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Numero e forme della descrizione

Parte prima: il tema del ritmo ed il passaggio da figurazione a numero

Introduzione

Parlare del rapporto numero – musica sembra rimandare immediatamente allo studio di una
grande tradizione filosofica come il pitagorismo, ma quel richiamo impone sempre di assumere
cautele: di quella scuola filosofica, infatti, abbiamo poche fonti dirette. I suoi precetti ci sono spesso
arrivati attraverso riproposizione di temi teorici sviluppati da autori che sono vissuti ben dopo
l'epoca mitica delle prime scuole pitagoriche: d’altra parte, di Pitagora non ci è arrivato nulla, se
non una serie di mitologhemi, elaborati dopo la sua morte e qualche scarna notizia biografica. Del
primo pitagorismo non abbiamo libri, abbiamo solo frammenti, tratti da discussioni filosofiche
autorevoli, e perciò orientare ad analisi teoriche, più che a ricostruzioni storiche. Guardando a come
la tradizione platonico -aristotelica tratta delle tematiche relative al pitagorismo, ci troviamo di
fronte ad interpolazioni significative, per altro spesso chiaramente dichiarate da coloro che portano
testimonianze o avviano discussioni sulla dottrina pitagorica. Sarebbe quindi molto difficile indicare
testi che non si debbano confrontare con tali interpolazioni, particolarmente marcate in epoca
alessandrina. Tutto questo potrebbe metterci in condizione di liquidare il problema del pitagorismo:
eppure, in tutte queste interpolazioni rimangono, ben leggibili, della tracce di uno stile, di un modo
di elaborare i problemi, che ha tratti riconoscibili: riteniamo che sia possibile individuare delle
tipicità su cui le fonti convengono, che delineano, in un quadro frammentario, la possibilità di
riconoscere uno stile filosofico.
Dal punto di vista musicale, la tipicità è evidente. Essa si caratterizza per una tendenza assai
marcata nel definire in modo assai chiaro caratteristiche discrete legate ad una definizione discreta
della posizione dei suoni intesi come punti individuati nello spazio musicale. Si cerca cioè di
definire in modo coerente una serie di relazioni fisse tra intervalli, in cui divenga determinante la
funzione del numero, che è un potente indicatore delle relazioni intervallari, come vedremo tra
poco, ma tutto questo non avrebbe senso se non calato in un contesto complessivo di credenze, e di
problema, molto più ampio, su dobbiamo, almeno preliminarmente intrattenerci.
Sentiamo spesso ripetere che il pitagorismo costruisce una teoria rigorosa sulle consonanze: ma
le consonanze, gli intervalli facevano evidentemente parte della musica greca, ben prima che il
pitagorismo proponesse le proprie teorie sulle relazioni intervallari. Conviene allora tracciare un
profilo relativo ad un tema che faccia avvertire la centralità della presenza del numero, sebbene non
esplicitamente ricoonducibile ad un ambito concettuale di tipo pitagorico. In questo modo veniamo
sollecitati a pensare secondo una modalità pre-matematica, ma fortemente orientata ad individuare
una possibilità di numerazione. Il tema della partizione ritmica del tempo, entrando in ogni pratica
musicale, precede anche il tema della definizione dell’ampiezza degli intervalli Conviene allora
sostare attorno al tema del ritmo, per cogliere alcuni aspetti relativi ad una strana dialettica, quella
fra numero e figurazione, che ci viene incontro fin dall'inizio delle nostre ricerche. Crediamo di
avere una nozione, più o meno intuitiva, del concetto di ritmo. Di fronte ad una struttura musicale, o
ad uno spettacolo di danza, sapremmo indicare con sicurezza dove conduca l’idea di ritmo:
punteremmo alla scansione di un gesto, ed il nostro interlocutore comprenderebbe subito.
Indicare con chiarezza cosa venga compreso con quei gesti, è un altro discorso: potremmo
rispondere che abbiamo in mente un modo di punteggiare un evento, oppure una forma per battere il
tempo, o ancora il correlarsi periodico di una serie di gesti, forse il correlarsi di queste tre cose,
nello stesso momento.
Avvertiamo un lieve disagio, notando che su quella nozione si vanno appiccicandosi una serie di
etichette, legate a gesti, e, a forme di calcolo, che si correlano tra loro in modo confuso: la nozione
di ritmo sembra rimandare a concetti, su cui immediatamente perdiamo la presa.
Potremmo essere tentati di dire che con la parola ritmo indichiamo una forma articolatoria,
secondo cui qualcosa si ripete seguendo una pulsazione marcata, regolare, tale da farci quasi contare
le volte in cui la separazione che articola un gruppo di eventi viene a ripresentarsi. Per conto mio,
vorrei avviare il percorso attorno a questo tema proprio da quel gesto, proponendo un esempio
semplice, ma che nasconde in sé molti problemi, che si condensano attorno agli aspetti temporali
della articolazione ritmica.
In questa registrazione, due donne stanno passando al setaccio del miglio: nella preparazione del
cibo, ha luogo una transizione , che, partendo dal rumore, produce un vero e proprio intreccio
ritmico, in grado di darci il senso d’un gioco musicale. Mettendo il suono alla prova, le donne
entrano ed escono continuamente da un intreccio di colpi, partendo da un evento puntiforme, iterato
a piacere, ed organizzato in vari schemi. Si tratta del passaggio che conduce da un colpo ad una
struttura ritmica, un passaggio che ha lati complessi.
Abbiamo parlato di calcolo, ma che strane operazioni fanno capolino da questa pratica.
L’improvvisazione nasce da un colpo che si staglia nettamente dal gracidio degli insetti che
circonda lo spazio acustico dell’evento, preannunciando il farsi avanti di un processo sonoro: suono
sordo, povero ha il carattere di un accadere che esce e rientra nel nulla.
Accade immediatamente qualcosa: la materia sonora, interrogata attraverso l’intensificazione dei
colpi, assume un andamento ripetitivo, e danzante (dire che i ritmi del gioco sembrano echeggiare il
pattern di una danza, ci porta immediatamente a chiederci in che senso la ripetizione sostenga, ad
esempio, il movimento di un corpo), il rimpallarsi dei colpi si trasforma in intreccio, mentre la
dimensione ludico – esplorativa che sostiene il gioco sonoro, va ora elaborando un pensiero,
rispetto ad un suono puntuale: per certi versi le dimensioni pragmatiche legate alla preparazione di
un cibo sembrano perdere la presa, per dar spessore ad una fantasia sulla materia sonora.
Vi è un riferimento gestuale legato al lavoro, ed un riferimento alla ripetizione, che aggancia ora
un modulo binario (sul modello di una domanda, cui corrisponde una risposta) e lo va iterando,
dando la sensazione di poter continuare all’infinito.
Subentrano immediatamente altri patterns, e questa amplificazione delle possibilità ritmiche si
appoggia ad una proprietà materiale del telaio, l’utensile risuona in modo diverso a seconda di dove
si batta, sul telaio o sul bordo di legno e questo crea una prima articolazione timbrica, che permette
di valorizzare le variazioni metriche, di dare un particolare sapore ad ogni accentuazione. Nella
registrazione si passa di continuo da un andamento ternario ad uno binario, gli accenti cadono ora
su un tempo forte, ora su uno debole, con molta libertà, esaurito un andamento si passa ad un altro,
ed il piano delle nostre attese muta, con il mutare del regime di accentuazione. Attendiamo qualcosa
dopo che un modulo si ripete, un intero decorso di situazioni sembra attivarsi nel riaprirsi dei vari
cicli, ma quelle strutture vengono fatte cadere una dopo l’altra, in un’immagine giustappositiva che
spiazza le nostre attese.
Il processo si appoggia alla tensione che lega, sul piano percettivo, l’emergere del suono alla sua
organizzazione temporale. Il suono è tempo, anche nel caso di un piccolo processo, esso vive tutto
nella sua durata: ma in questo contesto, esso prende pienezza espressiva, prima ancora che nel
modulo, in quel preciso istante in cui il colpo rimane in sospeso, in attesa di un suo completamento,
che non arriva, mentre l’andamento ternario - binario si carica di tensione (Sezione iniziale pil.mp3),
legata a quella piccola accelerazione, che sembra rimandare ad una ornamentazione ritmica, che
gira intorno alla pulsazione iniziale, spiazzandoci un poco.
In quel momento, sembra che i nostri riferimenti temporali entrino in oscillazione, non sappiamo
più orientarci: si tratta di una piccola vertigine, che trova fondamento sul fatto che un accento si è
spostato, configurando, per un istante, due direzioni diverse tra loro, che tirano
contemporaneamente da una parte e dall’altra. Subito dopo, il gioco si è ristabilizzato, ma quello
spostamento sembra far parte integrante della possibilità della scansione ritmica. La continuità del
tempo evoca il senso di una precipitazione, di un piccolo scollamento nelle maglie del suo tessuto
che prende forma nell’istante in cui si passa da una stratificazione all’altra.
Ma cosa si stratifica? Non certo la continuità del tempo, che scorre indifferente, ma
quell’andamento che prende corpo nel rendere percepibile un andamento, un modo di contare i
colpi in un’unità chiusa. L’andamento che sembrava procedere uguale a sé stesso, si è interrotto e
per un momento tutti i nostri riferimenti, tutti i puntelli cui si appoggiava il passo dell’andatura,
sono crollati: il decorso riprende subito, ma quella piccola voragine ci ha fatto fare esperienza di un
mutamento qualitativo, che è possibile proiettare nella scansione sonora. Eravamo protesi in avanti,
il terreno è franato sotto i nostri piedi (quel terreno è l’andamento battuto dai colpi) e ora ci
ritroviamo a protenderci, aspettando che riprenda quel decorso che si era interrotto: la linearità del
tempo scorre in modo circolare, il passato presenta tutto il suo peso condizionante rispetto agli
andamenti futuri, che dopo poco verranno disattesi, nell’innesco di un altro modo di scandire.
Le forme determinate dal cadere degli accenti ci orienta nella scansione, ci invita ad un
movimento piuttosto che ad un altro: allo stesso tempo, suggerisce un diverso modo di contare gli
eventi. Quando due scansioni entrano in conflitto, rimaniamo sospesi: per un istante il tempo

ridiventa fluido, lo sentiamo fuggire.


Viene spontaneo chiederci cosa ci abbia permesso di indicare immediatamente l’esistenza di un
ritmo?
La prima risposta cadrebbe forse sul formarsi di un periodo, di un sistema di appoggio fra i colpi
che, ripetendosi, crea in noi il senso di una sequenza che ci orienta nella scansione del tempo. Ci
affidiamo all’ascolto, per comprendere in che fase del decorso ci troviamo.
In questo senso, saremmo certamente nel giusto se dicessimo che il gioco con la materia sonora
porta alla luce un’attività tesa a cogliere regole, rapporti morfologici basati su un criterio di
domanda e e risposta, che organizzano gruppi di suoni, fino al punto di far loro assumere forma
riconoscibile: solo dopo questa strutturazione formale, essi diventano gruppi ritmici.
Il suono puntiforme viene raccolto in due sequenze: la prima ha una propria minuta articolazione
proprio nella contrapposizione binaria dei due impulsi ritmici, che poi vengono collegati tra loro
simmetricamente grazie alle analogie strutturali che la loro giustapposizione permette, per scivolare
verso un andamento ternario. Fa parte del gioco osservare che le due scansioni si affiancano, e
cominciano ad elaborare figurazioni ambigue, che oscillano fra un andamento ed un altro.
Il nucleo del problema sembra così annodarsi attorno alla funzione della ripetizione: essa
permette che l’evento si stratifichi in una struttura, che ha un andamento infinitario, ma non appena
viene meno, ci smarriamo. L’iterazione continua produce il raggruppamento: ma all’interno di
questa collana di forme che si inseguono nella ripetizione, si fanno avanti piccoli elementi di
differenziazione, legati ai rapporti di contiguità tra sequenze ritmiche, che alternano andamenti
binari ad uno sviluppo ternario. In questo modo l’accentuazione metrica su una sorta di acciaccatura
ritmica, che cade fra la prima e la seconda pulsazione ed ogni volta che si riapre la sequenza
abbiamo la sensazione che qualcosa sia mutato nell’inquadramento della struttura.
Potremmo concluderne che l’articolarsi delle occorrenze di quel gruppo di suoni, riesce a
direzionare il flusso temporale, a piegarlo ad un andamento 1 . Proprio perché abbiamo sentito
ripetersi n - volte un modulo, saremo portati a pensare che quel modulo si ripresenterà ancora, e che
tutta la configurazione temporale del brano avrà quella forma: se il colpo funge da vettore di
orientamento rispetto alla percezione dell’ordine della sequenza, quasi come un taglio prospettico,
che ci fa intendere gli elementi posti in ciclo, secondo un orientamento, la struttura formale è invece
sostenuta dal fatto che l’andamento del gruppo si organizza attraverso un ciclo. Forma ed evento
coesistono.

1
Sul tema vedi le raffinate osservazioni sul rapporto che lega la struttura temporale del suono alle componenti iterative
nel saggio di Giovanni Piana Ripetizione, musica, magia. Conversazione su "La Musica e la magia" di Jules
Combarieu. Il saggio è oggi reperibile on line nell’archivio filosofico di Giovanni Piana presso il sito Spazio Filosofico
http://filosofia.dipafilo.unimi.it/~piana/ripetizione/ripetizione_idx.htm
Nasce così l’idea di un ordine della scansione, di un’articolazione che tiene insieme tutta la
sequenza, motivata dalla pratica del lavoro e dal piacere dell’ascolto: intendiamo così una
produzione sonora concreta., che muta liberamente.
Forma, evento, struttura, ripetizione, si sono intrecciati in modo notevole: se volessimo ora dare
una definizione di ritmo, dovremmo riuscire ad inquadrare queste nozioni in un quadro più
generale, ma non appena cerchiamo di farlo, incontriamo nuovi problemi.
La vertigine che ci prende al mutare della pulsazione, ad esempio, sembra avere caratteri molto
più densi di un semplice passaggio di stato. Esso ha un potente portato espressivo, sembra quasi
voler liberare il flusso dentro all’andamento.
In che senso, poi, il suono è un processo temporale, come vogliamo definirne la natura? Le
lacune concettuali che accompagnano l’idea di regolarità, a cui dobbiamo appoggiarci, sono molte.
Vediamone qualcuna, partendo proprio dal terreno di quelle regolarità, la cui alternanza
abbiamo, con tanta disinvoltura, postulato: forse il senso del concetto di ritmo è meno intuitivo di
quanto non si possa immediatamente pensare.
Partiamo dapprima da un contesto non musicale perché il termine ha un significato che
originariamente non si lega alla musica. Cosa significa parlare di ritmicità in un ambito non
musicale?
Dobbiamo volgerci alla testimonianza del poeta Archiloco, dove per la prima volta incontriamo
l'espressione r(usmoj. Nel Frammento 67 a) egli ci invita a non seguire ciecamente le passioni che
ci prendono nella gioia o nello sconforto, ma a riconoscere quale ritmo "tenga vincolati" gli uomini2
(giÍgnowske d'oi)=oj r(usmojÍ a)nqrwÍpouj e)Íxei). E a comportarci di conseguenza.
L'espressione è piuttosto complessa: in primo luogo si osserva che la conoscenza del ritmo non è
qualcosa di immediato, riconoscere quale sia il ritmo che tiene gli uomini è certamente uno sforzo
(giÍgnwskein significa continuare a guardare qualcosa per riconoscerlo, c'è la classica ripetizione
nella desinenza skw che implica il continuare a guardare qualcosa per riconoscerlo) In secondo
luogo, se il ritmo vincola, tiene assieme dobbiamo pensare che se esso ha riferimento allo scorrere
delle cose, la sua capacità sia proprio quella di regolarne il flusso, di trattenerlo fornendogli una
forma appropriata.
Originariamente la nozione di ritmo e di scorrimento si intrecciano, e tendono a
complementarizzarsi in un modo meno ovvio di quanto non si possa pensare. Intanto, il ritmo non è
qualcosa cui si possa dare un assenso immediato: va riconosciuto. In secondo luogo, è un concetto

2
Cfr. Werner Jaeger, Paideia,(trad. italiana di Luigi Emery), Firenze, La Nuova Italia,1953 vol I, pp.240 - 241. Per
Benveniste Émile Benveniste, Problèmes de linguistique generale Gallimard, Parigi, 1966, (Problemi di linguistica
generale, (trad. italiana di M. Vittoria Giuliani, Il Saggiatore, 1971 p.394) si tratta invece di inclinazioni. Per tale
che articola, rintracciando elementi comuni in grado di creare vincoli, si stabilire cioè una serie di
relazioni ordinate.
In un articolo del 1951 3 , E. Benveniste osserva che vi è una profonda contraddizione fra l'idea
dello scorrere, quella del r(ei=n e quella di r(uqmoÍj. I filosofi atomisti, con questo termine,
indicavano la forma, meglio ancora la configurazione delle cose, legata all'assetto che le parti
prendono nel tutto.
Nella filosofia atomistica il termine si lega al tema della traiettoria degli atomi e alla loro
reciproca configurazione, secondo le modalità del loro congiungersi: da qui nasce quel riferimento
alla proporzione e alla figura proporzionata 4 , che è all'origine del significato musicale del termine
ritmo
Nel suo saggio 5 , Benveniste osserva che per cogliere fino in fondo il significato del termine,
dobbiamo fare attenzione alla desinenza qmoÍj, che applicata alle parole astratte, implica un
riferimento al modo in cui una nozione viene a realizzarsi: se qeÍsij è si riferisce all'atto del
disporre, qesmoÍj è la particolare disposizione delle parti.
Seguendo questo specifico portato semantico, non possiamo più attribuire al termine r(uqmoÍj il
semplice significato di figura: perderemmo infatti un elemento prezioso: attribuendo al concetto di
figura una forma statica, fissata una volta per tutte come quella di un oggetto.. Al contrario, scrive
Benveniste, “[...] r(uqmoÍj [...] designa la forma nell'attimo in cui è assunta da ciò che si muove, è
mobile, fluido, la forma di ciò che non ha consistenza organica: si addice al pattern di un elemento
fluido...a un peplo che si dispone a piacimento, alla particolare disposizione del carattere e
dell'umore 6 ”. Siamo sul piano della figurazione, preliminare a quello di figura, del costituirsi della
forma, più che su quello della forma già data. Stiamo riconoscendo qualcosa, in grazia del suo
prender forma.
Il problema del ritmo si connette quindi alle componenti temporali che prendono piede mentre
stiamo riconoscendo una forma. Il ritmo ci indica che qualcosa sta prendendo una
configurazione determinata. Se andassimo a cercare su un vocabolario filosofico immaginario la

interpretazione del concetto di ritmo, cfr. Giovanni Piana, Filosofia della musica, Guerini e Associati, Milano, 1991,
pp.153 - 157.
3
Émile Benveniste, La notion du “rythme” dans son expression linguistique, Journal de Psychologie, 1951, oggi in
Émile Benveniste, Problèmes de linguistique generale Gallimard, Parigi, 1966, (Problemi di linguistica generale, (trad.
italiana di M. Vittoria Giuliani, Milano, Il Saggiatore, 1971 pp.390 - 400)
4
Va inoltre ricordato che la tradizione filosofica attribuisce a Democrito un'opera di argomento musicale sul tema del
ritmo e dell'armonia ( PERI RYQMWN KAI ARMONIHS) , nel cui titolo emerge il riferimento al concetto di misura
rispetto alle componenti spazio-temporali del discorso musicale.
5
Cfr. Giovanni Piana, Filosofia della musica, Guerini e Associati, Milano, 1991, pp.153 - 157. Il tema è stato ripreso
anche da Pierre Sauvanet, Le rythme grecque d'Héraclite à Aristote, P.U.F.,1999, pp.22 - 38.
6
Émile Benveniste, La notion du “rythme” dans son expression linguistique, Journal de Psychologie, 1951, oggi in
Émile Benveniste, Problèmes de linguistique generale Gallimard, Parigi, 1966, (Problemi di linguistica generale, (trad.
italiana di M. Vittoria Giuliani, Il Saggiatore, 1971, p.396.)
definizione di ritmo, incontreremmo immediatamente una serie di definizioni, estremamente vaga, e
velata da qualche ambiguità: l’espressione in generale, viene riportata immediatamente ad uno
svolgersi di fenomeni, secondo un determinato ordine, oppure alla successione armonica di forme
nello spazio (il ritmo che regola l’articolarsi di un edificio o le posizioni dei personaggi in una
scultura, o in un dipinto).
Cercando una definizione più strettamente connessa al musicale, verremo indirizzati verso un
succedersi di suoni, cadenze o di accenti all’interno di una frase, oppure verso la struttura di una
battuta musicale. Ci troviamo di fronte all’evocazione di un movimento, che mette in gioco una
forte regolarità.
Su cosa si basino queste regolarità, non ci viene mai detto, ma comprendiamo subito che, in tutte
queste definizioni , si intrecciano strettamente due nozioni: la prima è quella di misura, la seconda è
quello di processo.
Perché si dia un ordine nello svolgersi di fenomeni o nell’inseguirsi delle forme nello spazio,
bisogna che sia stato fissato un criterio, che permetta di misurare la distanza, l’intervallo temporale,
fra un evento ed un altro, o fra un elemento spaziale e l’altro.
Esiste dunque una scansione, una divisione ed una misurazione dell’unità ritmicamente
articolata: ed anche lì, il vocabolario sembra darci una mano, indicando la radice latina della parola
scandire (scandere), con una trasparente allusione al salire ed allo scendere del piede, nel momento
in cui misuriamo la quantità di sillabe in un verso: perché ci sia ritmo, bisogna trovarsi di fronte ad
una struttura chiusa, tanto che si tratti di un palazzo, di un verso o di una frase musicale, e poterne
misurare l’ampiezza, quasi isolandola dal contesto che la circonda. L’esistenza di un ritmo separa
dunque la cosa dal mondo: quando parliamo, ad esempio, del ritmo delle stagioni, è come se
prendessimo una totalità, l’anno, la scomponessimo in quattro grandi quadranti, e guardassimo a
quell’intero, secondo le articolazioni offerte da quella relazione numerica. Il tempo viene misurato,
l’anno scandito. Totalità aperta e totalità chiusa richiamano operazioni concettualmente
differenziate.
Abbiamo un intero, abbiamo delle parti, e la definizione di ritmo sembra immediatamente
volgersi al modo in cui quella relazione è stata misurata. L’anno è diventato una totalità chiusa, il
prodotto del succedersi di quelle quattro fasi. In qualche modo, organizzando una scansione, è come
se indicassimo esplicitamente il modo in cui un intero è andato costituendosi rispetto alle
occorrenze delle sue componenti.
L’intero si è fatto processo, sviluppo successivo di fatti o di fenomeni, che hanno fra di loro un
nesso: quel nesso, quell’articolazione è stato fissato dalla misurazione stessa. In questo senso, il
processo è il risultato di un’operazione, con cui abbiamo sezionato qualcosa, lo abbiamo
organizzato, rispetto ad una nozione di ordine, più o meno elementare. Si tratta di uno strato
elementare, che dà ragione della superficie del fenomeno, e che vorremmo tentare subito di
complicare un poco.
Vi sono, infatti, aspetti di questo modo di presentare la questione che sembrano non essere
molto chiari, tanto più se andiamo a vedere la parola che, secondo il vocabolario, indica l’origine
del termine ritmo: ritmo deriva dalla parola greca r(uqmoÍj.
Si tratta di un’espressione complessa, che indica, in generale, il ritmo, o un movimento regolato,
un modo per cadenzare, e quindi, in senso lato misura, una proporzione, fino ad indicare la forma
della calzatura, o la configurazione dei punti che scandiscono il prendere forma di una figura
geometrica. La figura viene colta nel momento in cui viene tracciata, ed i punti indicano una
tendenza interna alla configurazione, al modo in cui quella figura verrà chiusa. Se disegno tre punti,
il modo di congiungerli isolerà immediatamente un piano, ed il r(uqmoÍj sembra indicare quella fase
del movimento della penna in cui la figura non è ancora disegnata fino in fondo, in cui vi è un gioco
fra la fluidità della forma non ancora chiusa e la tendenza interna, che va rafforzandosi, tratto dopo
tratto, nella configurazione del suo profilo. Siamo di fronte ad una forma in movimento, scossa
ancora da una cineticità interna, anche se orientata verso una risoluzione.
La soluzione prende corpo nel momento in cui giungo al limite della chiusura, passando dalla
configurazione o dalla disposizione delle parti, all’articolazione determinata dell’intero.
Il tema spaziale sembra coniugarsi ad un riferimento temporale, che ci parla della modalità del
suo venire alla luce. Assumendo questa prospettiva, potremmo ripensare a tutti gli esempi che
abbiamo finora citato, ed il concetto di ritmo sembra immediatamente guadagnare una mobilità
inaspettata, che le placide formulazioni che andavamo sciorinando tendevano a nascondere.
Cosa significa, infatti, scandire l’anno secondo le stagioni, se non tentare di creare un sistema
mobile di organizzazione del tempo, che ci permetta di individuare una serie di cesure possibili, che
possano frenare, ed articolare, la fuggevolezza del tempo?
Dobbiamo chiederci su cosa si appoggi la convenzione che sostiene il passaggio da una stagione
all’altra, cosa ha di mira quella relazione: il fatto che il ciclo delle stagioni abbia un andamento
circolare, pone alcuni problemi: da un lato quella circolarità permette che quel modello trovi nella
ripetizione la possibilità di essere iterato a piacere, dall’altro esso ci pone di fronte ad un sistema di
transizioni, che ha come scopo catturare una trasformazione che segmenta una lunga unità di tempo,
permettendone una sorta di organizzazione interna.
Prendendo come asse d’orientamento l’idea di mutamento, le stagioni si legano infatti al mutare
del tempo, del clima: ogni passaggio da una stagione ad un’altra indica il radicalizzarsi di una
tendenza. Il nesso interno è la trasformazione dell’una nell’altra, la morte dell’una nell’altra, in un
processo di chiusura e risoluzione, scandito dal mutamento. Il punto in cui avviene quella cesura,
quel limite che devo toccare per articolare l’intero, è anch’esso in movimento, e sembra che abbia,
in realtà, una consistenza tenue, una necessità logica ben opaca. Siamo di fronte ad una metafora
ritmica, che si appoggia ad un’immagine, ma non appena cerchiamo di guardare dentro
all’immagine, i concetti si appannano. Abbiamo solo arrestato la fluidità del tempo, con una serie di
indicatori, che hanno una profonda flessibilità interna. Il senso della costruzione, visto da vicino,
sembra assai povero.
La forma della calzatura segue l’idea di una fluidità intrappolata nel movimento. La calzatura
deve adattarsi al movimento del piede, offrirgli un certo gioco interno, costruirsi e come un limite
mobile, in grado di affrontare gli scarti imprevedibili del movimento. Quella formazione è fluida,
scossa da un continuo mutamento di assetto, come per un profilo che deve calzare attorno a
qualcosa, senza poterlo irrigidire: esiste così l’idea di una elasticità della forma, che sembra
avvicinare il rapporto fra ritmo e forma a quello che intercorre fra un luogo, ed uno spazio che lo
circonda.
Nell’idea di ritmo comincia così a farsi largo, accanto a quella di una scorrevolezza che deve
essere frenata, misurata, per mantenere la flessibilità dell’andamento, una vaghezza scoraggiante.
Lo stesso accade per la misura della sillabe del verso: una volta che abbiamo individuato una
scansione, la dobbiamo seguire, ma seguire una scansione ritmica nella parola significa comunque
dover organizzare tutta la trama del discorso, anche sul piano del significato, per non ridurre
l’oggetto fuggevole, protetto da parola e metrica, ovvero il portato espressivo del discorso, in pura
meccanicità.
Avevamo in mano poco, or sembra che i concetti vadano tutti sciogliendosi fa loro. La nozione
di processo, è cambiata drasticamente di segno: non solo la connessione di elementi attraverso
l’individuazione di un nesso, ma l’ostinata ricerca del senso interno di quel processo, per poterne
mantenere intatta la configurazione nel tempo. Continuando la nostra lettura, troveremo un
immediato riferimento allo stato d’animo, ad un carattere, alla natura di un modo di sentire, ad una
disposizione psicologica. Una disposizione psicologica, un carattere, sono elementi che hanno
proprio la possibilità di mutare nel tempo, di trasformarsi, di produrre continui rivolgimenti. Un
carattere, secondo Eraclito, indica già un destino, una storia possibile, ma quella storia è tutta da
scrivere, non viene mai prescritta rigidamente.
Il r(uqmoÍj comincia a mostrare una bivalenza interna, rafforzata dal fatto che quel termine deriva
da un verbo assai noto ai filosofi, r(eÍw, che significa scorro, colo fluisco, stillo. Fluire, scorrere,
colare indicano un mutamento continuo, ed anche l’idea di un decadimento: in Platone indica
l’essere in una continua fluttuazione, in continuo mutamento, ma anche il decadere, il corrompersi,
il non poter mantenere un assetto stabile.
La nozione di ritmo sembra avere qualcosa di questo carattere, ed al tempo stesso, sembra voler
difendere, nella fluttuazione, l’acquisizione di una forma. Potremmo concluderne immediatamente
che esiste una dialettica interna a r(uqmoÍj, che mette sullo stesso piano, la fluidità dell’accadere ed il
vincolo attraverso cui conquistiamo una sua articolazione.
Il modo di porre la questione porta con sé molte opacità, perché se il problema del ritmo giace
nella coesistenza di questi aspetti, dobbiamo articolare un periplo complesso attorno al problema,
per poterne decifrare meglio i tratti: siamo infatti ad una nozione che sembra avere almeno due lati
e che prende consistenza nell’oscillazione fra due configurazioni.
Proviamo ad avvicinare la questione, assumendo, sulle prime, un punto di vista generale,
volutamente pre-filosofico: potremmo dire che forse il ritmo è una nozione che ha qualche relazione
con l’enigma.
Un enigma non è una semplice domanda, ma un modo di presentare un oggetto, facendo
emergere al suo interna una determinazione di tipo contraddittorio, per cui la stessa cosa si dà
nell’opposizione fra più caratteri, fra più tendenze. La stessa presenta almeno due lati, e quei lati
impongono una mediazione, che permetta alla cosa di mantenere un equilibrio fra gli aspetti, che la
tirano ora da una parte, ora dall’altra. La cosa si configura così attraverso un’opposizione, che ne
permette una scansione ritmica. La nozione di enigma rimanda immediatamente alla filosofia
presocratica. Ecco la formulazione caratteristica di un enigma, secondo Cleobulo 7 .

ei)=j o( pathÍr, pai=dej de\ duwÍdeka tw=n deÍ e)kaÍstwi


kou=rai e(chÍkonta diaÍndixa ei)=doj e)Íxousai à
ai)Í meÍn leukai\ e)Íasin i)dei=n, ai)Í d )au=)te meÍlainai
a)qaÍnatoi deÍ t e)ou=sai a)pofqinuÍqousin a(Ípasai. 8

Uno solo è il padre, mentre dodici sono i figli, ciascuno


dei quali ha sessanta fanciulle, che hanno un duplice
aspetto:
le une sono bianche a vedersi, le altre nere per contro,
ed essendo immortali, tutte periscono.

7
Traggo il passo da Giorgio Colli, La sapienza greca, Adelphi, 1977, Milano, pp. 340 - 342 e sgg. Colli osserva che
sull’attribuzione di questo passo a Cleobulo di Lindo esistono pesanti dubbi da parte di Diehl. Per Wilamowitz, essi
comunque sono molto antichi (G. Colli, Op. cit., p. 435).
Le parole, sibilline, vogliono indicare un modo di guardare l’anno: ha dodici figli, i mesi, e ogni
mese è composto da sessanta mezze giornate, in cui si alternano giorno e notte, pur essendo
immortali, perché giorno e notte sono in ciclo continuo, ogni volta periscono, per rinascere nel loro
incrocio ritmico. Il tempo viene colto ora come ciclicità che conserva, nel ripetersi della giornata,
ora come flusso, in cui ogni istante viene divorato nella transizione dal giorno alla notte. Quella
transizione, la zona intermedia in cui il carro del giorno ed il farsi della notte si incrociano lungo le
bronzee porte del tempo, garantisce immortalità ad entrambe, perché una si risolve nell’altro e
viceversa.
Il passaggio, che ha, in senso lato una valenza ritmica, in cui si alterna una configurazione che si
spegne poco a poco, nell’altra, ci interessa particolarmente, perché fa emergere di nuovo un
coesistere fra transizione, e rigidità, un passaggio fra due poli, che ha nel suo sviluppo un
movimento che confonde le carte, da un modo di formulare all’altro: di particolare interesse, il fatto
che le sessanta fanciulle abbiano un duplice aspetto, che in greco viene espresso con l’avverbio
diaÍndixa, che significa in due parti. Ogni nuova giornata è bipartita, ed il nesso che la separa
prende forma nel passaggio da una configurazione all’altra. Vi sono linee che tagliano in due, ma vi
è anche una continua metamorfosi, che sposta gli elementi fra di loro.
Ogni e nuovo, iterazione ed evento, questo è il punto. L’aspetto del giorno nasce come divisione,
il giorno è separatezza apparente, ma anche ripetizione che si ricompatta, formata da una serie di
unità, che continuano a ripresentarsi secondo la sequenza logica (-a, +a).
Solo in questo modo quel passaggio, diventa unità, misura, che nel mese si fa sequenza, ed è in
condizione di iterarsi almeno sessanta volte, mentre l’anno equivale ora a sessanta volte per dodici.
La scansione crea un processo, ed al suo interno le cose possono essere lette secondo due
determinazioni di tipo contraddittorio: solo in questo senso, le mezze giornate, pur essendo
immortali, tutte periscono:

a)qaÍnatoi deÍ t e)ou=sai a)pofqinuÍqousin a(Ípasai

La formulazione mette in luce chi ciò che è immortale, come luminosità del giorno che
continuamente si rigenera nel ciclo, inabissandosi nel buio, nel ciclo, nel processo stesso deve
morire, per lasciar emergere l’altra parte del giorno: esiste un equilibrio fra le due configurazioni
possibili, che garantisce il ritmo, la scansione da una fase all’altra: la misura, che ha una consistenza

8
Cleobulus, I, 129 - 130 Diehl, (Diog. Laert. I, 90 - 91 [feÍretai d au)tou= … kai\ ai)Ínigma toi=on] ; Stob. Ecl. I, 8,
37; A. P. 14, 101).
numerica, mette capo al sistema ciclico, che permette che ai due aspetti di coesistere, portando alla
luce il modo attraverso cui bisogna pensare quella relazione. Ogni fase del giorno trova il proprio
fondamento nel darsi dell’ordine dell’altra. Mutamento e ripetizione sono in anello, e questo
permette al sistema, che si chiude su se stesso, di non disperdersi, di prendere una consistenza di
tipo formale, per quanto elementare esso possa essere. L’anno sta trasformandosi in una grande
totalità chiusa, che vive in una fluttuazione continua da una configurazione all’altra.
L’aspetto enigmatico, tuttavia, allude ad un problema più profondo, strettamente legato alla
fluttuazione temporale: le fanciulle sono metà bianche e metà nere, ma mentre una loro separazione
spaziale è possibile e netta, possono essere distinte in due gruppi complementari, sul piano
temporale le cose non stanno così, perché la transizione fra giorno e notte si dà sempre in un regime
di penombra: proprio in quel momento, pur essendo immortali, ognuna perisce. Dove inizia una
linea, dove finisce l’altra? Per quale sezione, in questa continua penombra, passa il ritmo? La
ritmicità preserva, protegge, isola il giorno dalla dispersione con la sua scansione rigida, ma non
sappiamo in che punto questo accada, perché la transizione è un gradiente qualitativo, che muta di
giorno in giorno: è il motore nascosto dell’enigma
Da questo punto di vista, anche se l’assetto della configurazione è instabile, un netto punto di
transizione fra il giorno e la notte non esiste: il passaggio appartiene ad uno sfrangiarsi di
sfumature, fra ombra e luce, che ha la natura del continuo. La forma linguistica dell’enigma evoca
con nettezza la bivalenza della nozione di ritmo.
Solo alla fine del processo, la bipartizione assume nettezza, sugli estremi logici dell’opposizione.
Quel momento di transizione, regolare ma di difficile definibilità, appartiene certamente a
quell’ambito di problemi che evoca la parola r(uqmoÍj, ed il suo implacabile rapporto con uno
schema che possa risolverlo. La forma precipita verso l’evento.
Tutti conosciamo, in qualche modo, Edipo Re. In Edipo Re si fa questione dell’enigma e del
ritmo. Edipo ha risolto una domanda micidiale, proposta dalla Sfinge: quale sia la creatura che
prima si muove a quattro zampe, poi, a due, infine, a tre. La risposta, ovviamente, è l’uomo, che
passa da una configurazione all’altra.
La sfinge chiede all’uomo di riconoscersi per quello che è, nel tempo, come quel nucleo che
permane identico, rispetto a tre trasformazioni: lo stesso ora cammina a quattro zampe, ora a due,
ora a tre. La stessa cosa, presa in tre momenti diversi della sua costituzione, assume un aspetto
diverso.
Per rispondere a quella domanda, Edipo ha dovuto tornare indietro nel tempo, interrogare le
proprie esperienze, ed il senso interno che sostiene la sua capacità di muoversi. Solo se hai
strisciato, sai camminare e anche se molto hai camminato, arriverà il momento della caduta, quello
in cui le tue forze iniziano ad abbandonarti, ed avrai bisogno di un terzo piede, di un sostegno a cui
appoggiarti: in quell’enigma sta tutta la caducità di una vita umana, il senso di un percorso crudele e
sempre identico a sé stesso. Un limite che feconda, una finitezza che protegge. Un discorso su una
configurazione ritmica ben stabilizzata.
Il modo di camminare è una forma espressiva, racconta il nostro rapporto con il mondo: abbiamo
imparato a muoverci a carponi, ed allora il nostro sguardo andava dal basso verso l’alto.
Il radicamento della cosa impone staticità, osservazione del movimento, orizzontalità che
protegge. Strisciando non siamo ancora bersagli di Apollo, anche se il dio arciere ha il gusto della
vendetta efferata. Arrivati alla postazione eretta, guardiamo alle cose in modo frontale, ma non
siamo in grado di avere una prospettiva aperta sul mondo: dobbiamo girare su noi stessi, rischiare la
vertigine, cogliere sempre le cose secondo un lato. Lo spazio che ci circonda è ricco di punti di fuga
, ma noi possiamo seguire solo un orientamento, una prospettiva. Siamo il lato passivo
dell’obliquità.
Lo sguardo si piega per abbracciare un cerchio che promana dal movimento stesso: in centro
concentrico, la soggettività occupa il proprio spazio e riverbera la sua presenza tutta intorno a sé.
Quella circolarità, il poter coprire tutti gli orizzonti, tuttavia, dà vertigine, impone una terribile
fatica. Infine, camminiamo spossati su tre piedi, ci siamo piegati, è difficile tenere a lungo la
postazione eretta, girare attorno alle cose logora, eravamo un bersaglio troppo visibile, il nostro è un
cammino calante.
I tre modi di camminare si flettono sul pensiero, lo orientano, danno il taglio attraverso cui
l’enigma scandisce l’ampiezza della metafora ritmica. Il dinamismo del concetto tiene insieme le tre
rappresentazioni dell’uomo, le protegge dallo spappolarsi in una serie irrelata di rappresentazioni: il
ritmo tiene in tensione, nel passaggio da una configurazione all’altra, la struttura del problema: si dà
come scansione, nel passaggio da una fase all’altra, si dà come metro, come misura, per la forma di
ciascuno degli andamenti.
Per rispondere a quella domanda, Edipo deve allontanarsi dal presente e cominciare a scorrere in
due direzioni, il passato ed il futuro.
Il presente è già in marcia verso il suo tramonto, mentre il passato incombe sul presente: si è
formata una nuova catena, che il ritmo articola nelle sue transizione: il soggetto, ciò che non
cambia è l’uomo, ma l’enigma ci parla proprio dell’uomo che cambia.
La tragedia è appena iniziata, ma solo se conosciamo la domanda a cui ha risposto Edipo,
possiamo comprendere il senso della prima scena: i tebani, i vecchi, sono andati al palazzo e seduti,
inginocchiati, parlano con Edipo, perché cerchi un modo di cacciare la pestilenza, l’orrido nemico
interno che va sfigurando Tebe. I vecchi parlano, ma attorno a loro i giovani strisciano.
La prima immagine dell’Edipo Re è un enigma: un uomo in piedi, circondato da uomini seduti,
di ogni età. Il suo nome è piedi gonfi, mentre gli uomini che gli stanno intorno non vogliono avere i
piedi gonfiati dalla peste. Seduti, o inginocchiati, i tebani chiedono ad Edipo di riportarli al
movimento eretto.
La peste porta il terrore per un evento che altera tutti ritmi tutte le configurazioni di senso, che
tengono insieme la città e la fanno vivere. Una disarmonia ritmica porta direttamente verso il
tragico, verso la rottura di ogni argine, verso la deformazione della risposta di Edipo: la fluidità si
trasforma così in morte, il passato spinge sul futuro, assumendo il carattere di una colpa, che
prefigura un destino tragico.
Edipo è fuggito da Corinto perché l’oracolo gli ha predetto che ucciderà il padre e si congiungerà
con la madre. Edipo ha preso l’oracolo alla lettera, non ha chiesto a chi corrispondessero quei
termini così generali: Edipo risponde, ma non sa domandare, Edipo salva ed infetta. Edipo deve
perdere la vista perché il mondo veda la sua disgrazia. Le configurazioni in movimento hanno
traiettorie imprevedibili, e chi ci cade dentro, ha destino tragico, e scisso.
Il concetto di ritmo va pensato come vincolo, vincolo potente, che tenta di arginare il flusso del
tempo: formazione fuggente, meno riconoscibile del concetto di forma, perché legata ad una fluidità
che lega il carattere della cosa al suo accadere nel tempo, meglio ancora all’organizzazione
narrativa di una struttura, il ritmo è un concetto complesso, e pericolosamente ampio.
Il ritmo ( r(uqmoÍj) presiede alla disposizione dinamica delle parti, rispetto a qualcosa che va
muovendosi. Per questo motivo, continuiamo a volgerci (giÍgnowske, gignoskein significa
continuare a guardare in una direzione, compiere cioè un atto a carattere iterativo. Opponiamo al
flusso la ricerca di una regolarità nella trasformazione. Quella forma tende a fuggire, a
mimetizzarsi.
Nel suo saggio, profondamente discusso da Giovanni Piana 9 , Benveniste osservava, come
abbiamo già detto, che per cogliere fino in fondo il significato del termine, dobbiamo prestare
attenzione alla desinenza qmoÍj, che applicata alle parole astratte, implica un riferimento al modo in
cui una nozione viene a realizzarsi: se qeÍsij è si riferisce all’atto del disporre, qesmoÍj è la
particolare disposizione delle parti, la configurazione che essa assumono in un intero. Potremmo
dire che si tratta di un movimento grazie a cui un intero si assesta, ma non si è ancora stabilizzato,
in cui le parti stanno raggiungendo una configurazione spaziale, non pienamente raggiunto? Se così
fosse, il problema del ritmo si sposterebbe continuamente dall’ambito della misurazione a quello
dell’articolazione secondo una scansione, cogliendo immediatamente due possibili valorizzazioni

9
Trattando del carattere fluido che caratterizza questo livello del configurarsi dello strutturarsi della forma, Giovanni
Piana parla della rigida precarietà di un movimento rappreso (cfr. Giovanni Piana Filosofia della musica, Guerini e As-
sociati, Milano, 1991, pp. 153 - 157).
del concetto di numero: da una parte quella di uno strumento operativo, attraverso cui costruisco e
descrivo delle strutture, dall’altra una modalità per indicare una struttura espressiva. Questi usi
indicano un modo per valersi del numero, ma non ci sanno ancora dire cosa, concretamente, il
numero sia, e in che senso esso descriva qualcosa. Il numero qui si appoggia a delle prassi, prassi
musicali, ma il suo uso è, per ora, tutto interno alle prassi stesse.
Al tempo stesso, riemerge una bivalenza del concetto di ritmo, la cui definizione non si appoggia
alla stabilità dell’assetto, o al semplice riconoscimento della forma, ma al gioco che scuote il
disporsi di qualcosa che non abbia una consistenza organica, o spaziale: la caratteristica della
fluidità nell’elemento scosso dal ritmo lo rende qualcosa che è soggetto a continue transizioni, a
continui mutamenti. Esso, tuttavia, tende ad essere frenato dal ritmo stesso, che cerca di contenere,
di frenare la fluidità, attraverso un decorso di transizioni.
Il ritmo emerge in situazioni di estrema mobilità, in cui vanno stringendosi delle relazioni: non
abbiamo contorni nitidi, ma il movimento di un peplo, che copre il frastagliarsi di un contorno,
oppure l’agitarsi di una disposizione di carattere, di uno stato d’animo che può mutare da un
momento all’altro.
Entriamo in un terreno liminare, scivoloso, sulla soglia del costituirsi di una forma, più che su
quello della forma già data, e dobbiamo pur trovare qualcosa che ci permetta almeno di localizzare
le fasi della trasformazione.
Benveniste traccia il problema in modo ammirevole, quando osserva che se r(uqmoÍj ha a che
fare con l’idea di una forma improvvisata, momentanea e modificabile 10 , se deriva da una natura
che è scorrimento e modificazione, esso indica essenzialmente una maniera particolare di fluire, atta
a descrivere delle configurazioni, delle disposizioni senza necessità, che possono modificarsi
improvvisamente.
Abbiamo però già visto che, per quanto la natura sia retta da uno scorrere continuo, quello
scorrere può immediatamente congiungersi all’idea di ripetizione di periodicità, dando luogo ad un
quadro assai più problematico della nozione di ritmo.
Un esempio tratto dal mondo della percezione visiva, può esserci utile per cercare di dar ragione
delle ambiguità che legano il rapporto intero - parti rispetto al definirsi di un r(uqmoÍj. Immaginiamo
tre punti luminosi, che si dispongano in una configurazione caratteristica.

10
Ibidem, pp.407 - 408.
Non ci sorprenderà che con il termine r(uqmoÍj si indichi, nella filosofia atomista, il passaggio
attraverso cui la forma dell’atomo va consolidandosi nello schema, il suo assumere identità
attraverso una morfologia spaziale fissa. Nessuno avrebbe dubbi nel riconoscere in questa figura gli
estremi di una figura triangolare: essa ha certamente pregnanti caratteri geometrici, anche se non
abbiamo, ad esempio, tracciato lati, elementi caratteristici nella definizione delle proprietà continue
dello spazio geometrico.
Siamo su una soglia, rispetto alla quale si va configurando una forma definita, colta, nel suo
farsi e potremmo chiederci perché mai Benveniste sottolinei con tanta accuratezza il carattere
mobile, fluido del concetto di ritmo, perché tutto sembra chiaro. L’insistenza sulla nozione di forma
distintiva che non si lascia ossificare nella determinatezza dello sxh=ma, dovrebbe trovare un
fondamento nel processo d’acquisizione della forma tra una fase ancora sottoposta a mutamento ed
un momento in cui l’individuazione si realizzi a pieno. Guardando ad una configurazione appena
più complessa, incontriamo subito problemi che ci fanno cogliere il significato della distinzione
appena proposta.

In un primo momento potremmo riconoscere nella disposizione spaziale dei quattro punti un
quadrilatero, ma alla stessa stregua potremmo individuare gli estremi di una croce. Non riusciamo a
sciogliere le ambiguità di una struttura tanto semplice, e di conseguenza a prendere una decisione.
Basterebbe enfatizzare alcune tendenze interne alla raffigurazione, collocando un punto al centro
della figura per rafforzare il richiamo ad una croce oppure connettendo una fila di punti tra loro
creando la traccia di un lato ed uscire dall’ambiguità iniziale. Mancano una serie di caratteristiche
strutturali, orientabili secondo un unico vettore.
Emerge così un livello di raffigurazione della struttura caratterizzato da una fluidità, che va
dominata attraverso scelte e selezioni di materiali, facendoci oscillare fra due rappresentazioni
possibili, che entrano in conflitto tra loro.
Potremmo naturalmente investire di forti vettori immaginativi la presenza simultanea delle due
figure nella forma ambigua, o intenderle come complementari. Nella figura si presenteranno
opposizioni: nel momento in cui tracciamo i punti sul centro o lungo un lato, le condizioni
costitutive della figurazione vengono finalmente in chiaro, e la figura diventa uno schema.
Potremmo essere tentati di tracciare una curva, che passi per i quattro punti e verificare se è
possibile tracciare una circonferenza.
Solo avendo scelto una direzione possibile, il r(uqmoÍj andrà a coincidere con lo sxh=ma. Il ritmo
è un primo passo per trattenere la forma.
Il r(uqmoÍj si collega al divenire della forma su un terreno che precede non solo cronologicamente
l’avvento dell’identità della figura, sxh=ma: r(uqmoÍj e sxh=ma sono momenti complementari nello
squadernarsi delle relazioni che individuano una struttura ritmica, come mostra l’esempio tratto
dalla psicologia della forma 11 .
Potremmo cominciare a costruirci un piccolo vocabolario portatile rispetto al concetto di ritmo:
ritmo e schema, e vederli come due fasi nella costituzione di un intero: nel momento dominato dal
ritmo, l’intero va costituendosi sul piano delle relazioni, viene colto da un’istantanea che ne indica i
contorni, nel momento dello schema l’intero si presenta mostrando in modo più nitido le proprie
relazioni. E’ chiaro che il problema ritmico si muove tutto all’interno delle transizioni fra queste
due fasi, che si rincorrono continuamente.
Il momento di transizione potremmo definirlo come il momento della raffigurazione. Il ritmo si
oppone al fluidità, la trattiene e nel suo trattenerla prepara l’avvento di una schematizzazione. Vi
sono ambiti in cui la schematizzazione non è possibile, in cui il concetto di ritmo, nel suo articolare
possibilità oppositive all’interno delle proprietà di un oggetto, o di una situazione, sfiora la
dimensione del tragico, consegnandolo ad una sorta di scissione originaria in cui l’oggetto è
contemporaneamente due cose e viene tirato in due direzioni opposte.
Il riferimento alla tragedia diventa pertinente: il personaggio di Edipo è salvezza ed infezione e
va pensato lasciando che questi attributi si fondano tra loro, creando una disarmonia che orienta il
suo destino. La bivalenza tragica è così ambiguità ritmica, tensione all’interno di una figura che
appartiene, contemporaneamente almeno a due ordini diversi, come accade, del resto, anche per
Antigone.

11
Cfr. Gaetano Kanisza, Grammatica del vedere, 1980 Il Mulino, Bologna, p.13.

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