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Letteratura
Italiana
dal 1200 a oggi
Bibliografia
Per la quasi totalità dell’opera:
Appunti autografi dell’autore del corso triennale di Letteratura Italiana
(prof.ssa L. Roberti, 2003-2006)
«Ma che vuole egli? come la pensa? Secondo me, egli vorrebbe che,
morto lui, si abolisse carte e inchiostro e letteratura e poesia e tutto.»
Giovanni Pascoli, su Giosuè Carducci (1895)
Uno dei problemi più grandi, per chi studia, è riuscire a fare una sintesi
degli argomenti svolti per fissare meglio i concetti principali. In prima persona
ho avuto bisogno di prendere appunti, in questo caso di letteratura italiana. Per-
ché, allora, non mettere a disposizione di tutti questo capitale di sapere, facente
tra l’altro parte della storia italiana?
Attenzione: non si tratta di un manuale, o di un libro di testo; e questa non
è stata la mia intenzione. Sono nozioni varie, che hanno bisogno di essere inte-
grate con un buon testo specifico sull’argomento, ma che possono essere utiliz-
zate per conoscere in misura importante i personaggi e i movimenti più rilevan-
ti. Non è un’enciclopedia, non ha lo scopo di essere esauriente ed esaustiva di
ogni argomento di letteratura italiana: anche solo in Internet si può trovare di
molto meglio. Questo è un sunto, un aiutino, un’infarinatura per chi volesse
cominciare a conoscere e cimentarsi nella materia, per chi vuole qualche appun-
to rapido o, volendo, per chi possa credere che quanto è qui basti per prepararsi
studiando.
Il livello della trattazione si riferisce al triennio della scuola secondaria
superiore, ma (chissà?) potrebbe essere apprezzato anche da ragazzi più giova-
ni. Il linguaggio non è tecnico, anche nei casi in cui sarebbe richiesto, e le e-
spressioni particolari sono generalmente (salvo errore) spiegate.
Buona lettura.
l’autore
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Capitolo I
Nascita del volgare in Europa
Il volgare italiano nasce poco prima del 700, con alcuni documenti giuridi-
ci o poetici come l’Indovinello veronese. La produzione, poi, è filosofico-
teologica (soprattutto Sant’Agostino e San Tommaso), con opere che organiz-
zavano il pensiero della Chiesa Cristiana, oppure semplicemente religiosa, op-
pure di recupero delle opere antiche e di re-interpretazione cristiana (ad es. Vir-
gilio, Cicerone…).
Fino al Basso Medioevo (1000 – 1492) il volgare non ha un vero e proprio
impiego, né uno spazio sociale in Italia. L’evoluzione delle città favorisce la vi-
ta sociale di scambio, portando alla nascita progressiva del comune. Per questo,
la produzione letteraria muta, in funzione della situazione politica presente.
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Capitolo II
Scuole e stili del Basso Medioevo
Al Sud Italia, col dominio del Regno di Sicilia, nasce la Scuola Siciliana
alla corte di Federico II, amante della cultura. Tale Scuola si propone come
prosecuzione della letteratura d’oc provenzale, legata all’amor cortese.
Non è una scuola in senso stretto: si tratta, piuttosto, di persone appassio-
nate della scrittura, ma non scrittori (sono notai, funzionari, consiglieri…). Tra
questi c’è Pier delle Vigne, consigliere di Federico II, citato da Dante
nell’Inferno (canto XIII); lo stesso Federico II appartiene alla Scuola, come Ia-
copo da Lentini, notaio, inventore del sonetto (componimento con due quartine
seguite da due terzine). Tutti partecipano a tenzoni (gare) di poesia; comporre è
un esercizio di scrittura su tema, usando le regole provenzali, oppure un passa-
tempo.
La differenza principale tra Sicilia e Provenza è nell’impostazione: mentre
i siciliani utilizzano il sonetto, non accompagnato da musica, in Francia il so-
netto è misconosciuto, ma la musica accompagna la declamazione della poesia.
Come detto, poi, i poeti siciliani lo sono per svago, mentre in Provenza svolgo-
no regolarmente tale professione (come trovatori).
L’importanza della Scuola Siciliana è notevole:
• assimila le più avanzate esperienze liriche europee;
• l’esperienza siciliana si trapianta in Toscana e darà vita al Dolce Stil
Novo;
• origina un volgare letterario di alto livello, usando provenzalismi e la-
tinismi;
• innova la poesia, inventando un certo numero di nuove strutture metri-
che.
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principali dello stilnovo: un coinvolgimento personale del poeta, la proposta di
elementi di vita vissuta, l’espressione di “ciò che il cuore detta”.
Questo stile è formato da un gruppo di amici:
– appartengono alla società comunale;
– sono impegnati politicamente;
– “non esiste nobiltà di nascita, ma di cuore”: la vera nobiltà è quella
d’animo e di ideali (grande innovazione e riforma, per l’epoca);
– “la condizione per cui nasca un vero amore è un cuore nobile (secondo il
concetto di nobiltà visto)”.
Non si usa, però, la parola “nobile”, ma gentile. Gli amici avranno, talvol-
ta, stili lievemente diversi:
• Guido Cavalcanti, pur ispirato dalla lirica trovadorica d’oc, vive
l’amore come dramma, dolore;
• Dante (il cui stile è inimitabile) da stilnovista diventa, col tempo, sem-
plicemente Dante Alighieri, con uno stile proprio.
La donna è una figura divina, scesa in terra per dimostrare l’esistenza di
un miracolo; ha una funzione pacificatrice; è generalmente donna angelicata,
cioè una bellezza fisica non descritta specificamente, ma con elementi naturali
(soprattutto attraverso la luce, perché impalpabile e rappresenta ciò che è bene,
buono, la certezza, soprattutto in una veste spirituale). Dante, massimo espo-
nente, considera come caratteristica essenziale del Dolce Stil Novo l’incapacità
di comprendere a fondo il vero significato dell’amore in tutte le sue sfumature.
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Capitolo III
Guido Cavalcanti (1250 – 1300)
Tra gli autori più caratteristici del Dolce Stil Novo c’è Guido Cavalcanti.
Proviene da una delle più potenti casate della Toscana, e per questo è impegna-
to politicamente come guelfo bianco. È amico di Dante Alighieri, ma sarà da lui
mandato in esilio per motivi politici (nel 1300) quando Dante è priore delle arti
e, in città, scoppiano degli scontri tra guelfi bianchi e neri, causati anche dal
suo tentativo di uccidere Corso Donati. Gli esiliati sono i più violenti delle due
fazioni; per Cavalcanti è previsto un breve esilio, poi rientra a Firenze, ma vi
muore poco tempo dopo di malaria.
La fazione bianca fa capo alla famiglia Cerchi: sono legati agli antichi va-
lori di società, meno mercantile. Non accettano il legame troppo stretto con il
denaro, fonte di barbarie e decadimento sociale, la mancanza di solidarietà,
l’ingiustizia. I guelfi neri, legati alla famiglia Donati, si oppongono ai bianchi.
La peculiarità di Cavalcanti, come uno dei massimi stilnovisti, ha origine
nel suo carattere, ombroso, iroso, difficile. La sua poesia è eccessivamente filo-
sofica e razionale, di difficile comprensione; il suo carattere si ripercuote sulla
poesia (circa 52 componimenti poetici). Anche trattando di amore si discosta
dai canoni dello Stil Novo:
– talvolta segue i canoni formali;
– spesso emergono dramma, tormento, dolore, paura di abbandono.
La poesia di Cavalcanti si pone su un piano molto più complesso e spiri-
tuale; con frequenza si trova nell’impossibilità di descrivere per il dolore che
provoca anche il solo pensare all’oggetto del componimento.
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Capitolo IV
Letteratura comico-realistica
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Capitolo V
Dante Alighieri (1265 – 1321)
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cia, così come i suoi famigliari, e gli sono sequestrati i beni di famiglia (1302 –
1303);
– Dante si rifugia in città diverse, dalla Romagna al Veneto, tra le quali
Forlì; mentre si trova in esilio comincia la stesura della Divina Commedia.
Più volte Dante tenta di affrontare il problema politico italiano, sia nelle
sue opere sia avendo contatti con i potenti dell’epoca. Giudica l’amico Can-
grande Della Scala, signore di Verona, “possibile monarca unico d’Italia” (se
l’Italia fosse un’unica monarchia). Affronta la situazione delle zone in cui è esi-
liato in alcuni canti dell’Inferno (p.es. la situazione della Romagna, quella di
Firenze).
Nei primi anni dell’esilio tenta anche di tornare a Firenze, perfino unendo-
si ad alcuni ghibellini già esiliati. Non riuscendoci, decide di fare “parte per se
stesso” e di non tornare più a Firenze. In questo periodo scrive i suoi trattati: il
De vulgari eloquentia sulla lingua volgare e sul suo uso, il De monarchia sui
problemi tra papato e impero, il Convivio per la formazione culturale
dell’uomo. Le Rime sciolte sono poesie dedicate ad amici, anche stilnovisti.
Per proseguire la sua opera politica, Dante tenta di farsi ricevere
dall’imperatore Enrico VII, sceso in Italia e visto come salvatore della pace.
Non riesce a vederlo: l’imperatore muore durante il suo viaggio.
Nel 1315 Firenze proclama un’amnistia, che prevede la cancellazione della
pena per svariati reati, tra i quali quelli di Dante, che può dunque tornare a ca-
sa. Rifiutandosi di tornare, fu decretata, per la seconda volta, la sua condanna a
morte. Nel 1315 muore a Ravenna, presso la famiglia dei Da Polenta, all’età di
56 anni.
Vita nuova
Si tratta di una serie di liriche in volgare, con dei capitoli in prosa in latino
posti come spiegazione alle poesie. Lo sfondo è fondamentalmente quello
dell’incontro tra Dante e Beatrice, quando il poeta aveva 9 e 18 anni. Centrale è
il tema del saluto, nel doppio concetto stilnovistico di “saluto” e di “salvezza
dell’animo”.
Temendo che la gente possa sparlare di Beatrice, Dante finge di amare due
donne dello schermo, intendendo per “schermo” quello presente tra realtà e fan-
tasia. Beatrice, però, toglie il saluto a Dante. Nelle rime in lode (di Beatrice)
spiega cosa è successo e cosa ha provato questo processo, ragiona sull’Amore
usando modelli di Guinizzelli con schemi cavalcantiani.
Quando Beatrice muore, Dante decide di non scrivere più finché non fosse
stato in grado di comporre “cose nuove” su Beatrice (cioè il Paradiso, terza
cantica della Commedia, quella più spirituale, simbolo di salvezza).
La Vita nuova, di base, è un diario senza riferimenti: tutto è riportato me-
diante trasfigurazioni simboliche e spirituali, i riferimenti sono sfuggenti e ci si
concentra sui fatti. Dante gioca coi numeri, e in particolare col 3 e i suoi multi-
pli (numero perfetto, che si ritrova frequente anche nella Commedia). La nume-
rologia era vista come scienza perfetta già a partire da Pitagora (filosofo-
matematico); si attribuiva un valore simbolico e quasi divino ai numeri, anche a
causa di legami con la Bibbia.
Convivio
È un trattato in volgare sulla filosofia; la scelta del volgare deve far riflet-
tere perché è fatta al fine che tutti possano leggere il Convivio per imparare la
filosofia e, per la legge di San Tommaso, elevare l’anima a Dio.
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La filosofia, per Dante, è un elemento importantissimo nella formazione
culturale dell’uomo, e sente l’esigenza di divulgare tutto ciò. “Convivio” è in-
fatti un incontro, un banchetto per “cibarsi” di cultura. Nel proposito iniziale di
Dante i libri dovevano essere 15 ma, avendo iniziato la Commedia (che gli ser-
ve per spiegare le sue intenzioni), ne scrive solo 4, in esilio.
Il primo trattato è proemiale: un incontro di sapienti che banchettano con
la cultura.
Il secondo trattato è il commento di 3 canzoni (sull’ordine dell’universo, e
introduttive ai trattati seguenti). Da questo libro si ricava l’interpretazione di
un testo letterario che nello studio di Dante e della Commedia è fondamentale.
I significati di un testo possono essere:
– letterale;
– allegorico (nascosto dietro la lettera);
– morale (insegnamento in funzione o religiosa o politica);
– anagogico (insegnamento spirituale, metafisico, p.es. dalla lettura di un
testo sacro).
Il terzo trattato è incentrato sulla perfezione dell’uomo e dell’universo. La
concezione geografica del Basso Medioevo prevedeva che la Terra fosse un
cerchio piatto, diviso in un emisfero superiore (boreale o delle terre) abitato e
in uno inferiore (australe o delle acque) in cui sono presenti solo oceani. Nel
vertice superiore c’è Gerusalemme, in quello inferiore la montagna del Purgato-
rio (con in cima il Paradiso Terrestre), in quello sinistro le Colonne d’Ercole e
in quello destro la foce del fiume Gange (i due limiti del mondo conosciuto). Al
centro del disco è presente Lucifero, che si trova sul fondo di un’enorme vora-
gine (l’Inferno) creata dalla sua caduta sulla Terra sotto Gerusalemme (aveva
osato credersi più grande di Dio).
Gerusalemme
Inferno
Purgatorio
Attorno alla Terra si trovano 9 cieli concentrici e il cerchio delle stelle fis-
se; tutto è contenuto dentro l’Empireo, che corrisponde al Paradiso e a Dio.
L’Universo è perfetto perché incorruttibile e racchiuso in Dio.
Il quarto trattato si riferisce alla vera nobiltà, che non è quella di sangue,
ma quella spirituale (concetto base dell’amor cortese).
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De monarchia
Già dalla lingua in cui è scritto (il latino) si capisce che questo è un tratta-
to politico riservato agli esperti, e non di divulgazione. Si intende monarchia
come “gestione politica dell’impero”: analizzando il rapporto tra papa e impera-
tore, Dante ritiene di dover delimitare i campi di azione dei poteri delle due
massime autorità (cioè i loro ruoli e competenze, senza prevaricazioni).
L’opera si compone di 3 libri.
Il primo libro è una storia dell’impero e del perché debba essere presente
in Italia. L’importanza del potere imperiale (inteso come personalità attente ai
bisogni della gente) è tale da essere necessaria per portare giustizia e ordine.
Il terzo libro è riservato ai rapporti tra papa e imperatore: due potenze in-
dipendenti, ma l’imperatore deve rispetto al pontefice.
De vulgari eloquentia
Questo trattato (in latino perché non divulgativo) è scritto da Dante per
dimostrare che il volgare italiano è lingua paritaria al latino, e deve essere uti-
lizzata in quanto tale. La volontà del poeta era di scrivere 4 libri, ma ne com-
pleta solo 1, lasciandone il secondo a metà (con tanto di frase in sospeso).
Il primo libro è dedicato alla distinzione tra lingua madre (imparata da
bambino) e grammatica. La distinzione sta tra la lingua parlata e quella studia-
ta: la lingua madre è parlata, ma non è conosciuta se non si studia a scuola.
Un’ulteriore diversità risiede tra la lingua parlata spontaneamente e la lingua
scritta. Lo scopo di fondo dell’analisi dantesca è che, essendo il volgare appena
nato, necessita di essere conosciuto nella sua struttura.
Per far ciò, è riportata la storia dell’origine della lingua e l’analisi dai testi
sacri: all’inizio (dice la Bibbia) tutti parlavano l’ebraico, poi fu costruita la tor-
re di Babele e si ebbero tante lingue diverse. Dopo aver giustificato la differen-
ziazione in lingue e aver analizzato quelle extraeuropee, si sofferma sui tre cep-
pi linguistici europei:
– lingua d’oc (provenzale)
– lingua d’oil (francese del nord)
– lingua del sì (italiano)
Dante si sofferma su di loro perché titolari di produzioni letterarie.
Riguardo il volgare, ne dà tre definizioni:
– aulico: elegante, raffinato, degno di essere parlato e ascoltato a corte;
– cardinale: cardine della produzione dei letterati (alludendo a quelli come
lui, in grado di produrre) presso una corte cui danno lustro;
– curiale: dovrebbe essere la lingua parlata presso la corte d’Italia, se ci
fosse.
Anche attraverso queste caratteristiche, la lingua italiana identifica l’Italia
in Europa, così come la sua cultura e letteratura.
L’analisi di Dante prosegue con lo studio dei tipi di stile letterari:
– la tragedia è la forma più importante, che necessita di un linguaggio su-
periore e impegnato, caratterizzata da un inizio positivo e una fine drammaticis-
sima;
– la commedia necessita di uno stile mediocre, inferiore rispetto alla tra-
gedia, poiché da un inizio negativo si giunge a un finale positivo; il linguaggio
è più comune, meno difficile;
– l’elegia è la forma poetica sulla situazione psicologica di infelicità, e il
suo linguaggio deve essere adeguato alla materia che deve cantare (cioè tristez-
za e malinconia).
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Divina Commedia
È l’opera di Dante, quella che lo rende immortale. Vanno fatte alcune
premesse importanti per non cadere in inganno:
– all’epoca non c’era differenza tra morale e politica: così il reo è conside-
rato anche peccatore, e viceversa;
– Dante era convinto che il mondo fosse corrotto perché ci si era gettati al-
la ricerca del potere economico, quindi serviva un impero universale portatore
di giustizia: “l’umanità è afflitta da cupidigia”, ovvero da sete di denaro e pote-
re, chi più ha più vuole.
L’inizio della prima cantica è probabilmente scritta in Firenze, ma non è
certa la data d’inizio. Sicuramente impiega numerosi anni per scrivere l’intera
opera, praticamente tutta in esilio.
Con la comoedia (alla latina) Dante vuole un’opera in grado di far uscire
gli uomini dal buio del peccato e della cupidigia, attraverso la consapevolezza
del male. Per questo, sfrutta l’idea del viaggio nell’oltretomba, attinta dalla tra-
dizione classica, secondo la quale il passaggio dal buio alla luce rappresenta al-
legoricamente il transito dal peccato alla salvezza dell’anima. Esempi classici
sono:
– nell’Eneide, Enea scende agli inferi per interrogare l’ombra del padre
(tradizione pagana);
– San Paolo scendeva agli inferi per tornare sulla Terra (credenza cristia-
na).
Nel Medioevo il male era personificato nel Diavolo (dal greco “colui che
inganna”), angelo ribelle (Lucifero) cacciato da Dio per superbia, in quanto vo-
leva essere come il Supremo, e posto nell’Inferno, del quale è signore. La puri-
ficazione dantesca deve arrivare attraverso un viaggio attraverso la consapevo-
lezza del male, e dunque anche attraverso l’Inferno; si deve rifiutare il male per
arrivare al bene, attuando dunque una libera scelta dettata dall’intelligenza u-
mana (libero arbitrio). “Per salvarsi occorre conoscere l’errore ed evitarlo”.
Gli insegnamenti ricavabili dal percorso sono di variegate tipologie:
– morali-religiosi;
– filosofici-teorici;
– storico-politici.
Autore, protagonista e giudice del viaggio è Dante, che liberamente collo-
ca e giudica i personaggi secondo diversi criteri. Nella struttura dell’opera è ri-
corrente il numero 3 e un frequente ricorso alla numerologia.
La Commedia si snoda attraverso 3 cantiche: Inferno, Purgatorio e Paradi-
so (che sono poi i tre libri di cui si compone l’opera). Ciascuna cantica consta
di 33 canti, più un ulteriore canto posto, come proemio all’inizio dell’Inferno,
in cui è spiegata la ragione del viaggio. Tutti i canti sono in terzine. Il canto VI
di ogni cantica è specificamente politico, cioè tratta argomenti di carattere poli-
tico:
– nell’Inferno si parla di Firenze;
– nel Purgatorio si affronta la situazione italiana;
– nel Paradiso si tratta dell’Impero.
Sono comunque frequenti i riferimenti politici e storici, nel corso della
narrazione.
I luoghi sono descritti secondo la cosmologia tolemaica, già illustrata da
Dante nel Convivio:
– tutto deriva e ritorna a Dio, nella cui mente è contenuto l’Universo;
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– i cieli sono incorruttibili e governati ciascuno da una presenza angelica;
– l’Inferno è stato creato dalla caduta di Lucifero che, sprofondando
dall’Empireo, ha creato una voragine col vertice al centro della Terra;
– il Purgatorio è un cono montagnoso su un’isola nell’emisfero delle ac-
que;
– in cima al Purgatorio c’è il Paradiso, con 9 cieli rappresentanti i pianeti
(tra cui c’è il Sole) e il cielo delle stelle fisse.
Le guide di Dante sono:
– Virgilio (simbolo dell’intelligenza umana) nell’Inferno e nel Purgatorio;
Dante lo incontra nel I canto dell’Inferno;
– Beatrice (simbolo di grazia, purificazione, beatificazione) nel Paradiso.
Spesso Dante ricorre a personaggi mitologici nella narrazione, per rappre-
sentare caratteristiche dell’uomo, soprattutto nell’Inferno. Questo rientra nel
plurilinguismo di Dante, che fa uso di molti stili diversi a seconda del contesto
in cui si trova.
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ta, in fondo, di un luogo di transizione, in cui i penitenti (secondo i vizi capita-
li) devono percorrere tutta l’altitudine della montagna per entrare nell’Empireo.
Il fatto che si tratti di un luogo transitorio concorre alla reintroduzione de-
gli elementi fisici terreni:
– spazio: i penitenti devono percorrere tutto il Purgatorio, dalla spiaggia
all’Empireo, sempre in movimento;
– luce: simbolo di purificazione, più intensa alle altitudini maggiori;
– tempo: la penitenza non è eterna;
– suono: non più grida, ma canto e preghiere.
Sono assenti i mostri infernali; domina l’amicizia tra i penitenti.
Dante cerca di dimostrare come tutto dipenda da Dio e il suo giudizio sia
diverso da quello dell’uomo: si trovano personaggi che, secondo l’idea comune,
dovrebbero essere all’Inferno, mentre è Dio a decidere la loro collocazione.
Tutti i penitenti, indistintamente, chiederanno a Dante di chiedere ai propri pa-
renti di pregare per loro, poiché le preghiere accelerano il processo di purifica-
zione delle anime.
A guardia del Purgatorio è posto Catone uticense, personaggio della Roma
antica che si uccise per non diventare succube del dominio di Giulio Cesare.
Egli rappresenta chi cerca di realizzare il proprio ideale e, in nome della libertà,
preferisce la morte (libertà assoluta).
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Capitolo VI
Francesco Petrarca (1304 – 1374)
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Dante Petrarca
Secretum
Il “segreto” sarebbe quello del cuore di Petrarca. L’autore immagina di a-
vere un incontro con Sant’Agostino, che ha affascinato Petrarca per Le confes-
sioni, l’opera in cui il santo rivela il suo dramma e i suoi dubbi di cristiano, di
uomo peccaminoso poi convertito (e santificato) che si confessa. Il dubbio di
Sant’Agostino è assimilabile a quello petrarchesco.
Il faccia a faccia con Sant’Agostino è svolto alla presenza di una donna,
personificazione della Verità; Petrarca deve rispondere alle accuse del santo.
Nel III libro gli sono comunicati i suoi difetti più grandi:
– l’accidia;
– l’amore per Laura e per la gloria.
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Quando Sant’Agostino gli chiede di pentirsi, Petrarca sa che non lo farà
mai, poiché può rinunciare alla gloria ma non a Laura, e per di più non sa com-
battere l’accidia.
Canzoniere
Il Canzoniere raccoglie 366 componimenti in tutte le forme metriche (tra
cui 317 sonetti). Si tratta di versi della giovinezza, che raccoglie in maniera or-
ganica come un libro compiuto, non come rime sparse. La costruzione è ideale
(secondo gli schemi) per sfumare la realtà: i particolari compongono
un’immagine indefinita di Laura (che è comunque una donna molto più concreta
delle donne letterarie precedenti); il “luogo ameno” classico è indefinito; non
esiste realtà storica, ma solo situazioni di lirica amorosa, quindi non esiste real-
tà esterna al poeta (si tratta di esperienza soggettiva e privata).
La raccolta è stata composta in 9 redazioni successive, l’ultima in parte è
autografa e ci sono meno dubbi sulla trasmissione del testo. La forma di Petrar-
ca è unilinguista, con pochi vocaboli piani e generici, con fluidità musicale e
spiccata armonia d’insieme, per lasciare al lettore l’interpretazione. Esiste an-
che un codice degli abbozzi, cioè componimenti con note a margine. Il titolo
scelto da Petrarca cambiò nel tempo:
– Rerum vulgarium fragmenta (“Frammenti di cose in volgare”);
– Rime sparse (dal primo verso del proemio);
Petrarca non crede nelle proprie opere in volgare, che considera “bazzeco-
le”, al contrario del suo latino che avrebbe dovuto dargli gloria postera.
Nel 1348 muore Laura; Petrarca compone così delle rime in morte che, as-
sieme alle precedenti rime in vita, formano il Canzoniere. Si ha anzi una netta
divisione tra i due gruppi di versi. Nelle rime in morte il poeta rimarca come il
mondo sia diventato scolorito e squallido, pur rimanendo la passione; sente ora
maggiormente il peso del peccato e una conseguente ricerca di purificazione (a-
spirando alla pace prega la Vergine). Nonostante questo, al centro dell’opera
c’è Petrarca: Laura è solo la causa scatenante dei sentimenti del poeta, e a cau-
sa dei quali egli è portato a scrivere.
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Capitolo VII
Giovanni Boccaccio (1313 – 1375)
Tra le tre corone, come sono denominati Dante, Petrarca e lui stesso, è
l’unico scrittore laico, non più subordinato alla religione: la sua interpretazione
dell’uomo e della realtà è razionale. L’uomo è concepito con le sue caratteristi-
che (pregi e difetti), non col ruolo; per questo, il Decamerone sarà messo
all’Indice dei Libri Proibiti.
L’amore è visto sotto tutti i punti di vista, non solo con la concezione stil-
novista: è mercenario, oppure strumentalizzato, talvolta persino erotico (tanto
che Boccaccio è stato definito “osceno”). Nonostante ciò, non usa malizia, non
insiste su particolari crudi, né c’è una grossolanità nei fatti osceni: è distaccato
con equilibrio, usando abilmente l’ironia. Principalmente, però, l’amore è una
forza della Natura, sana e positiva, che deve essere regolata dalla Ragione;
mentre nel Medioevo è mistico e ascetico, l’amore rinascimentale sarà sempre
più laico e naturalistico. Inoltre:
– è fonte di ingentilimento;
– innalza le persone di umile condizione;
– stimola l’industriarsi;
– dà origine alla commedia dei sensi.
L’intelligenza per Boccaccio è furbizia, capacità di “gabbare” il prossimo,
sapersi sempre arrangiare e industriare (darsi da fare). Tutto ciò crea sempre si-
tuazioni interessanti su cui indagare. L’uomo è autore del proprio destino; la
sua storia è guidata dall’esperienza e dalla fortuna. Il caso (cioè la fortuna)
domina il 50% della vita umana, però l’uomo (con l’intelligenza) può arginare
il caso negativo e sfruttare quello positivo.
Decamerone
Significa “dieci giorni”, infatti è la storia di cento novelle inventate in die-
ci giorni da dieci ragazzi, isolati nella campagna fiorentina a causa della peste.
L’opera è dedicata alle donne, perché sottomesse da padri, fratelli, mariti;
dovrebbe servire ad allietare la giornata femminile. Poiché la cultura di una
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donna è inferiore a quella maschile, lo stile è “minore” rispetto a quello aulico,
e la lingua è volgare.
Ogni giornata che passa, un re (o regina) sceglie il tema delle novelle del
giorno. La novella, ciascuna delle quali rappresenta l’uomo in un diverso conte-
sto sociale, si addice alla struttura del Decamerone: con un linguaggio realistico
si ottiene una descrizione precisa di ciò che si vuole, adeguata al personaggio
da rappresentare.
Le sette ragazze sono:
1) Fiammetta (donna amata da Boccaccio, forse figlia illegittima del re di
Napoli);
2) Lauretta (omaggio a Petrarca);
3) Emilia;
4) Pampinea;
5) Elissa (la Didone di Virgilio);
6) Filomena;
7) Neifile,
mentre gli uomini sono:
8) Panfilo;
9) Filostrato;
10) Dioneo (allude a Venere, figlia di Dione).
La cornice della vicenda (la peste, l’isolamento, la scelta di re e regine, la
decisione del tema delle novelle) è il “tessuto connettivo” che tiene unito tutto,
formando coesione tra le novelle e conferendo unità all’opera.
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Capitolo VIII
Umanesimo
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Capitolo IX
Pico della Mirandola – Lorenzo de’ Medici
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Capitolo X
Ludovico Ariosto (1474 – 1533)
Satire
Ispirate a quelle composte da Orazio nell’antichità, come critica di stampo
politico, le Satire di Ariosto sono lettere di autoconfessione ad amici e parenti,
riguardanti se stesso e il mondo che frequenta. Come interpretazione della vita
e nell’uso dell’ironia, Ariosto e Orazio sono molto simili. La poesia assume un
tono prosaico, semplice, con accenni ironici.
Centralmente è l’idea ariostiana della vera vita. Nella Satira III, rivolta al
cugino Annibale Malaguzzi e composta nel 1518, il poeta tratta della sua condi-
zione presso il duca Alfonso e ribadisce la sua necessità di autonomia attraverso
alcuni concetti:
– gli uomini sono tutti diversi; questa idea è più volte riproposta in diverse
forme;
– la corte è come una gabbia in cui c’è chi sta bene e chi vi può morire;
– preferisce mangiare poco ma a casa sua libero, piuttosto che tanto a corte
ma oppresso;
– dorme bene sotto una coperta grezza come sotto una di seta;
– preferisce visitare il proprio quartiere che l’Europa;
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– ha visto poche regioni, Alpi e Appennini;
– ama viaggiare sulla carta geografica, con la fantasia, senza dover pagare
nessuno.
È indubbio che l’ideale di vita di Ariosto è basato sulla semplicità. Al ri-
guardo dei rapporti interpersonali la sua idea è:
– ogni uomo dovrebbe essere tollerante con gli altri e rispettare le idee di
tutti;
– ogni uomo dovrebbe essere ciò che vuole.
Orlando furioso
Definito “poema di una vita” perché scritto in oltre 20 anni con continue
rivisitazioni del poeta, l’Orlando furioso è un poema epico-cavalleresco, perché
basato su guerre e su imprese cavalleresche e amor cortese. Si tratta del capola-
voro di Ariosto, che si basa sui cicli bretone e carolingio e sull’unione delle lo-
ro caratteristiche:
– ciclo bretone: Carlo Magno e i suoi paladini (Orlando, Rinaldo); scontro
con gli arabi (“mori d’Africa”);
– ciclo carolingio: amore, magia, maghi ed elementi soprannaturali.
Nel 1400 c’era già stato un recupero di questi cicli con la stesura di poemi,
che venivano poi letti durante feste e serate a corte. Il Tulci compose il poema
Morgante, mentre l’Orlando innamorato di Boiardo è la base di partenza di
Ariosto.
La vicenda di Orlando, infatti, riprende dal punto d’interruzione del rac-
conto di Boiardo. Orlando da “innamorato” diventa “furioso” per amore e gelo-
sia nei confronti di Angelica (innamorata di Medoro), attraverso una trama dif-
ficile, composta dall’intreccio di più storie che si intersecano di modo che,
quando una sta per finire, ne comincia un’altra e si rimanda la fine a dopo (co-
me in una giostra); manca la linearità del racconto. I 3 nuclei sui quali si basa
la vicenda sono:
– Carlo Magno contro i mori d’Africa, con sconfitta dei mori;
– Orlando e Rinaldo si contendono Angelica (amore platonico);
– ricerca di Angelica scappata con Medoro in Catai.
All’inizio dell’opera Ariosto deve inserire un encomio del casato estense.
Per questo, attribuisce all’unione tra Ruggiero e Bradamante la formazione del-
la dinastia d’Este: tale situazione è ritrovabile, oltre che nel Proemio, anche in
diverse altre situazioni nel corso della storia.
Un importante tema sviluppato da Ariosto è quello della ricerca. Secondo
Ariosto, tutti cercano qualcosa, quasi sempre con esito negativo (soprattutto
quando si tratta di ricerche disperate): “l’uomo si dà da fare per false ricerche,
falsi ideali”. L’Orlando furioso nasce anche dall’esigenza di spiegare tutti i
pregi e difetti dell’uomo, anche attraverso elementi fantastici e immaginari.
Il senno perso da Orlando, furioso, si trova sulla Luna. Astolfo, per recu-
perarlo, compie il primo viaggio di un uomo sulla Luna. Essa è la metafora
dell’altra faccia della Terra, in cui si raccoglie tutto quello che l’uomo perde
(tranne la follia, che non può mai essere persa):
– senno di individui;
– ami d’oro e d’argento, rappresentanti lodi e adulazioni;
– tempo inutile speso al gioco;
– bellezza delle donne;
– minestra versata, cioè l’elemosina che gli eredi dovrebbero fare rispet-
tando le volontà del defunto;
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– falsa donazione di Costantino, indicante l’inizio della corruzione della
Chiesa perché titolare anche di potere temporale.
La Luna rappresenta i fallimenti dell’uomo (che crede di essere immortale
e punta sulle cose effimere) e non, dunque, l’astro in sé: è quindi descritta in
maniera fantastica, così come la Terra.
La vicenda termina con un duello tra mori e cristiani, con i tre migliori ca-
valieri di ogni schieramento e la vittoria finale dei cristiani, dopo che Orlando
ha potuto recuperare il suo senno.
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Capitolo XI
Niccolò Machiavelli (1469 – 1527)
Il Principe
Si tratta di un manuale in 25 capitoli per insegnare ai principi a governare
e comandare. Il motivo per il quale scrive tale opera è da ricercare nel periodo
che l’autore vive: è testimone di una politica contemporanea catastrofica (prima
è segretario dei Medici a Firenze, poi è entusiasta di Savonarola e della cacciata
dei Medici, quindi è esiliato al ritorno dei Medici), di papa Alessandro VI e del
figlio Cesare Borgia, della fine della politica dell’equilibrio.
L’idea di Machiavelli è che gli uomini sono naturalmente cattivi: dimenti-
cano prima la morte del padre che la perdita del patrimonio. Il principe deve
sapere come fronteggiare gli attacchi, basandosi sul principio del “prevenire un
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tradimento e azioni negative che si possono subire”; non deve avere caratteri-
stiche morali, ma intelligenza e furbizia.
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Capitolo XII
Il Seicento e il Barocco
In Italia, l’intellettuale:
1) non guarda in faccia la realtà, evita tutti i problemi della censura della
Controriforma e delle delazioni (dovute alle spie); a Venezia esiste un apposito
ufficio per delazioni, con tutte le conseguenti indagini e condanne;
2) deve sottostare alle rigide normative della Controriforma.
La “rifeudalizzazione” dell’Italia porta a degrado pubblico, economico,
culturale su tutta la penisola. Ciò provoca una perdita di importanza nel Mar
Mediterraneo, oltre ad una stasi interna provocata dalla pressante burocrazia
spagnola, che blocca l’economia, sempre più chiusa. Al Sud va ricreandosi il si-
stema di grandi latifondi, in mano a grandi famiglie.
Lo sviluppo culturale è diversificato a zone: Venezia e Padova sono a buon
livello, la Toscana perde il predominio. Si sviluppano accademie, luoghi di riu-
nione fondati da intellettuali per approfondire una determinata materia: sono
frequentate solo da esperti e professionisti, quindi non si tratta di cultura popo-
lare e divulgativa. Accademie sono fondate non solo in Italia (dove operano
quelle della Crusca e dei Georgofili a Firenze, e dei Lincei a Roma), ma anche a
Parigi e in Inghilterra.
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Capitolo XIII
Galileo Galilei (1564 – 1642)
Oltre che scienziato e filosofo, dimostratore della validità del sistema co-
pernicano, Galileo è anche uno scrittore barocco; utilizza la scrittura anche per
dare maggiore rilevanza ai suoi studi e alle sue scoperte. Si fida, infatti,
dell’intelligenza umana per diffondere le sue idee, conscio che saranno capite:
oltre a una certa ingenuità, pagherà con l’accusa di eresia e il ritiro dei suoi
scritti dalle stamperie.
Galileo considera il mondo come un grande libro aperto, da leggere con un
alfabeto matematico-geometrico. Difende i diritti religiosi, purché restino sepa-
rati dalla scienza, che non può essere basata sulla carta (cioè sui Testi Sacri,
come vorrebbe la Chiesa).
L’opera più importante è il Dialogo sopra i due massimi sistemi del
mondo, trattato filosofico-scientifico in cui disquisisce a proposito dei sistemi
eliocentrico (di Copernico) e geocentrico (di Tolomeo), criticando l’arroganza
della Chiesa che pretende di essere infallibile nel determinare la geocentricità
dell’Universo.
Il saggiatore
Ne Il saggiatore (il saggiatore è un bilancino di precisione, per orafo),
opera scientifico-filosofica, due personaggi conversano su temi scientifici.
Uno dei punti più importanti è la Favola dei suoni, dimostrazione che la
scienza non si deve fermare alle sue scoperte, altrimenti il mondo si fermereb-
be. Il protagonista studia il canto degli uccelli, attirato da un suono simile; in
realtà è un pastore con uno zufolo, strumento a lui sconosciuto. Ricercando al-
tre forme di emissione del suono, scova un suonatore di violino, i cardini cigo-
lanti di un tempio, un suonatore di bicchieri: capisce che il suono si crea in tan-
te maniere diverse. Quando, però, ascolta una cicale, non riesce a determinare
un metodo di riprodurlo: la conclusione è che, pur conoscendo tanti metodi, ne
esistono sicuramente tantissimi altri a lui sconosciuti, e usando curiosità e me-
raviglia potrà scoprire infinite altre cose.
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Capitolo XIV
Il teatro del 1600: Molière e la Commedia dell’arte
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Capitolo XV
Caratteri generali del Settecento Illuminista
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Capitolo XVI
Giambattista Vico (1668 – 1744)
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Capitolo XVII
Cesare Beccaria (1738 – 1794)
Cesare Beccaria è ricordato come uno dei più importanti studiosi di diritto
nel mondo, come precursore della nuova concezione del diritto penale e del
trattamento dei carcerati.
Uomo del 1700 milanese, di famiglia nobile, è un abile avvocato e magi-
strato. Nonno di Alessandro Manzoni, trasmetterà al nipote l’istruzione mate-
rialista e l’ateismo, che fanno di Beccaria un perfetto laico.
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Capitolo XVIII
Carlo Goldoni (1707 – 1793)
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Capitolo XIX
Giuseppe Parini (1729 – 1799)
Nato a Milano quasi povero, Parini rischia di non poter finire gli studi, per
i quali è veramente portato. Ottiene un’eredità da una zia, ma solo a costo che
Giuseppe si ordini prete: e così è. Parini diventa, oltre che prete, gran studioso
e uomo di cultura, ma l’eredità non gli consentiva di compiere la vita agiata cui
ambiva.
Deve lavorare, per cui diventa precettore della nobile famiglia Serbelloni.
Vivendo con loro ogni giorno per anni, impara a conoscere tutte le caratteristi-
che, positive e negative, della classe aristocratica. Quando, un giorno, il padro-
ne di casa schiaffeggia il maestro di musica dei figli, si apre un aperto contrasto
tra Parini e la famiglia, che porta il poeta a partire.
Scrive un Trattato sulla poesia, seguendo il sensismo (“tutto è materia”).
La poesia, per Parini, ha un valore civile, ma deve colpire i sensi e divertire: la
satira è lo strumento migliore, perché immediatamente provoca il riso, e dopo
una reazione costruttiva.
L’impegno civile di Parini lo porta ad assumere incarichi sociali e politici
a Milano (che gode della situazione di benessere provocata dalla riforme au-
striache). Prima dirige un giornale, poi entra nella municipalità dopo la Rivolu-
zione Francese, di cui (solo inizialmente) è fervente ammiratore: qui scopre che
l’uomo, una volta raggiunto il potere, perde facilmente di vista i suoi obiettivi.
Lascia, con sgomento, l’incarico; l’amico Ugo Foscolo, fuggito da Venezia, nel
suo Ultime lettere di Jacopo Ortis attribuirà a Parini frasi sconfortanti sulla
situazione vissuta, in cui ormai tutto è perduto e veramente poco è possibile fa-
re. Un quadro altamente pessimistico per un Parini ormai alla fine dei suoi
giorni.
Odi
Parini compone diverse odi, basate sul modello di Orazio. Le più impor-
tanti sono:
• L’evirazione;
• L’educazione;
• La salubrità dell’aria: Milano è irrespirabile, quindi è preferibile la
campagna e la salvaguardia dell’ambiente;
• La caduta: si basa sul rapporto tra generazioni, quando un anziano si-
gnore cade da una carrozza ed è soccorso da un giovane;
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• L’innesto del vaiolo: sul nuovo vaccino contro il vaiolo.
Il Giorno
L’esperienza di Parini dà l’idea per la sua opera più famosa. In essa il poe-
ta descrive la giornata di un giovane nobile, dal risveglio alla notte, con
l’obiettivo finale di evidenziare l’inutilità di una vita così condotta.
Nella Favola del Piacere, attraverso l’uso di immagini metaforiche, Parini
spiega che i servi, nonostante all’inizio dei tempi tutti gli uomini fossero ugua-
li, ora non possono più godere del Piacere, perché devono pensare al bisogno e
devono soddisfare i piaceri del nobile.
Il racconto della Vergine cuccia è, invece, uno spaccato dell’ipocrisia u-
mana. Dopo aver sottolineato come l’uomo sia talvolta vegetariano, per pietà
verso gli animali, Parini ricorda un episodio in cui la cagnetta della padrona,
dopo aver morso il piede di un servo, era da questi stata calciata via; il cane
chiede aiuto alla padrona, che sviene per il dolore. Il servo, alla fine, è cacciato
(con tutta la famiglia) e mai più assunto da alcun padrone, in memoria del “mi-
sfatto” da lui commesso. In tal caso è palese la differenza tra il valore di un a-
nimale e quello di una persona, immensamente meno importante.
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Capitolo XX
Vittorio Alfieri (1749 – 1803)
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Capitolo XXI
Neoclassicismo e Preromanticismo
Tra la fine del 1700 e l’inizio del 1800 si sviluppano i due movimenti stili-
stici che divideranno gli artisti in neoclassici e romantici, in netta antitesi e con
illustri rappresentanti da ambo le parti.
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Capitolo XXII
Vincenzo Cuoco (1770 – 1823)
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Capitolo XXIII
Ugo Foscolo (1778 – 1827)
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Ultime lettere di Jacopo Ortis
Si tratta di un romanzo epistolare sulla falsa riga de I dolori del giovane
Werther di W. Goethe. La trama riprende in gran parte la vita dello stesso Fo-
scolo, escludendo il finale (Ortis si uccide, mentre Foscolo non lo farà mai);
sembra quasi un’autobiografia ideale.
Al contrario del romanzo di Goethe, nel quale si parla solo d’amore, qui è
presente la considerazione politica di Ortis, specchio del pensiero dell’autore.
L’uomo è rappresentato in maniera romantica: la vita è un’alternanza di delu-
sioni e illusioni, che provocano uno scetticismo totale e costante nei confronti
della realtà.
Un esempio di delusione è fornito dall’episodio dell’incontro con Teresa.
Si svolge a casa del signor T. (l’iniziale è perché si tratta di un ricercato), padre
di Teresa; Jacopo la incontra e scocca l’amore a prima vista. Teresa è però
promessa a Odoardo: dall’illusione iniziale (avere la donna amata) si giunge al-
la delusione (per non poterla avere).
Alla sera
Questo sonetto è un invito alla meditazione (come momento introspettivo)
e alla quiete. La sera è un’immagine della morte (come pace eterna); è desidera-
ta sia se serena, sia se portatrice di tempesta, poiché sempre raggiunge il cuore
e pacifica l’animo. La purificazione avviene mentre il “reo tempo” presente
(reo per le delusioni e per l’epoca negativa) fugge e si consuma assieme
all’autore.
La divisione è evidente tra le quartine e le terzine. Nelle quartine Foscolo
descrive il proprio stato d’animo. Nelle terzine analizza i processi dinamici di
trasformazione dovuti alla sera: la morte è liberatoria perché annullamento
totale (si cancellano conflitti e sofferenze).
In tutto il sonetto esiste un rapporto tra gli elementi positivi (nulla eterno,
pace della sera) che annullano quelli negativi (reo tempo, spirto guerrier). La
tematica è la stessa dell’Ortis: la morte è vista come unica soluzione per una si-
tuazione insostenibile. In altre parole, l’eroe (generoso e appassionato) si oppo-
ne alla realtà storica (negativa), ma è sconfitto.
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dica che esiste un legame con la vita, e che la morte non è “nulla eterno”. Il ri-
torno presso la madre è, comunque sia, un’illusione.
A Zacinto
Zacinto è il nome greco antico (quindi classico) di Zante:
– dove trascorre l’infanzia Foscolo (simbolo della famiglia);
– dove nacque Venere (dèa classica), simbolo di bellezza rasserenatrice) e
fertilità;
– in Grecia, patria di Omero (che come Foscolo se ne andò, e che canta di
Ulisse, punto di paragone per l’autore).
Il poeta è consapevole che non tornerà mai più, e che alla fine resterà solo
la sua poesia.
La sintassi è anomale e tortuosa, per vari motivi:
– è indice dell’inquietudine della passione soggettiva;
– è un flusso appassionato;
– è simile all’errare dei due protagonisti, durante il loro esilio.
Ritorna la circolarità del discorso, che punta al ritorno al punto di parten-
za (del discorso e del viaggio, cioè le due isole di Itaca e Zante). L’eroe classi-
co (positivo) ottiene il suo risultato e fa ritorno. L’eroe romantico (negativo)
non riuscirà mai a tornare, generando un sentimento di smarrimento e incertez-
za. Rifiutando quest’ultimo la società in cui vive, si rappresenta miticamente
come un esule.
Si nota una regressione materna legata a Venere, a Zacinto e alla madre di
Foscolo. L’acqua è oggetto di una doppia visione:
– dà vita (immagine materna);
– senza acqua (illacrimata sepoltura) c’è la morte lontano da casa.
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Capitolo XXIV
Romanticismo
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Capitolo XXV
Alessandro Manzoni (1785 – 1873)
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La tragedia viene ben presto ritenuta insufficiente per diffondere l’utile
per scopo, a causa del pubblico insufficiente: Manzoni cambia genere ed opta
per il romanzo, in particolare quello storico per i suoi scopi. La scelta
dell’epoca è cruciale: ne serve una interessante, dal punto di vista storico-
politico, ma non contemporanea (a causa della censura). Dopo un’attenta ricer-
ca tra le epoche, trova un periodo corrispondente, in senso metaforico, al suo, la
Milano del 1600, caratterizzata da:
• occupazione straniera (spagnoli allora, austro-ungarici adesso);
• il sopruso all’ordine del giorno;
• la legge non rispettata o evasa dai potenti;
• gli umili sempre defraudati dei diritti.
Trova una grida (legge dell’epoca) che punisce un potente se impedisce un
matrimonio, e pensa a un romanzo basato su una situazione simile col popolo
come protagonista. Il fine è l’insegnamento della morale cattolica, superando il
proprio pessimismo storico che lo contraddistingue. Nascono così I Promessi
Sposi.
Inni Sacri
Dovevano essere tanti quante le feste dell’anno liturgico, ma non vengono
tutti realizzati. Il bisogno di celebrare le festività porta Manzoni a comporre
canti retorici e inneggianti, i migliori dei quali sono scritti dopo le grandi opere
(verso il 1830).
Il Cinque Maggio
Manzoni scopre della morte di Napoleone a luglio, leggendo una rivista, e
quindi compone di getto.
L’interessa manzoniano per Napoleone è rivolto alla persona, non al per-
sonaggio. Immagina Napoleone in punto di morte, senza orgoglio e forza, ma
solo e sperduto, sottolineando il contrasto tra ciò che era stato e la prigionia in
cui muore. Lo sgomento del grande condottiero, in un momento come quello
della sua morte, è pari a quello del mondo intero.
Manzoni non dà un giudizio politico all’uomo, anzi ha fede nella sua sal-
vezza, immaginando infatti (dopo un uso sapiente del vero poetico) Dio che si
siede sul letto all’attimo fatale.
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I Promessi Sposi
Inizialmente chiamato Fermo e Lucia, quindi Gli Sposi Promessi: il cam-
bio di titolo indica anche una serie di modifiche strutturali, con adattamenti di
contenuti e forma.
Rispetto alla prima versione, quella finale è ridotta, attraverso
l’eliminazione delle storie di Padre Cristoforo, della Monaca di Monza e degli
untori (che vanno a formare tre romanzi separati, mentre prima erano tre ro-
manzi nel romanzo che appesantivano il tutto), lasciate in forma molto ridotta.
La revisione linguistica è fondamentale per trovare un linguaggio quanto
più popolare (cioè leggibile) e diffondibile possibile. Il commento di Manzoni
“ho lavato i panni in Arno” indica l’adattamento di tutti i latinismi e lombardi-
smi in toscano, molto più parlato e diffuso.
La vicenda è ben nota. Manzoni è narratore esterno e onnisciente, ma per
confermare il vero storico inventa lo scritto di un anonimo, a cui si riferisce in
corso di narrazione.
Il sistema dei personaggi è articolato in tre filoni:
1. potenti nel bene;
2. potenti nel male (caratterizzati da mentalità di sopruso e violenza e da
una vita senza scopo);
3. umili.
Tra i primi, il card. Borromeo, fra’ Cristoforo (Manzoni ama parlare della
Chiesa militante), l’Innominato dopo la conversione; gregari sono Don Abbon-
dio, Agnese, Perpetua. Tra i secondi esiste la gerarchia Innominato …
Don Rodrigo, con un abisso tra i due personaggi dovuto alla differente intelli-
genza. Notevoli i gregari dei potenti nel male: Azzeccagarbugli, il Griso, il
Conte Attilio, i bravi, tutti uniti da un rapporto utilitaristico legato a denaro e
forza.
Gli umili sono i veri protagonisti della vicenda, nelle persone di Renzo e
Lucia, rappresentanti di una mentalità popolare e normale. Renzo è il ribelle,
che si caccia nei guai anche a causa della sua ignoranza. Lucia è il lato positivo,
la fede nella Provvidenza, la fragilità femminile; sembra quasi remare contro, in
realtà è la figura più forte e, alla fine della vicenda, è premiata dai fatti.
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Capitolo XXVI
Giacomo Leopardi (1798 – 1837)
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Attorno al 1820 elabora la teoria del Piacere: giustifica l’infelicità
dell’uomo (“l’uomo non cerca il piacere, ma l’infinito piacere. Non essendo
raggiungibile si ha l’infelicità”) ispirandosi a Schopenhauer (“l’uomo è alla ri-
cerca di soddisfazioni che non si possono soddisfare”). Tornato da Roma elabo-
ra il pessimismo cosmico: la Natura è una matrigna che ha generato l’umanità
perché soffrisse, quindi non è responsabilità del singolo (passaggio dal bello al
vero).
Verso la fine degli anni ’20 dell’Ottocento si trasferisce a Pisa, città picco-
la ma vivace, adatta alla sua salute. Ritrovando la tranquillità interiore, rico-
mincia a scrivere in poesia: di questo periodo sono i Grandi idilli.
Il periodo napoletano, dal 1830 alla morte, è caratterizzato dall’amore con
Fanny Targioni Tozzetti, non del tutto corrisposto: Leopardi è entusiasta, ma
deluso. Dovuto ai drammi del suo amore, il Ciclo di Aspasia supera la conside-
razione universale dell’umanità, passando a un riferimento lirico e personale ra-
ramente evidenziato prima. In questo periodo elabora il pessimismo eroico (de-
scritto ne La ginestra): l’uomo, siccome sconfitto a priori, deve unirsi in “soli-
dal catena” con gli altri per tentare di sopravvivere. Prima che possa approfon-
dire il discorso, Leopardi muore nel 1837, di colera.
Zibaldone
È il diario di Leopardi, con le annotazioni quotidiane dei suoi pensieri.
Viene pubblicato dopo la sua morte ed è utilizzato come riferimento continuo
per capire la sua vita e le opere.
Piccoli idilli
Leopardi dimostra di conoscere la letteratura greca componendo idilli, cioè
descrizioni naturalistiche, bozzetti descrittivi paesaggistici, secondo il modello
classico del poeta greco Mosco. Leopardi, però, tiene conto solo in parte delle
regole classiche: utilizza gli idilli per passare, attraverso l’immaginazione, alla
situazione indefinita, infinita, vaga, lontana. Tra i Piccoli idilli più noti,
L’infinito e Alla luna.
In Alla luna Leopardi dà un grande valore alla ricordanza, perché il ricor-
do rende tutto più dolce, e il presente è negativo. L’idillio è costruito sulla di-
mensione del ricordo, con la luna (elemento centrale e ricorrente per Leopardi,
che tornerà nei Grandi idilli) come protagonista.
L’infinito
Siamo a Recanati. A cento metri da casa Leopardi c’è una piccola salita, il
monte Tabor, dove il poeta è solito passeggiare. L’uso di ermo nasce dalla con-
vinzione che esistono parole più poetiche ed evocative di altre: parole general-
mente poco usate, cadute nel dimenticatoio, con una sonorità particolare, che
indicano situazioni vaghe, indefinite, lontane, che lasciano spazio
all’immaginazione. Un “ma”, dopo i primi tre versi, indica una separazione net-
ta tra l’inizio bozzettistico (con l’uso dei dimostrativi per sottolineare la vici-
nanza degli oggetti e la loro fisicità) e il seguito interiore, che culmina
nell’ossimoro finale: “Così il mio pensiero si disperde: e naufragare in questo
mare del pensiero è, per me, cosa dolce”.
Operette morali
Si tratta di 32 opere, ironiche e sarcastiche, in prosa; attraverso di esse
Leopardi vuole dimostrare che l’uomo non può che essere infelice. Ne traspare
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tutto il pensiero e il giudizio morale dell’autore. Sono composte sotto forma di
dialoghi, tra personaggi reali o immaginari, ispirandosi al greco classico Lucia-
no. Il dialogo permette una rappresentazione veloce, cosicché si può raggiunge-
re prima il fine dell’opera: la descrizione del rapporto tra uomo e natura, della
felicità e del piacere, dei problemi della vita in genere.
Grandi idilli
Rivolgendosi all’umanità in toto, esamina i momenti in cui l’uomo può
provare un attimo di piacere: quando il piacere è figlio di affanno, magari dopo
un pericolo che provoca paura (in La quiete dopo la tempesta); quando si at-
tende qualcosa che si vuole molto e si è preparato nei dettagli (una festa, un in-
contro, …), che però quando si realizza è molto meno di quello che si era
creduto (in Il sabato del villaggio, dove il sabato è un susseguirsi di allegre
preparazioni e la festa domenicale una delusione sempre maggiore). Ma non
solo: c’è spazio anche per il ricordo, come quello struggente di Teresa in A
Silvia. Talvolta il poeta pone (e si pone) domande esistenziali, al quale nessuno
sa dare risposta, lui compreso: è l’esempio del Canto notturno di un pastore
errante dell’Asia.
A Silvia
Silvia, in realtà, è Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi,
morta a soli 18 anni di tubercolosi. Rappresenta in Leopardi l’ideale della gio-
vinezza e della bellezza femminile, divina: non è, quindi, necessariamente un
ritratto fedele di Teresa. La prima parte è descrittiva. Il poeta narra della diver-
sa giovinezza per lui e per la ragazza, attraverso il ricordo. Segue una sezione
ampiamente riflessiva e meditativa, a proposito della malvagità della Natura
(che si è portata via Teresa). Si tratta, comunque, di ragionamenti senza speran-
za (anch’essa analizzata da Leopardi), compiuti totalmente invano.
Ciclo di Aspasia
È una raccolta di cinque componimenti, che denotano un Leopardi comple-
tamente negativo e in un nuovo ciclo della propria esistenza.
Simbolo della raccolta è A me stesso, una breve lirica che afferma defini-
tivamente l’illusione attraverso l’asprezza del lessico scelto, le parole lapidarie,
la punteggiatura netta e tagliente: è eliminata ogni apertura ad una discussione.
Il poema, come gli altri, riflettono infatti la delusione di Leopardi per l’amore
contrastato con Fanny Targioni Tozzetti, nel periodo finale della sua vita.
La ginestra
Detta anche “fiore del deserto” per la sua robustezza, è l’opera-testamento
di Leopardi. In essa, supera la scoperta dell’arido vero e il pessimismo cosmi-
co, progettando un pessimismo eroico in cui invita l’umanità a essere consape-
vole del dolore, ma a non abbandonarsi e reagire con la solidarietà tra simili
(“solidal catena”) contro la Natura, nemico comune. La ginestra è il simbolo di
come dev’essere l’uomo: arbusto resistentissimo, cresce sulle rocce, in luoghi
aspri e semidesertici (che Leopardi osservava sulle pendici laviche del Vesu-
vio). Simboleggia la pietà e la solidarietà, in tali luoghi aspri, ma anche
un’intelligenza superiore all’uomo: non credendo di essere immortale, flette
finché può, cedendo solo alla fine.
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Capitolo XXVII
Positivismo
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Capitolo XXVIII
Scapigliatura
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Capitolo XXIX
Naturalismo e Verismo
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Capitolo XXX
Giovanni Verga (1840 – 1922)
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Fantasticheria
La trama di questa novella costituisce il nucleo centrale de I Malavoglia,
uscito qualche tempo dopo.
Si tratta di una lettera aperta a una giovane e raffinata signora del Nord, la
quale vorrebbe fare un viaggio al Sud per conoscere la Sicilia. Arrivando ad Aci
Trezza, si accorgerebbe della natura meravigliosa e vorrebbe trascorrerci un
mese: ma, già oltre il terzo giorno, il soggiorno diverrebbe insostenibile. Le ri-
sulterebbe, infatti, impossibile comprendere come si possa vivere in un posto
dominato da mare, sole e povertà.
Verga ironicamente spiega perché la gente rimanga tanto attaccata ad un
luogo così disgraziato, fornendo due metafore relative all’attaccamento alla
terra. Gli abitanti di Aci Trezza sono come formiche di un formicaio, le quali
rimangono unite anche qualora fossero inizialmente disperse. C’è poi l’ideale
dell’ostrica, il mollusco che rimane ben saldo al proprio scoglio, nonostante
conosca e patisca il pericolo del palombaro che può raccoglierla.
L’autore, poi, illustra come sia il destino a seminare contadini, nobili, ec-
cetera, un po’ ovunque e senza un preciso criterio: ognuno, però, deve stare do-
ve è, con rassegnazione coraggiosa, appoggiandosi alla religione della famiglia.
I Malavoglia
È il romanzo che contiene la spiegazione del movente umano che spinge
alla sopravvivenza, attraverso la vicenda della famiglia Toscano (soprannomi-
nati in paese Malavoglia) di Aci Trezza, paese povero di pescatori nella Sicilia
molto povera e con gravi problemi sociali al tempo dell’unità d’Italia. Nono-
stante questo, la comunità del villaggio è compatta: c’è, quindi, una narrazione
corale di tutti gli abitanti, come se fossero una voce di commento ai fatti dei
Malavoglia.
Il capofamiglia è il vecchio padron ‘Ntoni:
– simboleggia le radici, la tradizione, la sicurezza del focolare domestico;
– rappresenta l’autorità, il saggio, il patriarca, l’esperienza, gli si rivolge
col “voi”.
‘Ntoni lotta per conservare la famiglia e la casa del nespolo (a causa della
pianta presente), nido e rifugio. Trattandosi di una famiglia di pescatori, pos-
seggono una barca, la Provvidenza, e con essa cercano di sopravvivere con di-
gnità, per avere il rispetto del paese.
Nel 1863 il giovane ‘Ntoni, figlio di Bastianazzo (figlio a sua volta del
vecchio ‘Ntoni) deve andare in leva obbligatoria. Quindi abbandona il paese, ri-
schiando di perdersi nel mondo (e infatti non sarà più lui, andrà in carcere, …),
e al contempo sottrae braccia al lavoro famigliare, causando una difficoltà eco-
nomica e costringendo i Malavoglia ad assumere un lavorante (da pagare).
L’annata di pesca è cattiva; serve una dote per Mena e Lia, le figlie di Ba-
stianazzo. Per compensare il disastro che sembra imminente, si procurano un
carico di lupini da commerciare: Bastianazzo, mentre stava trasportandoli via
mare, naufraga con la Provvidenza (che va perduta) e muore. Ne segue il lutto,
oltre all’usura per compensare i soldi (inizialmente prestati) per il commercio, e
la perdita della casa del nespolo. La scena successiva alla morte di Bastianazzo
fa ben capire come si svolge la vicenda:
• prima il paese, coralmente, come reazione alla morte considera i pro-
blemi economici dei Malavoglia (con cinismo e insensibilità), ognuno
secondo i propri interessi;
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• nel mentre, Verga inserisce considerazioni di vita, come l’avversione
generica al progresso (ad es. il telegrafo) e la strumentalizzazione di
fatti naturali (ad es. la gioia per la pioggia, a causa dei campi: la stessa
pioggia che si è portata via Bastianazzo);
• al termine del consolo c’è spazio per lo sfogo personale di ogni com-
ponente della famiglia:
o il rimorso di padron ‘Ntoni per l’iniziativa dei lupini;
o la necessità di saldare il debito per non perdere l’onore e il ri-
spetto;
o serve l’aiuto di tutti i giovani per andare avanti.
Padron ‘Ntoni muore in ospedale: è un grave disonore, trattandosi di una
morte da poveri. Lia si perderà, “mangiata dal mondo”, perché “poco seria”.
Mena non si sposerà mai perché senza dote. Luca, altro figlio di Bastianazzo,
muore nella battaglia di Lissa, durante la seconda guerra d’Indipendenza.
Il giovane Alessi, alla fine, riesce a ricomprare la casa del nespolo e a ri-
formare il nucleo famigliare. Il giovane ‘Ntoni, una notte, torna di nascosto, sa-
luta il fratello e rivede la casa del nespolo, ma poi abbandona la comunità che
non può più accettarlo. Alla fine è ottenuta una parziale sopravvivenza dei Ma-
lavoglia, ma a prezzo di sacrifici (anche umani) non indifferenti: iniziano pove-
ri e rimangono poveri, provano a modificare la situazione ma si ritrovano peg-
gio di prima.
Mastro-don Gesualdo
Gesualdo nasce mastro, di umili origini, ma è un self-made-man: con la
sua infaticabilità mette assieme un patrimonio. Questo però non gli basta, vuole
salire la scala sociale e diventare don.
La riuscita di questo obiettivo impossibile è possibile, “comprando” il ma-
trimonio con Bianca Trao, nobile decaduta senza un soldo, sacrificata dalla fa-
miglia a favore del patrimonio. Don Gesualdo è, così, un ignorante ricco, ma in-
felice perché non è amato dalla moglie e dalla figlia che ha con lei; la moglie e
la figlia sono infelici perché non amano Gesualdo, ma il suo denaro.
Gesualdo, se vuole trovare affetto e amore, è costretto a tornare dalla serva
che, all’inizio della sua vicenda, lo aveva aiutato dandogli anche dei figli; ma
don Gesualdo vuole compensare la donna col denaro.
Alcune importanti lezioni che vuole evidenziare Verga sono:
• non si può acquistare una posizione sociale col denaro;
• chi nasce mastro muore mastro, e non può cambiare. A tal proposito è il-
luminante il paragone “non si innesta il pesco con l’ulivo”, sul rapporto della
figlia Isabellina col padre Gesualdo, rozzo e coi calli sulle mani, che rifiuta.
La vicenda si conclude con la morte di don Gesualdo, solo, abbandonato
da tutti nel suo letto, mentre i servi giocano nella stanza accanto sperando che
muoia presto.
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Capitolo XXXI
Decadentismo
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Il problema è quando, dopo aver recuperato l’Io, si manifesta una totale
INETTITUDINE alla vita. L’inetto (“mai responsabile”) sublima la realtà (cioè
la interpreta a proprio uso e consumo) per giustificarsi, ponendosi come antitesi
perfetta al superuomo. Non sa scegliere; qualsiasi cosa accada lascia la respon-
sabilità ad altri; si lascia trasportare dagli eventi.
Come si può capire, è un tipico comportamento infantile, che può derivare
da:
– mancanza di una figura paterna autoritaria;
– presenza di una figura paterna troppo autoritaria;
– presenza di un antagonista che si interseca nella vita, disprezzato ma in-
vidiato.
Il tema dell’inettitudine è stato trattato a fondo, per mezzo di una forte in-
trospezione psicologica (con la coscienza che si racconta), da Italo Svevo e
Luigi Pirandello.
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Capitolo XXXII
Gabriele D’Annunzio (1863 – 1938)
Si tratta senza dubbio di una delle personalità più forti nell’Italia a lui con-
temporanea. Nella sua epoca, e in quelle successive fino ad ora, era famoso non
tanto come poeta, quanto come esempio da imitare: faceva tendenza, scandalo,
era un personaggio pubblico, il prototipo degli attuali vip. È amato e odiato, i-
mitato, influente politicamente; allo stesso tempo esteta e superuomo
(nonostante sia contemporaneo del Verismo), autore di tantissime imprese: c’è
un’identità perfetta tra l’uomo e lo scrittore.
A causa di una tendenza naturale alla poesia, che lo porta a pubblicare una
prima raccolta di versi a soli 15 anni, la produzione dannunziana è quasi infini-
ta: milioni di versi suddivisi tra lavori brutti (generalmente su commissione, u-
nicamente per far denaro) ed eccelsi. È l’autore che meglio rappresenta, come
modo di vivere, la sua arte: è un eclettico della parola, riuscendo a scrivere di
qualunque argomento in uno stile qualsiasi, secondo le richieste (dovendo anche
vivere della sua scrittura). Ha coniato moltissime parole, poi entrate nell’uso
comune e pubblicitario: ad esempio, il nome stesso dei magazzini Rinascente di
Milano, e diversi saluti fascisti.
Tra i fatti passati alla Storia che lo vedono protagonista:
• prima che l’Italia entri nella Prima Guerra Mondiale, istiga la folla af-
finché sia ucciso il neutralista Giolitti;
• è volontario nella Prima Guerra Mondiale, a oltre 50 anni;
• compie la beffa di Buccari, assieme a Costanzo Ciano;
• vola su Vienna alla fine della Guerra;
• occupa Fiume, dopo che non è stata assegnata all’Italia.
Mantenuto per lungo tempo dalle sue donne (tra cui la celebre Eleonora
Duse), il termine della sua vita è a spese dello Stato Italiano, anche a causa dei
debiti che contraeva continuamente. Gli è regalata la villa sul lago di Garda
(che diventerà poi il Vittoriale degli Italiani), simbolo dell’atmosfera decaden-
te: ricolma di un’accozzaglia di oggetti stranissimi e folli, raccoglie milioni di
libri appartenuti al poeta. Il suo rapporto col fascismo, dominatore negli anni
finali della sua intensa vita, è di odio/amore: Mussolini è disturbato da
D’Annunzio, perché il poeta è ingombrante e oscura il duce; D’Annunzio stesso
si identifica solo con se stesso, e non può credere in una filosofia diversa.
Il Piacere
In uno dei più grandi esempi di estetismo, Andrea Sperelli, il protagonista,
è un alter ego dell’autore: è un giovane artista aristocratico, educato alla ricerca
del bello, che cerca di “vivere la propria vita come un’opera d’arte”: senza fina-
lità, ma per il piacere di farlo. Sperelli non lavora, non avendone bisogno; vive
nella Roma non classica, ma barocca, colma di quei palazzi dalla ridondanza
seicentesca.
Il protagonista, presentato come amorale, dai molti amori, avventure e
duelli, si trova ad amare due donne antitetiche:
– Elena Muti, la donna fatale;
– Maria Ferres, la donna angelo.
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Non c’è una trama precisa, ma la rappresentazione della ricerca di un pia-
cere sempre maggiore. La conclusione di Sperelli-D’Annunzio è che il verso è
tutto: il piacere massimo si ha dalla composizione di una splendida poesia. La
poesia ha una funzione purificatrice, cosicché tutto il romanzo si pone ad un li-
vello superiore rispetto alle tematiche dello scontro tra bene e male, argomento
genericamente trattato nello stesso periodo.
L’innocente
Visto il grande scalpore suscitato dal suo estetismo, D’Annunzio decide di
cambiare genere con un altro romanzo, L’innocente, e con una raccolta di poe-
sie (Poema paradisiaco), per non perdere la stima del pubblico. Si tratta della
fase buonista, dopo il D’Annunzio estesa, cattivo e amorale.
Ne L’innocente, il marito tradisce sempre la moglie che, dopo un iniziale
innamoramento, lo tradisce a sua volta. Il marito, accorgendosene, cerca di
riappropriarsi della moglie come se fosse una sua proprietà; quando, poi, nasce
un figlio alla coppia, sospettando che non sia suo, lo uccide.
Nonostante il tentativo, la dinamica sociale perversa e la poca innocenza
della trama non convinceranno del tutto il pubblico.
Consolazione
È una lirica del Poema paradisiaco. D’Annunzio lascia l’estetismo per un
momento di riflessione, da “figliol prodigo”: ricerca il conforto della quiete fa-
miliare e dei vecchi affetti.
L’unico problema è che, notando la ricercatezza del linguaggio, si nota che
il poeta non ha abbandonato lo stile da esteta (nonostante il tono dimesso), né la
ricerca di musicalità ed eleganza.
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Laudi
Nei libri delle Laudi, D’Annunzio propone la lode e l’esaltazione degli e-
roi del cielo, del mare e della natura.
Tra i vari libri di Laudi scritti, quello che più rappresenta le caratteristiche
del poeta è Alcyone. Il suo contenuto non è morale, politico o personale; in es-
so emerge la contemplazione di situazioni naturali, e la loro descrizione. Citan-
do alcune poesie di quest’opera:
• ne La sera fiesolana la sera (personificata) diventa protagonista della
poesia, che per il resto ha un contenuto praticamente nullo.
D’Annunzio ne ricava un sottile gusto, un piacere estetico recepito dal-
la situazione rappresentata; sono forti le allitterazioni; si riprende il
concetto stilnovista di bellezza (la descrizione della bellezza femminile
tramite oggetti);
• lo stesso accade ne La pioggia nel pineto, una descrizione dei suoni
prodotti dalla pioggia quando cade su un pineto, trasformati in una sin-
fonia di parole, una pioggia di parole accostate con tecnica sublime, un
uso delle parole come fossero note musicali. La Natura è completamen-
te personificata, mentre D’Annunzio ed Ermione (la donna amata) si
trasformano in oggetti della Natura: le due entità si fondono e confon-
dono completamente.
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Capitolo XXXIII
Giovanni Pascoli (1855 – 1912)
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È importante sottolineare che commentare razionalmente una lirica simbo-
lista, come quelle pascoliane, ROVINA il lavoro di costruzione analogica e
simbolica fatto dal poeta.
Il fanciullino
È il saggio in cui Pascoli esplica la propria poetica. Esce nel 1897, in di-
retta contrapposizione con La vergine delle rocce, opera superomistica di
D’Annunzio del 1895.
Riferendosi a precedenti letterari, il fanciullino può essere inteso come:
– l’ottentotto, rozzo ignorante, predisposto alla poesia al contrario
dell’illuminista (Lettera semiseria di Giovanni Grisostomo);
– la poesia, espressione dell’immaginazione (G. Vico).
Come spiega Pascoli, il fanciullino è la parte più irrazionale del lettore, la
caratteristica infantile quiescente (perché non stimolata nel tempo) in ogni per-
sona. La funzione del poeta è quella di risvegliare questo fanciullino che c’è in
noi, e per farlo deve essere “né vate, né retore, né superuomo né esteta, ma fan-
ciullino”, al fine di cogliere i piccoli aspetti della vita come farebbe un bambi-
no (che si rapporta agli oggetti in maniera infantile, cioè parlandogli, ingran-
dendo i dettagli piccoli e rimpicciolendo quelli grandi, in maniera totalmente
fuori da ogni logica adulta). In definitiva, il poeta deve essere poeta e basta,
nella maniera più genuina e meno articolata possibile, rivolto alle piccole cose
come un bambino.
Myricae
Il titolo si ispira ad un verso di Virgilio, nelle Bucoliche e nelle Georgi-
che, in cui parla della natura. La tamerice è il simbolo della Natura, essendo un
robusto arbusto sempreverde.
Le liriche sono brevi, di stampo bozzettistico. Ad esempio, in Temporale,
Pascoli crea un contrasto visivo tra il casolare (unico elemento fisico presente),
un ala di gabbiano (bianca), il cielo (“nero di pece”) e l’orizzonte (“rosseggia”),
cosicché alla fine si tratta di una descrizione poetica impressionistica.
X agosto è, invece, commemorativa del giorno dell’uccisione del padre;
ma è anche San Lorenzo, la notte delle stelle cadenti: anche il cielo sembra
piangere per l’assassinio. Pascoli narra due episodi corrispondenti:
1. la morte del padre, che tornava a casa con due bambole per le figlie;
2. la morte di una rondine, che tornava al nido col cibo per i piccoli.
Sapientemente Pascoli scambia i termini tra i due episodi, così l’uomo tor-
nava al nido e la rondine a casa. La conclusione è che il mondo (“atomo opaco
del Male”) è malvagio a causa degli uomini.
Il gelsomino notturno
Appartenente ai Canti di Castelvecchio, ha fatto discutere la critica a lun-
go per la differenza nello stile di Pascoli rispetto alle opere precedenti.
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Composta come regalo per le nozze di un amico, rappresenta un augurio
per la vita futura, una nuova vita, un figlio, un nido, una casa. È un inno
all’amore e alla fecondità, argomento inedito per Pascoli.
Il “gelsomino notturno” è la bella di notte, simbolo della vita: si schiude
di notte, nelle ore in cui pensa ai suoi cari morti. Pascoli (secondo gli studi psi-
canalitici sulla poesia, effettuati da esperti in periodi successivi) parla di argo-
menti naturali e logici in maniera contorta, allusiva; fa riferimenti ad attività
della natura con sostantivi umani. Si nota bene il contrasto tra vita e morte, tra
luce ed ombra; nelle ultime strofe diventa quasi ermetico, tanta è la difficoltà
ad esprimere concetti fuori dell’abitudine del poeta.
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Capitolo XXXIV
Italo Svevo (1861 – 1928)
Una vita
Alfonso Nitti (alter ego di Svevo) è un impiegato di banca inetto e imma-
turo. Lo schema del romanzo è ancora ottocentesco, romantico: il finale è una
sfida a duello, col rifiuto di Alfonso a battersi e il suo successivo suicidio.
Senilità
Il titolo vorrebbe richiamare a una vita vissuta sottotono, in maniera senile
(come quella dell’autore).
Emilio Brentani ha 35 anni, ma vive come se ne avesse il doppio. È impie-
gato: la sua vita trascorre tra la casa e l’ufficio. Vive con la sorella Amalia che
lo accudisce, ed entrambi sono single. La loro vita è regolare, ma chiusa e mo-
notona: questo dà loro una buona sicurezza.
Emilio avverte la mediocrità del suo esistere, soprattutto quando conosce e
stringe amicizia con Stefano Balli, artista, esempio di creatività, originalità,
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sregolatezza. Quando Amalia conosce Stefano, se ne innamora; ma è un amore
impossibile, e se ne genera un’enorme sofferenza.
Nel frattempo, nella vita di Emilio si presenta una donna, Angelina (che
rappresenta la femminilità), di facili costumi e che non lo ama. Emilio, invece,
prova dei sentimenti per lei e ne è geloso: qui si vive la drammaticità dei senti-
menti.
I due fratelli vivono due drammi esistenziali in parallelo. Di nascosto dal
fratello, Amalia diventa dipendente dall’etere, fino a contrarre una grave malat-
tia. Emilio, oltre a non capire il dramma vissuto dalla sorella, nel momento di
crisi massimo di lei la lascia sola, morente, mentre insegue il suo amore impos-
sibile.
La coscienza di Zeno
Uscito nel 1924, ben ventiquattro anni dopo Senilità, inizialmente non è
preso in considerazione in Italia. La critica rifiuta il romanzo, perché la trama
non segue il flusso temporale, ma piuttosto dei blocchi tematici con continui
andare avanti e indietro nel tempo, a seconda dell’argomento.
Svevo aveva conosciuto a Trieste James Joyce, inventore della tecnica del
flusso di coscienza, che a Parigi aveva fatto recensioni meravigliose delle sue
opere (in Italia solo il giovane Montale gli dava credito). L’arte joyciana del
flusso di coscienza è non evidentissima, ma efficace: non c’è il narratore onni-
sciente, perché è il protagonista Zeno a raccontarsi, e quindi manca la certezza
oggettiva della verità dei fatti. Ne guadagna il linguaggio, rapido e veloce,
assolutamente non più ottocentesco.
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Capitolo XXXV
Luigi Pirandello (1867 – 1936)
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Il fu Mattia Pascal
È l’opera somma del pensiero esistenziale pirandelliano.
Mattia Pascal è un bibliotecario di provincia con una famiglia disastrosa,
composta da moglie e suocera. Per caso, in maniera imponderabile, dopo un li-
tigio prende il treno Liguria-Montecarlo e, al Casinò di Montecarlo, stravince al
gioco: decide, dunque, di sparire. Mentre si trova a Roma legge sul giornale
della sua morte, il cadavere riconosciuto da moglie e suocera: si sente, così, li-
bero da ogni vincolo.
Il problema sorge quando, volendo continuare a vivere normalmente, capi-
sce che deve darsi un’identità. Diventa Adriano Meis, e trova addirittura
l’amore; ma quando vuole sposarsi non può, non avendo i documenti. Per que-
sto finge una seconda volta di morire, annegato, per poi tornare a prendersi la
propria identità. Nel frattempo, però, la moglie si è risposata e ha avuto un fi-
glio, mentre all’anagrafe risulta deceduto: non gli rimane che portare fiori sulla
sua tomba, perché lui è “il fu Mattia Pascal”.
L’umorismo
Si tratta di un saggio nel quale Pirandello spiega come comunicare il
dramma e la tragedia della vita di ogni singolo individuo (dando per scontato
che ognuno vive un dramma, perché non può farsi capire dalle altre persone).
Dopo aver illustrato la differenza tra dramma consapevole e inconsapevo-
le, l’autore si sofferma sulla differenza tra comicità e umorismo, utilizzando
l’esempio di “una vecchia signora, vestita come una giovane”. Se si pensa solo
all’ilarità di una situazione contraria all’ordine naturale delle cose, ridendo e
basta, questa è comicità. Se, al contrario, si pensa al perché la signora è così
agghindata, la risata diventa sorriso accompagnato da una certa dose di tristez-
za: si sta capendo che l’azione bizzarra è motivata da qualcosa di particolar-
mente drammatico.
La conclusione da trarre, in ogni situazione stravagante, è il capire che
dietro ogni atteggiamento c’è sempre una situazione esistenziale difficile.
Il treno ha fischiato
Chiamata anche Fischia il treno, è una novella avente come protagonista
Belluca, un impiegato di provincia. È stimato, rigoroso, puntuale, ma vive una
situazione familiare pesantissima: la moglie è insopportabile, e vive con anche
la suocera (insopportabile per definizione).
Belluca è uso fare del lavoro straordinario nel corso della notte, nel silen-
zio. Una notte sente il fischio di un treno da lontano, che lo proietta in un altro-
ve fantastico dove non è mai potuto essere: scopre il vero se stesso, cambia mo-
do di vivere, diventa un altro. Lo credono malato o matto, da tanto è strano e
diverso; l’unica risposta che dà, a qualunque domanda, è “il treno ha fischiato”,
perché le persone non possono capire la sua situazione.
Pirandello vuole dimostrare che l’idea di follia è falsamente interpretata, e
forse addirittura non esiste: chiunque può essere considerato matto.
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plice differenza tra quello che pensava lui (di avere il naso dritto) e quello che
la gente vede (il suo naso storto) lo mettono in grave confusione.
La generalizzazione di Pirandello è la definizione della difficoltà di vivere
a causa della molteplicità delle proprie personalità, anche negli aspetti minimi
della vita.
La patente
È una breve novella, interpretata anche da Totò, ambientata a Napoli. In
questa città c’è la tradizione degli iettatori, personaggi che si ritiene portino
sfortuna e, per questo, sono completamente emarginati e senza lavoro.
Uno iettatore, per cercare di rifarsi di tale sfortuna propria, decide di anda-
re in Comune per farsi riconoscere ufficialmente una patente di iettatore e cam-
parci sopra: vuoi mai che qualcuno abbia bisogno di un portajella!
Enrico IV
Questa commedia del 1922 è la storia dell’Imperatore che, scomunicato,
rimase tre giorni e tre notti fuori dalla reggia di Canossa per chiedere perdono.
I personaggi sono i componenti di una famiglia che, durante una festa in
maschera, decidono di rappresentare la vicenda di Enrico IV. Il padre (che è
certo che la moglie lo tradisca) impersona l’imperatore, ma cadendo da cavallo
ammattisce e crede di essere davvero Enrico IV. Negli anni, col passare del
tempo, rinsavisce, ma si finge pazzo lo stesso, per vendicarsi del rivale ucci-
dendolo e non essere colpevole dell’omicidio; tutto questo a costo di essere En-
rico IV per sempre.
Pirandello qua si supera con una doppia finzione: alla festa in maschera si
somma il fingere di essere matto.
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Capitolo XXXVI
Futurismo
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Capitolo XXXVII
I Crepuscolari e Guido Gozzano
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Capitolo XXXVIII
Giuseppe Ungaretti (1888 – 1970)
Nel Novecento esistono, in Italia, una serie di poeti che vivono due Guerre
Mondiali, che nascono nel periodo decadente e ne assorbono le critiche (arri-
vando a disprezzare D’Annunzio), arrivando, ognuno a suo modo, a decidere di
restituire alla poesia la sua funzione. Ciò è possibile solo ricominciando da ca-
po, restituendo alla parola il suo significato più puro: è la rivoluzione della pa-
rola di Umberto Saba, Giuseppe Ungaretti, Eugenio Montale e Salvatore Qua-
simodo.
Tra questi, Ungaretti è il vero teorico della Rivoluzione della parola. Per
sottolineare l’importanza di questo autore, basti ricordare che è stato il primo
poeta a recitarsi in TV.
Nasce ad Alessandria d’Egitto, dove riceve una prima formazione egizia-
na: è una zona ricca di archeologi, vista la presenza del Nilo, fonte per una ci-
viltà. Qui assiste al ritrovamento di un porto sepolto, la qual cosa sarà ripropo-
sta in una importante lirica. Ai primi del ‘900 si trasferisce a Parigi, dove è
coinvolto nella grande animazione culturale dell’epoca.
A causa della Prima Guerra Mondiale torna in Italia, per partire volontario.
Trascorre la guerra in trincea, è una vita di morte quotidiana: si esulta della
propria vita mentre il compagno è morto. Scopre un nuovo modo di intendere la
vita; comincia a scrivere in trincea. Di questo periodo è Allegria di naufragi.
Con questa prima raccolta scopre l’inutilità dello scrivere, del dire troppo: è la
rivoluzione della parola. Riprende l’idea futurista (movimento, per il resto, di-
sprezzato) della parola scarna, per ritornare all’ABC.
Finita la guerra si ritrova i problemi dell’essere reduce. Ha simpatia per il
fascismo: persino Mussolini gli scrive una prefazione ad Allegria. Per un pe-
riodo insegna all’università, poi parte per il Brasile. In tale periodo muore il fi-
glio; a seguito di tale lutto esce, nel 1946, Il dolore.
Tra le altre opere, Il taccuino del vecchio è una raccolta di piccole prose,
appunti, note, e Sentimento del tempo, una raccolta di un Ungaretti già matu-
ro.
Allegria di naufragi
È la raccolta che esalta la contentezza di scoprire la vita di fronte alla mor-
te, nel periodo della guerra di trincea: è un susseguirsi, in ogni verso, di folgo-
razione, attimo, intensità. Manca ovunque la punteggiatura, la lunghezza dei
versi è futurista; la parola è libera, scarna, essenziale.
Il titolo, già di per sé estremamente ossimorico ed emblema dell’interiorità
di Ungaretti, cambierà poi diventando, più semplicemente, Allegria. È comun-
que ancora abitudine usare il titolo originale, per la forza che imprime su chi
legge.
Tra le opere spicca Porto sepolto. Il porto sepolto (che è il significato più
profondo dell’esistenza), in senso traslato, simboleggia la riscoperta della fun-
zione del poeta: né politica, né morale, ma solo di riscoperta, di pura scrittura,
di comunicazione di quello che ritiene aver trovato. La vera essenza
dell’esistenza, secondo il poeta, si scopre arrivando al “porto sepolto”.
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In I fiumi, Ungaretti ripercorre i luoghi della propria vita, ognuno segnato
da un corso d’acqua:
• il Serchio, fiume degli antenati, vicino a Lucca (da dove provenivano i
suoi genitori);
• il Nilo, in Egitto, dove è nato;
• la Senna, a Parigi, fiume dell’esperienza culturale;
• l’Isonzo, il fiume su cui si trova a causa della Prima Guerra Mondiale.
San Martino del Carso presenta una costruzione analogica: la distruzione
fisica della città è (analogicamente) uguale alla distruzione nel cuore del poeta,
provocata dal dolore.
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Capitolo XXXIX
Eugenio Montale (1896 – 1981)
I limoni
È la poesia programmatica di Montale, con la propria dichiarazione di poe-
tica. Elenca cosa non gradisce:
– i poeti “laureati” (ironizza, infatti, su D’Annunzio);
– i poeti che parlano in termini abnormi (i decadenti).
Ciò che vuole davvero è parlare del “giallo dei limoni”, cioè della vita nei
suoi lati più semplici, perché queste sono le vere ricchezze dell’umanità.
Ossi di seppia
Raccoglie alcune delle più importanti liriche del poeta. Il linguaggio è du-
ro, non musicale; il verso è mediamente più lungo di quello di Ungaretti.
Non chiederci la parola definisce il significato dell’intellettuale: è in
mancanza di certezze (intellettuali o metafisiche), senza punti di riferimento, in
condizione di relatività. Critica il conformismo dell’uomo contemporaneo; af-
ferma l’insufficienza della parola come mezzo di spiegazione della vita.
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In Meriggiare pallido e assorto, attraverso i correlati oggettivi, descrive
la vita, ponendo come emblema del travaglio della vita “una muraglia // che ha
in cima cocci aguzzi di bottiglia”. Lo stesso fa in Spesso il male di vivere ho
incontrato, evidenziando alcuni emblemi dell’indifferenza (la sonnolenza, la
nuvola, il falco che vola) ma sottolineando che c’è un miracolo che supera la
divina indifferenza: il poeta, cogliendo un varco, può andare oltre le cose.
Forse un mattino andando in un aria di vetro è un altro passo del poeta
verso la comprensione. Stavolta Montale capisce che l’unico elemento che è
possibile cogliere è il nulla, ma l’aver carpito questo “segreto” è, oltre che un
privilegio di pochi, una condanna: è stordito, smarrito come un ubriaco, e non
capito.
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Capitolo XXXX
Gli indifferenti (1929)
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