla soggettività di far esperienza di un suono: il dire che la percezione di un
suono ha un inizio, una durata ed una fine, implica che esiste una processualità che si articola anche
rispetto alla durata puntuale del battito, della percussione.

§7 Il tendersi del suono nel consumarsi della sua durata fenomenologica

Quanto detto non basta ancora, per poter avviare un discorso sulle relazioni contenutistiche le-
gate ad una descrittiva del ritmo, ma ci permette di chiarire in che senso presupporremo la valenza
temporale nella percezione di un suono.
L’immagine del diagramma della coscienza interna del tempo di Husserl ci spiega bene la nostra
reticenza a contrapporre la dimensione dello spazio a quella del tempo, come abbiamo visto emer-
gere all’inizio del nostro discorso. Il decorso temporale per una coscienza ha fortissime analogie
con il decorso dell’organizzazione del decorso delle scene temporali: da una catena ad un’altra, ri-

17
mane una sorta di vettore, che indica in fondo l’attività della coscienza, che tiene i due ambiti in
strettissima relazione.
Dobbiamo osservare che, ricorrendo all’immagine della catena, rischiamo di cadere in
un’equivoca accentuazione del carattere schematico connesso alla dimensione ritmica: sembra in-
fatti che, a partire dalla forma temporale del decorso d’esperienza, venga spontaneo reinterpretare
tutta la tematica ritmica all’interno di un discorso sulla modularità. Sappiamo che il momento ritmi-
co si muove anche sul terreno della raffigurazione, che un lato del problema che sempre una specu-
lazione sul ritmo mette in movimento tocca l’emergere della dimensione dell’evento, del configu-
rarsi che irrompe, attira su di sé l’attenzione, ancor prima d’aver messo in luce le proprie regole.
A questo punto potremo comprendere meglio il senso con cui diciamo che il suono è , anzitutto,
un processo, che ci appare nella forma del trascorrere: un suono anzitutto ha una durata, caratteri-
stica fenomenologica che lo distingue dagli altri oggetti che sono in questa stanza. Se dicessimo che
un tavolo o una sedia hanno una durata, vorremmo intendere che superato un certo lasso di tempo,
vengono meno le funzioni per cui sono stati costruiti, che essi si corrodono, si corrompono. Ma in
quest’osservazione giace un equivoco: il fatto che la consistenza di un oggetto sia soggetta a corru-
zione, ad alterazione, non è un problema temporale: vi sono agenti fisici, chimici, ambientali che
vanno o corrodere quelle strutture, non il tempo. Tali caratteristiche hanno a che fare con il conte-
nuto materiale dell’elemento percepito, e non con il trascorrere del tempo.
Il suono, al contrario ci appare proprio nella forma del trascorrere. Ci appare, appunto, ne fac-
ciamo esperienza così: esso si muove nel tempo e ci attrae in grazia del suo movimento. Esso occu-
pa certamente un intervallo di tempo obbiettivo, come mostra bene l’accenno alla tematica husser-
liana svolto poc’anzi, ma si offre a noi proprio nel suo trascorrere, nel suo avere un inizio ed una fi-
ne che ci attraggono verso di lui. Irrompe da un silenzio, da un fondale, stagliandosi rispetto a qual-
cos’altro: ci appare, appunto, e ne facciamo esperienza così. Esso si muove nel tempo e ci attrae in
grazia del suo movimento.
Esso occupa certamente un intervallo di tempo obbiettivo, come mostra l’accenno alla tematica
husserliana svolto poc’anzi, ma si offre a noi proprio nel suo trascorrere, nel suo avere un inizio ed
una fine. Al suono appartiene dunque il carattere di processo: l’esperienza percettiva del suono è
anzitutto contatto con un processo, breve o lungo che sia.
Il carattere di movimento presente nel suono viene paragonato da Piana 17 al movimento di un
punto luminoso su uno schermo scuro. In questa situazione il movimento cattura lo sguardo in
modo peculiare: esso trascina nel proprio percorso perché non appena l’occhio si posa sul punto che
si muove, esso è tratto subito oltre. Potremmo dire che, per l’ascolto, accade qualcosa di analogo.
Tali osservazioni non ci bastano ancora, perché sappiamo che esiste una differenza ontologica
fra la cosa spaziale e l’oggetto temporale, e questa differenza si appoggia, oltre che sul piano mate-
riale, sul modo con cui esse si manifestano attraverso la propria durata fenomenologica. Abbiamo
detto che il suono vive nel tempo, si consuma esclusivamente sul piano temporale. Potremmo ag-
giungere che la caratteristica del suono è proprio quella di accadere. Il suono accade, proviene da
qualche parte, e tende, come scrive Piana, a sopravanzare, ovvero a lasciarci dietro di lui, dietro al
suo bruciarsi nel concreto consumo di tutto l’intervallo della propria durata. Il suono produce quindi
una lacerazione nella continuità del flusso, si apre come una ferita, un taglio, che perfora ed anima
una superficie: il suono è , anzitutto, un processo, che ci appare nella forma del trascorrere.
Il problema è delicato e merita di essere approfondito: da una parte sembra che non si possa giu-
stificare in modo così immediato il rapporto che lega il suono ad una soggettività, dall’altra parte la
pregnanza fenomenologica dell’esperienza del suono, si basa proprio su questi dinamismi. Il suono
non occupa semplicemente un tratto di tempo, ma quel tratto di tempo viene effettivamente colto
come un decorso che ha un’inizio ed una fine che sperimentiamo direttamente, che fanno cioè capo
alla natura del rapporto d’esperienza che instauriamo con loro. Dire che un suono si manifesta nel
tempo, risulta così una determinazione poco pregnante: dovremmo invece parlare di una durata fe-
nomenologica, una durata che si manifesta nella percezione in modo concreto.
17
Giovanni Piana, Filosofia della Musica, pp.134 – 135.

18
La percezione della durata del suono è percezione di un processo, di un suono che ha un inizio,
dura ed ha una fine: il suono quindi si muove nel tempo, verrebbe voglia di dire che rende percepi-
bile il durare come un movimento, ma questo durare è il durare del suono stesso, non certo una mi-
steriosa essenza della temporalità, è un durare che ci viene offerto dalle relazioni peculiari messe in
gioco dal processo percettivo nella forma del trascorrere.
Il tempo non viene colto direttamente, ma attraverso il suono, così come non esiste una percezio-
ne pura dello spazio che non passi attraverso la percezione delle cose. L’idea di un trascorrere im-
plica quello di un continuo scivolamento da una fase ad un'altra: ciò che trascorre è in movimento,
proviene da qualcosa e va verso qualcos’altro.
Ma questa determinazione è insufficiente: la caratteristica del trascorrere è proprio quella, come
scrive Piana, di essere un venir da - andando subito oltre, l’immagine di un limite che si muove,
che mette in relazione qualcosa che è già stato superato verso un qualcosa che incombe. L’analogia
coglie in modo elegante il carattere tensivo del suono stesso. Se il suono si presenta come una fase
mobile, che sta sopra sopravanzando qualcosa, esso ha carattere tensivo: il suono è sempre teso, la
tensione temporale è una sua caratteristica strutturale.
Comprenderete meglio perché fosse giusto riproporre la concatenazione che lega l’ora al suo
passato ritenzionale rispetto alla protensione, e quanto fosse essenziale radicare quel processo
all’interno del decorso percettivo. Non esistono esperienze astratte del suono, esso si rende presente
a qualcuno.
Spesso, nelle descrizioni del suono, viene evocata l’immagine di un gorgo, di un imbuto che at-
trae verso di sé: potremmo vedere, in queste immagine, proprio la ricaduta di una caratteristica
strutturale del suono stesso: il suono è tensione temporale, che cattura l’ascolto. Il carattere di ten-
sione potrà poi essere giocato in modo diverso, a seconda di come vengono elaborati i materiali
all’interno del processo compositivo. A questi punto, potremmo osservare che una volta sottolineate
le differenze ontologiche che allontanano l’apprensione dei contenuti spaziali da quelli temporali,
dobbiamo osservare che, in una prospettiva fenomenologica, permane la possibilità di tracciare utili
analogie fra i due ambiti. In entrambe i campi, il concetto di decorso percettivo, fatto di attese che
verranno o meno corrisposte, ma che dovranno necessariamente organizzarsi seconde delle regole,
rimane comune. Ma il nostro scopo è entrare nel vivo della tematica temporale della durata dei suo-
ni, rompendo una contrapposizione con il concetto di spazialità e di tempo obbiettivo, che intorbida
sempre le acque, e che abbiamo rifiutato fin dall’inizio delle nostra discussione.
Cerchiamo ora di presentare delle semplificazioni che ci permettano di organizzare una serie di
tappe, legate allo svilupparsi di questi discorsi.

§ 8 Alcune esemplificazioni sonore del problema: emergere della nozione di metro

Il primo esempio è particolarmente elementare e non ancora musicale, ma che riassume molti
aspetti del discorso che abbiamo sviluppato fina ad ora. Si tratta di una sirena bitonale in movi-
mento. La sirena che si muove nello spazio ci può riportare immediatamente in direzione del suono
segnale, del suono che sta per: il gioco sarebbe anche facile, perché alle sirene bitonali della polizia
americana siamo tutti abituati, ed il loro risuonare sinistro fa parte della nostra esperienza di spetta-
tori televisivi e forse non solo di quella. Ma non è necessario incamminarci sul fertile terreno del
simbolismo: prima di porci il problema del rapporto fra segno e significato, tratteniamoci sulle pro-
prietà fenomenologiche, legate anche al mutare dell’intensità, che avvicina e allontana il suono in
modo tanto marcato.
Siamo di fronte ad un andamento esplicitamente spaziale, con un movimento che va da destra
verso sinistra. Il percorso del punto luminoso qui traccia anche uno spostamento nello spazio e nel
farlo mostra una prima dialettica delle proprietà espressive giocate dai suoni: essi possono apparirci
vicini o lontani, a seconda della loro intensità.
Si tratta di un suono non ancora musicale e quest’ambiguità merita di essere portata alla luce in
tutta la sua problematicità: come nel caso della goccia, l’andamento ritmico che la caratterizza è

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talmente veloce da non renderla facilmente modulabile all’interno di un discorso musicale. Nel ca-
so della goccia il periodo è troppo irregolare, qui la sequenza intervallare che esso esprime è molto
elementare, troppo limitata, persino troppo regolare.
Possiamo tuttavia osservare che il suono della sirena, che nasce come strumento per l’analisi
del numero delle vibrazioni di un suono rispetto all’unità di tempo che lo sottende, può entrare in
una composizione musicale in condizioni ancora più elementari. La sirena vibra a bassa velocità,
quando il numero di vibrazioni è basso, e allora produce un suono grave, che ha consistenza di un
soffio percussivo, oppure può salire verso l’acuto, se il numero di vibrazioni aumenta. Il suono della
sirena è un puro vibrare della durata, quasi una traduzione della durata di un suono in evento sonoro
Nel novecento la sirena è stata usata più volte in composizioni musicali, come in Ionisation 18 (1929
– 1931) di Edgar Varèse o nella prima Kammermusik (1921) di Paul Hindemith. La sirena adottata
da Varése in Ionisation non è neppure bitonale, ha il carattere di un indeclinabile, ma è ricco di
valenze simboliche, ma emerge proprio all’interno di un brano scritto per percussioni. E in quel
contesto, l’irrompere dell’andamento continuo del suono della sirena, il suo presentarsi come un du-
rare, che permane, espandendosi in un glissando che segue un movimento dal basso verso l’alto che
sembra inghiottire tutto lo spazio musicale, entra in conflitto con l’attacco discreto dei suoni percus-
sivi, con l’irrompere di suoni che tendono assieme al materico ed allo schematico. Il suono di una
percussione è sempre un colpo, ma il colpo può essere raggruppato in moduli..
Qui cominciamo a scorgere il significato del concetto di ritmo come analisi dell’organizzazione
delle durate in un brano musicale. La durata, nel ritmo, è anzitutto irrompere di un colpo, un colpo
che spezza qualcosa e che si organizza e e si modula in uno schema, oppure di un elemento conti-
nuo, di un gorgo sonoro, come quello della sirena, in cui la durata del suono vibra tutta a seconda
della sua intensità. Si tratta di dialettiche elementari fra suoni puntiformi, materici e suoni continui,
che durano, fra colpo e suono che si trattiene.
Continuiamo con due ascolti piuttosto istruttivi, che mettono in gioco l’attrazione per il suono
inteso come punto in movimento. Un punto in movimento richiama uno sfondo e a questo proposito
la teoria musicale, la pratica compositiva ricorre ad una serie di figure che sembrano alludere a que-
sta funzione di fondale, che ambienta, accoglie un suono nel suo movimento, lo colloca in uno spa-
zio in cui esso possa risaltare.
Emerge così quasi spontaneamente un riferimento al bordone. Con l’espressione bordone indi-
chiamo una figura del linguaggio musicale: si tratta dell’emissione costante ed insistita di una nota
grave ad accompagnamento di una melodia, posta in un rapporto consonante con la fondamentale
della nota stessa. Il bordone funge quindi da sfondo, su cui si muove il disegno melodico. Esso po-
trà configgere con le note che sostiene o fondersi con esse, facendo così nascere immediatamente
una dialettica fra movimento della figura, ambientazione e contrasto.
Considerazioni analoghe potremmo farle per la figura ritmica dell’ostinato, una formula melodi-
ca che, eseguita da un basso, si oppone al movimento delle altre voci, in una staticità iterativa. Co-
me vedete, nella descrizione a ricorrere a categoria che richiamino l’idea di un movimento con una
direzionalità precisa. Una melodia è una sequenza sonora, che ha un’architettura, relazioni di con-
tiguità e contrasto fra gli elementi che la compongono. Essa c’è mentre risuona . E si fa seguire.
Ecco un Inno alla Vergine che proviene dalla tradizione melchita, il nome arabo della chiesa im-
periale bizantina. Il testo proviene dalla Liturgia Greca di San Giovanni Crisostomo, del Quarto Se-
colo. La nota tenuta dal coro è un’immagine molto precisa di quello che definiremmo un macro-
esempio di suono tenuto fermo, che non muta nelle sue caratteristiche.
Il vero movimento, saremmo portati a dire, comincia con la melodia che esplora una struttura
intervallare, il primo modo, lo enuncia e poi inizia a dilatare alcuni intervalli , ne colora alcuni av-
vicinandoli, altrove ne espande altri. Ed il fondale comincia a seguirla, grado dopo grado, fino alla
clausola finale, in cui si toccano gli estremi più gravi della scala, e la melodia si chiude in unisono.

18
Vi sarebbe da fare un lungo discorso su questo brano, una delle grandi apoteosi della via timbrista nella musica del
novecento. Rimandiamo un approfondimento a chi volesse dedicarvi una esercitazione, consultando Giovanni Piana,
Mondrian e la musica, Milano, Guerini e Associati, 19995.

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Siamo costretti a ricorrere sempre a categorie descrittive legate al movimento, ma questa caratteri-
stica descrittiva trova il suo fondamento proprio nelle differenziazioni interne del materiale musi-
cale. Il gioco intervallare oscilla continuamente sul quarto ed il quinto grado della scala, raggiunto
spesso attraverso frizioni che si avvicinano al quarto di tono, ma non possiamo trattenerci su
un’analisi del brano.
Abbiamo comunque due tipi di movimenti: il movimento del suono, che dura nella sua tensione
ed il movimento della voce, che si articola anche all'interno di una sequenza di suoni. Anch’essa è,
naturalmente in movimento, ma qui emergono regole costitutive più complesse, sulle quali dovremo
intrattenerci più avanti. Intanto la sequenza deve avere una sua coerenza interna, che permetta di te-
nere insieme gli elementi di contrasto e quelli di contiguità, deve avere regole grammaticali che ci
permettano di seguirne l’articolazione, in qualche misura anticipandola.
Il fondale trascolora. Sono proprio queste regole, quando vengono disattese, che ci fanno prova-
re un senso di sorpresa: l’articolazione della struttura ha avuto un andamento imprevedibile. Il fatto
che vi fosse un andamento, dovrebbe chiarire che ci aspettavano qualcosa che non è arrivato, o che
è arrivato troppo presto. Esiste quindi un gioco odi continua differenziazione fra discontinuità e
continuità, anche all’interno della semplice esplorazione di una struttura scalare, che viene qui
giocata in senso melodico. L’esposizione della scala discendente, ad esempio, non è perfettamente
omoritmica, vi è un sottile gioco di accelerazione, che vuol mettere in luce alcuni aspetti espressivi.
In altri termini, anche in questi esempi apparentemente semplici, esplode subito una dialettica fra la
continuità, l’andamento continuo del decorso percettivo, e le discontinuità offerte dai materiali:
questa dialettica prende corpo nel presentarsi stesso del brano musicale.
La componente architettonica del brano offre appigli alla percezione, offre appigli alla forma del
trascorrere che caratterizza il brano stesso, ma entra in dialettica con lei, presenta momenti retroatti-
vi, in cui sembra ricominciare identica a se stessa, poi sviluppa una serie di variazioni, chiamiamole
alterazioni degli intervalli, per cui ci spinge dove vuole. Forse, quando parliamo di una capacità tra-
scinante della musica, vogliamo riferirci proprio a questo gioco. E forse questo gioco potrebbe e se-
re già un primo elemento per entrare più vicino nella tematica del ritmo.
E’ interessante notare che nella sequenza siamo attirati dal passaggio da un suono ad un altro,
mentre nel caso del fondale, esso ci attrae nella sua fissità. Ma la cosa importante è che questa fis-
sità non è passiva staticità, pur nel riproporsi dell’identico. Qui emerge un nuovo problema: per
quanto sia statica, quella linea musicale, noi non possiamo che seguirla: essa non si dà mai tutta in-
tera, come una figura che possiamo contemplare da più punti di vista. Non ci sta di fronte come la
decorazione, che possiamo esplorare con lo sguardo. La linea statica si fa, a sua volta, seguire come
un movimento, un movimento che sostiene qualcosa nel suo durare. Quel suono ha quindi una ten-
sione: nella sua sostenersi identico a sé stesso, esso si consuma e si muove.
Un altro esempio che vorrei proporvi è un breve brano, proveniente dalla tradizione musicale del
Rajastan, una regione dell’India. Si tratta di un flauto a bordone vocale, un flauto che viene suonato
con un bordone, emesso dalla gola del flautista stesso.
Abbiamo scelto un flauto, un aerofono, concentrandoci sull’attacco dello strumento, sulla com-
ponente timbrica che alona, come un’ombra, la nota emessa. La tecnica d’emissione di questo stru-
mento è piuttosto interessante: esso va tenuto in una posizione obliqua ed il flautista accompagna
l’emissione delle altezze ricorrendo ad un suono di gola, che fa, appunto, da bordone. Abbiamo
quindi un fondale sonoro offerto dall’emissione da parte della gola della nota bassa, che rimane re-
lativamente inerte, si staglia come sfondo ed una melodia che si muove ed assume un andamento di
danza, piuttosto marcato. L’elemento timbrico, nel suo alludere alla continuità, non rimane indiffe-
rente al movimento: quando l’andamento della figurazione ritmica diventa trascinante, esso viene
rafforzato dal pulsare del suono di gola. Si fanno così avanti due andamenti caratteristici: il ritmo
puntato del suono di gola, e la figurazione danzante del movimento melodico basato su una sempli-
cissima figura poliritmica.

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Gli esempi sono molto lontani fra loro, il primo sembra quasi volerci portare per mano verso un
discorso sulle altezze, sugli intervalli. Ma la questione cambia se prestiamo attenzione al modo con
cui la voce della cantante intona le note e la fa durare, trascolorare tra di loro. Si tratta di un movi-
mento di tenuta del suono, che cerca di far fondere i suoni tra di loro, spezzandoli il meno possibile.
L’uso di un’emissione che modella il suono secondo queste regole sottolinea la caratteristica tempo-
rale dell’andamento del suono: nel canto i suoni permutano l’una nell’altro, e vengono concatenati
immediatamente, cercando di suggerire l’idea di una sequenza lineare in cui la nota d’appoggio
sembra assorbire dentro di sé tutto il flusso delle note precedenti.
E’ un’altra immagine della concatenazione, ma è anche uno splendido esempio di come un sot-
tile gioco ritmico, possa far emergere una figura, che si nutre del movimento - verso che connette
tutti i suoni concatenati nella sequenza.
Il brano successivo proviene dal repertorio indiano, e ci permette di uscire dal contesto sublimato
dei due primi esempi (escludiamo Ionisation, su cui potremo tornare) ed entrare all’interno degli
schemi ritmici.
Ascolteremo delle tablas, uno strumento costruito da due tamburi, che possono essere accordati
mediante la regolazione della tensione delle pelli: modificando l’accordatura è anche possibile en-
fatizzare le relazioni dinamiche, le differenziazioni timbriche. Per la capacità di modulare il suono
attraverso le pelli, le tablas vengono spesso dette tamburi parlanti. Cosa accade in queste registra-
zioni? Il maestro indica prima lo schema ritmico con la voce, e poi passa all’esecuzione dello sche-
ma, fiorendolo. Al colpo come battito, come pulsazione, comincia ad affiancarsi la modularità dello
schema. Il maestro indica varie tipologia metriche, e vi invito a fare attenzione al fatto che la con-
clusione degli schemi più complessi si chiude nella tessitura più grave del tamburo. Questi schemi
metrici hanno dietro di sé una grande tradizione teorica, e permettono fin da un primo ascolto una
serie di riflessioni sul concetto di elasticità ritmica. Spesso il maestro rallenta, prima con la voce,
poi sullo strumento, la scansione delle figure ritmiche, alle volte si diletta a rallentare la scansione e
poi ad accelerarla, proponendo la stessa figura metrica, ma rallentando la scansione che la sostiene.
Questo è un problema molto interessante, perché propone una prima distinzione fra flusso misurato
del tempo ed elaborazione della figura, che viene sapientemente deformata. Torneremo su questi
aspetti legati alla segmentazione della durata.
Nel secondo ascolto che vi propongo, alle tabla si affianca il mrdangam. In questo modo il per-
cussionista indiano si avvale di quattro tamburi regolabili. Il processo d’apprendimento si basa sulla
trasmissione orale di una serie di misure ritmiche: i maestri indiani ricorrono ad un set di sillabe ,
per indicare l’articolazione interna del modulo ritmico, ed a ad una serie di gesti per specificare la
metrica. Ecco una buona immagine di come nasce lo schema ritmico: la sequenza viene ripetuta,
imparata e fissata: qui emerge in modo più chiaro quello che noi indichiamo con scansione, intesa

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come operazione tesa a dare rilievo ad una modalità della schematizzazione temporale, mentre il
metro va mimato. Dobbiamo cominciare a proporre una prima distinzione fra ritmo e metro. Per
entrare in questa distinzione dobbiamo entrare nel merito di una serie di semplici osservazioni mu-
sicali sulla ricezione del ritmo
Le considerazioni tendono ormai a cercare di scendere su un terreno più ristretto, quello del rap-
porto che lega il concetto di ritmo a quello di metro. In fondo, il discorso è nell’aria, da quando ab-
biamo cominciato a parlare del carattere trascinante della musica, del suo lasciarci dietro di sé, del
suo porsi nella scia delle regole e degli eventi che vanno costituendola. In tutto questo, no nabbiamo
mai negato che la musica accada nello scorrere del tempo obbiettivo, non abbiamo mai dovuto allu-
dere ad un misterioso musicale, che debba riscattare la durata dal cosiddetto tempo degli orologi.
Potremmo dire che, nel battere il tempo, la musica lo misura, ma lo misura ponendone l’oggettività
in un altro modo, e scandendolo secondo i propri scopi e le proprie articolazioni.

§ 9 Ritmo come conservazione della tensione: la posizione del problema in Platone

Abbiamo iniziato il nostro discorso alludendo ai possibili decorsi percettivi messi in gioco dalla
logica interna di una forma, logica interna che prende consistenza nella grammatica del processo
percettivo stesso. E’ evidente che nel caso del ritmo non potremo più ripetere le osservazioni sche-
matiche sviluppate riguardo al concetto di poliritmia spaziale. Tutto questo accade per una serie di
buone ragioni, che si radicano sul piano fenomenologico: anzitutto, come abbiamo già detto, la di-
mensione dell’ascolto non può essere riportata sul piano della contemplazione del disegno, oggetto
eminentemente atemporale.
Si tratta di due decorsi percettivi completamente diversi: nel caso di un oggetto atemporale come
la decorazione: in quei casi volevamo puntualizzare alcuni aspetti relativi al rapporto fra flusso e
ritmo, volevamo mostrare come la decorazione fornisse un buon esempio di organizzazione spaziale
della forma, e ci potesse mettere di fronte ad un concetto di ritmo come capacità di trattenere una
forma. Ora, nel momento in cui ci avviciniamo alla dimensione del suono che trascorre, queste
esemplificazioni non si rivelano più sufficienti. Un brano musicale si forma mentre lo ascolto, né
prima, né dopo. Esso c’è quando c’è. Dobbiamo cogliere la forma nel suo trascorrere, guardando
alle relazioni fra le durate.
Quando parliamo di ritmo, si evocano immediatamente una serie di figure che riportano, impla-
cabilmente, al concetto di forma organica nella natura, ed al potere rassicurante della ripetizione: le
onde del mare, il battito cardiaco, il ritmo delle stagioni, divengono immagini che esprimono
l’organicità, l’articolazione di un intero, che potrebbe essere tanto l’oggetto musicale, quanto lo
svilupparsi armonioso delle parti di un elemento naturale, il felice compenetrarsi degli elementi fra
di loro. L’evocazione è immediata, ed ha certamente un aspetto che si radica bene all’interno del
nostro problema: in questa prospettiva, infatti, l’opera musicale viene assimilata ad un organismo,
ad una totalità organica, in cui predomina l’idea di regolarità, di una interdipendenza delle parti ga-
rantita da una grande coesione interna. E’, in fondo, un’immagine mitica della natura quella che tra-
spare da queste figure, un’immagine che non ci permette di entrare nel vivo di una problematica le-
gata alla ritmica musicale, rimandandoci sempre ad un fitto tessuto analogico, nel quale è facile
perdersi. Dall’altra parte, la prima definizione di ritmo musicale che incontriamo nella storia della
filosofia, rimanda all’idea di una regolarità che si esprima attraverso proporzioni numeriche che fis-
sano le relazioni fra i valori delle durate.
Platone (427 – 347 a C.) sviluppa una ricca serie di considerazioni sulla funzione del ritmo e
dell’armonia alla fine del terzo libro della Repubblica (398d – 401d), ma è certamente nelle Leggi
(664e – 665a) che incontriamo una definizione assai pregnante del concetto di ritmo, che ha lunga-
mente influenzato gli studi sulla materia: il ritmo ordina, organizza il movimento del corpo umano e
diventa propedeutico in ogni forma di educazione. Il ritmo è l’ordine del movimento: potremmo di-
re che è il nome di quella misura, di quell’ordine (taÍcij), che sostiene il movimento (kiÍnhsij).
Possiamo osservare da vicino queste parole: taÍcij (taxis) indica la schiera, un ordine rigido, che

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può essere sollecitato, opponendosi al mutamento: esso designa la schiera militare, la classe sociale,
il posto in una schiera. E’ quindi qualcosa che dispone, che impone una regola, che frena una solle-
citazione, e fa mantenere una posizione. Platone lega questa nozione all’idea di kiÍnhsij, parola
che esprime non tanto il movimento in senso generico, ma sembra riferirsi all’idea di una fonte del
movimento che emerge nel passo di danza, nel moto da un punto ad un altro, nella mozione assem-
bleare, o nel mondo delle emozioni: kinesis indica commozione, sdegno, brusco mutamento
d’umore. Vi è quindi una profonda tensione nell’accostare i due termini, una sorta di frizione che va
messa subito in luce.
Il movimento del corpo deve poter essere riportato ad una forma, che si articola nel movimento
secondo regole canonizzate.
Nel controllo del movimento del corpo, si disciplina l’animo, ricorrendo ad un criterio di misura-
zione gestuale rigorosa. Nell’idea di disciplinare il mutare delle cose nel movimento, emerge subito
l’esigenza di una misurazione precisa, di un ordine basato sulle proporzioni, su quelli che chiame-
remmo valori ritmici, misure numeriche che scandiscono un mutamento posturale, un gesto che va
misurato ed organizzato secondo rapporti ben definiti e descrivibili. Platone accosta il ritmo
all’armonia, che permette l’individuazione delle corrette relazioni nell’intonazione della scala. Il
movimento diventa così una danza. In fondo, quando pensiamo al concetto di r(uqmoÍj, ed evochia-
mo il movimento di un peplo che avvolge un corpo o una disposizione dell’animo, questa opzione
legata alla misurazione risulta essere un semplice rafforzamento di quell’idea. Ma l’accostamento
va ulteriormente chiarito.
Il nucleo pregnante della definizione coincide con l’individuazione di un criterio di misurazione
unitario, attraverso cui individuare e scandire le singole fasi nel movimento, in un’accentuazione
del carattere discreto della pulsazione. L’idea di descrivibilità si collega immediatamente a quella di
divisibilità, secondo un procedimento preciso, che abbia, per così dire, un numero finito di passi, e
possa metterci sotto gli occhi il rapporto di partenza, il modulo, insomma, una volta per tutte. Si
tratta di una forma di estrema razionalizzazione numerica del problema ed anch’essa ha una sua
plausibilità, come vedremo tra poco. Le due immagini si incontrano e mettono in luce
un’interpretazione del movimento , come oggetto di commensurabilità e rafforzano l’idea di un rit-
mo che frena un flusso , che presiede e ordina la forma, misurandola.
Esiste così una relazione stretta fra l’individuazione di gruppi ritmici e la possibilità di descrivere
relazioni numeriche. In un filosofo pitagorico, Filolao di Crotone, leggiamo che ogni cosa ha rap-
porto, una relazione con il numero, (a)riqmoÍn e)Íxonti).
Nella mentalità greca il numero non è qualcosa di astratto dalla realtà, un’entità separata, ma
semplicemente qualcosa che indica una pluralità organizzata di oggetti, un indicatore per una colle-
zione. L’uso occorre nella nostra lingua quando usiamo espressioni del tipo un paio di, una dozzina
di, o simili. I numerali sono interpretati rispetto quindi a molteplicità ordinate, raggruppate secondo
genere, organizzate per gruppi ritmicamente ovvero attraverso una forma che le contraddistingua.
Ogni cosa può essere conosciuta, descritta, analizzata, riportandola alla possibilità di essere misu-
rata o descritta attraverso numeri. La struttura della realtà è così descrivibile numericamente perché
tutte le cose si adattano ai numeri. Vi è così armonia fra numero e cose rispetto alla quale
l’individuazione del ritmo è fase preliminare nel processo di misurazione. Senza il raggruppamento
e la ricerca dell'ordine della serie, non inizia il conteggio.
La tendenza alla regolarità è rafforzata dal fatto che Platone sta sviluppando un discorso che ha
di mira il controllo del corpo nel movimento, cui potremmo forse contrapporre il disarticolarsi del
movimento nella danza menadica, quel saltellare, quell’irrompere del gesto incontrollato che carat-
terizza la gestualità nel corteo e nella musica dionisiaca. Le menadi saltano flettendo una sola gam-
ba (Baccanti, 940 – 944), incespicano, si muovono a balzi19, si muovono con scarti bruschi, scarti
che descrivono l’irrompere del dionisiaco, come momento di continuità che travolge ogni discretez-

19
Una analisi assai fine del movimento a sbalzi della baccante, e del suo rapporto con l’idea di evento, apre Marcel De-
tienne, Dioniso a cielo aperto, Universale Laterza, Roma – Bari, 1986.

24
za, come l’ esplodere di una tensione che rompe ogni forma articolatoria nel movimento, bloccan-
dolo nello spasmo.
Gli stessi strumenti del corteo dionisiaco20, dove a strumenti a percussione squillanti come i cim-
bali corrispondono le sonorità più gravi del tympanon, dell’aulos, creano un conflitto stridente fra
suoni acuti e suoni gravi. Si tratta di un vero e proprio buco tra bande sonore gravi e acute, che vie-
ne coperto da un singolare rantolio degli strumenti a percussione.
Nel corteo dionisiaco l’atmosfera è frastornante, la forma ingovernabile: all’interno del cerimo-
niale, vi è una sorta di rappresentazione acustica dello spasmo.

o( me\n e)n xersi\\n


boÍmbukaj e)Íxwn, toÍrnou kaÍmaton,
daktuloÍdeikton piÍmplhsi meÍloj,
maniÍaj e)pagwgo\n o(moklaÍn,
o( de\ xalkodeÍtoij kotuÍlaij o)tobei=
.. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. ..
.. .yalmo\j d )a)lalaÍzei
tauroÍfqoggoi d ) u(pomukw=ntaiÍ
poqen e)c a)fanou=j foberoi\ mi=moi
tu[m]paÍnou d )ei)kw\n w(Ísq )u(pogaiÍou
bronth=j feÍretai barutarbhÍj 21.

L’uno tiene nelle mani flauti


dal suono profondo, lavorati col tornio,
e riempie tutta una melodia strappata con le dita,
un richiamo minaccioso suscitatore di follia;
un altro fa risuonare cimbali cinti di bronzo
……………………………………………
…alto si leva il suono della cetra:
da qualche luogo segreto mugghiano in risposta
terrificanti imitatori dalla voce taurina,
e la parvenza sonora di un timpano, come di un tuono
sotterraneo, si propaga con oppressione tremenda 22.

Oppressione che rimbomba, fischi, cimbali di bronzo che entrano in attrito con gravi sonorità di
timpano. In mezzo, ad unire le due regioni sonore in conflitto, stava il Rhombos, una sottile tavo-
letta di legno con un foro nel quale passa una lunga funicella, tenuta per due capi. In questo stru-
mento, che incontriamo in molte culture primitive, l’attrito con l’aria produce un variare del suono a
seconda della velocità di rotazione: quand’è lenta, il suono è grave, quando accelera diventa sempre
più acuto. Il proporre un ritmo che ordini e scandisca regolarmente il movimento, fissandone delle

20
Sul tema vedi Gilbert Rouget, Musica e Trance. Torino, Einaudi, 1986.
21
Aeschylus, fr. 71 Mette (Strab. 10, 3, 16)
22
Giorgio Colli, La sapienza greca I, Milano, Adelphi, 1977, pp.52 - 53. Nella traduzione di Colli, boÍmbukaj viene
tradotto con flauti, ma Anna Di Giglio, nel suo Strumenti delle Muse, Levante Editore, Bari, 2000, p.36 e p.49 mostra
che con tale nome si designavano anche strumenti per modificare l’intonazione dell’ au)loÍj. La sfumatura semantica
che deriverebbe dalla scelta di tale indicazione enfatizzerebbe la dimensione dell’alterazione, legata alla morfologia
dello strumento ad ancia: la linea melodica verrebbe proposta e continuamente modificata, arricchendosi di colori che
ne mutano continuamente l’identità ed assumendo un sinuoso andamento glissante, che entrerebbe in conflitto con l'an-
damento ritmico della melodia, che procede a scatti. Risulterebbe così rafforzata l’idea di straniamento, evocata dal
frammento.

25
coordinate fisse, scandendolo in fasi e figurazioni, implica il potersi gettare alle spalle la dimensio-
ne caotica, a cui fuggevoli annotazioni sembrano condurci. E non è certo un caso che i teorici greci,
quando parlano del ritmo, tornino volentieri sul tema della danza: nei Problemata aristotelici si os-
serva che amiamo il ritmo perché ha una scansione regolare e ci fa muovere in modo ordinato. E
quando parlano di unità elementare di battuta, parlano proprio di piede.
La preoccupazione di Platone è fissare, attraverso la regolarità del movimento, i termini del con-
flitto che contrappone nell’anima l’eccitabilità sensibile al momento razionale: dobbiamo allora co-
gliere l’aspetto più sottile del problema. Proponendo una misurazione, una scansione del movi-
mento attraverso il ritmo, Platone vuol conservare la tensione, i dinamismi sensibili, disciplinandoli
verso l’appropriatezza del gesto, che è ancora movimento, ma movimento dotato di una processua-
lità che esprime e risolve una tensione che non si esaurisce nella puntualità dello spasmo. Il ritmo
media quindi fra due opposizioni che non vengono mai meno, e che trovano un fondamento nel
conflitto fra componente razionale e componente sensibile dell'anima. Il riferimento ad una tensione
che conserva il movimento dalla spasticità, è la presa d'atto che esiste una dimensione espressiva
che protegge la natura processuale del movimento, che poggia sulla continuità dello spazio, dalla
rottura, dalla cesura improvvisa, dall'avvillimento della caduta. I riferimenti alla cura dei coribanti
da parte delle nutrici, che vengono assimilate alle nutrici che tranquillizzano i bambini con un mo-
vimento circolare, emergerà nei passi successivi (790d – 791d).
L'idea di una segmentazione non basta minimamente a dar ragione della complessità del concetto
platonico di ritmo: si tratta di una processualità che regola un flusso, ed in questo pienamente con-
sapevole tanto della mutevolezza del r(uqmoÍj, che della staticità schematica. Platone non propone
una semplice iterazione che misura, ma una tensione che preservi il movimento dai suoi stessi ec-
cessi, e che permetta si passi dal piano cinetico a quello dell'evidenza a quel nucleo strutturale di
gesti che indicano, nella danza, l'articolarsi del movimento corporeo nello spazio e nel tempo. La
cosa si comprende meglio se contrapponiamo allo sprizzare energetico della danza menadica,
all’irrompere della continuità caotica, agitata del dionisiaco, il movimento cullante, circolare cui il
filosofo ateniese allude quando ci parla delle donne che curano i coribanti, che ricorrono ad un mo-
vimento regolare, in cui i ritmi si assestano, rispetto ad un'unità di misura che si ripete.
Quel movimento statico, questa ciclicità rasserenante, sono due immagini di un ritmo che si av-
vicina al rarefarsi di un periodare che precede un silenzio, alla morbidezza della ninna nanna che
calma gli animi stravolti: sul piano espressivo e su quello delle relazioni di durata il ritmo assume il
valore di una preparazione al silenzio, di uno smussarsi del movimento che prepara l'avvento di una
immobilità. E’ la fine dello spasmo, attraverso il ritmo e la melodia, che mutano il carattere del mo-
vimento che scuote l’anima , calmandola.
Tuttavia, quel movimento tanto statico, è infinito, non si spezza mai: la circolarità del movi-
mento, fa sì che esso sia perenne. Ma su cosa poggia questa perennità, nel paradosso di un movi-
mento che è l’immagine qualcosa di immobile? Sulla logica interna della sua costruzione: il movi-
mento che culla non si ferma mai, e non lo fa perché la sua concettualizzazione trova la propria ra-
dice in un problema espressivo: ti cullerò sino ad addormentarti, in un movimento sempre identico,
che mantiene tutta la sua tensione nel durare. Il problema della stasi è quindi assimilabile allo spe-
gnersi della pulsazione nel rilassamento, ad un appropinquarsi progressivo ad una staticità cui pos-
siamo abbandonarci, perché non sappiamo distinguere le fasi di un moto perfettamente omogeneo
ed identico a sé stesso. Ancora una volta emerge una paradossale nozione di limite: una transizione
che si fa sempre più lenta, non raggiungendo mai l’immobilità. Essa continua a dilatarsi attarverso
suddivisioni successive, e non si può chiudere mai. Al movimento strappato dello spasmo, corri-
sponde la continuità del circolo, al colpo, una risposta, che si fa , via via , sempre più silente. La
dialettica ritmica messa in gioco da Platone è un gioco raffinatissimo fra vuoti e pieni, e questo gio-
care con l’idea di un movimento che culla, fino alla transizione del sonno, senza mai toccarlo, è, in
fondo, l’idea sublimato di un procedere per pulsazioni tenui, colpi senza accento.

26
La definizione platonica di ritmo23, spesso liquidata all’interno del concezione del bel movi-
mento, ordinato, consequenziale, che trapassa elegantemente da una postura ad un’altra in grazia
della sua misura, aspira in realtà a mettere capo a qualcosa che non si spezzi mai, che duri nella sua
tensione. All’irrompere del menadismo che è per necessità rottura e nuova partenza, pulsazione rit-
mica che si spegne per riaccendersi, contrazione che esplora a balzi lo spazio, si contrappone ora
una nuova tensione, che lo spazio misura, che accompagna il corpo nella traduzione dinamica dei
portati espressivi di una musica che pulsa in una regolarità che vuol essere infinita. E’ chiaro che
qui il problema sta proprio nella traduzione dinamica della tensione dello spasmo, dello sprizzare
che copre un’estensione in modo irregolare, senza sacrificare nulla della pienezza del movimento e
dei rapporti che lo legano al corpo che si muove in un’estensione ordinata.
La grande generalità della definizione platonica di ritmo fa tutt’uno con l’istanza di catturare e
dividere relazioni spazio – temporali, collocandole sullo stesso livello. L’animazione ritmica è , an-
zitutto, capacità di tener coese le fasi del movimento e. E’ quella coesione che permette di sapere
esattamente cosa fare, quando la sequenza venga interrotta. Questi problemi prenderanno ancora più
consistenza nella discussione aristossenica sulla ritmicità, che ci occuperà lungamente. A questo
punto, però, dovremmo notare come lo stesso concetto di schema vada relativizzato. Lo schema
(sxh=ma) non è qualcosa di statico, ma vibra anch’esso nella sua tensione, è ancora carico di movi-
mento come il r(uqmoÍj, la figurazione ritmica. Esso ha solo un assetto che gli permette di plasmare
energeticamente gli estremi che garantiscono riconoscibilità alla figura. Alla nitidezza
dell’articolazione del profilo, corrisponde un tendersi verso il ritmo che l’ha generato.
Anche volendo attenuare la portata dei questo discorso su un semplice piano posturale (in fondo
la discussione delle Leggi parte proprio dalla constatazione che spesso i giovani non hanno misura
nel movimento, non hanno portamento), la questione non cambia molto: il problema del ritmo è
sempre quello di qualcosa che sostiene e regola, attraverso l’uso della misura matematica, il disper-
dersi del movimento, che lo frena, ma non può bloccarlo. Il ritmo segue così i patemi di una transi-
zione, fissandola.
Ma cosa accade quando alziamo e solleviamo il piede, per sollecitare, a forza di colpi, l’impulso
ritmico?
Seguendo le indicazioni di Rudzińsky 24, potremmo assimilare il fenomeno ritmico al movimento
di una pallina. Essa viene gettata in aria e ricade sul suolo: il movimento si articola secondo due fasi
essenziali: lo slancio (inizio del movimento) e la ricaduta (la fine del movimento). Riprendendo la
terminologia greca, che è il paradigma per ogni trattazione tecnica della materia, egli chiama arsi lo
slancio, che in greco indicava il sollevarsi il piede da terra, e la ricaduta tesi. Per creare una cellula
ritmica saranno necessari due suoni, da porre in relazione sul piano della durate: il primo suono do-
vrebbe fungere da slancio (arsi, il secondo da fine del movimento (tesi): nell’unità ritmica elementa-
re dobbiamo distinguere il momento in cui ha inizio la fine il movimento, la chiusura del processo
bifase, , ovvero lo stato di transizione fra il movimento e lo stato di quiete, ovvero il momento in cui
la pallina tocca terra, che rappresenta il momento dell’appoggio ritmico: esso è l’ictus.
La parola ci interessa, perché viene sempre assunta immediatamente nella sua valenza tecnica di
battuta, pulsazione, cadenza, insomma un ambito di significati che rimanda al gesto di battere il
tempo , con le mani o con il piede. Indagando attorno al termine, troviamo una gamma di significati
d’uso molto più ricca. Ictus indica il colpo, la percossa, il morso, il taglio, la puntura la percussione,
o la pulsazione del polso.
E’ bene soffermarci su questa ricchezza di significati, perché essi rimandano immediatamente
alla ricchezza concettuale che il concetto di ritmo suscita, ed il nostro compito è quello di poterli in-
dividuare, per poterci muovere su un terreno tanto scivoloso come quello del ritmo, con qualche
precauzione.
Anzitutto, l’idea di colpo, di taglio di puntura, tutti gesti che indicano l’avvento di qualcosa,
l’irrompere di un evento improvviso, che muta bruscamente una situazione. Il colpo irrompe, spez-
23
Per una prima rassegna storica sul tema del ritmo, vedi Wilhelm Seidel, Il ritmo, Il Mulino, Bologna, 1987.
24
Witold Rudzińsky, op. cit., pp. 22 - 23.

27
za, ferisce, taglia qualcosa : è uno strappo, qualcosa che spezza una continuità ed instaura un pro-
prio regime di trasformazioni. Dall’altra parte, esso è pulsazione ordinata, concrescere organico, re-
golarità, movimento del sangue nelle arterie e quindi conservazione di un organismo. Vi sono quin-
di due aspetti, che risuonano nella parola, che rimandano tanto al momento del configurarsi di una
relazione che muta qualcosa, quanto al suo stabilizzarsi e che fanno parte del mobile esercito di
simbolismi a cui la ritmica rimanda.
Il colpo attrae la nostra attenzione, richiama un gesto, dall’altra parte esso è una pulsazione be-
nevola, ordine che garantisce il conservarsi biologico della vita. Nell’unità di arsi e tesi vediamo co-
sì il crescere di una tensione, che si allenta, si risolve nell’ictus, ma l’ictus ha doppia natura, allude
tanto all’irrompere di un elemento: (la cellula ritmica composta da arsi e tesi è infatti l’unità ele-
mentare, il criterio di misurazione) quanto all’iterarsi della cellula in uno schema.

§8 Cosa significa che il tempo è la materia del ritmo? Aristosseno

Preoccupazioni dello stesso tenore emergono anche dalla lettura degli Elementa Rhythmica 25 di
Aristosseno (354 – 300 a. C.), che si preoccupa immediatamente di avvisarci che perché vi sia per-
cezione del ritmo, è necessario che il fenomeno ritmico si articoli secondo rapporti che si ripetano e
che possano essere mimati da gesti.
Il ritmo fa tutt'uno con la regolarità della scansione: ma la regolarità della scansione prende cor-
po solo di fronte alla possibilità di individuare il movimento caratteristico di una figura che si ripe-
te. Solo in presenza della ripetizione, infatti, riusciamo a coordinare un movimento, o una serie di
gesti che ci permettono di decidere sull'efficacia nei rapporti fra durate che scandiscono una frase
musicale o un verso. Il ritmo ha quindi natura gestuale: se siamo portati a battere le mani, o i piedi o
a scuotere la testa, il ritmo funziona.
Questo modo di procedere si basa su presupposti che vanno portati in evidenza. Il primo è che
non basta una relazione matematica per misurare il movimento: se il tempo è caratterizzato dalla
sua continuità, dall'essere una linea retta, qualcosa che non ha parti, che ha limiti comuni, per cui si
trapassa continuamente da una fase all’altra, non possiamo accontentarci di isolarne dei frammenti,
perché otterremmo delle semplici durate. Le durate diventano percepibili ai sensi attraverso sillabe
o note musicali. Il tempo è quindi la materia del ritmo, la prima cosa da suddividere, per ottenere
una serie di rapporti (protos chronos), di valori semplici, proporzioni matematiche, che organizzano
tutta la struttura ritmica. Dobbiamo isolarne dei frammenti che abbiano pregnanza, che non siano né
troppo lunghi, né troppo brevi: in questa operazione decide la scelta nasce dalla possibilità di ca-
denzare con il corpo il movimento, ovvero di trasformare il frammento ritmico in un gesto, che si
possa iterare con facilità.
Esiste quindi una differenza, che va rilevata in modo immediato, fra l'attribuzione astratta di una
misura nel flusso temporale, assimilabile all'indicazione che troviamo ad apertura di un brano musi-
cale o nella suddivisione offerta dalle sillabe del verso, e l'articolazione, il periodare degli eventi,
dei suoni delle parole offerte da un ritmo, che si organizzano in strutture che hanno una vita auto-
noma che va riconosciuta.
Non basta, ad esempio, la semplice scansione in sillabe di un verso, il ricercare le lunghe e le
brevi, per applicarvi meccanicamente un metro. La natura di quelle suddivisioni, infatti, può soste-
nere accentazioni diverse: l'articolazione ritmica non si limita quindi ad una suddivisione o ad una
organizzazione per gruppi, ma deve fornire un'architettura degli eventi temporali.
Il terreno di esplicazione del ritmo è il battere ed il levare del piede, nella marcia o nella danza
(pouÍj). Vengono così introdotti i concetti di arsi e di tesi: ogni volta che muoviamo un passo solle-

25
Aristoxenus, Elementa Rhythmica. The Fragments of Book II and the additional evidence for Aristoxenean Rhythmic
Theory. Texts edited with introduction, transalation and commentary by Lionel Parsons, Clarendon Press, Oxford,
1990. Ci occupiamo del secondo libro, l’unico che ci sia arrivato in una versione integrale.

28
viamo un piede, e lo abbassiamo: quel movimento è diviso in due fasi: nella prima fase del proces-
so, il piede è sospeso in aria, nella seconda battiamo il colpo.
Il ritmo nasce come un'alternanza di colpi. Il problema è proprio qui: il ritmo nasce solo nella
transizione da una fase all'altra del processo: il ritmo deve rimanere sempre riconoscibile. Il suono
isolato, non relazionato ad un altro, non costituisce unità ritmica. Rimane solo un colpo. Dovremo
interrogarci su questo presupposto relazionale. Il risuonare del colpo non è schematizzabile, vive al
di fuori di ogni relazione.
Lo stesso vale per i fenomeni continui, o troppo discreti, come il canto delle cicale, o lo scorrere
di un ruscello, che non sono modulabili attraverso l'individuazione del segmento che esprime la mi-
sura dell'alternanza. Quei fenomeni naturali hanno un andamento caratteristico, riconoscibile, ma la
pulsazione che li caratterizza non può essere scandita attraverso il movimento, le fasi sono caratte-
rizzate da fenomeni di addensamento o di rarefazione che non ne permettono una riproducibilità che
possa essere controllata: non si possono utilizzare, né misurare in modo pregnante. Sono dunque
degli indeclinabili: perché si possa plasmare ritmicamente qualcosa, bisogna che la sostanza di cui è
costituito goda di proprietà, che trovano il loro fondamento nella ripetibilità modulare.
Da quanto abbiamo detto per Aristosseno la proporzione matematica fra durate (ossia il chronos
protos) deve rendersi percepibile attraverso il liberarsi della tensione fra arsi e tesi, attraverso il ca-
dere del colpo, che crea attesa per la caduta successiva. Nella metrica della poesia l’unione di una
sillaba breve e di una sillaba lunga viene denominata giambo. Non passeremo attraverso il terreno
minato della metrica, ma trasformare arsi e tesi direttamente in durate ritmiche, cercando di farvi
ascoltare le relazioni fra le durate. Di fronte alla raffinatissima concettualizzazione del problema del
ritmo, che Aristosseno sviluppa in modo serrato, rapido, vi è un modo peculiare di riprendere
l’aspetto legato al problema aritmetico, ossia alle relazione fra i valori delle durate, cui debbono es-
sere condotti tutti i tempi primi. Non possiamo entrare nel vivo della trattazione, ma dobbiamo no-
tare come ogni rapporto numerico venga riportato al problema della sua riconoscibilità, che consiste
nella battuta del piede.
Per questo motivo, mi sono permesso di ricorrere ad uno strumento brutale come la batteria, che
rende incisivamente quelle relazioni, per far ascoltare come si articola la dialettica dell’accento,
quando si trasforma in dialettica fra colpi.
. Esistono due varianti della cellula ritmica elementare: la prima ripartisce la tesi in due compo-
nenti. La seconda riduce la tesi ad una durata pari a quella dell’arsi. E’ in questo modo che le inten-
de Aristosseno, il numero anima il flusso del tempo attraverso dei colpi, e lo rende riconoscibile.
L’intervallo fra i colpi, il silenzio, diventa quindi una struttura dell’attesa.
Le possibilità sintetiche legate all’uso di queste cellule elementari sono notevoli, e basta pochis-
simo per elaborare un primo accostamento fra due cellule ritmiche elementari, per ottenere un dise-
gno ritmico, in cui la funzione della pausa crea già una prima, elementare, articolazione. Su questa
base ritmica vediamo prender piede ( è il caso di dirlo) una delle più sistematiche e raffinate appli-
cazioni dei criteri di costruzione ritmica nel verso, ma non possiamo seguire questa direzione. Os-
serviamo solo che la matrice ritmica, che si fa avvertire attraverso la distribuzione degli accenti, ha
evidentemente il valore di una sublimazione della struttura ritmica, epurata, in fondo, di tutte le sue
componenti più concrete. Eppure, basterebbe far risuonare la struttura ritmica di un verso omerico,
per avere ben più di una sorpresa. La struttura iterativa della disposizione degli accenti, se da un
lato sublima il colpo, riesce a mantenere tensione nell’iterazione, ovvero nella dialettica di attese e
risposte che una relazione ritmica impone al periodare del tempo.
Se il ritmo sceglie i propri oggetti, ha affinità con alcuni fenomeni e con altri no, e ci dev'essere
la possibilità di verificare in qualche modo la capacità delle parole e o dei suoni di sostenere la sud-
divisione: il metodo è, apparentemente, molto semplice. Si deve distinguere ciò che può essere pla-
smato dal ritmo, in questo caso gruppi di suoni o di parole, da ciò che non può essere suddiviso: una
teoria del ritmo, secondo Aristosseno, deve anzitutto poter localizzare i propri oggetti, definire quali
sono i limiti della propria indagine, rispetto alle materialità che deve analizzare. Nel riprendere
l’impostazione offerta dalla sistematizzazione aristotelica, che distingue tra forma e materia, Ari-

29
stosseno propone di definire gli oggetti che divengono materia della scienza ritmica come
r(uqmiqoÍmena, strutture o sostanze che possono sostenere l'articolazione effettuata dal rit-
mo(rhythmizomena).
Possiamo decidere quali essi siano solo attraverso un richiamo alla possibilità di cantare o di
scandire un suono o una parola. La distinzione fra ritmo (r(uqmoÍj) e ciò che va suddiviso è collocato
sullo stesso piano di quella fra forma (sxh=ma) e materia plasmabile dalla forma stessa (sxhmati-
zoÍmenon).
La distinzione epistemologica viene riportata al sistema di classificazione della logica aristoteli-
ca: l'uomo ed il bue sono entrambi animali, perché la definizione della loro essenza ha tratti comuni:
quest’essenza che permane la chiameremo sostrato. Ora, alcune cose, che fanno parte dello stesso
sostrato, non possono essere predicate l'una dell'altra: il che implica che il loro rapporto con il so-
strato comune vari e che vada ulteriormente specificato il senso della loro relazione: la bianchezza
può far parte di un corpo, ma il corpo non è bianchezza.
Il ritmo esiste nella cose che possono essere plasmate dalle relazioni definite attraverso rapporti
temporali, ma il ritmo non è una di quelle cose: il ritmo non è il movimento del corpo, l'articolazio-
ne della melodia, la lettura del verso, anche se tutte e tre queste cose fanno parte dei fenomeni go-
vernati dal ritmo. Questo discorso, a dire il vero, viene sempre liquidato come un’ovvietà, a me in-
vece è sempre sembrato molto misterioso: perché mai il ritmo non deve coincidere con quello che è
stato diviso? Perché non posso indicarlo, se poi ammetto in partenza che si tratta di un rapporto fra
segmenti temporali?
Se ci fermassimo su questo livello della discussione, perderemmo forse lo spessore filosofico del
discorso aristossenico, che ha, alle spalle, un problema consistente. Che tipo di quantità viene retta
da un ritmo, che materia viene gestita ritmicamente?
Se il ritmo è un’opera di suddivisione, dobbiamo capire che tipo di quantità sia quella cui il ritmo
mette capo: abbiamo dei suoni, delle parole, dei movimenti. E questi gesti coprono, ed animano, lo
scorrerre del tempo. Ma cos’è, allora, una quantità?
Nella logica aristotelica la quantità è il genere delle determinazioni che indicano la divisibilità di
una cosa. Dobbiamo porre attenzione al fatto che, secondo Aristotele, il concetto di quantità va ri-
portato alla dialettica fra un intero e parte: ha senso parlare di quantità, solo se ci troviamo di fronte
ad una suddivisione in cui risultino delle parti che siano interne alle cosa stessa e che siano, ciascu-
na, numericamente una e determinata. Se prendo il foglio e lo divido in quattro quadranti, ho di
fronte a me un’interpretazione pregnante del concetto di quantità aristotelica. Rispetto al foglio, i
quadranti sono individuati e numericamente determinati. Naturalmente, potrei continuare a suddi-
videre i quadranti in ulteriori parti, sempre più piccole. Le parti in cui si divide una quantità sono
ancora quantità, quindi sono ulteriormente suddivisibili.
La distinzione 26 che ci interessa è fra quantità continue e discrete. Delle quantità, scrive Ari-
stotele, una è continua, l’altra è discreta (Tou= deÍ posou= to\ meÍn e)sti diwrismeÍnon, to\ de\ su-
nexeÍj). Nella quantità discreta le parti hanno una posizione, sono cioè ben scandite, individuabili,
separate fra loro, mentre in quella continua le parti di cui è costituita hanno tutte un confine comu-
ne. Aristotele indica come esempi di quantità discrete il numero ed il discorso parlato. I numeri, so-
no entità concrete, aggregati puntuali che individuano quantità, e tipologie di relazioni, e non godo-
no di contiguità: allo stesso modo, il discorso scandito dalla voce , che è fatto di parole, cioè da ag-
gregati di una quantità discreta di sillabe che vengono enunciate nella scansione. Il discorso parlato
è dunque il discorso sillabato, che si esprime attraverso cadenze della voce: esso esiste solo mentre
risuona. Le parti del discorso non permangono, ma, appena dette, si perdono: manca una sostanza
che garantisca continuità. Tuttavia, vi è una tensione che mantiene l’intero.
La linea, la superficie, il corpo, il luogo sono invece quantità continue, che hanno confini comu-
ni: nella linea, il punto, nella superficie, la linea, nel solido geometrico, la linea come spigolo e la

26
Aristotele, Le Categorie, introduzione, traduzione e note di Marcello Zanatta,Bur, Milano, 1989. Il passo cui mi rife-
risco è Cat6, 4b 20ce sgg.

30
superficie come sezione, nel tempo, l’istante, per il luogo, il limite del corpo contenuto. Tutta il
campo della spazialità è così caratterizzato da un reciproco coimplicarsi, da un appartenersi delle
parti, dall’impossibilità di separare qualcosa, senza perdere l’intero. Di fronte ad una quantità conti-
nua vista come forma di compenetrazione intima delle parti, la transizione non solo il carattere dello
scivolamento nell’omogeneità, ma quello della transizione da una dimensione all’altra,
nell’individuazione del concetto di luogo.
Il discorso, al contrario, è una quantità discreta, proprio perché è misurato da una sillaba lunga
ed una sillaba breve: esse non hanno un limite comune, non convergono l’una verso l’altra. Fra di
loro c’è un vuoto vibrante, che separa qualcosa da qualcosa d’altro, in altri termini un intervallo.
Nei commenti al passo delle Categorie si osserva spesso che una sillaba lunga equivale a due brevi
e che quindi, in teoria, non vi dovrebbe essere cesura nella scansione. Questo è un buon modo per
confondere l’istanza della misurazione nell’intero, che si basa sull’individuazione di un unità mini-
ma di riferimento, la breve appunto, con l’articolazione ritmica dell’intero stesso, che vive nel pul-
sare che deve riempire un silenzio.
Dovremmo allora chiederci su quale fondamento comune si appoggiano il movimento ritmato
del corpo nello spazio, la dialettica fra le sillabe lunghe e quelle brevi, le relazioni interne giocate
dai suoni messi in rapporto ritmico, dobbiamo chiederci quale sia il sostrato comune a queste tre co-
se, quale sia l' u(pokeiÍmenon che le sostiene. La risposta aristossenica è semplice, quanto poco ri-
levata: non tanto il carattere di continuità del tempo, presupposto ovvio, ma il modo in cui essi si
danno nel tempo, ovvero il loro durare nel tempo, il loro non essere eventi istantanei, che non sor-
reggono una suddivisione ritmica, ma la loro possibilità di sostenere l'esser messi in sequenza per
dar luogo ad un intero. Il ritmo non vive che nella sua transizione, nell’istaurarsi di una relazione
retta dal numero.
Intravvediamo ora il fondamento del discorso sulla natura temporale del suono, che i commen-
tatori del trattato sembrano vedere in modo confuso: un suono deve durare, deve avere una tensione
interna che lo sostiene, che ne permette una segregazione dai fenomeni acustici che lo circondano, e
dev'essere qualcosa che possa essere riportato al piano della transizione fra colpi, che interpreta
l'oggetto sonoro come una sequenza o un processo.
Il tempo è un continuum, ma se vogliamo renderne percettivamente avvertibile la funzione del
ritmo nell'articolazione dei suoni, dobbiamo effettuare una serie di operazioni che diano al flusso un
andamento.
Lo stesso vale per il movimento che si articola nello spazio: esso è un processo (qui sta la conti-
nuità con l'impostazione platonica del problema), che si esprime attraverso figure che propongono
una partizione della sequenza temporale e spaziale a scopo espressivo. Si tratta di una condizione
generalissima, che ancora non ci permette di modulare le relazioni fra durate in modo unitario: ab-
biamo di fronte un campo che va ancora messo a fuoco, ma l'idea del carattere processuale del suo-
no, della sua possibilità di articolazione prospettica, resa ancora più avvertibile dal movimento or-
ganizzato nello spazio, è affermata in modo prepotente. Perché una sequenza di suoni risulti ricono-
scibile come dominata dal ritmo, è necessario selezionare un rapporto che organizzi la transizione
da un colpo ad un altro, ma tutto ciò si appoggia sul carattere processuale della durata temporale del
suono.
In secondo luogo, isolati due suoni, dobbiamo poterne segmentare le durate, ovvero porle in un
ciclo temporale retto da un rapporto, individuando delle relazioni fra durate che abbiano pregnanza
e che siano modulabili tra di loro. Per questo motivo, fin dall’inizio del suo trattato, Aristosseno ci
invita a distinguere ciò che può essere plasmato ritmicamente, la sostanza, dal ritmo, ovvero
dall’operazione di plasmazione. Insomma, il ritmo si esprime solo in presenza di una sostanza che
possa fungere da sostrato, di una continuità che duri, si mantenga nel tempo. Si tratta della transi-
zione fra due o più fasi.
Questo è il fondamento non dichiarato su cui poggia l’operazione del suddividere ritmicamente
la materia dalla forma. Nei commenti al testo aristossenico si insiste molto sulla suddivisione fra
una sostanza ritmica e l'operazione del suddividerla, ma l'attenzione eccessiva a questa applicazione

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della logica aristotelica, al porre cioè una differenza di natura fra ciò che suddivide, ossia il numero,
e la sostanza cui si riferisce al suddivisione ritmica, che può essere il verso, il suono musicale o il
passo di danza, quindi fra la materia e la forma, ha portato i commentatori a trascurare l'accentua-
zione fenomenologica della durata del suono come fondamento della sua permanenza. Ma qui ri-
scopriamo il carattere attrattivo del suono stesso, il suo sopravanzare: non esiste un ritmo sulla car-
ta: i suoni devono potersi muovere, questo è il problema fondamentale.
All'inizio della nostra discussione sul ritmo abbiamo insistito sulla nozione di durata fenomeno-
logica del suono, inteso come fondamento dell'apparire del suono stesso.
In Aristosseno troviamo quest'ipotesi formulata in un altro modo: il ritmo musicale rende perce-
pibile lo scorrere del tempo, e lo organizza a proprio, grazie al durare del suono. Il durare del suono
è il sostrato permanente che ne permette la suddivisione: il ritmo è un segmento, un segmento che
non ha una durata assoluta, svincolata dall'attività della coscienza. Quel segmento deve suscitare in
noi qualche gesto, dev'essere riconosciuto nella sua pregnanza, per poter ritagliare nel campo delle
durate una forma ben riconoscibile. La forma, tuttavia, viene isolata da una materia che è continuità
che dura, flusso che continuamente si reintegra, materia che possa essere schematizzata. Ogni forma
ritmica si staglia da questo fondo continuo a condizione di poter essere riconosciuta, ovvero di po-
ter esibire le regole della propria suddivisione. Il durare va disciplinato e reso fruibile, ma si esibi-
sce all'interno del modo d'organizzazione della durata stessa.
Il richiamo al gesto, all'intonazione della parola o al canto, il passaggio, diciamo così, dalla po-
tenza all'atto per decidere se un rapporto ritmico funziona o meno, mette in mostra non tanto un ri-
chiamo psicologico, ma il ruolo fondamentale attribuito al durare del suono ed all'esibizione delle
caratteristiche strutturali di quel durare.
Il durare messo in gioco dal rapporto ritmico diventa così una tensione fra due fasi distinte: e qui
emerge l’atro aspetto nel rilevato del problema: la tensione offerta dal ritmo viene ricondotta ad
un’unità di misura, particolarmente elementare, il protos chronos, il tempo primo. Si tratta dell’unità
minima che permette quel collegamento: ma tutto, in quel collegamento, si gioca nel mantenere in
tensione, nel veder convergere i limiti delle durate da una transizione all’altra. Il ritmo visto da
Aristosseno non coincide, come generalmente si crede, con l’isolamento della figura e l’opera di
scansione fra una figura e l’altra, tanto che si tratti della sillaba di una parola, del passo di una dan-
za, o dell’articolazione fra le durate che connettono l’andamento di un gruppo di suoni organizzato.
Il movimento, all’interno di questo fenomeni, rischia di far perdere la sostanziale tendenza all’unità,
che emerge quando costruiamo un rapporto che metta in tensione i due oggetti.
Quando ci chiediamo quale sia il soggetto della scienza ritmica di Aristosseno, quale sia il suo
soggetto, quale sia l’ u(pokeiÍmenon (upokeimenon) di una suddivisione ritmica non dobbiamo pen-
sare alle relazioni fra gruppi di suoni, di gesti, presi come oggetti che si presentano e poi spariscono,
ma alla tensione che fa sì che l’uno divenga conseguenza dell’altro che la tensione accumulata
nell’uno venga a a risolversi nell’altro. La distinzione fra ritmo e ritmizzabili prende allora consi-
stenza diversa: un verso contiene sempre lo stesso numero di sillabe, ma la scelta del tempo giusto
si lega, in sostanza, ad una scelta di tipo espressivo. L’importante è che si mantenga una tensione
costante che non dipende certo dalla velocità, ma dalle figure che il testo mette in gioco. Ma aldilà
di questa parentesi, ovvia e contenutistica, quello che emerge con chiarezza dalla lettura aristosseni-
ca è proprio la difficoltà a sostenere fino in fondo l’idea di un irrigidimento nello schema.
Quando abbiamo iniziato a parlare del ritmo, abbiamo continuato a giocare la carta di una con-
trapposizione fra schema e ruthmos, una contrapposizione che sembrava collocarsi all’interno di
una dialettica fra il configurarsi di una forma, il suo trattenere delle relazioni allo stato fluido, per
contrapporla ad una nozione di schema molto definita, piena di regole. Si trattava di una accentua-
zione che all’interno del tema del ritmo deve ora essere fortemente ridimensionata. Nelle forme
ritmiche, e non nella misurazione, sentiamo farsi avanti un movimento di coesione fra parti che si
articola nella tensione degli elementi all’interno della transizione. Il gioco di valorizzazione metrica
del ritmo, l’animazione legata all’alternarsi degli accenti non esprime più quella varietà che viene
spesso postulata come momento accessorio nel gioco dell’espressione, ma giace proprio all’interno

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del configurarsi dei materiali in visto della loro plasmazione. La forma si raggela nella tensione dei
suoi costituenti.
Facendo uso della logica aristotelica, la suddivisione aristossenica porta l’accento sulla conti-
nuità di fenomeni acustici: i movimenti, i suoni musicali, i versi possono essere plasmati ritmica-
mente in più modi. Ogni sequenza di suoni, ogni sequenza di parole, ogni sequenza di movimenti
può accettare più suddivisioni, partendo però dal fatto che tutti questi fenomeni possono essere
scanditi dal battito del piede. L’evocazione del concetto di arsi e tesi da parte di Aristosseno viene
immediatamente collegata al problema della tensione fra colpi nella durata : un singolo battito non
offre un’articolazione ritmica. All’inizio della nostra esposizione, avevamo osservato che questa
opzione teorica sembrava chiudere il problema del ritmo all’interno dello schema, dell’iterazione
della cellula: ma anche qui dobbiamo stare attenti alle espressioni che Aristosseno sceglie, perché si
sta facendo avanti un altro problema. Egli osserva che è la lunghezza del piede che fa sì che siano
necessari più segnali. L’espressione che usa Aristosseno è shmei=on, il segnale che mette in luce la
necessità di più pulsazioni nella lettura del verso, nel passo di danza, nel brano musicale.
La suddivisione del tempo attraverso segnalatori ritmici implica però che il problema che si va
configurando nell’ambito della suddivisione non sia semplicemente quello del misurare, ma del mi-
surare mantenendo una tensione fra arsi e tesi. Aristosseno osserva infatti che i sensi hanno bisogno
di molti segnali per poter riconoscere una suddivisione ritmica di un’unità molto lunga e che si di-
sperdono se vi sono troppi segnali per una corta.
Ora, questa frase va capita a fondo perché, di per sé, il segnale non fa altro che indicare gli
estremi della pulsazione come semplice suddivisione fra tempi, e non come articolazione tensiva fra
arsi e tesi. Per questo motivo, per evitare di mantenere solo un tono di atratta suddivisione matema-
tica fra le durate che reggono la scnadirsi degli eventi ritmici, Aristosseno ricorre ad un’altra nozio-
ne, quella di ryhtmopoia.
Seguendo i portati illustri di queste tradizioni culturali, siamo immediatamente portati ad effet-
tuare dei forti processi di schematizzazione del problema ritmico, scavalcando alcuni aspetti della
sua storia. Infatti, queste opposizioni stanno tutte dentro le caratteristiche fenomenologiche del suo-
no degli strumenti a percussione, ed avviare una riflessione sul ritmo, perdendo queste duplicità, si-
gnifica chiudere immediatamente la via alla comprensione del nostro problema.
Se la questione musicale del ritmo appoggia sulla natura temporale del suono e la articola in una
forma, la pulsazione ritmica inizia, come abbiamo visto dall’esempio, con dei colpi, meglio ancora
con l’irrompere del colpo, con lo spezzare la continuità del fondale: solo da qui si pone l’altro
aspetto, che evolve nello schema.
Cerchiamo di comprendere più a fondo queste tematiche, con un esempio. Esso vede protagoni-
sta uno strumento relativamente semplice, come il tamburo di pelle egiziano, che si chiama Dar-
buoka: esso ha una cassa di risonanza in terracotta su cui è incollata una membrana di pelle
d’agnello. Si tratta di un tamburo molto diffuso nell’area del Maghreb, che, a prima vista, non offre
una grande ricchezza d’effetti: la pelle è incollata, non tesa, e non può quindi essere manipolata in
alcun modo: la tecnica del percussionista deve quindi farsi carico di tutte le variabili connesse al
gioco dinamico dei forte e dei piano, della mutevolezza timbrica ottenuta percuotendo ora con il
palmo, ora con la punta delle dita, ed intervenendo sulla pelle per smorzare i suoni.

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Nella musica maghrebina27 i sistemi ritmici sono molto complessi, e spesso basati su una nozio-
ne di periodo che privilegia il momento dell’attacco ritmico sulla regolarità dello schema.
Le figure ritmiche che vengono qui evocate sono una serie di variazioni su passi caratteristici di
danza, ma il percussionista usa queste figure così ben definite, per praticare un gioco di variazioni
che si muove all’interno di un percorso virtuosistico interessanteperché ci mette di fronte ad alcune
proprietà fenomenologiche del suono della percussione.
Vorrei invitarvi a concentrarvi sull’inizio del brano, su quel colpo che sembra, al tempo stesso,
aprire il brano ma che assume anche il valore di un punto ribattuto che allude ad un movimento, ad
uno slancio precedente, come il compimento di qualcosa già iniziato prima. Potremmo risolvere la
cosa parlando dell'articolazione metrica del brano, ma questo ci porterebbe lontano dal livello di
immediatezza descrittiva su cui dobbiamo preliminarment. collocarci. In effetti, la prima figura rit-
mica sembra stagliarsi per fluttuare nel vuoto: al suo irrompere, caratterizzato timbricamente dalla
percussione effettuata in punto di dita, con un movimento della mano quasi trasversale che si trat-
tiene sull'orlo dello strumento, viene immediatamente contrapposto un altro disegno che ha un colo-
re timbrico e schema ritmico, assai diverso. Si tratta di un rullare del palmo, nel centro del tamburo,
che porta im primo piano il suono grave della cassa di risonanza.
Il gioco espressivo del brano è tutto qui: esso inizia con un colpo del dito che disegna un primo
disegno ritmico, che entra immediatamente in contrattempo con il disegno ritmico elaborato dai
palmi di entrambe le mani. Al ribattuto puntuale dell'unghia socontrappone la corposità iteratadel
colpo di palmo.
Potremmo dire che in questo percorso sorprendente, dove siamo continuamente presi, è il caso di
dirlo, in contrattempo dal farsi della nostra struttura, si gioca uno dei portati espressivi caratteristici
di qualunque struttura ritmica. Essa va avanti sorprendendoci, spiazzandoci, sopravvanzando quelle
che sono le nostra aspettativa, attraverso uno spostamento dell’accentazione, un modificarsi delle
relazioni timbriche, in cui il ritmo rullante offerto da palmo, che arriva dopo, sembra farci appog-
giare su uno schema, che viene, per così dire, animato ed incrociato con un altro schema, di natura
timbrica completamente diversa, legata al modo con le dita percuotono la cassa vuota di risonanza,
evocando l’immagine di una serie di colpi che non potremmo che definire puntuali, rispetto alla
natura corposa del timbro di palmo. Emerge così, sul piani immaginativo, una dialettica fra pieno e
vuoto, fra tendenza alla risoluzione ed attesa che prepara, sempre spostata. Se pensiamo alla nostra
catena temporale, emerge ancora un elemento: tutto questo gioco assume pregnanza, perché aspet-
tiamo un decorso, lo presupponiamo, la regola che la struttura ci mette di fronte sembra prepararci
ad un esito, e ne troviamo un altro. E’ chiaro che tutto questo presuppone che il decorso percettivo
abbia un ordine, e rafforza l’idea di regolarità, nel momento in cui la disattende.
Tutto il brano si gioca così sulla contrapposizione dei due schemi, che vengono mantenuti
dall’inizio alla fine, ed arricchiti con fioriture ed effetti dinamici su cui non possiamo intrattenerci.
Vi sono però delle caratteristiche macroscopiche, che rendono quest’esempio assolutamente interes-
sante per aprire un discorso sul rapporto fra colpo e battito. Molto frequentemente la leggerezza dei
colpi del percussionista sembrano smorzare la frase, allontanarla, portarla in una dimensione quasi
eterea in cui il disegno ritmico sembra consegnarsi al silenzio, dopo essersi allontanato da noi. A
questo gioco di intensità, che procede verso una rarefazione del nostro movimento di danza, corri-
spondono immediatamente delle attese, aspettiamo che il brano termini, mentre un semplice variare
della dinamica, riporta il disegno ritmico in primo piano. Siamo di fronte ad una dialettica elemen-
tare di silenzio e di rumore, di pieno e di vuoto. La tensione ritmica, il sottile gioco di sfasature, a
dire il vero, inizia con il primo colpo che ascoltiamo, che sembra cadere nel vuoto: esso viene quasi
smentito dall’irrompere del ptimo modulo poliritmico, basato su una sorta di rullio, per essere ripre-

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Per una prima introduzione al rapporto fra ritmo e musica araba. Dall’articolo è possobile risalire alla rivista on-line
Music and Anthropology, duretta da Tullia Magrini. Dall’articolo è possibile scaricare anche un video sul riscaldamento
dei tamburi.

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so e completato nella fase successiva. Fin dall’inizio siamo in contrattempo, questo è l’aspetto inte-
ressante, un contrattempo che si trasforma poi in gioco decorativo.
Tutte queste considerazioni ci mettono in movimento verso il tema della scansione metrica, che
vediamo inanellarsi spontaneamente nel docerso di un discorso sul ritmo. A questo punto è chiaro,
però, che le considerazioni metriche ci potranno servire solo ad illustrare le relazioni fra figure, e
non la tensione, che collega lo schema all’evento, per riprendere la felice espressione di Piana. Co-
minceremo ad avvicinare questo tema nella seconda sezione.

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