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Credo che la mia prima spinta venga da una mia ipersensibilità o allergia: mi sembra

che il linguaggio venga sempre usato in modo approssimativo, casuale, sbadato, e


ne provo un fastidio intollerabile. Non si creda che questa mia reazione corrisponda
a un'intolleranza per il prossimo: il fastidio peggiore lo provo sentendo parlare me
stesso.

Premessa generale
Nella "lezione americana" sull’Esattezza, Italo Calvino mette a fuoco la duplice natura della
lingua letteraria. Quest’ultima, da un lato ricerca la qualità poetica producendo effetti di infinito
e di indeterminato, come suggerisce Leopardi nello Zibaldone; dall’altro, conduce una continua
e quasi ossessiva ricerca della precisione, che si manifesta sia nell’esattezza lessicale, sia nel
ricorso a suddivisioni, serie numeriche, simmetrie e figure geometriche che modellano e
scandiscono il testo letterario. Le due tendenze non sono necessariamente antitetiche, anzi
spesso – sin dai tempi antichi - convivono: il disordine e la vertigine di infinito che abitano tanta
letteratura trovano il loro correttivo proprio nell’applicazione di una misura, nella costruzione di
un’architettura minuziosa e controllata.
Il numero, dunque, non è affatto estraneo al campo letterario, ma ne costituisce un elemento
costitutivo. La sua presenza si collega alla forza del simbolismo numerico, al fascino della cifra-
archetipo come chiave magica del cosmo. Ma nel numero è insita anche una potenza
ordinatrice e regolatrice, che governa il testo letterario e lo configura come un campo limitato
e perfetto. Le cosiddette opere-mondo (cfr. F. Moretti, Opere mondo, Torino, Einaudi, 1994), le
quali, dal poema antico al romanzo novecentesco, puntano a rappresentare in forme diverse la
totalità, sono particolarmente attratte dal fascino del numero, che funge da mediatore fra il
cosmo e l’uomo

n quest’epoca frenetica e appannata, nella quale ogni forma di comunicazione avviene


all’insegna della sciatteria e dell’approssimazione, potrebbe sembrare fuori luogo qualsiasi
discorso che affronti il tema dell’esattezza. Il bello scrivere non è semplicemente una forma
residua di snobismo, un rifugio per individui con lo sguardo troppo rivolto al passato. Al
contrario, si tratta di una forma di comunicazione alta, capace di reggere al trascorrere
inesorabile del tempo e di comunicare, anche in epoche future, i sentimenti e le passioni che
hanno guidato e sorretto la mano dell’autore. Chi vuole coltivare l’esattezza deve, sempre e
comunque, pagare un prezzo molto alto in termini di tempo e di fatica, necessari non solo per
concepire l’opera letteraria, ma anche per scriverla e, spesso, riscriverla, anche più volte.
Scrivere non è per niente un’attività facile, di scarso impegno e, soprattutto, leggera, come
pretendono quelli che poi hanno difficoltà anche a mettere sulla carta, o in rete, pensieri e
riflessioni, fosse anche per scrivere un semplice biglietto di auguri. Presi singolarmente, i testi
di cui si parla in questo post sembrerebbero avere ben poco in comune. Cos’è, allora, che lega
due libri, apparentemente così distanti tra loro? In primo luogo, entrambi espongono più di una
riflessione sul lavoro dello scrittore e sul fine ultimo a cui dovrebbe tendere il suo stile
narrativo. In secondo luogo, sviluppano nelle loro pagine un concetto, quello dell’esattezza, che
è stato la ragione d’essere della produzione letteraria di entrambi. Entrando nei dettagli, il
volume di Raymond Carver si presenta come una raccolta di materiali vari, che vanno da
prefazioni ad opere sue e di altri autori, a testi di conferenze, a registrazioni di lezioni sulla
scrittura, tutti legati dal filo conduttore di una riflessione intorno all’arte dello scrivere. Carver
tiene a sottolineare, in particolare, il fatto che ha sempre prediletto la forma narrativa del
racconto breve e questo lo imputa alla sua stessa natura piuttosto pigra, che lo rende incapace
di imbarcarsi in un’impresa lunga e complessa come quella di realizzare un romanzo.
Aggiunge, però, che ha riscritto più volte gli stessi racconti, fino a dare loro una forma che
fosse la più compiuta e soprattutto la più “esatta” possibile. Una forma narrativa dove ogni
parola potesse occupare un posto nella frase dal quale fosse impossibile rimuoverla, senza
compromettere irreparabilmente l’equilibrio del testo. Le celebri “Lezioni americane” sono,
invece, il testo di alcune conferenze che Italo Calvino era stato incaricato di tenere presso
l’università di Harvard, lezioni, purtroppo, rimaste sulla carta, a causa dell’improvvisa
scomparsa dello scrittore. Quella sul concetto di “esattezza” è una delle cinque lezioni già
completate dall’autore e pubblicate postume, quasi a chiosare le scelte stilistiche che
traspaiono dalle sue opere. Lo sforzo dell’autore è tutto teso a definire quel concetto che
rappresenta la stella polare di tutta la sua opera. “Cosa si intende per esattezza?”, si chiede lo
scrittore. La definizione che ne fornisce è, come nelle sue abitudini, non semplicemente teorica
ma anche operativa. Dice, infatti, Calvino: “… Esattezza vuol dire per me soprattutto tre cose:
1) un disegno dell’opera ben definito e ben calcolato; 2) l’evocazione d’immagini visuali nitide,
incisive, memorabili; […] 3) un linguaggio il più preciso possibile come lessico e come resa
delle sfumature del pensiero e dell’immaginazione”. Se adottiamo questa definizione come
metro di molte opere letterarie attuali, le giudicheremo del tutto inadeguate a rappresentare il
concetto, persino nella sua formulazione minimale. Calvino e Carver sono i sacerdoti della
“religione dell’esattezza”, alla quale si sono completamente votati, una religione i cui adepti
sembrano, di giorno in giorno, ridursi di numero. Basta dare una rapida scorsa a qualche
pagina di uno qualunque dei tanto osannati best sellers del momento. Quanta inesattezza,
quanta sciatteria l’autore ha posto nel tradurre in parole e frasi il proprio pensiero! Se poi
si entra nel merito della funzione educante della lettura, si capisce quanto possano essere
amplificati gli effetti deleteri sulla gran parte dei lettori che, pigri e distratti per natura,
finiscono per assuefarsi facilmente ai sapori grossolani di libri malfatti. L’esattezza: grande
virtù, che ben pochi autori hanno avuto ed hanno la forza e la volontà di coltivare. Leggere
questi libri aiuta a capirne e ad apprezzarne profondamente il senso e la funzione

In una delle sue lezioni americane, Calvino definisce così l'esattezza:


1. Un disegno dell'opera ben definito e ben calcolato;
2. L'evocazione di immagini visuali nitide, incisive, memorabili;
3. Un linguaggio il più preciso possibile come lessico e come resa delle sfumature del
pensiero e dell'immaginazione.

A Calvino sembra che il linguaggio venga usato in modo approssimativo, anche da lui in
persona, ed è per questo che preferisce scrivere piuttosto che parlare, in modo da poter
sistemare e correggere una frase quante volte vuole. Registra la diffusione di una specie di
"peste del linguaggio", ossia di un'uniformità che appiattisce tutto: la letteratura può
contrastare questa "malattia".
Per rafforzare la sua teoria dell'esattezza come valore da salvare, Calvino prende come primo
esempio un autore che sosteneva che un linguaggio è tanto più poetico quanto più è vago e
impreciso, Giacomo Leopardi. All'uomo infatti piace immaginarsi l'ignoto, l'indefinito, che per
Leopardi è sempre meglio di ciò che è noto. Per descriverlo però occorre una grandissima
precisione, bisogna essere meticolosi al massimo, minuziosi nei dettagli. Leopardi quindi si
rivela un testimone a favore dell'esattezza.
Il problema dell'esattezza come somma delle qualità di un uomo è stato affrontato anche da
Musil, che sostiene che se un uomo è dotato di esattezza, al di fuori di quello il resto è
indefinito. Mentre Leopardi usava la precisione per suscitare piacere, Valery la utilizza nel
descrivere come il suo personaggio patisce e combatte il dolore.
Calvino si chiede se non sono proprio le cose che sembrano più precise ed esatte (i numeri, le
forme geometriche) a dare la più grande vaghezza (i numeri e le rette sono infinite). Proprio lui
che vorrebbe essere un "salvatore" dell'esattezza, riferisce che nello scrivere un romanzo
molte volte non riesce a concentrarsi, perchè non gli interessa qualcosa di preciso da scrivere,
ma tutto ciò che ne resta escluso. Per combattere questa ossessione, cerca di suddividere ciò
che deve dire in molteplici campi, che a loro volta vengono ancora suddivisi, ma poi si fa
prendere dall'infinitamente piccolo, come prima era preso dall'infinitamente grande.
Il gusto della composizione geometrizzante ha sullo sfondo l'opposizione ordine-disordine:
nell'universo, simbolo del caos, si possono individuare delle zone d'ordine; la letteratura è una
di queste, l'esistente prende una forma, si "cristallizza". Per Calvino il cristallo, con la sua
esatta sfaccettatura è il modello di perfezione, l'immagine di invarianza e regolarità delle
strutture, che si contrappone alla fiamma, immagine di costanza di una forma globale
esteriore, malgrado l'incessante agitazione interna. Queste due figure sono categorie per
classificare fatti, idee, stili, sentimenti e non vanno entrambe dimenticate.
Per l'autore il suo libro-esattezza è "Le città invisibili": egli considera infatti la città il simbolo in
cui si concentra la razionalità geometrica e "il groviglio delle esistenze umane". Attraverso la
stesura di questo libro, l'autore si è accorto che la ricerca dell'esattezza si biforca in due
direzioni: da una parte un riduzione degli eventi a schemi astratti, dall'altra la miglior resa
possibile con le parole dell'aspetto sensibile delle cose. Calvino si rende conto che non
raggiungerà mai questi obiettivi, perchè da una parte il linguaggio rappresenta di per sè una
specie di filtro, che comunque modifica la realtà, dall'altra il linguaggio dirà sempre qualcosa in
meno rispetto alla totalità dell'inesprimibile. Nonostante questo, si è esercitato scrivendo
delle descrizioni il più minuzioso possibile: da queste esercitazioni è nato Palomar, che riflette
sui problemi di conoscenza minimale per stabilire relazioni col mondo. Per questo libro si è
ispirato ad alcuni poeti, in particolare a Montale con la sua poesia "L'anguilla" e a Ponge, che
vorrebbe ricostruire la fisicità del mondo attraverso le parole, trasformando il semplice
linguaggio in "linguaggio delle cose". Infatti secondo Calvino "la parola collega la traccia
visibile alla cosa invisibile, alla cosa assente, alla cosa desiderata o temuta, come un fragile
ponte di fortuna gettato sul vuoto".
Un esempio di lotta con la lingua per comunicare al meglio è data da Leonardo: egli, non
essendo un letterato, preferiva trasmettere i suoi pensieri con la pittura, anche se il bisogno di
scrivere qualche volta prendeva il sopravvento, specialmente man mano che invecchiava;
allora i suoi quaderni erano pieni di riscrizioni e rifacimenti, poichè era eternamente
insoddisfatto dei suoi testi.

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