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FAC TA
A J O U R NA L O F R O M A N
M AT E R I A L C U LT U R E S T U D I E S
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Direttori
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“Federico II”) · E. Giannichedda · F. Giudice (Università di Catania) · A. Hochuli-Gysel
(Fondation Pro Aventico, Avenches) · S. Ladstätter (Österreichische Akademie der
Wissenschaften) · M. Lawall (University of Manitoba) · M. Mackensen (Ludwig-
Maximilians-Universität, München) · D. Manacorda (Università di Roma Tre) · D. Mat-
tingly (University of Leicester) · M. Mazza (Università di Roma “La Sapienza”) · D.
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ranée, Lyon) · M. O’Hea (University of Adelaide) · E. Papi (Università di Siena) · D. P. S.
Peacock (University of Southampton) · N. Rauh (Purdue University) · P. Reynolds
(University of Barcelona) · G. Sanders (The American School of Classical Studies at
Athens) · F. Slavazzi (Università di Milano) · K. W. Slane (University of Missouri-Colum-
bia) · N. Terrenato (University of North Carolina, Chapel Hill) · M. Torelli (Università
di Perugia) · H. von Hessberg (Universität zu Köln) · A. Wilson (University of Oxford) ·
D. Yntema (Vrije Universiteit Amsterdam)

Consulente di redazione per la grafica e la fotografia


Giovanni Fragalà
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FAC TA
A J O U R NA L O F R O M A N
M AT E R I A L C U LT U R E S T U D I E S

1 · 2007

PISA · ROMA
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MMVIII
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SOMMARIO

«Facta. A Journal of Roman material culture studies» 9


Jeroen Poblome, Daniele Malfitana, John Lund, Tempus fugit, «Facta»
manent. Editorial statement 13
Michel Feugère, Techniques, productions, consommations: le sens des objects 21
Johan Modée, Outline of a New Theory of Artifacts 31
Enrico Giannichedda, Lo scavo, i residui e l’affidabilità stratigrafica 51
Gary Reger, Regions Revisited. Identifying Regions in a Greco-Roman Mediter-
ranean Context 65
Lucio Fiorini, Mario Torelli, La fusione, Afrodite e l’emporion 75
Marcello Mogetta, Nicola Terrenato, Architecture and Economy in an
early imperial Settlement in Northern Etruria 107
Marie-Dominique Nenna, Production et commerce du verre à l’époque impé-
riale: nouvelles découvertes et problématiques 125
Fabrizio Slavazzi, Un piatto in porfido da Cremona. Note su una classe di vasel-
lame di lusso 149
Helga Di Giuseppe, Proprietari e produttori nell’alta valle del Bradano 157

Indirizzi degli autori 183


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LO SCAVO, I RESIDUI,
L’AFFIDABILITÀ STRATIGRAFICA
Enrico Giannichedda

Lo scavo

Quando sono stato invitato a contribuire al primo numero di «Facta» avevo aderi-
to con convinzione immaginando di scrivere alcune pagine sui residui, così da ri-
prendere alcune riflessioni personali già svolte in altra sede, ma tuttora inedite. Ri-
flessioni relative non tanto ai modi di discriminare reperti in fase e residui, ma, più in
generale, alla vita dei manufatti e in gran parte conseguenti alla lettura degli Atti di
un convegno tenutosi a Roma il 16 marzo 1996. In tale sede, sia le relazioni sia gli in-
terventi alla tavola rotonda conclusiva avevano adeguatamente affrontato un tema
mai in precedenza approfondito ridefinendo il «problema residualità» con particolare
attenzione per gli aspetti cronologici e di quantificazione dei reperti. Con il passare
del tempo, però, ogni qualvolta iniziavo a lavorare sul tema che mi ero autoimposto,
provavo un’insoddisfazione di fondo conseguenza di considerazioni più generali –
non si può discutere dei residui senza discutere dei metodi della ricerca stratigrafica
– o di domande a cui non ho sicura risposta. Prima fra tutte, i metodi della ricerca ar-
cheologica sono adeguati per fare sì che ogni scavo diventi oggetto di interpretazio-
ne storica? Oppure, quegli stessi mezzi sono di parziale ostacolo a ‘fare storia’ e, ma-
gari, finiscono per servire ad altro?1
Con queste perplessità in testa, nell’anno accademico 2006-2007, ho insegnato alla
Scuola di specializzazione dell’Università Cattolica di Milano, corso di Metodologia e
tecnica dello scavo cercando, credo onestamente, di porre di fronte agli specializzandi,
quasi tutti con ampia e diversificata esperienza di scavo, il dilemma se i metodi dello
scavo archeologico sono adeguati, se sono migliorabili e come. Nonostante il corso
iniziasse rilevando che la bibliografia di riferimento contempla testi scritti oltre ven-
ticinque anni fa (in Italia i manuali celeberrimi di Harris, Barker e Carandini) e che a
tali lavori quasi nulla aggiungono le opere successive che in genere compendiano
quanto sopra, con un qualche personale stupore ho registrato generale soddisfazio-
ne per i metodi adottati nelle più svariate situazioni.2 Per gran parte degli specializ-
zandi i problemi «dello scavo» sono conseguenza dell’assenza di soldi, di tempo, tal-
volta di preparazione individuale. Un problema, quest’ultimo, che ognuno dichiara

1 Di seguito, le indicazioni bibliografiche sono ridotte al minimo indispensabile anche con lo scopo di
sottolineare come da tempo si disponga di lavori che adeguatamente inquadrano i problemi qui posti. Sul
ciclo di vita dei manufatti rinvio a quanto in Giannichedda 2006 mentre gli atti del convegno romano sa-
ranno ora citati complessivamente come I materiali residui 1998. Dedicato ai residui e al momento inedito è
Giannichedda in stampa.
2 Il riferimento è a Barker 1981, Carandini 1981, Harris 1983, Piuzzi 1990, Santoro 1997, Tron-
chetti 2003. Un approccio diverso e francamente geoarcheologico è caratteristico di Leonardi 1982 e dei
contributi in Leonardi 1992. A tali lavori e alla bibliografia ivi citata si rinvia anche per le considerazioni,
più avanti soltanto accennate, sui modi di formazione.
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52 enrico giannichedda
di volere risolvere facendo maggiore esperienza sul campo. La situazione è, però, dav-
vero questa o, forse, il problema dell’adeguatezza dei metodi alle situazioni reali (e
quindi alla persistente e oggettivamente irrisolvibile carenza di soldi e tempo) per-
marrà nonostante gli sforzi di ciascuno?
Non è evidentemente questa la sede per una estesa discussione di un tema su cui,
credo necessiti lavorare molto, ma può essere utile richiamare le questioni che reto-
ricamente ho posto agli studenti e le direzioni verso cui si dovrebbe procedere per tro-
vare quelle soluzioni che facciano dello scavo una ancora migliore occasione di rico-
struzione storica. Sia comunque chiaro che il paradigma di riferimento di tutta la mia
attività è tradizionalmente stratigrafico, addirittura harrisiano nello studio degli
aspetti geometrici della stratificazione (la messa in fase) ed il problema non è negare
gli strumenti di cui si dispone, ma cercare di migliorarli.
Ecco perciò le domande che retoricamente pongo prima di tutto a me stesso. È nor-
male che una disciplina che si dice scientifica adotti manuali, ma anche procedure,
schede, pratiche di cantiere, vecchie di trent’anni? È normale che ad occuparsi (e scri-
vere) dei metodi di scavo siano solo pochi archeologi e che negli altri prevalga una sor-
ta di «unanimismo stratigrafico» apparentemente acritico? E che dire di quella gran
parte del mondo in cui non si adottano le procedure standardizzatesi in Italia negli an-
ni Settanta? Più in generale, i paradigmi e le procedure possono almeno in parte cam-
biare? Cosa significa qualità: molti riferimenti storici, molti strati, molti cocci, molti
gigabyte? Accanimento stratigrafico e accanimento archeometrico sono una possibi-
le soluzione o costituiscono piuttosto una parte del problema? Farne a meno è possi-
bile? Mercato del lavoro e corporativismi vecchi e nuovi influenzano la qualità e la cre-
scita della ricerca? Il gran numero di scavi inediti accumulatisi nei decenni o pubblicati
solo a brandelli (spesso con riferimento solo alle strutture e ai materiali «significati-
vi») è in qualche misura conseguenza delle stesse procedure di scavo?
E qui, sempre procedendo per cenni che non esauriscono affatto l’argomento, ma
forse ottengono di evidenziarlo, ecco le direzioni in cui credo dovrebbe volgersi chi
ha interesse a migliorare il proprio lavoro sul campo: ritornare a porsi il problema dei
modi di formazione delle Unità stratigrafiche; riconoscere che si tratta di unità ope-
razionali; che non vale l’affermazione «un’azione uguale un deposito»; che molte uni-
tà si formano in tempi lunghi per il concomitante concorrere di più eventi. Nella pra-
tica significa che le schede sono strumenti burocratici del tutto inadeguati alla
registrazione dei dati e, ancora più importante, che non tutte le Unità stratigrafiche
sono degne di pari attenzione e, quindi, è sullo scavo che l’archeologo costruisce l’in-
terpretazione. Ed è nel medesimo luogo che costruisce quella che potrà diventare
l’edizione dei risultati in tempi e con modalità ragionevoli.1 Un’interpretazione che,
con Hodder, è sì ‘in punta di cazzuola’,2 ma è, soprattutto, basata su semplici, e deci-
sive, osservazione geoarcheologiche,3 sulla conoscenza di situazioni viventi in cui si

1 Per la definizione di unità operazionale cfr. De Guio 1988. Per le difficoltà a passare dallo scavo al-
l’edizione si vedano i contributi in Francovich-Manacorda 1990.
2 Hodder 1997. In questa sede, per ragioni di brevità e per focalizzare l’attenzione sulla concreta possi-
bilità di migliorare le procedure di scavo e quel che ne consegue si è evitato ogni ulteriore riferimento alla
cosiddetta reflexive archaeology e a questioni di natura prettamente teorica.
3 Ancora fondamentale è Mannoni 1970 che dimostra da quanto tempo si dispone di strumenti con-
cettuali utili allo studio delle stratificazioni e di come sia possibile compiere ciò anche senza un iperspecia-
lismo raramente applicabile nel concreto.
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è osservato il formarsi di specifiche stratigrafie (l’etnoarcheologia),1 talvolta su veri e
propri esperimenti,2 sulla conoscenza della casistica archeologica da cui ricavare un
approfondito ‘dizionario’ di situazioni stratigrafiche ricorrenti in cui raccogliere le va-
riabili che contraddistinguono specifiche situazioni.3
Per guardare più approfonditamente in avanti è quindi necessario guardare indie-
tro. La ‘rivoluzione informatica’, e quindi i diffusissimi Gis o ancor meno altri stru-
menti elettronici, non è, difatti, rivoluzione che scende per davvero nello scavo inter-
pretando come si sono formati i depositi, ma, semmai, è operazione che pone in
relazione, in una successiva fase del lavoro, un numero sempre più esteso di variabili
raccolte in modo tradizionale, o quasi. Quel che necessita è unire ad una diffusa com-
petenza stratigrafica (quella che, in primissima istanza, fa ritenere soddisfacente il sa-
pere distinguere il colore, i componenti, la consistenza di un qualcosa e potere, quin-
di, gridare ad una nuova Us) una diversa formazione degli studenti e degli operatori
(naturalistica per quel tanto che serve ed etnoarcheologica per quanto possibile), una
certa elasticità delle procedure di cantiere, un modo di passare dallo scavo all’inter-
pretazione che non può realizzarsi nella totale separazione fra chi scava e chi scrive.
Auspicabile è, quindi, l’avvio o, se si vuole, la ripresa di un dibattito che, in realtà, at-
tualmente sembra carente e che solo sporadicamente, ha guardato più alla teoria del-
la stratificazione che non alla costruzione di metodi adeguati. Adeguati, fra l’altro, a
fare sì che gli scavi non restino inediti, che non diventi prassi diffusa la pubblicazione
di notizie definite preliminari ma in realtà definitive essendo frutto dello studio non
integrale della documentazione e dei materiali.

I residui
A questo punto tornare a discutere di quei residui da cui volevo inizialmente partire
può apparire difficile se non aiutasse una frase di Carlo Pavolini, curatore insieme a Fe-
derico Guidobaldi e Philippe Pergola del menzionato convegno romano. Egli, difatti,
dichiarava che il convegno dedicato ai residui doveva servire da ‘capostipite’ ad una se-
rie di convegni dal titolo Dallo scavo all’interpretazione così da obbligare a discutere non
solo di materiali, ma del «primato del contesto», legando quindi i reperti alla terra in
cui li si è rinvenuti e alla storia della stessa.4 Ragionare di residui ha, del resto, senso
solo nell’ambito dell’archeologia stratigrafica e, nonostante le relazioni al convegno
romano fossero incentrate sull’analisi di contesti urbani quasi sempre di età classica, il
tema non può certamente trascurarsi nello studio di altri periodi e situazioni.
Certamente esistono diverse definizioni di residuo, ma, intuitivamente, residuo è
ciò che non è pertinente al contesto dal punto di vista cronologico, ciò che appartie-
ne al passato, ciò che non dovrebbe trovarsi dove lo troviamo, ciò che Jean Paul Mo-

1 Vidale 2004, sintetico ma efficace e con bibliografia aggiornata.


2 Significativo esperimento volto alla comprensione dei fondi di capanna preistorici, ma più in genera-
le al riempimento di fosse e alla formazione di strati d’uso è Tinè 1989 soprattutto per la coraggiosa pub-
blicazione del dibattito fra esperti che rivela la consapevolezza di quanto sia difficile, ma necessario, inter-
pretare come si è formato in passato ciò che si scava. Una dettagliata analisi e un positivo commento a tale
lavoro si ha in Giannichedda 2002
3 Il riferimento è, ovviamente, alla per certi versi pionieristica Biografia di un foro di palo in Barker 1981
ma si veda anche quanto citato supra a nota 13 e il testo corrispondente.
4 I materiali residui 1998, p. 255.
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rel dice provocare sorpresa.1 Spesso il riconoscimento dei materiali residui è un’ope-
razione empirica e approssimativa non migliorata da affermazioni del tipo: residuo è
l’oggetto prodotto in un’epoca precedente al suo ingresso nella stratificazione o, de-
finizione migliore, residuo è l’oggetto scartato prima dell’inizio della formazione del-
lo strato in cui lo si trova. Ovviamente si potrebbe sostenere che ogni coccio è un re-
siduo della propria tazza, ma, in realtà, per capire se un oggetto è significativamente
un residuo, qualsiasi sia la definizione che si dà al termine, non è mai sufficiente guar-
dare al manufatto in sé, ma necessitano dati di contesto e valutare quindi le relazioni
che, quell’oggetto, ha con il mondo circostante (un singolo reperto estratto ‘a forza’
dalla cassetta dei reperti di per sé non è perciò giudicabile). Un reperto è residuo o in
fase rispetto a qualcosa d’altro.
Nella valutazione di residuo necessita quindi considerare tre diversi caratteri dei
materiali e dei contesti legando, fra loro, osservazioni aventi natura diversa. Primo ca-
rattere significativo sono le modalità di giacitura del reperto; sembra al suo posto o è
in giacitura secondaria? Si può presumere che l’oggetto una volta scartato sia stato
seppellito e quindi riesumato a distanza di tempo per poi essere riseppellito? Per ca-
pire ciò necessita studiare sia i caratteri della stratificazione sia quelli del reperto (usu-
re, frammentazione, arrotondamenti) e dell’intera associazione di materiali rinvenu-
ti. Secondo carattere, un avvenuto decorso di tempo differente da quello di altri
materiali associati; il reperto crea stupore, non è nel suo periodo, è cronologicamen-
te fuori posto? Indizio di ciò sono, oltre a quanto menzionato per valutare le giacitu-
re, i caratteri cronotipologici del tipo.2 Terzo carattere, la funzione del reperto. Per
come è o per come lo si trova il reperto può dirsi essere stato inutile? Per rispondere
necessitano competenze non limitate a discriminare classi e tipi, ma in grado di valo-
rizzare i caratteri dell’oggetto in relazione a materia prima, tecnica di realizzazione,
modalità di utilizzo, ma anche modi di frammentazione, tracce d’uso e riuso.
Queste tre valutazioni congiunte rinviano, non a caso, ai tre paradigmi “principe”
della ricerca archeologica (stratigrafia, tipologia, tecnologia) e quindi ad una guida fra
le più sicure per il prosieguo del lavoro. Nella tabella 1 si schematizzano i caratteri che
distinguono svariate situazioni concrete, ma è ovvio che lo schema è per molti versi
semplificante e, oltre a non tenere conto della possibilità di oggetti sepolti e dissep-
pelliti più volte, non considera quale considerazione degli oggetti avessero gli antichi
(ad esempio, erano consapevoli che si trattava di manufatti prodotti in altre epoche,
vi attribuivano un valore particolare o solo d’uso).

1 I materiali residui 1998, p. 282.


2 Si tralascia qui di affrontare il tema della vita dei vasi e, cioè, di quanto un frammento ceramico de-
ve essere più vecchio dello strato in cui lo si trova per provocare “sorpresa cronologica” ed essere quindi
considerato residuo. O, con altre parole, qual è il lasso cronologico che deve darsi fra residui e materiali in
fase? Per ragionare con qualche rigore occorrerebbe sapere quanto dura un vaso (conoscerne cioè la vita),
ma su questo si sa davvero poco nonostante il problema sia rilevante e, non risolvendolo, è impossibile ra-
gionare di quale fosse la composizione delle associazioni d’uso (trovare fra i reperti in fase cento piatti non
significa che in quella casa essi fossero tutti in uso contemporaneamente). Senza dilungarsi è possibile di-
re che lo studio della vita normale dei recipienti (che non ha nulla di casuale, ma è determinata da mate-
riali e condizioni d’uso) dovrà in futuro divenire uno dei settori di studio da sviluppare maggiormente con,
da un lato, la disamina di contesti archeologici particolari (ben datati, inalterati, di breve durata) e dall’al-
tro le comparazioni etnografiche (per questi argomenti si rinvia a Mannoni, Giannichedda 1996 e Va-
rien-Mills 1997).
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lo scavo, i residui, l’affidabilità stratigrafica 55

Esempio Il reperto Il reperto Il reperto


ha giacitura pone un ha una
‘alterata’ problema funzione
di decorso nella Us
di tempo di giacitura
1 Coccio romano No No No Reperto in fase;
in strato romano giacitura primaria
2 Anello romano No Si Si Cimelio
in tomba medievale
3 Concio romano Si Si Si Reimpiego
reimpiegato
4 Coccio romano Si Si No Residuo
in strato medievale archeologico
5 Anello romano ? Si ? Cimelio smarrito
in strato medievale o residuo
6 Fr. olla funeraria Si No No Residuo stratigrafico;
in livelli di sepolcreto giacitura secondaria
7 Oggetto in posto No No Si Reperto in situ
8 Monumento in elevato No Si No Sopravissuto
9 Si No Si Non determinabile

Tabella 1. In maniera intuitiva possono essere interpretate situazioni per certi versi simili: un coccio
romano in uno strato medievale è un residuo, un concio romano in unità stratigrafica muraria me-
dievale è un riuso o reimpiego. In realtà, la tabella evidenzia il concorso di tre fattori di natura strati-
grafica, tipologica e produttiva-funzionale (il ciclo di vita dell’oggetto) nel definire la natura del re-
perto. Come discusso nel testo si noti che i termini ‘giacitura alterata’ e ‘avere una funzione’ vanno
chiariti caso per caso, mentre ‘decorso di tempo’ è ciò che determina sorpresa per un reperto che non
è nello strato in cui sarebbe prevedibile doversi trovare.

Diversamente da quanto alcuni possono credere, in realtà i residui creano meno pro-
blemi di quel che si pensa: raramente dovrebbero creare problemi di datazione (a da-
tare è sempre il reperto più recente), più spesso problemi di definizione del contesto
(inteso come associazione di manufatti coevi). I problemi sono comunque tutti di post
scavo benché è sullo scavo che si pongono le premesse per risolverli. Con questo non
si vuole peraltro negare né il rischio di datare, in particolari situazioni, un singolo
strato con i residui più appariscenti anziché con i meno conosciuti materiali pertinenti
alla fase (rendendo, ad esempio, romano ciò che in realtà sarebbe altomedievale), né
l’esistenza di tipi prodotti e usati per tempi lunghi senza apprezzabili variazioni (i
residui non risultano pertanto facilmente distinguibili e non possono assegnarsi a
periodi precisi).
In realtà, come ben mostrano molte relazioni in I materiali residui 1998, se ricono-
sciuti come tali, i residui possono essere considerati al pari di altri elementi costitutivi
gli strati: «da parassiti dei dati archeologici e delle quantificazioni, capaci di sminuir-
ne o addirittura di metterne in crisi la validità, ad elementi innocui o perfino utili».1

1 Saguì-Rovelli 1998, p. 175.


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56 enrico giannichedda
Essi possono difatti informare di fasi altrimenti ignote (‘attività fantasma’) a seguito
della completa asportazione o distruzione della stratificazione di interi periodi. In ta-
li casi i residui informano di una parte della storia del sito comprovando, ad esempio,
lo svolgersi di attività produttive, sepolcrali, insediative altrimenti non attestate. In fu-
turo il ricorso alla valorizzazione dei materiali residui presumibilmente diverrà sem-
pre più importante con il progredire della distruzione di molti siti archeologici e quin-
di con il formarsi di strati moderni ad alto contenuto di reperti ‘rimaneggiati’. I residui
forniscono anche elementi di novità nel campo degli studi tipologici (ad esempio nuo-
vi tipi o varianti mai riconosciute) o, più frequentemente, elementi di integrazione al
catalogo di quanto già noto per uno specifico sito (manufatti altrimenti non attestati
fra i materiali in fase). Infine, i residui possono contribuire al riconoscimento dei mo-
di di formazione dei depositi in cui vengono rinvenuti. Ad esempio, la presenza di re-
sidui di età romana nella preparazione di un terrapieno altomedievale può contribui-
re a informare delle modalità con cui questo fu costruito e addirittura a indicare l’area
di prelievo della terra. Su questo argomento, però, si tornerà estesamente più avanti
per quanto ha a che vedere con lo scavo e l’affidabilità stratigrafica e, prima, è utile fa-
re tesoro di quanto approfonditamente discusso nel convegno romano.
In I materiali residui 1998 sono stati illustrati, in maniera peraltro diseguale, due ap-
procci relativi al trasformare un apparente problema in fonte di informazione. Un pri-
mo approccio, certamente privilegiato in quella sede, può ben dirsi ‘aritmetico’ o ‘sta-
tistico’ e fondamentale al proposito resta l’articolo di Nicola Terrenato e Giovanni
Ricci (1998). Dopo un utile accenno alla storia degli studi, in tale lavoro si affronta
l’analisi dei tassi di residualità nelle stratificazioni urbane con metodi che, in realtà,
sono applicabili anche a contesti rurali e non dipendono dall’ubicazione del sito. Una
prima fase del lavoro è volta ad evidenziare i limiti insiti nel semplice calcolo della per-
centuale di residui per classi di materiali e quelli conseguenti al cercare di valutare la
composizione cronologica dei residui ricorrendo alla stima della data mediana di ogni
tipo.1 Un originale “approccio alternativo”, sempre nell’ambito aritmetico-statistico,
è quindi proposto proprio per ovviare al difetto derivante dall’imprecisa datazione di
molti frammenti che appiattisce le differenza fra tipi di breve durata e ben datati (ad
esempio, Hayes 58B, 350-375 d.C.), tipi forse di breve durata ma ancora non ben data-
ti (come potrebbe essere il caso della forma Hayes 81, B 360-440), tipi di lunga durata
o che per lo stato delle conoscenze si devono ancora ipotizzare tali (olle grezze spes-
so datate con intervalli di un paio di secoli e più). Il metodo, detto della somma delle
medie ponderate individuali2 è aritmeticamente di semplice applicazione, ma come

1 È difatti evidente che se in uno strato medievale ci sono residui preistorici, romani e del secolo prece-
dente a quello della deposizione e in un altro strato solo questi ultimi, ciò avrà qualche motivazione, ma il
quantificarli non risolve il problema che evidenzia. Ad esempio, non aiuta a capire se nel primo caso gli stra-
ti preistorici e romani siano stati intaccati nel medioevo o se già allora erano residui in strati solo di poco
più antichi.
2 Il metodo che si tenterà di riassumere aritmeticamente è più semplice di quanto appaia a parole e con-
sta dei seguenti passaggi (ovviamente lavorando per singole Us di cui si sono classificati, contati e datati tut-
ti i reperti): 1. Dividere il totale dei frammenti di ogni tipo per l’intervallo di datazione del medesimo. Esem-
pio: 14 fr. scodelle datate fra 30 e 130 d.C. = 14: (130-30) = 0,14 fr. di olla/anno. 2. Ripetere l’operazione
precedente per ogni tipo. 3. Sommare per ogni anno il numero di frammenti ottenuto per ogni tipo. 4. Pre-
disporre un grafico con in ordinata il numero di frammenti e in ascissa gli anni (o i decenni se al punto 1 an-
ziché dividere per 100 si è opportunamente deciso di lavorare per decenni e si è quindi diviso per 10). In tal
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evidenziano Terrenato e Ricci non elimina del tutto i problemi, primo fra tutti il
doversi necessariamente accettare che ogni tipo era uniformemente diffuso per tutto
un periodo (in molti casi è più realistico pensare a distribuzioni gaussiane e, nella
realtà i livelli di produzione e di approvvigionamento sito per sito oltre che ignoti
potevano essere mutevoli).1 Con questo procedimento si ottiene da ultimo di potere
confrontare la residualità in Us diverse, ma questa è evidentemente poca cosa, e gli
stessi Terrenato e Ricci2 riconoscono che talvolta si dimostra solo ciò che era co-
munque “lapalissiano”.
Un secondo modo di affrontare la questione residui può dirsi geo archeologico o,
meglio, dei modi di formazione, così da non renderlo, con le parole, terreno per soli
specialisti. Esso muove dal chiedersi il perché in taluni strati esistano oggetti che crea-
no stupore cronologico, tipologico, funzionale e ne studia l’origine cercando, strato
per strato, di capire chi (o che cosa), e in che modo, ha portato le componenti di uno
strato a depositarsi. Di particolare importanza nell’occuparsi di residui è perciò la con-
siderazione (tutt’altro che banale) che le Us, proprio perché non sono eventi puntua-
li, contengono elementi conseguenti a storie diverse e accomunati in certi casi solo
dal definitivo seppellimento. Al proposito, i manuali di scavo, da Barker 1981 a Ca-
randini 1981, discutono brevemente la questione soffermandosi a considerare anche
strati in cui tutti i reperti sono rimaneggiati e oltre a ciò procedono a una casistica
delle situazioni ricorrenti: strati orizzontali, mucchi, riempimenti.
Ragionando del fatto che reperti in fase e residui giungono all’archeologo insieme
perché insieme seppelliti, si può introdurre qualche osservazione sull’ambiente della
superficie inteso come la situazione che comprende tutti i piani d’uso coevi in un da-
to momento (superficie del pavimento, ma anche dell’arativo, del cumulo di rifiuti
dietro casa, del fondo di una buca aperta, della canaletta creata dalle acque piovane
eccetera). In queste situazioni si ritrovano insieme, benché possano avere ciascuno un
proprio specifico posto, oggetti in uso, oggetti temporaneamente accantonati con la
previsione di poterli recuperare, oggetti di cui non si conserva memoria perché ab-
bandonati lì da più tempo, oggetti della cui presenza non si ha neppure conoscenza
(portati ad esempio in superficie dall’erosione), oggetti scartati definitivamente. E con
essi la matrice, intendendo così, genericamente, la ‘terra’ o qualsiasi altro materiale
costituente lo strato. Un insieme quindi complesso anche perché con il termine oggetti
si devono comprendere sia manufatti, e loro parti, sia ecofatti (ossa, carboni eccete-
ra) e perché quasi mai la situazione è del tutto stabile. A influenzare l’ambiente della

modo si otterrà una curva che rispecchia tutto il materiale presente nell’Us e dove “ciascun frammento ha
lo stesso peso [statistico] nel determinare la curva, ma la ricchezza dell’informazione cronologica viene man-
tenuta” (Terrenato-Ricci 1998, p. 93). Al fine di confrontare fra loro contesti differenti, e indipendente-
mente dal numero dei reperti rinvenuti in ognuno, Terrenato e Ricci procedono infine a compiere le seguenti
operazioni: 5. Trasformare il numero di frammenti calcolati al punto 3 in percentuali del totale. 6. Dare ad
ogni decennio un valore uguale al proprio più quello dei decenni precedenti. In tal modo si ottiene una cur-
va, detta cumulativa (o di saturazione), ad andamento crescente dallo 0 al 100%. In pratica si è cambiato l’abi-
to con cui si presentano i dati senza introdurre alterazioni e ulteriori passaggi sono possibili senza però ot-
tenere nuovi dati, ma solo migliorandone la leggibilità (Terrenato-Ricci 1998, p. 101). Si noti, però, che, in
I materiali residui 1998 è significativa l’osservazione di Archer Martin secondo cui non esiste più di una mez-
za dozzina di archeologi in grado di utilizzare i metodi statistici e la metà di essi non è interessata a farlo.
1 Il problema è ovviamente ben noto agli autori e ritenuto da approfondire (cfr. ancora l’intervento di
Terrenato in I materiali residui 1998, p. 262). 2 Terrenato-Ricci 1998, p. 102.
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superficie possono concorrere agenti atmosferici (dilavamento, degrado, spostamen-
to di oggetti e matrice), calpestio umano e animale (compressione, altri piccoli
spostamenti di oggetti e matrice), ripetuta dislocazione di intere parti (ad esempio a
seguito di arature), deposizione di nuovi materiali, attività sotterranee di animali e
piante (tane, radici), pedogenesi.
La situazione ‘in superficie’ è quindi una situazione che va pensata come in co-
stante trasformazione (mutano le relazioni spaziali, le associazioni di materiali pos-
sono venire smembrate e costituirsene di nuove, magari determinate dalla forza gra-
vitazionale e non da scelte antropiche; intere classi di materiali scompaiono, ad
esempio, perché degradate dagli agenti atmosferici). I residui di periodi precedenti ri-
tornati per qualche motivo in superficie, solitamente subiscono una parte di questo
processo, che è insieme culturale e naturale, e successivamente, insieme ai materiali
che diremo in fase, vengono seppelliti con quanto ne consegue.1 L’esito di tutto que-
sto nelle schede di Unità stratigrafica spesso si riduce a una crocetta nelle caselle Na-
turale o Artificiale, in descrizioni buone per tutte le occasioni («strato di terra marro-
ne, mediamente compatta contenente…»), in un inadeguato riconoscimento di come
il singolo strato, con tutto ciò che contiene, è giunto laddove lo si trova.
Proprio con la consapevolezza della necessità di meglio discriminare i modi di
formazione degli strati, è possibile considerare anche i residui come utili elementi di
informazione. E non solo, come giustamente indicano Terrenato e Ricci, «all’interno
di ciascun sito, la quantità e la distribuzione cronologica dei residui possono infor-
marci sulla provenienza della matrice che ha formato ogni strato»,2 ma valorizzando
le osservazioni basate su criteri non tipologici di valutazione della residualità: in
primo luogo la differenza di frammentazione riscontrabile in classi diverse di mate-
riali (i residui possono essere più frammentati a seguito di seppellimento-scavo-
riseppellimento, ma è anche vero che, ad esempio, le ceramiche grezze preistoriche
possono rompersi meno di ceramiche con pareti sottili più recenti e meno resistenti),
ma anche alcuni caratteri riscontrabili sulle superfici dei reperti (ad esempio, angolo-
sità delle fratture, distacco dei rivestimenti, colorazione differenziale con alcuni di
questi caratteri utilizzabili anche nello studio di manufatti non ceramici e, addirittu-
ra, di resti organici non lavorati come ben evidenziato in Dobney et al. 1997.
Nel caso di contesti con molti materiali un qualche indizio relativo alle vicende de-
posizionali è dato dalla presenza di pezzi dello stesso manufatto in più strati (diverso
è difatti il caso di ‘attacchi’ frequenti in strati fra loro contigui o in strati topografica-
mente e/o cronologicamente lontani).

Ritornare allo scavo


Un’inadeguata o, peggio, erronea, determinazione delle associazioni di manufatti
d’uso coevo può avere gravi ricadute sugli studi di caratterizzazione del sito e, ad una
scala più generale, sugli studi a carattere economico, tecnologico, sociale (dalla stima
dei livelli di produzione, alle logiche commerciali…). Da questa considerazione ne di-
scende che i residui non possono essere trascurati e, se anche la quantificazione della

1 Sul tema delle alterazioni conseguenti al seppellimento e postdeposizionali cfr. Donato et al. 1986, Ar-
noldus-Maetzke 1988 e una discussione meno analitica in Giannichedda 2006.
2 Terrenato-Ricci 1998, p. 91.
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residualità potrà, forse, divenire «un utile sottoprodotto» delle operazioni di classifi-
cazione,1 l’attenzione va focalizzata su quanto è possibile ottenere ragionando, insie-
me, di reperti (in fase e non) e di strati. In corso di scavo, ragionare del perché si rin-
vengono residui può contribuire a rendere meno inadeguate le descrizioni dei modi
di formazione degli strati, a cogliere come minimo la molteplicità di apporti in mol-
te Us, a ragionare dell’affidabilità stratigrafica delle stesse Us che, è noto, nel corso
del lavoro di post scavo saranno considerate come cassetti da cui estrarre i materiali
da studiare e i campioni destinati ad analisi e studi specialistici. Cassetti tutti uguali,
nei grandi siti migliaia e migliaia, e che, se affrontati senza guida, impediscono, o co-
me minimo ritardano, qualsiasi studio complessivo del sito. Senza valutare i modi di
formazione degli strati, l’archeologo rischia, da un lato di essere vittima del proprio
egualitarismo stratigrafico (l’obbligo di considerare tutti gli strati come parimenti si-
gnificativi) e dall’altro di basare l’interpretazione su poche evidenze più chiare (spes-
so i resti di costruzioni a scapito, ad esempio, degli indizi di attività agricole e mani-
fatturiere).
Le considerazioni di cui sopra vanno nella direzione di una «archeologia della ma-
trice» (così definita da Enrico Zanini in I materiali residui 1998, 293) di cui gli stessi re-
sidui sono una componente certamente antropica per produzione, ma di cui restano
da definire le cause che ne determinano la presenza in quella data giacitura. E questo
nella consapevolezza che la matrice, qui intesa come la “terra” in cui giacciono i re-
perti, è sempre lei benché cambi ogni volta che venga rimossa, arata, vangata, pres-
sata e quindi, in realtà, non sia mai eguale a se stessa. Erroneo quindi sostenere che la
matrice possa essere residuale perché, nel caso, tutto sarebbe residuale e da ricondursi
ad antichissimi eventi geologici. Non ha quindi senso sostenere che alta percentuale di
residui = alta percentuale di matrice residuale, ma può essere invece vero il caso in cui, in
uno strato con materiali residuali, si rinvengono anche porzioni di matrice che con-
servano i caratteri dello strato d’origine (è il caso, banale, di parti di murature crolla-
te in cui può riconoscersi la tecnica muraria antica, ma anche di zolle di suoli ancora
riconoscibili all’interno di depositi successivi).
Reperti e strati, strati e reperti (residui compresi). Solo in tal modo è possibile af-
frontare il tema dei residui non semplificando le situazioni in cui è possibile ritrovar-
li. Può, ad esempio, capitare di leggere che i riempimenti di buche sono ipotizzabili
contenere numerosi residui (evidentemente ritenuti provenienti dall’azione di scavo
delle stesse), ma anche l’esatto contrario. Entrambe le osservazioni potrebbero rite-
nersi vere solo per quanto sono generiche. In realtà per ragionare della probabilità che
in una unità stratigrafica positiva vi siano residui non bisogna pensare che si tratta di
un riempimento di unità negativa (perché ciò induce all’errore), ma di un qualcosa
che si è stratificato dopo un trasporto (brevissimo o lungo non importa).
Ad esempio, nell’identica situazione di una fossa che ha interessato livelli antropi-
ci preesistenti possono aversi riempimenti con differente residualità. Se si tratta della
fondazione di un muro la terra estrattane e gettata a lato del muro appena costruito
è probabile contenga residui, invece, nel riempimento di una fossa fatta per cavare ar-
gilla e poi usata come immondezzaio, i residui saranno quasi certamente pochi o as-
senti essendo finiti, insieme all’argilla, nelle vicinanze della bottega del vasaio, forse

1 Terrenato-Ricci 1998, p. 102.


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nella zona destinata a stoccaggio e depurazione della terra, forse addirittura come
chamotte nei vasi.
Probabilmente i residui sono presenti nei riempimenti di fosse quasi soltanto quan-
do nelle stesse si getta la terra che ne è stata estratta, ma si deve convenire che, fatte
salve le fosse sepolcrali e quelle di fondazione (per muri, ma anche per piantare
alberi), non è questo un caso ricorrente. La situazione ‘normale’ è la fossa scavata per
essere mantenuta aperta o per collocarvi qualcosa d’altro rispetto a ciò che c’era in
precedenza. Nel pozzo (per acqua o a perdere), nella cava, nella canaletta, nell’im-
mondezzaio, i residui non dovrebbero esserci e se ci sono occorre chiedersi come ci
sono finiti (e ancora prima se davvero vanno considerati come residui). Altre osser-
vazioni generalizzanti (e quindi difettose) potrebbero forse tentarsi, ma basti notare
che gli strati a crescita continua (livelli di occupazione, discariche, gli stessi crolli) non
dovrebbero contenere residui, mentre gli stessi sono possibili negli strati interessati
da azioni di spostamento di matrice e/o alterazione del volume e della stessa super-
ficie. Un caso quindi frequente ed esemplificato da arativi, depositi colluviali, suoli in-
teressati da pascolo intenso unito a dilavamento. I pavimenti ovviamente al loro in-
terno possono contenere residui (dipende con che materiali sono stati costruiti), ma
quel che conta è non pensare che essi sigillino nulla più di quanto è immediatamen-
te e topograficamente sottostante (e perciò nello strato sopra il pavimento si posso-
no trovare residui provenienti da strati più antichi posti pochi metri al margine dello
stesso o derivanti dallo scavo della fossa di fondazione dei muri della medesima casa).
Richiamare, come si é sinteticamente fatto, casi ricorrenti ed eccezioni è, eviden-
temente, un modo per sottolineare un problema e, in parte, la sua soluzione. Miglio-
rare le procedure di scavo significa, a mio avviso, acquisire più mezzi (intellettuali) per
capire come si sono formati gli strati e, quindi, cosa è possibile ricavarne. In tal sen-
so, i residui, insieme agli altri reperti e alla “matrice”, possono dare indicazioni sui mo-
di di formazione e, fatto non secondario, tali indicazioni sono a disposizione anche di
chi non è abituato a ragionare tenendo conto di quei pochi fattori ‘geoarcheologici’
che sovrintendono, insieme o contro l’uomo, al formarsi degli strati (caratteri del ma-
teriale, pendenza, forza di gravità, azione delle acque meteoriche e superficiali, pe-
dogenesi).
Fra l’altro, i residui possono così concorrere a una tipologia delle ‘cose da scavare’
che sulla falsariga della Biografia di un foro di palo – o del seminario sulle testimonian-
ze di combustione o dello studio tafonomico delle sepolture o dei concetti di tenden-
za e fatto come utilizzati da Leroi-Gourhan – costituirebbe un enorme progresso del-
la disciplina non più schiacciata dall’approccio geometrico harrisiano allo studio della
stratificazione, ma libera di ricercare i caratteri ricorrenti a seguito di determinati
comportamenti ritenuti storicamente rilevanti.1 All’archeologo, sul campo, non più

1 Cfr. Leroi-Gourhan 1973 per i focolari preistorici e Duday 1990 e Duday 2006 per lo studio tafono-
mico delle sepolture. Per il ricorrere nell’esperienza umana di tendenze e fatti fondamentale è Leroi-Gour-
han 1993 ripreso in Giannichedda 2006. Significativi esempi di studio dei modi di formazione di eviden-
ze significative (ad opera di archeologi) sono Antico Gallina 1996 relativo ai dei cosiddetti drenaggi con
anfore, Neri 2004 e Neri 2006 (con ulteriori considerazioni in Giannichedda 2007). Posizioni contrastanti
sull’utilità di un approccio esclusivamente harrisiano in Giannichedda 2004 e in Medri 2004 che fanno
seguito a Harris 2003 e affrontano da punti diversi il tema delle stratigrafie murarie. Più in generale è
fondamentale Carver 2003 che discute della necessità di ‘valutare prima di indagare’ e quindi prima di
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il compito di smontare la stratificazione riconoscendone i limiti, ma quello di capire
nel volume degli strati che cosa ne ha determinato la formazione: ad esempio, attivi-
tà ripetute di forgia, scarico di rifiuti seguito da compressione per calpestio, utilizzo
di un vano come stalla, crollo per cause naturali o mancata manutenzione. Valutare
non solo dal punto di vista quantitativo i residui presenti fra i reperti significa andare
proprio nella direzione di meglio affrontare il tema dell’affidabilità e, quindi, capire
cosa si può ricavare, ad esempio, da campioni di ossa, carboni, semi eccetera. Inutile
soffermarsi a chiarire perché ciò sia importante: chi dedicherebbe tempo e denaro o
farebbe affidamento su un campione di ossa animali da uno strato medievale con re-
sidui preistorici indistinguibili pari, ad esempio, al 30 o 50%?
In generale, ragionare della formazione degli strati e delle associazioni di manufatti
in essi contenuti significa costruire uno strumento per discriminare, nella stratifi -
cazione archeologica quali pagine sfogliare velocemente, quali trascurare, quali leg-
gere con la massima cura. Un compito, questo, per archeologi esperti, presenti sullo
scavo, competenti dei materiali, interessati a capire e a ricostruire, nel presente, una
storia di sito che, altrimenti, spesso resta celata in una documentazione cartacea op-
primente e a posteriori inestricabile. Chiunque abbia provato a ‘rileggere’ vecchi sca-
vi attraverso la documentazione lasciata da altri sa quanto sia forte la sensazione di
una, ormai incolmabile, perdita di informazioni avvenuta proprio nel momento in cui
erano raccolti, senza interpretarli, i dati. Affrontare con tutti i mezzi possibili il tema
di come si forma la stratificazione è forse il solo modo per ragionare dell’affidabilità
stratigrafica in chiave storica: non ponendosi il problema se i limiti di Us sono netti,
ma quello di scegliere, fra tutte le unità stratigrafiche teoricamente degne di eguale
attenzione, le sole meritevoli di essere studiate approfonditamente. Un modo che
molti, e da sempre, adottano senza dichiararlo, ma finendo così con celare i criteri
scelti e, quindi, impedendo ogni critica e ogni possibile studio alternativo. Chiedersi
perché ciò che si sta rimuovendo nello scavo è lì dove lo si trova è fondamentale e lo
studio dei residui (quantificazione compresa) può aiutare proprio in questo e nel va-
lorizzare le associazioni di manufatti coevi, le uniche davvero utili a studiare l’equi-
paggiamento materiale degli antichi.
Lo studio dei modi di formazione non è certo facile, è qualcosa per la quale spesso
mancano gli strumenti concettuali (quel poco di geoarcheologia e di etnoarcheologia
a cui si è già fatto cenno), ma è anche un modo per ribadire che la qualità dell’inda-
gine archeologica si ha solo con la presenza sui cantieri di archeologi motivati a capi-
re ciò che smontano e, quindi, sempre più esperti in quelle che devono essere le com-
petenze imprescindibili per lo scavo. Fra queste competenze dovendo rientrare anche
quella di raccogliere i dati interpretandoli per quanto necessita a organizzarli in mo-
di suscettibili di essere pubblicati. Uno dei problemi maggiori di ogni studio che ab-
bia per obiettivo il territorio è difatti il gran numero di scavi inediti, un vero scanda-
lo che periodicamente viene menzionato, ma che può trovare soluzione solo
abbreviando la catena operativa che attualmente dallo scavo conduce con grandi len-
emettere una sentenza che decide della sorte del sito. Per far ciò, necessita riconoscere preliminarmente i
caratteri specifici dei depositi in singoli siti e il loro potenziale informativo con il rischio, anche con di sba-
gliare, ma con la consapevolezza che «noi possiamo predire il carattere dei depositi, noi possiamo ricono-
scerne il valore, noi possiamo persuadere la comunità a studiare i depositi interessanti e preservare gli altri»
(Carver 2003, p. 113).
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tezze all’interpretazione e all’edizione.1 Interpretare sullo scavo le associazioni di re-
perti e matrice (i modi di formazione) va, a mio avviso, nella direzione di semplifica-
re la catena e accrescerne l’efficienza purché l’obiettivo sia chiaro e condiviso dal-
l’inizio. Per questo, però, servono archeologi disponibili a procedere ‘senza rete’ e
cioè senza le schede compilate meccanicamente a garanzia del lavoro (o con schede
nuove e ‘intelligenti’), forse, anche archeologi maggiormente dubbiosi della propria
preparazione, ma motivati, con la loro fatica, a fare storia e non soltanto a consenti-
re trasformazioni irreversibili del territorio in cambio della possibilità di riempire gli
archivi di schede e i magazzini di manufatti.

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1 In questa sede volutamente si tralascia qualsiasi considerazione ‘politica’ sui modi in cui viene orga-
nizzata la ricerca sul terreno, ma anche sulla formazione delle competenze necessarie e sui sistemi di pote-
re in vigore.
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64 enrico giannichedda

Abstract
Nel presente contributo si affronta la questione dell’adeguatezza delle procedure di scavo alla
reale situazione della ricerca archeologica sul terreno. Da oltre un trentennio le procedure e
le pratiche di cantiere si sono standardizzate, ma un gran numero di scavi restano inediti o
pubblicati solo in parte. I metodi hanno a che fare con questo? L’attuale ‘unanimismo strati-
grafico’ apparentemente acritico si deve ritenere positivo? Più in generale, i paradigmi e le pro-
cedure possono almeno in parte cambiare? Cosa significa qualità: molti riferimenti storici,
molti strati, molti cocci, molti gigabyte? Questi ed altri problemi sono in parte considerati
discutendo di residui e reperti in fase. Riconoscere nei primi una giacitura alterata, un avve-
nuto decorso di tempo, l’assenza di una funzione, oltre che possibile è difatti relativamente
facile e inevitabilmente rinvia allo studio dei modi di formazione degli strati. Uno studio,
quest’ultimo, che si ritiene fondamentale perché è l’unico in grado di evidenziare la diversa
affidabilità stratigrafica (e storica) delle associazioni di reperti e matrice consentendo, così, la
raccolta non meccanica dei dati, una prima interpretazione sul cantiere di ogni distinta
porzione stratigrafica, un più agevole lavoro di edizione dei risultati.

The present contribution questions the suitability of current excavation procedures. For thir-
ty years or more, the field procedures and practices of archaeological excavations have been
standardized. Yet, a large number of excavations remain unpublished or are merely published
in part. Do the methods used have anything to do with this? Is it possible to maintain a posi-
tive view of the present a-critical ‘stratigraphical consensus’? Or should we envisage an at least
partial change in the paradigms and procedures normally applied? Does ‘quality’ mean noth-
ing more than many historical references, many layers, a multitude of potsherds, and many
gigabytes? The article considers these and other problems in connection with a discussion of
the residual evidence and finds in phases. To recognize in the first an altered layer, a passing
of time, the absence of a function is – in fact – relatively easy and inevitably refers one to the
study of the formation of the layers. This is fundamental because it is the only possible way
to elucidate the varying stratigraphical and historical trustworthiness of the find associations,
which may lead to a non-mechanical gathering of data: a first interpretation in the field of all
distinct stratigraphical parts, leading to a smoother way of publishing the results.
Facta 1 2007:Impaginato 6-02-2008 16:25 Pagina 185

composto, in car attere dante monotype,


impresso e rilegato in italia dalla
accademia editoriale ® , pisa · roma

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Febbraio 2008
(cz2/fg21)

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