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Intervento Avv.

Lucchetti alla Tavola rotonda “La riforma dei servizi pubblici locali, rischi e
opportunità per la gestione di acqua, gas e rifiuti”

Vorrei ringraziare Marco per il riferimento assai puntuale agli aspetti effettivamente problematici
che sono posti dall’attuale assetto normativo dei servizi pubblici locali (di seguito SPL) così come
risultante da un intervento normativo sviluppatosi in tre battute, con il Decreto legge 112 del
2008, con gli interventi correttivi del 2009 e con il Regolamento di attuazione dell’ottobre 2010.

Per provare a dare risposte o indicazioni di sistema ritengo opportuno provare velocemente a
raccontare perché abbiamo tanto interesse sui SPL e come si è sviluppato sul tema l’intervento
normativo negli ultimi quindici anni.

C’è una responsabilità pubblica nel fornire prestazioni che sono strettamente legate alla vita
quotidiana. Una responsabilità così importante che il Trattato sul funzionamento dell’UE, ancora
prima delle modifiche del 1997, dice che i servizi di interesse generale sono servizi che
costituiscono valore comune della cittadinanza comunitaria e strumenti fondamentali di coesione
sociale e territoriale. In quanto tali vanno promossi e sostenuti dagli stati membri.

Dal punto di vista economico invece abbiamo implicazioni di natura macro e microeconomica. Da
sempre gli interventi normativi di privatizzazione e/o liberalizzazione dei SPL sono stati ritenuti dei
“grimaldelli” per potenziare le crescite economiche statali, degli strumenti di potenziamento
dell’economia. A livello microeconomico i SPL generano una curva di domanda rigida. Tutti quanti
abbiamo bisogno di acqua, di luce e gas. E’ chiaro quindi che questi servizi danno luogo a fatturati
costanti nel tempo. La chiave della finanza aziendale contemporanea è il debito che fa andare
avanti le imprese. Ma per avere debito bisogna proporre a chi ti finanzia un flusso costante di
cassa, che può appunto essere fornito da chi eroga servizi di questo tipo. Sono quindi servizi
straordinariamente appetibili per chi ha bisogno di indebitarsi, grazie ai flussi di cassa cospicui e
costanti nel tempo.

L’intersecarsi di questi due temi - la responsabilità pubblica nell’erogazione di servizi rispetto ai


quali è necessario assicurare universalità di accesso e le notevoli implicazioni economiche legate
alla loro erogazione - rende cruciale la questione dei SPL specie in un paese come il nostro che ha
qualche problema di crescita economica.

Tutto questo, in termini di evoluzione normativa statale, ha portato il legislatore ad orientarsi


verso un atteggiamento sempre più intrusivo rispetto alle scelte dei poteri pubblici. Prima della
legge 141 del 1990 era l’ente locale (di seguito EL) a decidere cosa era servizio pubblico e come
doveva essere erogato. E’ accaduto invece che il legislatore è intervenuto in modo massiccio sulla
scelta dell’EL. Si è cominciato a dire che il servizio non poteva essere più gestito in economia,
introducendo la necessità di esternalizzare. L’EL doveva cioè rivolgersi ad un terzo, anche se
interamente partecipato dall’ente stesso. Nel 2002 il legislatore ha aggiunto un ulteriore vincolo,
dicendo che le esternalizzazioni dovevano avvenire secondo certe modalità. Oggi si dice: non solo
è obbligatorio esternalizzare, non solo è obbligatorio farlo con certe modalità, ma è anche
necessario farlo in favore di un soggetto privato scelto con procedure ad evidenza pubblica. Ora,
questo è un passaggio molto delicato: l’espressione “soggetto privato” non significa soggetto “in
mani private”. Può trattarsi anche di un soggetto pubblico. Questo è scritto chiaramente nel
Regolamento secondo cui “le imprese pubbliche possono competere per l’aggiudicazione dei
servizi”. Questo significa che il vincolo non è a esternalizzare verso soggetti privati, ma ad un
soggetto imprenditoriale il quale può essere tanto pubblico quanto privato. Questa è una tipica
espressione dell’ordinamento comunitario per cui l’impresa è impresa, sia pubblica che privata, e
non si possono stabilire trattamenti differenziati o deteriori per l’una o per l’altra.

Siamo giunti quindi ad una progressiva limitazione della facoltà di autodeterminazione degli EL per
la gestione dei servizi pubblici. La legge essenzialmente prevede due soluzioni fondamentali. La
prima consiste nell’individuare il soggetto d’impresa che gestirà il servizio, mediante una
procedura competitiva che individua il miglior offerente che diventerà aggiudicatario del servizio,
assumendo l’impegno ad erogarlo per un certo periodo di tempo in un territorio determinato. La
seconda è invece una procedura volta ad assicurare la scelta non già del soggetto d’impresa che
gestirà il servizio, bensì quella di un socio privato che, con compiti operativi, andrà a costituire la
compagine sociale dell’impresa preposta alla gestione del servizio pubblico. In ogni caso dobbiamo
andare ad una procedura competitiva per individuare sul mercato chi andrà a concorrere
nell’erogazione del servizio di pubblica utilità, da un lato con una pura e semplice gara per
individuare il gestore, dall’altro con una pura e semplice gara che individua il socio che andrà a far
parte della compagine sociale di chi svolge il servizio in quel determinato territorio.

Che senso ha questa distinzione? Che cosa significa scegliere una soluzione rispetto all’altra? Il
problema riguarda essenzialmente le scelte strategiche degli operatori che esistono sul mercato.
La questione ha a che fare con la scelta dell’operatore di rinchiudersi nel proprio territorio oppure
di voler competere come impresa pubblica sul territorio nazionale o internazionale. Questo
assetto normativo che abbiamo per le mani, e che definiamo comunemente “23 bis” ha un
principio cardine: il gestore del servizio pubblico che dovesse essere una società a partecipazione
pubblica con un socio - privato o pubblico purché imprenditore - ebbene questo tipo di società
non può operare al di fuori del territorio per cui è stata costituita. Questo sta a significare che se
noi prendiamo una società che esiste sul territorio partecipata al 100% da enti locali del territorio
e la mettiamo sul mercato vendendone almeno il 40% ad un soggetto d’impresa terzo, questa
società partecipata non potrà operare al di fuori del territorio su cui è stata costituita e per cui
presta servizio. Non lo può fare perché il legislatore, in ossequio ad una serie di indicazioni della
Corte di giustizia europea, fa divieto a questo tipo di società mista di derogare ai principi di
concorrenza, impedendogli di utilizzare la partecipazione pubblica come leva competitiva
impropria. Quindi può partecipare ma deve restare nel territorio per cui è stata costituita. La scelta
tra le due opzioni quindi è questa: se l’EL va a scegliere un’impresa “campione” che può operare in
più settori, allora sceglierà la gara. Se invece intende preservare una struttura già esistente su cui
si innesta un soggetto d’impresa che viene dell’esterno, allora deve alienare il 40% del suo
capitale. A beneficiare di questa scelta sarà quindi l’operatore strutturato - che dispone di massa
critica e che può operare sul mercato interno ed estero - che può agganciarsi volta per volta a
strutture preesistenti, come la società mista la quale gli apre il proprio capitale sociale.

A questo quadro mancano vari passaggi. Manca innanzitutto una legislazione regionale. Tutto
questo meccanismo di affidamento è materia riservata alla legge dello Stato e le Regioni non
possono intervenire sul punto. Invece i temi relativi alla organizzazione dei poteri pubblici che sul
territorio procedono agli affidamenti sono una materia tipicamente di legislazione regionale. Oggi
non sappiamo dove il legislatore regionale collocherà questi poteri. Cioè, chi andrà secondo il
legislatore regionale a fare gli affidamenti, o più precisamente chi sarà il soggetto titolare del
potere di compiere questa scelta così importante? Sono risposte che non abbiamo. Abbiamo però
un’indicazione della legislazione statale, che si limita a dire che questa scelta dovrebbe farla l’EL.
La Regione può intervenire in via legislativa e andare ad esempio a sottrarre ai Comuni le decisioni
sulla scelta del modello di affidamento da operare? E una tema molto delicato. C’è l’art. 118 che
dice che le funzioni amministrative sono affidate ai Comuni e che il coordinamento delle Regioni
deve avvenire nel rispetto dei principi di sussidiarietà e adeguatezza. Per cui quando andremo a
scegliere chi andrà ad operare la scelta dell’affidamento, dovremo farlo tenendo a mente che è
necessario rispettare la titolarità delle funzioni dei Comuni che devono potersi esprimere in
materia, se non altro perché fin qui i Comuni sono stati i proprietari dei soggetti gestori sul
territorio e la scelta incide quindi sul loro patrimonio, sebbene in forma di partecipazioni sociali sui
soggetti gestori. Manca quindi la scelta del soggetto istituzionale cui affidare la scelta che a mio
avviso dovrà essere effettuata rispettando il ruolo delle amministrazioni comunali.

Una segnalazione che riguarda un’ambiguità di fondo che le pronunce della Corte Costituzionale
chiariscono una volta per tutte. L’ordinamento comunitario non c’entra nulla con la decisione
assunta dal legislatore italiano di andare ad operare delle vere iniziative di alienazione del capitale
o dei servizi attualmente in gestione presso le amministrazioni pubbliche. E’ una scelta politica
interna compiuta dal legislatore statale e l’ordinamento comunitario è neutro e rispettoso della
scelta statale anche qualora questi decidesse di conservare tutto in mano pubblica. Il legislatore
italiano ha scelto invece di “movimentare” il settore costringendo gli Enti locali non solo ad
esternalizzare - questo era già stato fatto agli inizi degli anni ‘90 - ma anche a vincolare le
esternalizzazioni verso un soggetto d’impresa terzo non in loro controllo o proprietà.

In questo quadro le regole sono incerte e in via di definizione non solo perché manca la legge
regionale ma anche perché, sia il legislatore statale sia quello regionale, lasceranno ampi spazi di
completamento alle attività amministrative di chi procede alle scelte di affidamento o alienazione
del capitale sociale. E’ chiaro che i contenuti dei bandi saranno cruciali per condizionare e
orientare non solo come individuiamo il soggetto gestore, ma anche come ci garantiamo che le
responsabilità pubbliche verso l’universalità del servizio vengano mantenute. Un quadro
normativo certo a metà, con un’incertezza residua che deriva dal fatto che mancano norme e
regole cruciali da scrivere. Regole sempre più vicine al territorio e quindi tanto più importanti
quando decidiamo come scriverle. Vale per la Regione, vale per i singoli Comuni che proporranno i
bandi e ne decideranno i contenuti. Vale infine anche per i soggetti gestori, i quali in vario modo si
vanno articolando. Le imprese marchigiane si stanno posizionando. Ad esempio in Provincia di
Ancona un soggetto di cui non farò il nome si sta organizzando come “campione”, cioè come
imprenditore pubblico in grado di competere sui mercati nazionali e internazionali. Quindi non
alieneranno nulla e parteciperanno alle gare con l’intenzione di vincerle. C’è invece chi preferisce
conservare una situazione esistente che ha dato prova di affidabilità. In questo caso sono costretto
ad alienare il 40% ad un socio operativo che mi consente di perpetuare un assetto che conosco e
che fin qui ho provato con soddisfazione. Ci sono passaggi importanti ancora da scrivere e va
sottolineato un particolare bisogno di attenzione e delicatezza tecnica.

Ulteriore fattore di incertezza è dato dal referendum. Il quesito referendario ha a che fare
direttamente con l’art. 23 bis. Un esito di abrogazione andrebbe a caducare la disciplina del 23 bis
facendo tornare l’ordinamento ad un momento immediatamente previgente, che è quello della
normativa introdotta dal Dipartimento delle politiche comunitarie nel 2002 e che come sapete
lasciava agli EL la scelta tra tre modalità di gestione diverse ed equi - ordinate: gara, alienazione
del capitale, o meccanismo dell’”house providing”, cioè affidamento del servizio ad una propria
articolazione funzionale, in forma di società di capitale caratterizzata da determinati vincoli che gli
operatori in sala conoscono bene. C’è da chiedersi quindi cosa succederà se venisse abrogato il 23
bis? Si riespanderà la normativa previgente? Ricordate come si è arrivati al 23bis? Il nostro paese
non brilla di certo per capacità di innovazione normativa. Le modifiche normative si fanno in
genere quando c’è un consenso diffuso e blindato. Cos’è accaduto? Gli operatori pubblici, in modo
particolare i soggetti quotati, hanno deciso che la soluzione di vincolare le modalità di
esternalizzazione poteva essere di loro utilità. Stiamo parlando di soggetti pubblici quotati sia di
centrodestra che di centrosinistra, che capiscono bene che questa è una buona occasione per fare
acquisizioni sul territorio nazionale con le gare, in entrambe le forme. Non credo che questi
operatori rimarranno quieti di fronte alla possibilità di tornare alla normativa previgente - al
ritorno dell’house providing - quando stanno già spendendo centinai di migliaia di euro in giro per
l’Italia per andare ad acquisire soggetti esistenti. Io riterrei più probabile che, qualunque sia l’esito
del referendum, si approderà ad un’ennesima modifica normativa che prospetti una soluzione
mediana che comunque incida sulla condotta degli Enti locali.

Infine: il servizio idrico integrato non è servizio a rilevanza economica. Rispettiamo le deliberazioni
dell’Assemblea legislativa regionale investita democraticamente, ma è chiaro che si tratta di
un’affermazione politica sull’atteggiamento da tenere verso un tema così delicato come l’accesso
universale al servizio idrico integrato. Se chiedete al giurista se questa è materia disponibile alle
Regioni, egli risponderà che invece si tratta di materia riservata allo Stato ai sensi dell’art 117
comma 2 lett. e) della Costituzione, perché incide sulle scelte di concorrenza. Dopodiché la legge
c’è, la rispettiamo, ma credo che alla prima occasione utile di applicazione avremo ricorsi da parte
di operatori terzi. Quello che è sicuramente vero è che l’ordinamento comunitario è neutro
rispetto a questa decisione.

Un’ultima considerazione di sintesi. Cosa rimane agli Enti locali dopo che sono stati così
pesantemente incisi nella loro autonomia di organizzazione del Servizio pubblico locale? Ce lo
diranno in primo luogo i legislatori regionali, perché sarà cruciale capire: chi prenderà queste
decisioni? L’Autorità di Ambito, nelle forme ora previste dall’ordinamento - quindi allocata presso
un’Amministrazione provinciale - o altri soggetti? Se si, l’Autorità dovrà avere momenti di raccordo
con le volontà dei singoli Comuni? Considerate che le Provincie marchigiane non hanno tradizione
nella gestione dei servizi pubblici locali. I Comuni avranno diritto di parola rispetto a queste scelte?
Lo deciderà il legislatore regionale. Insisto nel sottolineare che ora le amministrazioni comunali
hanno un ruolo enorme nell’usare i propri poteri come soci delle società che oggi gestiscono i
servizi pubblici. Poteri da esercitare per orientarne le decisioni di aggregazione e per costruire il
futuro dell’impresa. Cosa vogliono i Comuni per le loro società partecipate? Vogliono avere dei
“campioni”, cioè soggetti con un forte protagonismo industriale, capaci di concorrere in Italia, in
Europa e anche oltre? Oppure preferiscono conservare l’esistente aprendo ad un soggetto terzo
che viene dall’esterno?. Sono scelte strategiche che dovranno essere formulate dagli enti locali
anche in veste di soggetti regolatori – se all’interno delle Autorità di Ambito o se come
Amministrazioni comunali questo è ancora da comprendere.

Sicuramente evidente è che si tratta di scelte urgenti, sulle quali il dibattito pubblico deve crescere
e contribuire a far maturare la necessaria consapevolezza della loro importanza, insieme ad una
maggiore attenzione dei cittadini, da tradursi in una più forte partecipazione sia verso le
amministrazioni locali sia verso il ruolo - cruciale - del legislatore regionale.

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