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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI FERRARA

C.A.R.I.D.
Centro di Ateneo per la Ricerca, l’Innovazione Didattica e l’Istruzione a Distanza

CORSO DI LAUREA IN

OPERATORE DEL TURISMO CULTURALE

Autore

ALBERTO BOSCHI

STORIA DEL CINEMA


Tutti i diritti di traduzione, di adattamento e di riproduzione totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le
fotocopie) sono riservati per tutti i Paesi. Ogni permesso deve essere autorizzato per iscritto dal Direttore del C.A.R.I.D., Uni-
versità di Ferrara.
Sono autorizzate solamente, senza richiesta, brevi citazioni giustificate dal carattere scientifico e informativo dell'opera nella
quale sono inscritte.

Direttore del corso: Paolo Frignani, direttore del Centro di Ateneo


per la Ricerca, l’Innovazione Didattica e l’Istruzione a Distanza
Presidente del Corso di Laurea: Maria Bollini
Autore: Alberto Boschi, Università degli Studi di Ferrara.

L’edizione del presente volume costituisce parte integrante del Corso di Laurea
“Operatore del turismo culturale”.
Non è pertanto destinata a circolazione commerciale.

Gennaio 2005 – C.A.R.I.D.©


via Savonarola, 27 – 44100 Ferrara
Tel.: +39 0532 293439 – Fax: +39 0532 293412
E-mail: carid@unife.it
http://carid.unife.it

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PREMESSA
La presente unità didattica, rivolta agli studenti iscritti per l’a.a. 2004/2005 al secondo anno del Corso di laurea
triennale in Operatore del turismo culturale, si propone di integrare il manuale cartaceo Storia del cinema e dei film
di David Bordwell e Kristin Thompson (Il Castoro, Milano, 1998), incluso fra i testi per l’esame, attraverso
l’approfondimento di alcuni dei temi centrali relativi al programma del corso di Storia del cinema, incentrato per
quest’anno sul periodo compreso fra l’avvento del sonoro e la fine degli anni cinquanta.
Il primo capitolo prende in esame sul piano tecnologico, economico ed estetico la svolta epocale introdotta nella
storia del cinema dal passaggio dal muto al sonoro, analizzando la produzione americana ed europea del periodo
compreso fra il 1926 e il 1930. Il secondo capitolo definisce invece i tratti specifici di un genere cinematografico
fra i più tipici della produzione hollywoodiana anni trenta, la commedia romantica (sofisticata o screwball), attra-
verso l’analisi di uno dei suoi esemplari più significativi, il film Susanna (Bringing Up Baby, 1938) di Howard
Hawks. Il terzo capitolo si sofferma infine sulle ripercussioni degli eventi politici internazionali, dominati inizial-
mente dalla seconda guerra mondiale, poi dalla guerra fredda fra Stati Uniti e Unione Sovietica, sul cinema ameri-
cano degli anni quaranta e cinquanta.

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SOMMARIO
Premessa ......................................................................................................................................................................3

1. Dal muto al sonoro..................................................................................................................................................5


1.1. L’avvento del sonoro nel quadro della storia del cinema: un problema controverso ........................................5
1.2. I sistemi di sincronizzazione..............................................................................................................................7
1.3. La transizione, paese per paese..........................................................................................................................8
1.4. Limitazioni tecnologiche delle prime produzioni sonore ..................................................................................9
1.5. Modelli di film sonoro .....................................................................................................................................10
1.6. Il brusio delle lingue: plurilinguismo, versioni multiple, doppiaggio .............................................................12
1.7. Il destino dell’avanguardia ..............................................................................................................................14
1.8. Sperimentalismo “istituzionale” ......................................................................................................................15
1.9. Il dibattito estetico-teorico...............................................................................................................................16
1.10. La transizione al sonoro in America: cronologia ragionata ...........................................................................19
1.11. “Uncle Vitaphone Wants You” .....................................................................................................................22
1.12. Il muto negli anni del parlato.........................................................................................................................24
1.13. I generi classici del cinema hollywoodiano alla svolta del sonoro: un tentativo di inventario......................25
2. Susanna di Howards Hawks e la screwball comedy americana degli anni trenta ...........................................29
2.1. Il film ...............................................................................................................................................................29
2.2. La storia ...........................................................................................................................................................29
2.3. Il contesto ........................................................................................................................................................29
2.4. Analisi narrativa e tematica .............................................................................................................................32
2.5. Lo stile del dialogo ..........................................................................................................................................33
3. Cinema e politica a Hollywood dalla seconda guerra mondiale alla guerra fredda .......................................35
3.1. Il cinema americano e la seconda guerra mondiale .........................................................................................35
3.2. La lunga guerra fredda.....................................................................................................................................37
3.3. Inquisizione a Hollywood................................................................................................................................40
Bibliografia essenziale ..............................................................................................................................................46
1. Storie generali del cinema e singole cinematografie nazionali...........................................................................46
2. Sull’avvento del sonoro ......................................................................................................................................46
3. Su Howard Hawks, Susanna e la commedia hollywoodiana..............................................................................46
4. Dalla seconda guerra mondiale alla guerra fredda..............................................................................................46
Esercizi applicativi....................................................................................................................................................47

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1. DAL MUTO AL SONORO

1.1. L’avvento del sonoro nel quadro della storia del cinema: un problema controverso
Fenomeno per lungo tempo trascurato dagli studi sul cinema, nonostante il suo straordinario interesse storiografico,
negli ultimi 15 anni l’avvento del sonoro è divenuto l’oggetto di una lunga serie di lavori specifici, che hanno in
parte contribuito a colmare le lacune esistenti. Alcuni studi ne hanno considerato principalmente l’impatto econo-
mico e istituzionale (la guerra per i brevetti, la ristrutturazione dell’industria cinematografica in seguito
all’introduzione del suono, le pratiche distributive, la trasformazione delle sale), mentre altri si sono interessati
piuttosto alla sua dimensione tecnologica (le invenzioni e le ricerche che hanno reso possibile il film sonoro, i due
sistemi – ottico e fonografico – di registrazione, l’assetto dei teatri di posa, l’evoluzione delle tecniche di riprodu-
zione e manipolazione del suono), oppure all’impatto culturale in senso lato del passaggio dal muto al sonoro, con-
centrandosi in tal caso sul versante della ricezione invece che su quello della produzione (l’accoglienza riservata
dal pubblico e dalla critica ai primi talkies). Vi sono inoltre studi che si propongono di offrire un quadro complessi-
vo del fenomeno limitatamente a un dato paese, conciliando i suddetti orientamenti con un esame dei singoli pro-
dotti nazionali. Il ricercatore – o lo studente – intenzionato ad approfondire l’argomento può anche consultare i ca-
pitoli riservati all’avvento del sonoro dalle storie generali o nazionali del cinema, i cataloghi delle numerose rasse-
gne retrospettive dedicate agli anni della transizione e gli accurati repertori filmografici ormai disponibili per tutti i
principali paesi.
Tuttavia, la maggior parte di questi lavori, interessati principalmente – come avrebbe detto Christian Metz – al “ci-
nematografico non filmico”, dedica scarsissimo spazio tanto all’analisi testuale delle singole opere che a una valu-
tazione complessiva della specificità estetica e semiotica dei prodotti dell’epoca; specificità riconoscibile, eviden-
temente, soltanto in relazione a ciò che li precede (lo spettacolo muto ma non certo silenzioso anteriore
all’introduzione del suono riprodotto) e che li segue (il cinema classico degli anni Trenta), ovvero attraverso il du-
plice scarto rispetto alle convenzioni tecnico-stilistiche degli anni Dieci-Venti, modificate e in parte abolite, e a
quelle del film sonoro maturo, non ancora codificate ma in via di rapida fissazione.
Sintomatico, a questo proposito, è il fatto che il problema del valore da attribuire nell’evoluzione del linguaggio ci-
nematografico all’avvento del sonoro divida ancora gli studiosi. I protagonisti del dibattito classico, traumatizzati
dall’affermazione improvvisa del nuovo mezzo d’espressione, erano portati a enfatizzare la sua radicale novità ri-
spetto alla tradizione del muto. Su questo punto il più esplicito è senza dubbio Béla Balázs, che ancora nel 1949 so-
stiene: “Il film sonoro non è un’evoluzione organica del film muto, ma una nuova forma d’arte. La pittura non può
essere considerata una fase dello sviluppo del disegno. Con il suono è nata un’arte che ha leggi diverse e ottiene di-
versi effetti” [B. Balázs, Il film. Evoluzione ed essenza di un’arte nuova, Torino, Einaudi, 1975, p. 259]. Al contra-
rio i teorici e gli storici moderni tendono nel complesso a ridurre e a relativizzare la portata del fenomeno. Questa
inversione di tendenza si può datare con l’apparizione del celebre saggio L’evoluzione del linguaggio cinematogra-
fico (1955), dove André Bazin scrive:

Sarebbe opportuno chiedersi se la rivoluzione tecnica introdotta dalla pista sonora corrisponda vera-
mente a una rivoluzione estetica; se, in altri termini, gli anni 1928-30 siano effettivamente quelli della
nascita di un nuovo cinema. Infatti […] la storia del cinema non lascia apparire una soluzione di conti-
nuità così decisa come potrebbe credersi fra il muto e il sonoro. Al contrario si potrebbero scoprire pa-
rentele fra certi registi degli anni Venti e altri degli anni Trenta, e soprattutto del periodo 1940-50. […]
Ora, queste affinità più o meno nette provano innanzi tutto che è possibile gettare un ponte al di sopra
della fenditura degli anni Trenta, che certi valori del cinema muto permangono in quello parlato, ma
principalmente che, più che il muto al sonoro, si tratta di opporre, nell’uno e nell’altro, delle famiglie
di stili, delle concezioni radicalmente differenti dell’espressione cinematografica [A. Bazin, Che cosa
è il cinema?, Milano, Garzanti, 1973, p. 75].

Per Bazin queste famiglie sono due: quella dei cineasti che credono nell’immagine e quella dei cineasti che credono
nella realtà. Soltanto per i primi, ovvero per i fautori di un tipo di cinema fondato sulla plasticità dell’inquadratura e
sulle risorse del montaggio, l’avvento del sonoro ha rappresentato a suo avviso un evento realmente traumatico. Se
invece “si cessa di considerare il montaggio e la composizione plastica dell’immagine come l’essenza stessa del
linguaggio cinematografico, l’apparizione del suono non rappresenta più la linea di una frattura estetica che divide
due aspetti radicalmente differenti della settima arte” [Ibid., p. 80]. Al contrario, secondo Bazin, in una prospettiva
realista essa non poteva rappresentare per il cinema che un perfezionamento e un completamento: i cineasti della
realtà “attendevano il realismo sonoro come un naturale prolungamento” [Ibid., p. 90].
Per quanto nel complesso condivisibili, gli assunti di Bazin hanno esercitato – ci pare – un’influenza almeno in par-
te negativa sul dibattito successivo, in quanto hanno spinto la riflessione storiografica a minimizzare eccessivamen-

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te gli elementi di diversità esistenti sul piano formale fra i due mezzi di espressione o, peggio ancora, a ignorare to-
talmente il problema. In ogni modo, tra gli studiosi di cinema, l’idea di una continuità sostanziale ha preso a poco a
poco il posto di quella di una frattura radicale. Così, per esempio, invece della discriminante muto/sonoro, la sto-
riografia più recente preferisce evocare l’opposizione classico/primitivo. In maniera del tutto esplicita nel lavoro di
Bordwell, Steiger e Thompson sulla Hollywood classica e più implicitamente in quello di Burch sul periodo delle
origini, il cinema classico (o “istituzionale”) è presentato come un continuum coerente e omogeneo che ingloba
l’ultimo decennio del muto e i primi tre decenni del sonoro, delimitato temporalmente dal periodo primitivo in a-
pertura e da quello moderno in chiusura. Su questo punto David Bordwell non potrebbe essere più chiaro: “Il cine-
ma sonoro non fu un’alternativa radicale al cinema muto; il suono come tale, come materiale e come insieme di
procedimenti tecnici, fu inserito nel sistema già costituito dello stile classico hollywoodiano. Questo significa che
la tecnologia del suono fu resa interamente conforme alle norme del cinema muto” [D. Bordwell, The Introduction
of Sound, in D. Bordwell, J. Steiger, K. Thompson, The Classical Hollywood Cinema. Film Style and Mode of Pro-
duction to 1960, New York, Columbia University Press, 1985, riedizione: London, Routledge, 1988, p. 301].
A suo avviso fra lo stile del muto americano e quello del sonoro esistono “differenze di artifici stilistici (voce, lun-
ghezza dell’inquadratura, ritmo del montaggio, mobilità della macchina da presa), ma una sostanziale affinità fra i
sistemi (coerenza della causalità, dello spazio e del tempo). La transizione dal muto al sonoro fu solo questione di
trovare degli equivalenti funzionali: nuove tecniche apparvero, ma per assolvere alle stesse funzioni formali” [Ibid.,
p. 304]. In quest’ottica, a nostro avviso eccessivamente riduttiva, i movimenti di macchina divengono “equivalenti
funzionali” del montaggio, così come il sistema delle didascalie potrebbe essere inteso, retrospettivamente, come
un “equivalente funzionale” del dialogo sincrono. L’analisi di Bordwell ha senza dubbio il merito di mettere in
questione alcuni dei luoghi comuni storiografici più consolidati relativi all’avvento del sonoro, per esempio quando
afferma che non bisognerebbe sorprendersi dell’eccessiva lunghezza delle inquadrature dei primi film sonori, ma
piuttosto della loro relativa brevità. Egli infatti osserva che, in un’epoca cui le inquadrature avrebbero potuto tecni-
camente raggiungere i 10 minuti, la loro durata media superava in realtà raramente i 20 secondi. Questa sopravvi-
venza della prassi del montaggio ereditata dal cinema muto, nonostante gli ostacoli posti dalle riprese sonore, di-
mostrerebbe a suo avviso la continuità sostanziale fra i due sistemi. Il suo approccio, tuttavia, rischia di livellare
ogni differenza: fatta salva la constatazione inoppugnabile che nelle prime pellicole sonore i movimenti di macchi-
na sostituiscono i cambiamenti di inquadratura, resi più difficili dalla tecnologia del sonoro, resta da chiedersi se la
scoperta della continuità di ripresa, una delle caratteristiche più tipiche dei film di transizione, non introduca nel ci-
nema i germi di una nuova concezione dello spazio e del tempo, preparando il terreno agli esperimenti compiuti
negli anni Quaranta da Orson Welles e Alfred Hitchock, che apriranno a loro volta la strada alle estetiche del piano
sequenza imperanti a partire dalla fine degli anni Cinquanta.
Più sfumata è l’opinione di Noël Burch. Nel suo libro sulle origini del linguaggio cinematografico egli sostiene in-
fatti che il modello “istituzionale” raggiunge la sua maturità a partire dal 1917, ma precisa che il cinema sonoro,
pur restando entro i limiti del sistema di rappresentazione codificato nel decennio precedente, “contribuisce a fon-
dare un processo diegetico più completo e qualitativamente diverso da quello che il cinema muto aveva conosciuto
fino ad allora” [N. Burch, Il lucernario dell’infinito, Parma, Pratiche, 1994, p. 247]. Interrogato specificamente sul-
la questione nel corso di un’intervista, Burch si spinge oltre, affermando che il modo di rappresentazione del cine-
ma muto maturo e quello del cinema sonoro differiscono radicalmente. A suo parere ciò vale più per il contesto eu-
ropeo che per quello americano, ma anche il cinema hollywoodiano degli anni Venti presenta delle differenze so-
stanziali rispetto alla produzione del decennio successivo. “Nella maggior parte dei casi – osserva – questo cinema
non aveva certo pretese artistiche, era un mezzo d’espressione popolare, ma aveva realmente qualcosa a che fare
con il mimo, con il balletto, era davvero un’arte lirica. Trovo che assomigliasse molto, nel suo rapporto con il pub-
blico, all’opera italiana: era un’arte stilizzata, un’arte mimetica ma in maniera molto incompleta, dove il silenzio
era riempito dalla musica. […] Dunque credo che il film muto maturo, soprattutto europeo, sia profondamente di-
verso dal tipo di spettacolo che si è imposto con l’avvento del sonoro” [“Il cinema in quanto tale non è più al cen-
tro della mia riflessione”. Conversazione con Noël Burch, a cura di A. Boschi e A. Costa, in “Cinema & Cinema”,
n. 68, 1993, p. 14].
Continuità o frattura dunque? Evidentemente questa domanda cruciale non consente un giudizio categorico e uni-
voco in un senso o nell’altro: benché non esente dal rischio di una visione idealizzata e un po’ romantica dello spet-
tacolo muto, inteso come opera d’arte totale, la risposta di Burch appare dunque sensata. L’avvento del cinema so-
noro non comportò certo, come si temeva all’epoca, un totale azzeramento delle acquisizioni precedenti, e i fattori
di continuità fra i due periodi sono molti e innegabili. Del resto, nella maggior parte dei casi i film continuarono a
essere realizzati da registi, operatori e montatori “alfabetizzati” nel periodo del muto, che adattarono il loro baga-
glio di competenze alle esigenze del nuovo mezzo di espressione. Ci sembra tuttavia più produttivo – nel quadro di
una storiografia cinematografica intesa come storia delle forme – un approccio che ponga l’accento sui momenti di
discontinuità e di frattura, ovvero sui tratti peculiari che contraddistinguono i prodotti di transizione (come di altri
periodi), piuttosto che appianare ogni differenza in nome della teoria passe-partout degli “equivalenti funzionali” o

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di una tripartizione della storia del cinema (primitivo/classico/moderno) che appare oggi sempre più inadeguata e
richiederebbe urgentemente ulteriori segmentazioni.

1.2. I sistemi di sincronizzazione


Come è noto, gli esperimenti volti ad associare le immagini cinematografiche con dei suoni registrati sono antichi
quanto il cinema e si muovono, fin dal principio, in due diverse direzioni. Da una parte la sincronizzazione del film
con una colonna sonora incisa su disco e diffusa poi nella sala mediante un fonografo collegato al proiettore,
dall’altra il tentativo, assai più ambizioso, di impressionare il suono sullo stesso supporto dell’immagine. Speri-
mentato per la prima volta da Edison nel 1889, sei anni prima della data di nascita ufficiale del cinema, il sistema
fonografico fu già sfruttato commercialmente nel periodo primitivo grazie al Chronophone Gaumont, diffuso in
Francia fra il 1904 e il 1912, e ai numerosi procedimenti affini apparsi in Europa e in America negli stessi anni.
Brevettato nel 1912, l’apparecchio fu presente per almeno un decennio nelle sale parigine e riscosse successo in tut-
to il mondo fino alle soglie della Prima Guerra Mondiale. Per esso furono girate centinaia di phonoscènes che ri-
producevano canzoni, monologhi comici, scene d’opera e d’operetta. Gli anni 1909-1912 videro nascere ovunque
analoghi apparecchi per la sincronizzazione, come il Biophon in Germania, il Cinephone, il Vivaphone e molti altri
in Gran Bretagna, il Cameraphone (presentato già nel 1905) e la versione perfezionata del Kinetophonograph di E-
dison negli Stati Uniti.
Al contrario, se i primi esperimenti pionieristici di registrazione fotoelettrica risalgono all’inizio del secolo scorso
(il primo tentativo di registrazione ottica del suono cinematografico fu effettuato nel 1904 dal francese Eugene
Lauste, che ottenne un brevetto iniziale in Inghilterra nel 1908 e due anni dopo mise a punto un nuovo apparecchio
più perfezionato), il sistema fotografico, grazie al quale il suono è impressionato direttamente sulla pellicola sotto
forma di una traccia grafica a lato dell’immagine (la pista ottica), riconvertita poi in onde sonore da una cellula fo-
toelettrica posta all’interno del proiettore, non troverà un’applicazione commerciale che alla fine degli anni Venti,
con l’avvento del sonoro. Nonostante la Warner, per la serie di proiezioni pubbliche che a partire dal 1926 diedero
l’avvio alla rivoluzione del suono, utilizzasse il metodo Vitaphone, in cui la colonna sonora era incisa su dischi di
fonografo (sound on disc), il sistema su pellicola (sound on film), tecnologicamente più complesso ma anche più
pratico e soddisfacente nei risultati, finì per avere la meglio e all’inizio degli anni Trenta fu adottato dalla stessa
Warner, che scelse la variante Movietone. Questo metodo, utilizzato per i film della Fox già dal 1927, si avvaleva
di un sistema di registrazione a intensità (variable intensity system), cosicché la traccia grafica impressionata sulla
pellicola assumeva l’aspetto di una striscia di larghezza uniforme ma variabile nella trasparenza, mentre il proce-
dimento alternativo brevettato dalla R.C.A., detto Photophone, impiegava un sistema di registrazione verticale (va-
riable area system), che dava origine a una pista ottica con un bordo rettilineo e l’altro finemente frastagliato. Me-
todi affini furono messi a punto autonomamente durante gli anni Venti da ricercatori europei, come quello brevetta-
to dagli ingegneri danesi Axel Petersen e Arnold Poulsen intorno al 1925, in cui il suono era registrato con il siste-
ma ad area variabile su una seconda pellicola, separata da quella delle immagini, e, soprattutto il tedesco Tri-Ergon,
con pista ottica a intensità variabile.
Brevettato già nel 1918 da tre ingegneri tedeschi, Hans Vogt, Joseph Masolle e Joseph Engel, che dopo avere lavo-
rato autonomamente decisero di unire i propri sforzi, questo sistema fu acquistato inizialmente dall’UFA e ceduto
nel 1928 alla Tobis (abbreviazione di Tonbild Syndikat), un gruppo di nuova formazione nato dall’unione di poten-
ti società svizzere, olandesi e tedesche. Per assumere il controllo sui brevetti del cinema sonoro in Europa, nel 1929
la Tobis si associò alla sua più temibile concorrente, la Klangfilm, controllata da giganti dell’industria elettrica co-
me la AEG e la Siemens, dando vita alla Tobis-Klangfilm. In base a questo accordo alle due componenti della
holding spettavano rispettivamente la concessione delle licenze e la produzione delle apparecchiature. Non c’è da
sorprendersi che il potente cartello entrasse presto in conflitto con le società americane, altrettanto intenzionate a
imporre i propri brevetti al mercato europeo. Le ostilità furono aperte dalla Tobis, che riuscì a interrompere con
un’azione legale le proiezioni a Berlino del film Warner The Singing Fool (Il cantante pazzo, 1928) di Lloyd
Bacon, in quanto le apparecchiature Vitaphone utilizzate per l’occasione violavano il suo brevetto. Per tutta rispo-
sta la Motion Picture Producers and Distributors Association (MPPDA) bloccò la distribuzione dei film hollywoo-
diani in Germania e l’importazione di quelli tedeschi negli Stati Uniti. La situazione di stallo che si venne a creare
con l’embargo fu superata, come accade spesso in questi casi, attraverso una mediazione fra le due parti contenden-
ti, che il 22 luglio 1930 giunsero a un accordo per spartirsi il mercato mondiale. Gli americani acquisirono il con-
trollo su Canada, Australia, India e Unione Sovietica, mentre la Tobis-Klangfilm ottenne l’esclusiva per la Germa-
nia e per la Scandinavia (nonché, di fatto, per quasi tutta l’Europa centrale). Negli altri paesi del mondo, dove nes-
suna compagnia poteva detenere diritti esclusivi, il mercato restò aperto alla libera concorrenza.
Del tutto assente dalla guerra dei brevetti, la Francia utilizzò indifferentemente le apparecchiature americane
(R.C.A. e Western Electric) e quelle della Tobis-Klangfilm, che aprì perfino una filiale parigina, la Societé Françai-
se des Films Sonores Tobis, producendo alcuni dei più importanti film francesi dei primi anni del sonoro, tra cui
Sous les toits de Paris (Sotto i tetti di Parigi, 1930), Le Million (Il milione, 1931) e A nous la liberté (A me la liber-

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tà, 1931) di René Clair. Il tentativo di Léon Gaumont di contrastare i brevetti stranieri, proponendo un proprio si-
stema che utilizzava quello di Petersen e Poulsen (il Gaumont-Petersen-Poulsen), ebbe scarso successo: il procedi-
mento, utilizzato per la realizzazione di diversi film, tra cui L’Eau du Nil (1928), fu abbandonato per la sua ecces-
siva complessità. Una fortuna assai maggiore ebbe questo procedimento in Scandinavia, dove la danese Nordisk
Film, che ne aveva acquistato i diritti nel 1929, nel corso dei primi anni Trenta riuscì per vie legali a imporlo alla
Svezia, alla Finlandia e alla Norvegia (nonché, naturalmente, al proprio paese). In ottemperanza all’accordo del
1930, soltanto il 25 % del mercato britannico rimase accessibile alla Tobis-Klangfilm, mentre il restante 75 % fu
coperto dalle apparecchiature Western Electric (Vitaphone e Movietone) e R.C.A. (usate dalla British International
Pictures). In Italia, per le prime produzioni sonore realizzate nel 1930 dalla Cines, Stefano Pittaluga adottò il siste-
ma sound on film della R.C.A. (Photophone). Infine, nell’Unione Sovietica, totalmente emarginata dai sommovi-
menti che scuotevano l’industria cinematografica degli Stati Uniti e dell’Europa occidentale, gli ingegneri P. T. Ta-
ger e A. Shorin lavorarono autonomamente dal 1926 a due sistemi di sincronizzazione autoctoni che utilizzavano
entrambi il suono su pellicola, il Tagefon e lo Shorinfon. Il secondo fu impiegato in esterni con risultati tutt’altro
che eccellenti nel documentario Entuziazm o Simfonja Donbassa (1930) di Dziga Vertov, primo lungometraggio
sonoro realizzato in Russia.

1.3. La transizione, paese per paese


Entro quali date circoscrivere temporalmente il periodo della transizione dal muto al sonoro? Se la domanda venis-
se formulata a proposito del contesto americano la risposta sarebbe molto semplice: fra il 6 agosto 1926, data della
prima apparizione pubblica del sistema Vitaphone, al novembre del 1929, in cui viene distribuito l’ultimo film mu-
to realizzato a Hollywood, The Kiss di Jacques Feyder. Altrettanto semplice sarebbe definire ciò che, sul piano tec-
nologico, produttivo ed estetico, distingue i film realizzati in questi quattro anni da quelli che li precedono e che li
seguono. In primo luogo la convivenza di muto e sonoro, intesa non solo come circolazione di film muti provvisti
di didascalie e addizionati con musica postsincronizzata accanto a film parlati al 100 %, ma anche come ibridazione
di linguaggi, come commistione (o giustapposizione) dei due sistemi all’interno dello stesso prodotto (è il caso dei
cosiddetti part-talkies, su cui ritorneremo). In secondo luogo il loro carattere al tempo stesso primitivo e sperimen-
tale. Primitivo, perché questi prodotti esibiscono al tempo stesso le limitazioni tecnologiche delle prime apparec-
chiature sonore e le incertezze stilistiche di un linguaggio in formazione. Sperimentale, perché in essi molte figure
audiovisive destinate a diventare moneta corrente negli anni a venire (o al contrario condannate a una rapida obso-
lescenza), vengono appunto sperimentate per la prima volta. Del resto, nella nozione stessa di transizione è insita
l’idea di una sorta di interregno che si colloca fra l’esaurimento di una tradizione precedente e l’istituzione di un
nuovo codice o, se si preferisce utilizzare la terminologia burchiana, di un nuovo “modo di rappresentazione”.
Lo stesso si può dire all’incirca del contesto europeo, dove però la questione è complicata dal fatto che
l’acquisizione della nuova tecnica non si consuma nello stesso arco di tempo in tutte le cinematografie nazionali. In
Germania, l’unico paese provvisto di un’industria cinematografica in grado di competere sul piano tecnologico e
produttivo con quella americana, l’avvento del sonoro si compie all’incirca fra il 1929 e il 1931. L’UFA, che
nell’aprile del 1929 aveva stretto un accordo con la neonata Tobis-Klangfilm, optando per un sistema di sincroniz-
zazione tedesco, costruisce a tempo di record presso i suoi studi di Babelsberg un atelier per le riprese sonore im-
ponente e tecnologicamente all’avanguardia, il Tonkreuz, che assicurerà alla compagnia un ruolo guida nella pro-
duzione europea di film parlati. Il primo lavoro realizzato negli studi di Neubabelsberg, inaugurati davanti alla
stampa il 24 settembre del 1929, sarà Melodie des Herzens di Hanns Schwarz, presentato a Berlino il 16 dicembre
dello stesso anno. Questo film, in gran parte postsincronizzato, contiene pochissimi dialoghi ed esibisce invece una
partitura pressoché ininterrotta di rumori: invece di integrare i suoni alla narrazione, sembra che il regista (o chi per
lui) si sia preoccupato esclusivamente della loro accumulazione.
Il periodo compreso fra l’introduzione del suono e l’avvento del nazismo presenta un panorama in cui, accanto a
una serie di lavori di notevole impegno formale che proseguono la ricerca iniziata in Germania
dall’Espressionismo, dal Kammerspielfilm e dalla Nuova Oggettività durante il periodo del muto, come Abschied
(1930) di Robert Siodmak, Der blaue Engel (L’angelo azzurro, 1930) di Josef von Sternberg, Westfront 1918
(1930) di Georg W. Pabst, Berlin Alexanderplatz (1931) di Piel Jutzi o M (1931) di Fritz Lang, fiorisce una produ-
zione di genere talora altrettanto inventiva che negli episodi migliori non teme il confronto con quella americana
coeva – si pensi alle operette di Wilhelm Thiele, in particolare Die Drei von der Tankstelle (La sirenetta
dell’autostrada, 1930), e a Der Kongress tanzt (Il congresso si diverte, 1931) di Erich Charrell, forse gli unici film,
insieme a Le Million di René Clair, in grado di indicare una via europea alla commedia musicale.
Ugualmente al periodo compreso fra il 1929 e il 1931 si può circoscrivere il passaggio dal muto al sonoro in Gran
Bretagna, paese che affronterà la transizione con altrettanta sicurezza, seppure con risultati assai meno rilevanti sul
piano estetico di quelli ottenuti in Germania, grazie anche all’efficienza dei nuovi studi sonori di Elstree, aperti dal-
la British International Pictures nei pressi di Londra. Il ritardo tecnologico-produttivo della Francia è testimoniato
dal fatto che nessuno dei quattro film parlati al 100 % apparsi in questo paese nel 1929 fu realizzato sul territorio

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nazionale. Due di essi (Les Trois masques di André Hugon e La Route est belle di Robert Florey), benché di produ-
zione autoctona, furono girati in Inghilterra, mentre gli altri due (La Nuit est à nous di Henri Roussell e Le Mystère
de la Ville Rose di Louis Mercanton) non sono altro che le versioni in francese realizzate all’estero di due film stra-
nieri (ovvero, rispettivamente, il tedesco Die Nacht gehört Uns, di Carl Froelich, e il britannico At the Villa Rose, di
Leslie Hiscott). Questa debolezza, testimoniata anche dalla presenza diretta in Francia di case di produzione stra-
niere, come la Tobis e la Paramount, non impedirà al cinema sonoro nazionale di superare felicemente il periodo di
transizione nel corso dei primi anni Trenta. Se il primo lungometraggio sonoro prodotto in Italia, La canzone
dell’amore di Gennaro Righelli, presentato in anteprima il 7 ottobre 1930, non appare tecnologicamente e formal-
mente inferiore ad altri film parlati al 100 % realizzati in Europa lo stesso anno, bisogna attendere la metà del de-
cennio per vedere il cinema sonoro italiano entrare nella sua fase matura. I film sonori italiani apparsi nel 1930 so-
no soltanto quattro, ovvero, oltre a quello di Righelli, Corte d’assise di Guido Brignone, Nerone di Alessandro Bla-
setti e Napoli che canta/When Naples Sings di Mario Almirante, una coproduzione italo-britannica con musica,
canzoni ed effetti sonori ma totalmente priva di dialogo; l’anno successivo il numero sale a sedici, tra cui due film
muti postsincronizzati – Rotaie di Mario Camerini e Antonio da Padova di Giulio Antamoro – e Resurrectio di A-
lessandro Blasetti, realizzato prima di La canzone dell’amore ma distribuito soltanto nel maggio del 1931; ancora
nel 1932 i titoli sono soltanto diciotto, di cui due sono versioni di film tedeschi girate in Germania, mentre l’anno
successivo raddoppiano, raggiungendo le trentotto unità. I dati sono desunti dalla filmografia di F. Savio (Ma
l’amore no. Formalismo, propaganda e telefoni bianchi nel cinema italiano di regime. 1930-1943, Milano, Sonzo-
gno, 1975), che tuttavia non include i film realizzati dalla Paramount a Joinville, né quelli girati a Hollywood da
altre majors hollywoodiane (per esempio Il grande sentiero, versione italiana di The Big Trail, diretto da Raoul
Walsh per la Fox nel 1930).
Isolata tecnologicamente e produttivamente dall’occidente capitalistico, l’industria cinematografica dell’Unione
Sovietica, dove il primo lungometraggio di finzione sonoro Putëvka v zizn’ (Il cammino verso la vita) di Nikolaj
Ekk, fa la sua apparizione soltanto nel 1931, porterà a compimento con particolare lentezza la transizione al sonoro,
continuando a produrre film muti fino al 1935. Analoghi e maggiori ritardi si riscontrano ovviamente nei paesi mi-
nori, cosicché non è insolito incontrare in Europa tra il 1932 e il 1935, ovvero in un periodo in cui la produzione
sonora hollywoodiana (e quella delle principali cinematografie europee) aveva già superato totalmente il suo stadio
primitivo, dei prodotti che sul piano tecnico-stilistico presentano ancora caratteristiche tipiche dei film di transizio-
ne.

1.4. Limitazioni tecnologiche delle prime produzioni sonore


Non vi è forse periodo della storia del cinema in cui i rapporti fra possibilità (o impossibilità) tecnologiche e scelte
d’ordine estetico – ovvero, detto più brevemente, fra tecnica e stile – siano così stretti e vincolanti come negli anni
della transizione dal muto al sonoro. Senza alcuna pretesa di completezza, si prenderanno qui in esame i due incon-
venienti tecnologici destinati ad avere la maggiore ripercussione estetica nel periodo in questione.
In primo luogo le cineprese dell’epoca, concepite in funzione del cinema muto, erano estremamente rumorose, e
quindi il ronzio che emettevano rischiava di essere captato dai microfoni disposti sul set. Per risolvere questo pro-
blema, si rinchiuse inizialmente l’apparecchio, insieme all’operatore, all’interno di una pesante cabina insonorizza-
ta, dalla quale, attraverso una finestra rettangolare ricoperta da una spessa lastra di vetro, veniva ripresa la scena. In
tali condizioni, a meno che non si ricorresse alla postsincronizzazione del suono, era impossibile sia effettuare mo-
vimenti di macchina relativamente complessi e di una certa estensione che spostare ripetutamente la cinepresa in
modo da realizzare in un secondo tempo un montaggio di inquadrature riprese da diverse angolazioni. Tanto più
che a quell’epoca si usava registrare le sequenze di dialogo in presa diretta in assoluta continuità, senza alcuna in-
terruzione. Alfred Hitchcock, che aveva già girato in versione muta una parte consistente di Blackmail (1929) pri-
ma che la produzione decidesse di trasformarlo in un film sonoro, allo scopo di rendere più dinamici i dialoghi uti-
lizzò in fase di montaggio numerose inquadrature mute, che dovevano essere dell’esatta lunghezza delle porzioni di
pellicola sonora che venivano a sostituire per mantenere il sincronismo. Tuttavia la soluzione di gran lunga più dif-
fusa negli studi era quella di riprendere ogni scena parlata impiegando simultaneamente due o più macchine da pre-
sa situate in posizioni diverse rispetto agli interlocutori, in modo tale da poter variare l’angolazione e la distanza
delle inquadrature in sede di montaggio, alternando per esempio campi lunghi e piani ravvicinati degli interpreti.
Nel corso degli anni Trenta si costruirono cineprese più silenziose, si idearono involucri più leggeri e meno ingom-
branti (i cosiddetti blimps) e si cominciarono a utilizzare microfoni direzionali, in grado di selezionare
nell’ambiente solo i suoni desiderati, cosicché la macchina da presa poté riacquistare almeno in parte la mobilità di
cui aveva goduto nel periodo del muto.
Il secondo grave inconveniente derivava dal fatto che la tecnologia del missaggio, benché fosse già nota in America
nel 1929, nei primi anni Trenta restava preclusa alla grande maggioranza degli studi sonori. Inizialmente era quindi
impossibile assemblare sulla stessa colonna sonora, non solo in senso lineare, ma anche sul piano della simultanei-
tà, parole, musica o rumori emessi e registrati in luoghi e in momenti diversi. Ciò significa che se si impiegava la

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presa diretta si era costretti a produrre tutti i suoni necessari a una scena simultaneamente alle riprese. Le complica-
zioni che comportava questa prassi sono esemplificate molto bene da un passaggio di John Russell Taylor che de-
scrive la realizzazione di una sequenza del film di Alfred Hitchcock Juno and the Paycock (1930), fedele trasposi-
zione cinematografica di un dramma di Sean O’Casey:

C’è una scena in cui i membri della famiglia chiacchierano animatamente nel soggiorno, tutti eccitati intorno al
grammofono nuovo e dimentichi del fatto che il figlio, immerso nello sconforto, è andato a rannicchiarsi vicino al
caminetto. La conversazione è interrotta da un funerale che passa per la strada, e poi da colpi d’arma da fuoco, e nel
frattempo la macchina da presa passa da un campo lungo della stanza e della famiglia a un primissimo piano del
ragazzo colpevole vicino al caminetto. Abbastanza facile, si direbbe, con l’odierna tecnica di ripresa. Quello che si
dimentica, però, è che quando il film fu realizzato tutto il sonoro doveva essere prodotto e registrato sul posto. Per-
ciò, nell’ambito del piccolo palcoscenico, dovevano esserci un grammofono che suonava una certa canzone irlan-
dese, il suono dell’inno mariano cantato dalle persone al seguito del funerale, i colpi d’arma da fuoco e la conver-
sazione della famiglia. Purtroppo, per complicare le cose, non si poté trovare un disco della canzone indicata nel
testo, cosicché anche questa si dovette suonare sul set. Di conseguenza, oltre agli attori e la troupe dei tecnici, erano
presenti una piccola orchestra senza bassi per simulare i suoni argentini in distanza, un cantante che cantava la can-
zone stringendosi il naso con le dita per imitare il suono nasale di un grammofono, un effettista pronto per il rumo-
re di mitragliatrice e un coro di una ventina di persone per rappresentare il funerale: il tutto da sincronizzare col
dialogo, con le variazioni di volume necessarie ogni volta che la finestra veniva aperta o chiusa [J. R. Taylor, Hitch,
Milano, Garzanti, 1980, pp. 122-123].

Dall’assenza del missaggio dipendono alcune caratteristiche tipiche del sonoro dei film di transizione. Per esempio
la scomparsa nella maggior parte dei film parlati della musica extradiegetica (di accompagnamento), che per essere
presente avrebbe dovuto essere eseguita simultaneamente alle riprese da un’orchestra nascosta dietro le scenogra-
fie. Oppure il montaggio brusco, senza dissolvenze, della colonna sonora, con tagli netti fra una sequenza e l’altra
della musica e del rumore. E ancora il carattere lineare, “monodico”, che contraddistingue il suono di molti film di
transizione: esemplari sono a questo proposito Sous les toits de Paris di René Clair e, soprattutto, Dezertir (1933)
di Vsevolod Pudovkin, dove le tre componenti della colonna sonora (dialogo, musica e rumori) si avvicendano
l’una all’altra senza intervenire mai contemporaneamente.
Queste e altre limitazioni tecnologiche, come l’iniziale fissità dei microfoni, che riduceva fortemente la mobilità
dei personaggi sul set, e la difficoltà di girare con la presa diretta del suono in esterni, che costringeva l’azione dei
primi film sonori entro i limiti angusti di scenografie ricostruite spesso poveramente in studio, se non provocarono
un totale azzeramento delle acquisizioni tecnico-stilistiche del cinema muto, riportarono indubbiamente il film,
seppure parzialmente e per brevissimo tempo, a uno stadio in qualche modo primitivo e, per così dire, “pregramma-
ticale”. La ripresa ritornava a essere, come nel cinema delle origini, registrazione passiva e statica di un evento pro-
filmico inscenato davanti alla macchina da presa ed esistente indipendentemente da essa, ma reso ancor più auto-
sufficiente e completo dalla presenza del suono sincrono.

1.5. Modelli di film sonoro


L’alternativa tecnologica fra presa diretta del suono e postsincronizzazione, che, diversamente valorizzata ed enfa-
tizzata sul piano estetico e perfino ideologico nel corso dei decenni, accompagnerà tutta la storia a venire del cine-
ma sonoro, riveste già un’importanza capitale negli anni della transizione. A Hollywood, fra il 1926 e il 1929, il ra-
pido processo di acquisizione della nuova tecnica da parte della produzione cinematografica americana si era mos-
so in due diverse direzioni: da una parte la distribuzione di film muti sincronizzati a posteriori con un accompa-
gnamento orchestrale arricchito da effetti sonori, dall’altra la registrazione della parola, dei rumori e della musica
simultaneamente alle riprese, inizialmente limitata a brevi performance musicali eseguite da strumentisti e da can-
tanti (i primi shorts Vitaphone e i numeri di Al Jolson in The Jazz Singer) o a sequenze di dialogo inserite
all’interno di pellicole per il resto girate senza suono (i film part-talking, ovvero parzialmente parlati), quindi estesa
all’intera colonna sonora (i film all-talking, parlati al 100 %, apparsi a partire dal 1928). Tuttavia, se in un primo
periodo le due alternative convivono, non vi è dubbio che la piena affermazione del cinema sonoro coincida ovun-
que – e non solo in America – con l’adozione pressoché generalizzata della presa diretta. Infatti la postsincronizza-
zione, che avrebbe consentito di risolvere alcuni degli inconvenienti causati dall’introduzione del suono (la difficol-
tà di registrare in esterni e, soprattutto, di spostare la cinepresa sul set), in quegli anni era ancora sentita come un
mero espediente per garantire un mercato agli ultimi film muti, superati dall’avanzata dei talkies. Si è tentati, e a
ragione, di vedere in questa scelta l’effetto di un pregiudizio ispirato a un realismo molto ingenuo e smentito di lì a
poco dal successo universale della prassi del doppiaggio: l’idea che soltanto la presa diretta possa garantire un sin-
cronismo soddisfacente fra suono e fonte e, soprattutto, fra corpo e voce. Ma la consuetudine di registrare ogni
suono simultaneamente alle riprese ha a che fare soprattutto con una grave limitazione tecnologica che fra la fine

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degli anni Venti e l’inizio dei Trenta affligge, come si è visto, gli studi sonori: l’assenza del missaggio, ovvero
l’impossibilità di praticare qualsiasi opzione intermedia fra i due procedimenti (per esempio un dialogo registrato in
presa diretta e missato poi con effetti sonori di repertorio e un accompagnamento musicale, come accadrà spesso in
seguito) e più in generale di manipolare e assemblare artificialmente il suono in fase di postproduzione.
In Europa, così come in America, i film realizzati negli anni della transizione si possono comunque classificare in
base all’alternativa fra presa diretta del suono e postsincronizzazione. Infatti fra il 1929 e il 1931 incontriamo un
po’ ovunque tre tipi diversi di prodotti: 1) film girati interamente muti e sincronizzati in un secondo tempo con mu-
sica di accompagnamento ed effetti sonori registrati separatamente; 2) film parzialmente parlati, ovvero prodotti
ibridi caratterizzati dall’alternanza fra sequenze mute in cui le battute pronunciate dai personaggi sono riportate in
didascalia, secondo la convenzione del cinema muto, e sequenze pienamente sonore con dialogo sincrono registrato
in presa diretta; 3) film interamente parlati.
Fra i prodotti completamente postsincronizzati si può citare Le Collier de la Reine (1929) di Gaston Ravel, uno dei
primi film sonori distribuiti in Francia, di cui ci rimane purtroppo solo un breve frammento. Provvisto di una co-
lonna sonora registrata con il procedimento Tobis-Klangfilm che prevedeva, oltre a musica e rumori, alcune parti
cantate, il film sfruttava le risorse del dialogo (postsincronizzato anch’esso) soltanto in un alcuni brevi passaggi. Un
altro esempio interessante è la versione sonorizzata del film muto di Mario Camerini Rotaie, distribuita in Italia nel
1931, dove, nella parte iniziale, la musica di accompagnamento è sostituita interamente dal rumore del treno su cui
viaggiano i due protagonisti. Un discorso a parte richiederebbe il primo lungometraggio sonoro tedesco, Melodie
der Welt (Melodia del mondo) realizzato nel 1929 da Walter Ruttmann, sulla cui figura si ritornerà nella sezione
dedicata all’avanguardia. Estensione audiovisiva del documentarismo sinfonico inaugurato dal regista nel periodo
del muto con Berlin. Die Symphonie der Groβstadt (1927), questo film, che coglie in un vasto affresco l’attività
quotidiana del mondo, si compone quasi esclusivamente di immagini mute accompagnate da una partitura orche-
strale e da numerosi effetti sonori (rumori), per la maggior parte postsincronizzati, e utilizza in pochi brevi passaggi
la presa diretta del suono.
Fra i prodotti parzialmente parlati si possono citare per l’Inghilterra Kitty (1929) di Victor Saville e per la Francia
Le Requin (1929) di Henri Chomette. Uscito in versione muta nel gennaio del 1929, il film di Saville fu trasformato
poi in un part-talking con l’aggiunta nell’ultimo rullo di alcune sequenze di dialogo registrato in presa diretta, e di-
stribuito in tale forma nel giugno dello stesso anno. Nella versione sonora salta agli occhi soprattutto il contrasto fra
la parte muta, girata con sicuro mestiere in ambienti reali o in scenografie ben curate, e quella con il suono diretto,
rigirata interamente in studio davanti a un décor vistosamente posticcio e penalizzata dalla totale fissità della mac-
china da presa. Anche in Le Requin il dialogo sincrono interviene soltanto nella parte finale, mentre il resto è com-
posto da immagini mute intercalate da didascalie e accompagnate da un commento orchestrale postsincronizzato,
con in più molti effetti sonori e qualche incongruo episodio di canto, nello stile della commedia musicale. Il regista
Chomette si dimostra però assai più a suo agio del suo collega britannico nell’impiego del suono diretto, come mo-
stra la sequenza conclusiva, resa dinamica dal montaggio e da numerosi movimenti di macchina.
Un discorso a parte richiedono per opposte ragioni Blackmail di Alfred Hitchcock e Sous les toits de Paris di René
Clair. Il primo perché, nonostante sia anch’esso fondato sull’alternanza di lunghe sequenze mute e di scene di dia-
logo registrato in presa diretta, riesce, grazie a un uso sapiente del montaggio e alla totale soppressione delle dida-
scalie, a dissimulare almeno in parte la discontinuità stilistica e semiotica, l’ibridazione fra muto e sonoro, che con-
traddistingue i prodotti parzialmente parlati dell’epoca (pubblicizzato come “the first full lenght all talkie film ma-
de in Great Britain”, Blackmail fu proiettato per la prima volta a Londra il 21 giugno 1929; del film esiste anche
una versione muta a uso delle sale non ancora attrezzate per il sonoro, distribuita nell’agosto dello stesso anno). Il
secondo perché in esso, al contrario, la discontinuità del dialogo appare il frutto di una scelta estetica consapevole.
Infatti il regista francese, interessato alle risorse del sonoro ma avverso alla centralità della parola tipica dei primi
prodotti interamente parlati, si compiace di mostrarci i personaggi che muovono le labbra senza proferire verbo
come nel cinema muto, utilizzando ostacoli talora diegeticamente motivati (come la porta a vetri di un caffè o
l’orchestrina di una sala da ballo), talora del tutto arbitrari (la musica di accompagnamento) per coprire le intera-
zioni verbali.
Una pellicola che esibisce tutti i difetti dei talkies primitivi è Les Trois masques (1929) di André Hugon. Primo
film parlato al 100% di produzione francese, ci appare oggi terribilmente arcaico, con le sue lunghe sequenze in in-
terni di derivazione teatrale, separate l’una dall’altra mediante dissolvenze in nero, e i rari esterni poveramente ri-
costruiti in studio. Durante il dialogo gli interlocutori sono quasi sempre compresenti sullo schermo, ripresi per lo
più in figura intera, piano americano o mezzo primo piano da una cinepresa praticamente immobile. Rarissimi sono
i primi piani e i movimenti di macchina, limitati a panoramiche impercettibili effettuate per mantenere in campo i
personaggi quando si spostano sul set. Il divario tecnologico ed estetico che separa le prime produzioni parlate
francesi da quelle tedesche salta agli occhi confrontando il film di Hugon (girato, come si è detto, in Inghilterra, dal
momento che nel 1929 la Francia non disponeva ancora di uno studio attrezzato per il sonoro) con Die Nacht ge-
hört Uns (La notte è nostra) di Carl Froelich, uscito lo stesso anno. Realizzato anche in versione francese, secondo

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una consuetudine produttiva tipica del periodo di transizione che verrà discussa nel paragrafo seguente, questo film
è uno dei primi all-talking prodotti in Germania e si segnala per la sicurezza con la quale il regista padroneggia il
nuovo mezzo, riuscendo a conciliare le esigenze della presa diretta del suono con una certa mobilità, grazie a un a-
bile dosaggio fra dialogo sincrono in interni e scene in esterni (le sequenze delle corse automobilistiche), caratteriz-
zate da un montaggio dinamico e, sul piano sonoro, dal predominio dei rumori.

1.6. Il brusio delle lingue: plurilinguismo, versioni multiple, doppiaggio


Uno dei problemi più gravi che l’industria cinematografica si trovò a dover risolvere con urgenza in seguito alla ra-
pida affermazione del film parlato al 100% era quello delle differenze linguistiche, che restringevano in linea di
principio la circolazione di un film alle sale del paese di produzione. In particolare le majors hollywoodiane, che
all’epoca del muto avevano ricavato una parte consistente dei loro proventi da una massiccia presenza sul mercato
internazionale, non volevano rinunciare a distribuire i propri prodotti nei paesi non anglofoni.
La soluzione più semplice ed economica, ma anche meno soddisfacente, per rendere un film sonoro fruibile oltre i
confini del paese d’origine era quella del plurilinguismo. Così, per esempio, Das Land ohne Frauen (1929) di Car-
mine Gallone, un part-talking di produzione Tobis, comprendeva dialoghi inglesi e tedeschi, nonché una canzone
in francese. Fra i prodotti dell’epoca che utilizzano una colonna sonora bilingue si possono citare Kameradschaft
(La tragedia della miniera, 1931) di Georg W. Pabst, che racconta un episodio di solidarietà fra minatori francesi e
tedeschi, e Allo Berlin, ici Paris (1931) di Julien Duvivier, in cui l’incontro fra una telefonista parigina e un collega
berlinese offriva al regista francese il pretesto narrativo per inscenare una vicenda comprensibile, seppure parzial-
mente, al pubblico di entrambi i paesi. Si può notare, per inciso, la singolare frequenza nei primi anni del sonoro di
film ambientati in territori di confine e incentrati sullo scontro fra diversi gruppi etnici, come Two Worlds (GB,
1930) di Ewald A. Dupont, un melodramma sull’antisemitismo che racconta l’amore impossibile fra un ufficiale
austriaco e un’ebrea polacca, lo straordinario Rapt (Svizzera, 1933) di Dimitri Kirsanov, che mette in scena il con-
flitto fra una comunità di pastori vallesi (francofoni) e gli abitanti di un villaggio di lingua tedesca, o il semiscono-
sciuto Marijka Nevernice (Cecoslovacchia, 1934) di Vladislav Vancura, in cui si parla ceco, slovacco e yiddish.
Assai più efficace, ma anche estremamente macchinosa, era la prassi di girare versioni in diverse lingue di uno
stesso film, che conobbe una straordinaria popolarità nel periodo compreso fra il 1929 e il 1931. Tra i primi espe-
rimenti in questo campo vi sono quelli delle majors hollywoodiane, che dal 1929 cominciarono a produrre versioni
in lingua straniera di alcuni film sonori americani, rigirando tutte le scene di dialogo con attori diversi. Il passo suc-
cessivo fu l’apertura nel 1930 a Joinville, nei dintorni di Parigi, di uno studio della Paramount destinato alla produ-
zione di versioni europee di film girati a Hollywood dalla casa madre. Diretti dal produttore Robert T. Kane, gli
studi di Joinville iniziarono la loro attività con Un Trou dans le mur di René Barberis, girato in tre versioni e appar-
so in Francia nel giugno del 1930. Dopo la fine del 1931 la Paramount francese si limitò a produrre pellicole in una
sola versione (francese o, eccezionalmente, spagnola). Secondo la prassi produttiva adottata qui, come altrove, le
scene d’azione o comunque sprovviste di dialogo (per esempio gli esterni) restavano identiche in ciascuna versione,
mentre le parti parlate (ovvero il grosso del film) venivano rigirate tante volte quante le versioni previste, avvicen-
dando sul medesimo set compagnie di attori di nazionalità diversa. Spesso al regista principale era affiancato in cia-
scuna versione un secondo regista della stessa nazionalità degli attori, incaricato di dirigere il dialogo.
Difficile una stima attendibile, ancorché approssimativa, dei prodotti realizzati in questo modo. Poiché un inventa-
rio complessivo non è ancora stato fatto, per cercare di farsi un’idea dell’entità del fenomeno non resta che consul-
tare i repertori filmografici relativi alle principali cinematografie nazionali, come quello di Raymond Chirat per la
Francia [Histoire du cinéma français. Encyclopédie des films. 1929-1934, Paris, Ed. Pygmalion/Gérard Watelet,
1988]. Limitatamente al triennio 1929-1931, i film parlati in francese che secondo la suddetta filmografia prevede-
vano versioni in altre lingue sono circa 120: un numero davvero considerevole se si pensa che per lo stesso periodo
i titoli inventariati da Chirat sono in tutto 263. Se cerchiamo di ripartire questi film in base alla loro origine nazio-
nale (operazione resa difficile dai dati spesso insufficienti forniti dal volume e dalla presenza di numerose coprodu-
zioni internazionali), ci accorgiamo che si tratta nella maggior parte dei casi di versioni francofone di film girati
all’estero, o comunque di produzione straniera, circostanza che la dice lunga sulla debolezza dell’industria cinema-
tografica francese nei primi anni del sonoro. Un’ulteriore ripartizione pone al primo posto la Germania con quasi
una cinquantina di titoli, seguita a brevissima distanza dagli Stati Uniti (43 film, di cui 21 girati a Joinville dalla Pa-
ramount e i restanti realizzati a Hollywood dalle altre majors). Lo scarso numero delle versioni prodotte in Gran
Bretagna (neppure una decina) dimostra il primato assoluto dell’industria americana e tedesca in questo genere di
produzioni. Il contributo degli altri paesi europei (limitato a Francia, Svezia e Italia) si rivela, com’era prevedibile,
del tutto marginale.
Un panorama completamente diverso risulta da un censimento dei film parlati apparsi nello stesso periodo in Ger-
mania. Consultando il primo volume, relativo al biennio 1929-1930, della monumentale filmografia di U. J. Klaus
[Deutsche Tonfilme. Lexicon der abendfüllenden und deutschsprachigen Spielfilme. 1929-1945. I. Jahrgang 1929-
1930, Berlin, Ulrich J. Klaus Verlag, 1988], constatiamo infatti che il numero dei film realizzati in diverse versioni

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si aggira intorno alla trentina, ovvero circa un quinto del totale, e che di essi soltanto 13 sono di produzione stranie-
ra (per l’esattezza: 6 inglesi, 4 americani, 2 svedesi e 1 francese). Poiché la maggior parte dei film girati in diverse
lingue, come si evince anche dal repertorio di Klaus, prevedeva una versione in francese, una stima complessiva di
tali produzioni non dovrebbe discostarsi eccessivamente dalla cifra deducibile dalla filmografia di Chirat. Si può
quindi ipotizzare che per il periodo 1929-1931 il loro totale non superi di molto le 150 unità (numero che, natural-
mente, dovrebbe essere almeno triplicato se si volesse includere nel computo ogni singola versione). Non bisogna
però dimenticare che tale prassi produttiva, seppure in modo marginale e limitatamente ad alcuni paesi, sopravvisse
ben oltre il 1931. Tra gli esempi più tardivi si possono citare L’Homme de nulle part/Il fu Mattia Pascal (1937) di
Pierre Chenal e Le Capitain Fracasse/La maschera sul cuore (1942) di Abel Gance, girati entrambi in Francia in
duplice versione.
Ovviamente i metodi di lavorazione adottati a Joinville non andavano a vantaggio della qualità dei prodotti, che ri-
sultavano assai più poveri e abborracciati sia degli originali americani che – in molti casi – dei film sonori “autoc-
toni” coevi. La Paramount francese ebbe vita effimera, ma sfornò fra il 1930 e il 1931 quasi una ottantina di film
parlati nelle principali lingue europee (francese, tedesco, spagnolo, italiano, portoghese, svedese, ceco, polacco,
rumeno), servendosi talora dell’apporto di registi di talento, come l’ex cineasta d’avanguardia Alberto Cavalcanti.
Inoltre non va dimenticato che furono proprio gli studi di Joinville a produrre uno dei film più importanti apparsi in
Francia nei primi anni del sonoro, Marius (1931), trasposizione diretta da Alexander Korda del primo episodio del-
la trilogia marsigliese di Marcel Pagnol. Il calcolo del numero esatto dei film distribuiti in più versioni pone un
problema metodologico di non facile soluzione. Dobbiamo intendere le versioni in lingue diverse realizzate a parti-
re da una stessa sceneggiatura come opere autonome, includendole tutte nel computo, o piuttosto considerarle sol-
tanto come occorrenze diverse di un unico tipo? Se in teoria la seconda soluzione parrebbe più ragionevole, di fatto
le differenze esistenti fra le versioni di uno “stesso” film sono spesso troppo consistenti per poter essere considerate
come semplici varianti di un medesimo testo. In un caso, comunque, i film realizzati dalla Paramount a Joinville
nel biennio 1930-1931 sarebbero solo 21, mentre nell’altro il loro numero salirebbe a 77 (per l’esattezza: 20 in
francese, 14 in svedese, 13 in spagnolo, 11 in tedesco, 7 in italiano, 3 in portoghese, 3 in ceco, 3 in polacco, 2 in
ungherese e 1 in rumeno).
Parallelamente, anche i paesi europei con l’industria cinematografica più solida e tecnologicamente avanzata co-
minciarono a realizzare film in diverse versioni. A contendersi il primo posto troviamo naturalmente le majors hol-
lywoodiane e l’industria tedesca, seguite a una notevole distanza dalla Gran Bretagna, ma i primi anni Trenta vedo-
no impegnate, seppure marginalmente, in questo tipo di produzione anche altre cinematografie meno potenti, come
quella francese, svedese o italiana. Ricordiamo qui che il nostro primo film sonoro, La canzone dell’amore, fu rea-
lizzato anche in due versioni straniere (tedesca e francese), girate entrambe in Italia e intitolate rispettivamente Lie-
beslied e La Dernière berceuse. Se i nuovi studi sonori allestiti dall’UFA a Neubabelsberg si imporranno rapida-
mente, accanto a quelli di Joinville, come il secondo centro mondiale per questo genere di produzioni, è
all’industria britannica che va riconosciuto il merito – o il demerito – di avere adottato per prima una simile prassi
realizzativa. Infatti il film Atlantic (1929), diretto dal regista tedesco Ewald A. Dupont ma prodotto dalla British
International Pictures negli studi di Elstree, fu girato in tre lingue – inglese, tedesco e francese – e la sua uscita pre-
cedette di alcuni mesi quella dei primi esemplari di produzione americana e tedesca (Dupont diresse subito dopo
altri due film di produzione inglese girati in tre versioni, Two Worlds/Zwei Welten/Les Deux mondes, del 1930, e
Cape Forlorn/Menschen im Käfig/Le Cap perdu, del 1931). Ispirata alla tragedia del Titanic, questa superprodu-
zione britannica mostra molto bene le identità e le discordanze che intercorrevano fra una versione e l’altra dello
stesso film. Le riprese più spettacolari, che descrivono le varie fasi del naufragio affidandosi all’immagine e al suo-
no non verbale piuttosto che al parlato, sono ovviamente le stesse in tutte e tre le pellicole, mentre le sequenze di
dialogo che si svolgono all’interno della nave presentano differenze notevoli dovute alla sceneggiatura e alla perso-
nalità degli interpreti. In particolare la versione francofona, i cui dialoghi furono girati in un secondo tempo sotto la
direzione di un regista francese, Jean Kemm, si distingue notevolmente dalle altre due (realizzate invece simultane-
amente) sia nelle battute pronunciate dagli attori che nella caratterizzazione stessa dei personaggi.
Soltanto le resistenze iniziali dell’industria cinematografica nei confronti della prassi del doppiaggio possono spie-
gare la fortuna effimera, ma non per questo meno significativa, di una consuetudine così complessa e dispendiosa.
Resistenze dovute a ragioni d’ordine tecnologico, ma anche, come si già è detto, di natura “ideologica”. Infatti,
l’inesperienza nella sincronizzazione a posteriori del dialogo, aggravata da alcune oggettive limitazioni tecniche (in
particolare l’assenza del tavolo di missaggio, strumento indispensabile per la postsincronizzazione), ha spinto cer-
tamente la produzione dell’epoca ad adottare in un primo momento delle soluzioni alternative, sviluppando al tem-
po stesso le sperimentazioni in questo campo, ma è altrettanto indubbio che gli anni della transizione al sonoro so-
no caratterizzati da una sopravvalutazione estetica del suono diretto, considerato all’epoca il solo procedimento in
grado di assicurare un sincronismo perfetto fra le parole pronunciate e il movimento delle labbra dell’attore, e dun-
que di produrre l’illusione di un’unità organica fra corpo e voce. Vi era insomma l’idea forse ingenua, ma giustifi-
cata storicamente, che il vero interesse del nuovo mezzo consistesse nella facoltà di riprodurre l’atto di parola nella

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pienezza della sua dimensione audiovisiva, e non già di associare in maniera più o meno arbitraria dei suoni a delle
immagini mute. Comunque sia, nel periodo di transizione era prassi corrente sonorizzare gli ultimi film silenziosi
con un accompagnamento musicale e un gran numero di effetti sonori diegetici, che richiedevano un sincronismo
assai meno rigoroso, mentre era più difficile che si aggiungessero a posteriori battute di dialogo. Sintomatica, a
questo proposito, è l’opzione di Alfred Hitchcock, che, costretto a sostituire la voce della protagonista di Blackmail
– l’attrice austriaca Anny Ondra, il cui inglese era viziato da un forte accento tedesco – invece di utilizzare il dop-
piaggio ricorse a un singolare espediente: inquadrata dalla macchina da presa, la star del film si limitava a muovere
le labbra in sincronismo con le battute pronunciate fuori campo da una seconda attrice inglese, captate in presa di-
retta dal microfono.
Se i primi esperimenti di doppiaggio, effettuati a Hollywood, risalgono al 1929, la consuetudine di sostituire il par-
lato originale di un film con un dialogo in lingua straniera, lungi dall’affermarsi immediatamente, prenderà piede
soltanto dopo il 1932, di pari passo con il declino della prassi delle versioni multiple. In tal senso Prix de beauté
(Miss Europa, 1930), girato in Francia senza suono alla fine del 1929 dal regista italiano Augusto Genina e distri-
buito sia in versione muta che con dialogo in quattro lingue diverse (francese, inglese, tedesco e italiano), costitui-
sce un esempio pionieristico e del tutto eccezionale per il periodo storico in cui è stato realizzato. Pur nella sua im-
perfezione primitiva, il doppiaggio della copia in francese appare tutto sommato accettabile nelle interazioni verbali
di una certa estensione fra pochi interlocutori e in interni, mentre gli scambi di battute fra più personaggi in esterni
risultano sincronizzati in maniera assai più grossolana e non riescono ad aderire in maniera convincente alle imma-
gini, restando, per così dire, a mezz’aria. Quanto ai rumori, ve ne sono in abbondanza, ma si trovano quasi som-
mersi da una partitura orchestrale invadente, che, fedele alle consuetudini in uso nel cinema muto, accompagna
senza soluzione di continuità la successione delle inquadrature.

1.7. Il destino dell’avanguardia


L’avvento del sonoro è senza dubbio tra i fattori a cui va imputato il rapido declino della produzione d’avanguardia
fiorita nell’ultimo decennio del muto. Fenomeno che non interessa soltanto le sperimentazioni più radicali, legate
strettamente ai movimenti artistici attivi in Europa nello stesso periodo e del tutto estranee alle consuetudini esteti-
che ed economico-produttive dell’industria cinematografica (per esempio i lavori di artisti come Hans Richter, Fer-
nand Léger, Man Ray o Marcel Duchamp), ma anche, più in generale, i film di quei registi che, pur muovendosi
sugli stessi binari del cinema narrativo istituzionale, coltivavano con impegno costante la sperimentazione formale
(come in Francia Marcel L’Herbier o Abel Gance). Infatti l’introduzione del suono determina un profondo muta-
mento nell’assetto della produzione e della distribuzione. Negli anni Venti esistevano da una parte piccole case di
produzione o ricchi mecenati disposti a finanziare opere sperimentali, dall’altra proprietari di sale indipendenti in
grado di scegliere i propri programmi e, soprattutto, una fitta rete di associazioni diffuse nei principali paesi (come
il Ciné-Club de France o la Filmliga olandese) capaci di garantire la circolazione dei prodotti d’avanguardia. Al
contrario con l’avvento del sonoro la produzione di un film comporta un investimento così cospicuo che può essere
affrontato soltanto dalle grandi compagnie, e anche la sua proiezione nelle sale diviene molto più costosa: ciò sco-
raggia i produttori indipendenti, preclude ad artisti provenienti da altri ambiti espressivi la sperimentazione cinema-
tografica e gioca un ruolo senza dubbio decisivo nella crisi del “genere” cortometraggio d’avanguardia, nonché del
circuito di cineclub che negli anni Venti ne consentiva la fruizione. Inoltre il nuovo assetto tecnologico-produttivo
degli studi sonori tende a ridurre fortemente la relativa autonomia e la libertà d’espressione di cui godeva l’autore-
regista europeo nel periodo del muto: se i costi dell’introduzione del suono hanno per effetto un maggiore controllo
sul film da parte della produzione, una maggiore standardizzazione del prodotto e una più rigida divisione dei ruoli,
le carenze tecnologiche e la scarsa duttilità delle prime apparecchiature costituiscono un ostacolo oggettivo alla ri-
cerca e alla sperimentazione formale. A ciò si aggiunge la forte diffidenza, se non la vera e propria ostilità, nutrita
da molti cineasti legati all’avanguardia nei confronti della nuova invenzione. Atteggiamento che dà origine alla rea-
lizzazione di lavori talora affascinanti, più spesso deludenti o addirittura fallimentari, ma quasi sempre dominati
dalla preoccupazione di conservare intatte le acquisizioni formali dell’ultimo decennio del muto, o all’opposto si
traduce in una resa incondizionata di fronte alle richieste dell’istituzione (si pensi al caso di Henri Chomette, che
dopo una serie di cortometraggi d’avanguardia dirige un film come Le Requin, o a quello di Marcel L’Herbier, che
passa da opere ambiziose come L’Inhumaine o L’Argent a L’Enfant de l’amour (agosto 1930), il primo film parlato
al 100% girato in uno studio francesi, liquidato all’epoca come puro teatro filmato.
Naturalmente il declino dell’avanguardia cinematografica ha ragioni molteplici e non certo imputabili soltanto
all’avvento del sonoro. Come è noto, col finire degli anni Venti si assiste in tutta Europa e in tutti gli ambiti espres-
sivi (dalle arti visive alla musica) alla crisi dei movimenti artistici più radicali e alla parallela affermazione di ten-
denze volte a un recupero e a un ripensamento della tradizione (il cosiddetto “neoclassicismo”) o fortemente orien-
tate, in reazione al formalismo avanguardista, verso il realismo sociale (come la Nuova Oggettività tedesca). Inoltre
l’ascesa del nazismo nel 1933 e l’affermazione definitiva, verso la metà del decennio, dell’estetica del realismo sta-

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liniano segnano la fine della sperimentazione formale in Germania e nell’Unione Sovietica, dove negli anni Venti
si era assistito a una vera e propria fioritura di produzioni d’avanguardia.
Comunque sia, nei primi anni Trenta troviamo numerosi protagonisti del cinema sperimentale alle prese con la
nuova tecnologia del sonoro. Fra di essi senz’altro il più attivo e fiducioso nelle sue possibilità è il tedesco Walter
Ruttmann, che, dopo il già citato Melodie der Welt, realizza per la radio tedesca un breve “film” senza immagini,
Week-End (1930). Questa pellicola, che può essere definita solo tecnicamente un’opera cinematografica, dal mo-
mento che consiste in un montaggio di suoni registrati su pista ottica ai fini di una trasmissione radiofonica, descri-
ve con mezzi esclusivamente acustici (voci, rumori e musica) gli svaghi di un fine settimana berlinese. È senz’altro
per la sua fama di pioniere europeo del sonoro che Ruttmann viene chiamato a collaborare alla realizzazione di La
Fin du monde (1930) esordio nel film parlato al 100 % di uno dei protagonisti dell’avanguardia narrativa francese,
Abel Gance. Se si escludono gli episodi “spettacolari”, girati muti e fondati sull’accelerazione parossistica del mon-
taggio, secondo un principio già sfruttato abbondantemente dal regista durante il periodo del muto, questo film si
distingue soprattutto per l’enfasi involontariamente parodistica della recitazione, improntata alla teatralità più dete-
riore, per un uso particolarmente maldestro della presa diretta del suono e per la fissità “pregrammaticale” con cui
la cinepresa riprende le scene di dialogo. Come film sonoro La Fin du monde costituisce un fallimento estetico che
risulta ancora più clamoroso se commisurato alle grandi ambizioni del progetto iniziale di Gance.
In Russia, nel periodo compreso fra il 1930 e il 1935, ovvero fra la prima apparizione del cinema sonoro e la sua
affermazione definitiva, vediamo all’opera quasi tutti i maggiori rappresentanti dell’avanguardia. Il primo cineasta
a cimentarsi con il nuovo mezzo è Dziga Vertov, che in epoca precedente all’inizio della sua carriera cinematogra-
fica vagheggiava già uno strumento capace di “fotografare” i suoni, e nei suoi scritti degli anni Venti aveva teoriz-
zato, accanto alla nozione di “cine-occhio”, quella complementare di “radio-orecchio”. Nella seconda parte del suo
documentario Simfonja Donbassa (o Entuziazm) la colonna sonora è composta quasi esclusivamente dai rumori re-
gistrati in sincrono con le riprese nelle miniere e nelle acciaierie del Donbass. Purtroppo, nonostante il lungo lavoro
preliminare svolto da Vertov per acquisire dimestichezza con le nuove apparecchiature e adattarle alle esigenze del-
le riprese in esterni, l’effetto del film è totalmente compromesso dall’infima qualità della registrazione del suono.
Quali che fossero le intenzioni del regista, il risultato lascia piuttosto a desiderare e appare lontano mille miglia, an-
che sul piano visivo, dai suoi capolavori dei tardi anni Venti. Assai più suggestive e interessanti risultano le solu-
zioni audiovisive adottate nel primo film sonoro di Pudovkin, Dezertir (1933). In esso il regista sovietico manipola
il suono secondo gli stessi principi seguiti dalla scuola sovietica per concatenare le immagini, opponendo i momen-
ti di fragore assordante di alcune sequenze a pause di assoluto silenzio e alternando con tagli netti di montaggio la
musica di accompagnamento al suono naturale, secondo un’estetica che fa dell’estrema frammentazione e della di-
scontinuità più esibita il principio che regola l’organizzazione della colonna visiva come della colonna sonora. Par-
ticolarmente efficaci sono le due lunghe sequenze del film dedicate al lavoro in un cantiere navale e in una fabbri-
ca, dove gli accordi e i contrasti ritmici delle immagini e del sonoro, dominato dal frastuono delle macchine, spri-
gionano una forza barbarica che non incontriamo certo nelle sequenze industriali di Acciaio (1933) di Ruttmann,
ispirate allo stesso modernismo ma assai più composte e neoclassicheggianti.
Se alcuni altri film apparsi in Russia nello stesso periodo e legati più o meno strettamente all’esperienza
dell’avanguardia sovietica, come Okraina (Sobborghi, 1933) di Boris Barnet e l’interessantissimo Velikij utešitel’
(Il grande consolatore, 1933) di Lev Kulešov, si distinguono per un trattamento fortemente inventivo del materiale
sonoro, di lì a poco la campagna contro il formalismo, cui farà seguito la piena affermazione del realismo sociali-
sta, inaugurata dall’apparizione del film Capaev (1934) di Sergej Vasil’ev e Georgij Vasil’ev, decreterà il trionfo di
un cinema narrativo fondato su un’estetica della trasparenza e non tanto distante da quello praticato nello stesso pe-
riodo nel resto del mondo. Quanto a Ruttmann, dopo la parentesi italiana di Acciaio il regista tedesco sceglierà di
tornare in Germania, ritagliandosi all’interno della cinematografia nazionalsocialista un proprio spazio specifico,
quello del documentario industriale, che gli consentirà almeno in parte di proseguire, seppure in sordina, le ricerche
formali iniziate negli anni Venti, soddisfacendo al tempo stesso le esigenze ideologiche e le direttive estetiche del
nuovo regime.

1.8. Sperimentalismo “istituzionale”


L’apporto indiscutibile dell’avanguardia all’evoluzione formale del nuovo mezzo – apporto, come si vedrà, legato
assai più all’influenza esercitata dalle speculazioni teoriche dei suoi rappresentanti che alle scarse e spesso deluden-
ti sperimentazioni concrete – consiste nell’avere incoraggiato i cineasti dell’epoca a praticare modalità di relazione
fra immagine e suono più complesse e inventive di quella consistente nella pura e semplice riproduzione audiovisi-
va dell’atto di parola, contribuendo così al superamento dello stadio primitivo del cinema sonoro. Non vi è dubbio
tuttavia che gli esperimenti più innovativi e le soluzioni formali più gravide di sviluppi futuri si manifestino nella
maggior parte dei casi nei film di registi che operano in seno all’“istituzione”. Infatti, se l’esordio del sonoro dei
mostri sacri del cinema muto si traduce non di rado in lavori tenacemente ancorati a concezioni estetiche superate
dalla svolta degli anni Trenta, che denunciano, al di là dei risultati, una sostanziale incomprensione delle potenziali-

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tà del nuovo mezzo, le sue risorse vengono invece comprese e sfruttate pienamente, pur entro i limiti della tecnolo-
gia dell’epoca, da alcuni cineasti più giovani e abbastanza sgombri da pregiudizi ideologici per affrontare con suc-
cesso la sfida del sonoro sul terreno che, nonostante le lamentazioni di molti, sembrava essergli proprio, quello del
film parlato al 100 %.
Così, per esempio, Alfred Hitchcock, dopo il brillante esordio nel sonoro di Blackmail e l’incidente di percorso di
Juno and the Paycock (1930), dove il regista non riesce a sfuggire alla verbosità e alla lentezza che affliggono la
produzione “media” contemporanea, realizza il suo primo talkie maturo, Murder! (1931), in cui il modello teatrale,
nel film precedente passivamente subito, diviene l’oggetto di una riflessione metalinguistica sui rapporti fra i due
mezzi di espressione (il plot è un intrigo poliziesco che si svolge nel mondo del teatro e in cui tutti i protagonisti
sono attori). In esso Hitchcock si avvale, nella messa in scena del dialogo, di tutte le possibilità offerte dal cinema
sonoro (campo-controcampo, piano sequenza con o senza movimenti di macchina, “asincronismo” fra immagine e
suono) e utilizza, probabilmente per la prima volta in assoluto, una figura audiovisiva destinata a diventare d’uso
corrente, il monologo interiore a labbra chiuse.
Uno dei lavori più significativi realizzati in Europa nei primi anni del sonoro è senz’altro Abschied, diretto da Ro-
bert Siodmak per l’UFA l’anno precedente. Qui il regista tedesco mostra ai detrattori del parlato come si possa or-
chestrare una narrazione dinamica e per nulla subalterna al modello teatrale attenendosi a una rigorosa unità di
tempo e di luogo (la vicenda si dipana nell’arco di un’ora e mezzo – dalle 18.30 alle 20 – e si svolge interamente
all’interno di una pensione). La maturità del film, davvero sorprendente per l’epoca, si manifesta soprattutto nella
messa in scena dei dialoghi, resi sciolti e scorrevoli dalla naturalezza della recitazione (che trae profitto da un ricor-
so parziale all’improvvisazione degli attori), dalla presenza di audaci movimenti di macchina e dalla frequente va-
riazione dei piani e dei punti di vista, ottenuta grazie a un uso sapiente del montaggio. La consapevolezza estetica
con cui Siodmak affronta per la prima volta il film sonoro è attestata dall’articolo Das bevegte Bild und der Ton
[“Film Kurier”, n. 203, 1930], dove il regista, dopo avere illustrato i vantaggi dell’improvvisazione del dialogo, si
pronuncia per un’estetica della continuità di ripresa, affermando che “il movimento nell’immagine sta al film sono-
ro come il movimento tra le immagini stava al film muto”.
Apparso anch’esso verso la fine del 1930, il film di Jean Grémillon La Petite Lise si segnala come uno dei prodotti
sonori esteticamente più coerenti realizzati in Francia fino a quel momento. Merito senza dubbio del disadorno rea-
lismo della sceneggiatura originale di Charles Spaak, che si allontana totalmente dalle convenzioni del dialogo tea-
trale e dagli stereotipi della commedia da boulevard dominanti nei talkies francesi del periodo, ma anche della rigo-
rosa mise en scène, fondata su un’austera economia del materiale espressivo (visivo e sonoro) che non concede nul-
la al gusto dell’epoca. “Ogni compromesso fra muto e parlato mi sembra da condannare”, afferma il regista in un
articolo di poco successivo all’uscita del film. “La supremazia dell’immagine sul suono non è che una fase inter-
media tra due epoche. Non può durare. […] Il film parlato pone nuovamente il problema della costruzione del
dramma, dei suoi mezzi espressivi, dell’interpretazione e del montaggio. Quasi nessuno dei valori acquisiti dal film
muto può ancora sussistere, il découpage innanzitutto” [“Cinéjournal”, 6 marzo 1931]. Nei dialoghi coerentemente
a questo assunto, Grémillon utilizza quasi sempre inquadrature molto lunghe, se non veri e propri piani sequenza, e
preferisce effettuare i mutamenti di distanza e di angolazione necessari muovendo la macchina da presa, piuttosto
che attraverso il montaggio. Il rischio di staticità e di monotonia insito in una simile scelta viene evitato grazie a un
cadrage estremamente accurato che si discosta dalle consuetudini di ripresa dei primi film sonori grazie all’uso
ponderato di inquadrature inconsuete (dall’alto, dal basso o molto ravvicinate). Quanto alla colonna sonora,
l’elemento più originale e affascinante che contraddistingue sul piano acustico La Petite Lise veniva già rilevato
con ammirazione dalla critica dell’epoca: “Grémillon – scrive un recensore del film – sa conferire tutta la loro po-
tenza ai silenzi, […] quei silenzi che risultano più eloquenti e drammatici del grido più impressionante” [J. Robin in
“Cinémonde”, n. 112, 1930]. In effetti, data l’assenza di un accompagnamento musicale extradiegetico e l’estrema
rarefazione del dialogo, il film è disseminato di lunghe pause di assoluto silenzio, che rendono particolarmente pre-
gnanti i frequenti momenti di solitudine e di attesa, producendo una sorta di sospensione temporale e narrativa che
ne costituisce forse il tratto più specifico. Un altro film francese del periodo ingiustamente trascurato, David Golder
(1930) di Julien Duvivier, sviluppa le possibilità del sonoro in una direzione totalmente originale. Il suo stile si di-
stingue soprattutto per la presenza di una cinepresa straordinariamente sensibile e irrequieta, che esplora incessan-
temente il set con carrellate e panoramiche. Pur nell’ambito del film parlato al 100 %, si assiste inoltre a un decen-
tramento della parola così sistematico da far pensare a un’adesione del regista alle teorizzazioni dei sovietici. Co-
munque sia, in molte scene di dialogo c’è l’intenzione programmatica di creare una dissociazione fra ciò che si ve-
de e ciò che si sente, inquadrando qualunque altra cosa che non sia il volto del personaggio che parla (le mani o al-
tre parti del corpo, un oggetto, il suo interlocutore).

1.9. Il dibattito estetico-teorico


A partire dal 1928, l’avvento del sonoro suscita in Europa un’accesa discussione che vede impegnati tutti coloro –
critici cinematografici, cineasti, teorici “puri” – che durante gli anni Venti avevano posto il cinema al centro delle

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loro speculazioni, coinvolgendo al tempo stesso nuovi soggetti (per esempio uomini di teatro), e contrappone i de-
trattori del nuovo mezzo, inizialmente molto numerosi, all’esiguo ma agguerrito schieramento dei suoi sostenitori.
Benché brevi, estemporanei e spesso dominati da uno spirito polemico, questi primi contributi introdussero nel di-
battito alcuni temi centrali che, ridiscussi poi più ampiamente e meditatamente dagli scritti successivi, avrebbero
dominato la speculazione sul suono per almeno tre decenni, fino all’inizio degli anni Sessanta. Sintetizzando forte-
mente i contenuti di tali interventi, si possono individuare all’interno di essi quattro oggetti principali di riflessione.
1) Il problema dei rapporti fra film parlato e teatro. La discussione su questo tema viene inaugurata nel 1929
dall’articolo di Luigi Pirandello Se il film parlante abolirà il teatro, pubblicato con grande rilievo anche
all’estero, dove il drammaturgo italiano mette in dubbio l’efficacia realistica dell’illusione audiovisiva: “Le
immagini non parlano, si vedono soltanto; se parlano, la voce viva è in contrasto insanabile con la loro qua-
lità di ombre e turba come una cosa innaturale che scopre e denunzia il meccanismo” [L. Pirandello, Se il
film parlante abolirà il teatro, in F. Callari, Pirandello e il cinema. Con una raccolta completa degli scritti
teorici e creativi, Venezia, Marsilio, 1981, p. 122]. Pirandello si schiera per un cinema sonoro che continui
a fare a meno della parola, condizione a suo avviso necessaria per sfuggire all’imitazione del teatro. Egli
sostiene infatti che l’unico elemento sonoro compatibile con l’immagine cinematografica è quello musicale
e auspica l’avvento di una nuova forma di espressione audiovisiva, la “cinemelografia”, congiunzione di
“pura musica e pura visione” [Ibid., p. 124]. Su posizioni molto vicine a quelle del drammaturgo si schiera
il regista italiano Anton Giulio Bragaglia nel libro Il film sonoro [Milano, Edizioni Corbaccio, 1929]. Sul
versante opposto, il commediografo francese Marcel Pagnol, nell’articolo Le Film parlant offre à l’écrivain
des ressources nouvelles [Le Journal”, 17 maggio 1930] e in altri interventi successivi, tra cui Cinématur-
gie de Paris [“Cahiers du Film”, n. 1, 1933] e Cinématurgie de Paris, chapitre II: le théatre en conserve
[“Cahiers du Film”, n. 2, 1934], accoglie entusiasticamente l’avvento del film parlato, in cui vede un poten-
te mezzo di riproduzione e di diffusione dello spettacolo teatrale, in grado non solo di raggiungere un pub-
blico infinitamente più vasto, ma anche di migliorare sul piano qualitativo le condizioni percettive della
rappresentazione. Egli inoltre sottolinea la totale originalità del nuovo mezzo di espressione, giungendo a
sostenere che gli attori e i cineasti del muto, privi di qualsiasi esperienza nella direzione e
nell’interpretazione del dialogo, fossero inadatti ad affrontare il film sonoro e auspicando così un interven-
to attivo degli uomini di teatro nella produzione cinematografica. Le posizioni di Pagnol suscitarono la rea-
zione indignata di tutti coloro che vedevano proprio nell’imitazione del teatro il pericolo più grave per il
cinema sonoro, e in particolare di René Clair, che rispose al drammaturgo in un articolo dello stesso anno,
intitolato polemicamente Les Auteurs de films n’ont pas besoin de vous [“Pour Vous”, n. 85, 1930]. In esso
egli rivendica con forza lo statuto autoriale del regista cinematografico, che a suo avviso è da ritenersi, sia
nel muto che nel sonoro, l’unica figura pienamente responsabile della realizzazione di un film, e sottolinea
l’inadeguatezza degli autori teatrali di fronte alle esigenze della rappresentazione cinematografica. “Il film
parlato – scrive – sopravviverà solo se verrà trovata la formula appropriata a esso, se potrà liberarsi
dell’influenza del teatro e della narrativa, se diverrà qualcosa di diverso da un’arte dell’imitazione”.
2) Il supplemento di realtà introdotto dal suono nel cinema. Se a giudizio di Pirandello la voce umana, ancor-
ché registrata, rimanda al corpo vivo dell’attore e possiede quindi una presenza, un “rilievo” che, invece di
conferire maggiore realismo alle immagini, ne denuncia per contrasto la piattezza e l’evanescenza, distrug-
gendo l’illusione che dovrebbe rafforzare, Rudolf Arnheim teme al contrario l’avvento del “film completo”
e, in nome del “film come arte”, condanna oltre al suono ogni altra innovazione tecnologica – il colore, lo
schermo panoramico, la stereoscopia – volta a rendere il cinema un simulacro sempre più fedele e mecca-
nico del mondo reale, eliminando qualsiasi differenza fra l’originale e la copia. “L’avvento del cinema so-
noro – scrive nel 1932 – deve essere considerato come l’imposizione di una novità tecnica che portava fuo-
ri dalla strada percorsa in quel momento dai migliori artisti cinematografici, impegnati nel creare uno stile
esplicito e puro di cinema muto, sfruttando le sue limitazioni per trasformare in arte quello che era origina-
riamente uno spettacolo da baraccone” (R. Arnheim, Film come arte, Milano, Feltrinelli, 1983, p. 135).
3) La sua concezione estetica, condivisa prima di lui da molti altri autori durante tutto il periodo del muto, si
fonda infatti sulla cosiddetta “teoria dei fattori differenzianti”, secondo cui sarebbero proprio quelle caratte-
ristiche che rendono il film una copia infedele e manchevole della realtà – l’assenza della parola e del suo-
no, la bidimensionalità, il bianco e nero, la delimitazione arbitraria del quadro – a fare di esso un’opera
d’arte originale.
4) La possibilità del film sonoro di estendere all’ambito acustico la facoltà di rivelazione del mondo sensibile
propria della macchina da presa. Nell’articolo Le Cinématographe continue il regista francese Jean Epstein
lamenta le condizioni coercitive della presa del suono nei teatri di posa e sostiene che per ottenere nuovi
progressi occorre arrischiarsi a registrare en plein air, come gli operatori delle prime attualità sonore. “Non
è più nell’acustica semplificata dello studio – scrive – che si realizzeranno utili esperimenti. È attraverso i
campi sonori del vasto mondo che bisogna far sciamare i microfoni, cercando per essi dei riduttori del suo-

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no, dei filtri selettivi” [“Cinéa Ciné pour tous”, novembre 1930]. A suo avviso i rari momenti di “fonoge-
nia” del cinema sonoro si manifestano infatti al di fuori del film di finzione, “nel suono impuro dei cine-
giornali”. Se è lecito scorgere in tali affermazioni un approccio di tipo realista, l’autore che enfatizza mag-
giormente la facoltà del microfono di rivelare aspetti sconosciuti dell’ambiente acustico, esercitando un
ruolo analogo a quello svolto precedentemente dalla macchina da presa nei confronti del visibile, è
senz’altro Béla Balázs. Nel libro Der Geist des Films, pubblicato lo stesso anno, il teorico ungherese infatti
scrive: “Il film sonoro scoprirà il mondo acustico che ci circonda. Le voci delle cose, il linguaggio intimo
della natura. La voce di tutto ciò che è udibile, oltre al parlare umano: quel gran parlare della vita che inin-
terrottamente agisce sul nostro modo di pensare e di sentire. Dal muggito delle onde al frastuono delle fab-
briche, fino alla monotona melodia della pioggia autunnale sulle finestre, fino allo scricchiolio del pavi-
mento di una stanza abbandonata” [B. Balázs, Estetica del film, Roma, Editori Riuniti, 1975, p. 141]. A suo
avviso dunque il nuovo mezzo deve contribuire ad affinare la nostra sensibilità acustica, permettendoci di
riconoscere le qualità peculiari dei suoni e di scomporre nei suoi singoli elementi ciò che prima percepiva-
mo come un brusio caotico e indistinto.
5) Il concetto di asincronismo. Assai più numerosi sono in questo periodo gli interventi di ispirazione formali-
sta, che sottolineano le possibilità di manipolazione del suono registrato e vedono l’elemento acustico co-
me una componente significante del film da associare all’immagine secondo criteri formali e semantici,
piuttosto che in base al puro e semplice sincronismo naturalistico fra suono e fonte, fra corpo e voce. Primo
fra tutti il breve ma importantissimo testo redatto nel 1928 dai cineasti sovietici Sergej Ejzenštejn, Vsevo-
lod Pudovkin e Grigorij Aleksandrov, intitolato Il futuro del sonoro, ma passato alla storia come il “mani-
festo dell’asincronismo”. Dopo avere sostenuto la necessità dell’introduzione del suono nel cinema, riba-
dendo al tempo stesso il dogma sovietico della centralità estetica e semiotica del montaggio (e criticando in
base a questo principio la strada intrapresa negli Stati Uniti e in Europa dalle prime produzioni sonore), la
dichiarazione indica in modo perentorio quello che per i tre firmatari è l’unico rimedio per sfuggire alle in-
sidie dell’imitazione del teatro: “Soltanto l’impiego contrappuntistico del suono rispetto all’immagine –
scrivono – offre la possibilità di nuove e più perfette forme di montaggio. Pertanto le prime esperienze di
film sonoro devono essere dirette verso una non coincidenza tra immagine visiva e immagine acustica:
questo sistema porterà alla creazione di un nuovo contrappunto orchestrale” [S. M. Ejzenštejn, V. Pudo-
vkin, G. Aleksandrov, Il futuro del sonoro. Dichiarazione, in S. M. Ejzenštejn, La forma cinematografica,
Torino, Einaudi, 1986, p. 270].

L’idea che nel cinema sonoro immagine e suono dovessero svilupparsi in contrappunto, ovvero, come si usava dire
in quel periodo, in modo asincrono, teorizzata in netta opposizione all’estetica del sincronismo allora imperante,
verrà espressa nella sua forma più “ortodossa” qualche anno più tardi da Vsevolod Pudovkin, che nell’articolo A-
sincronismo quale principio del film sonoro afferma: “Se noi paragoniamo il film sonoro a quello muto constatia-
mo che il primo ci dà la possibilità di esprimere il contenuto di esso con più profondità, e di comunicarlo allo spet-
tatore in un tempo relativamente uguale. È chiaro che questo più profondo scandaglio nel contenuto del film non
può essere offerto allo spettatore semplicemente con l’aggiunta della riproduzione naturalistica di suoni e rumori.
Occorre qualche cosa di più. Questo qualche cosa di più è l’evoluzione delle immagini e del sonoro secondo un
ritmo distinto e separato” [V. Pudovkin, Film e fonofilm, Roma, Le Edizioni d’Italia, 1935, p. 210]. Il concetto di
asincronismo è evocato da Pudovkin non soltanto a proposito di quei suoni che oggi preferiamo definire fuori cam-
po (ovvero emessi da una fonte che non è visibile simultaneamente sullo schermo ma appartiene ugualmente allo
spazio dell’azione), ma anche per designare alcune forme di combinazione più complesse – e del tutto “antinatura-
listiche” – fra le due componenti: per esempio la sincronizzazione di immagini obbiettive con suoni puramente
soggettivi (mentali) o l’uso di figure retoriche quali la similitudine e la metafora. Si trattava insomma di trasporre
sul piano del montaggio audiovisivo (o, come dirà Ejzenštejn in seguito, “verticale”) quegli stessi criteri che secon-
do i rappresentanti della scuola sovietica dovevano presiedere all’assemblaggio della colonna visiva di un film mu-
to, come il principio del taglio il montaggio e perfino il ricorso ad associazioni “intellettuali” fra le inquadrature
simili a quelle teorizzate e praticate dal regista di Ottobre. In un altro testo dello stesso periodo Pudovkin propone
appunto di tagliare la colonna sonora in sede di montaggio come si fa con l’immagine, senza alcun timore di spez-
zare la continuità naturale del dialogo, della musica e dei rumori [Cfr. V. Pudovkin, Suono e immagine, in La setti-
ma arte, Roma, Editori Riuniti, 1961, pp. 153-157].
I film sovietici dei primi anni del sonoro pullulano di figure audiovisive improntate a questo modello. Per esempio,
in una bella sequenza di Sobborghi (Okraina, 1933) di Boris Barnet, ambientato durante la prima guerra mondiale,
il rumore delle macchine di un’officina, dapprima associato “naturalisticamente” a immagini degli operai al lavoro,
prosegue poi arbitrariamente sulle inquadrature successive, che mostrano i soldati in trincea, “trasformandosi” nel
fragore della battaglia.

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Nonostante i suoi limiti intrinseci – evidenti soprattutto nel dogmatismo della formulazione pudovkiniana – la teo-
ria dell’asincronismo si diffonderà nel resto dell’Europa con una rapidità sorprendente, conservando una posizione
centrale nelle riflessioni sul film sonoro dal suo avvento alla seconda guerra mondiale e anche oltre, fino alla soglia
degli anni Sessanta. Per tre decenni abbondanti quasi tutti i protagonisti e i comprimari del dibattito estetico-teorico
sul cinema – da René Clair a Walter Ruttmann, da Benjamin Fodane a Umberto Barbaro, da André Levinson a Béla
Balázs, da Jean Epstein a Luigi Chiarini – vi faranno riferimento in maniera più o meno diretta, e la sua fortuna du-
revole è chiaro segno del carattere marcatamente formalista che viene ad assumere in questo lungo periodo la ri-
flessione sul suono. È indicativo che il teorico tedesco Siegfried Kracauer riproponga ancora all’inizio degli anni
Sessanta la vecchia opposizione sincronismo/asincronismo, seppure con alcune varianti di qualche rilievo: si veda-
no i capitoli sul suono del suo celebre trattato del 1960 Teoria del film [Milano, Il Saggiatore, 1995, p. 195 e segg.].

1.10. La transizione al sonoro in America: cronologia ragionata


Per prima cosa occorrerà distinguere il periodo di transizione dal muto al sonoro in senso stretto – circoscritto
all’arco di tempo che intercorre fra il 6 agosto 1926, data di nascita ufficiale del nuovo mezzo audiovisivo, e il no-
vembre del 1929, in cui viene distribuito l’ultimo film muto di rilievo prodotto da una major hollywoodiana – dal
processo a lungo termine di maturazione tecnologica e stilistica che si compie nelle sue linee essenziali fra il 1930 e
il 1935, aprendo la strada alla piena classicità del parlato. Infatti, soltanto nella fase precedente, e in particolare nel
triennio 1927-1929, si assiste a una vera e propria convivenza fra muto e sonoro, intesa sia come produzione paral-
lela di film ancora privi di suono (o addizionati di musica e rumori postsincronizzati alle immagini), sia come coe-
sistenza conflittuale di entrambi i sistemi all’interno dello stesso prodotto: è il caso dei cosiddetti part-talkies, ca-
ratterizzati da una presenza intermittente del dialogo sincrono. Quanto al periodo successivo, occorre sottolineare
che il cinema sonoro hollywoodiano non entra certo già dal 1930 nel suo stadio maturo: molti film realizzati nella
prima metà degli anni Trenta presentano ancora degli aspetti “primitivi” che meriterebbero un inventario più accu-
rato. È anche vero, però, che la svolta del decennio coincide per il contesto americano con la fine del muto e con
l’adozione generalizzata della nuova tecnologia, avviata verso il totale superamento della sua fase sperimentale.
L’esistenza di questo spartiacque è del resto confermata dalle strategie pubblicitarie degli studios e dai discorsi
giornalistici ospitati da riviste specializzate come “Variety” o “Photoplay”, che a partire dal 1930 concedono uno
spazio sempre più ridotto alla discussione di temi concernenti il suono in quanto tale (le qualità vocali di questo o
quel divo del muto, i principali sistemi di sincronizzazione, la liceità del doppiaggio, la percentuale di dialogo pre-
sente sulla colonna sonora di questo o quel film), ai quali era invece assegnata una posizione dominante nei discorsi
promozionali o informativi veicolati dalla stampa cinematografica americana verso la fine degli anni Venti.

1926
È l’anno che inaugura la transizione al sonoro. Infatti il 6 agosto, al Warners’ Theatre di New York, debutta Don
Juan di Alan Crosland, il primo lungometraggio muto postsincronizzato con una partitura orchestrale (composta da
William Axt) mediante il sistema Vitaphone, messo a punto dalla Western Electric, che prevede la riproduzione del
suono su dischi di fonografo. Ma il vero evento della serata è costituito dagli 8 cortometraggi che precedono la
proiezione di Don Juan, registrati in presa diretta alla Manhattan Opera House di New York. A eccezione del pri-
mo, consistente in un breve discorso inaugurale pronunciato da Will H. Hays, si tratta di performance di strumenti-
sti e di cantanti che eseguono arie d’opera e brani desunti quasi esclusivamente dal repertorio classico. Il violinista
Mischa Elman esegue Humoresque di Dvorák, Marion Talley canta l’aria Caro nome dal Rigoletto, Roy Smeck
suona il banjo, l’ukulele, l’armonica e la chitarra hawaiana, il tenore Giovanni Martinelli si esibisce in un brano dei
Pagliacci, Harold Bauer al piano ed Efrem Zimbalist al violino eseguono brani della Kreutzer Sonata di Beethoven.
Vi è inoltre un numero di danze e canzoni russe intitolato An Evening to the Don e, come gran finale, La Fiesta,
cantata da Anna Case con l’accompagnamento del Metropolitan Opera Chorus, della New York Philarmonic Or-
chestra e di un corpo di ballo. Il 5 ottobre, al Colony Theatre, viene presentato il secondo programma Vitaphone,
composto anch’esso da una serie di short e da un lungometraggio di finzione, The Better’ Ole di Charles Reisner,
commedia slapstick interamente muta interpretata da Sidney Chaplin (fratello di Charlie), ambientata durante la
prima guerra mondiale e postsincronizzata con musica “patriottica” ed effetti sonori.
A differenza dei cortometraggi proiettati il 6 agosto, i nuovi short attingono esclusivamente i propri soggetti dal re-
pertorio della musica leggera La New York Philarmonic Orchestra apre la serata con l’ouverture The Spirit of 1918,
seguita da un recital del baritono Reinald Werrenrath, che interpreta The Long, Long Trail e The Heart of a Rose.
The Four Aristocrats eseguono canzoni jazz, Elsie Janis si esibisce da un camion militare accompagnata dal coro
del 107th Infantry, Eugene e Willie Howard recitano una scenetta comica, George Jessel canta una canzone di Ir-
ving Berlin preceduta da un monologo. Ma il pezzo forte del programma è il recital di Al Jolson, che col volto tinto
di nero esegue tre successi del suo repertorio: The Red, Red Robin, April Showers e Rockabye Baby with a Dixie
Melody.

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A partire da questa serata cominciano inoltre a comparire accanto ai numeri musicali, all’inizio nettamente preva-
lenti, brevi scenette comiche (e più tardi drammatiche) provviste di dialogo sincrono e interpretate da star del vau-
deville o del teatro regolare.

1927
È un anno che si può definire di gestazione per l’assenza di produzioni sonore di grande rilievo (se si esclude, natu-
ralmente, The Jazz Singer), ma nel corso del quale si verificano avvenimenti di capitale importanza, i cui effetti di-
verranno tangibili soltanto nei due anni successivi. Il 3 febbraio e il 21 giugno escono rispettivamente il terzo e il
quarto lungometraggio sincronizzati con il sistema Vitaphone, When a Man Loves, e Old San Francisco, entrambi
diretti da Alan Crosland ed entrambi preceduti da un programma di short. Un quinto film “sonoro” della Warner,
The First Auto di Roy Del Ruth, anch’esso sonorizzato a posteriori ma giocato assai più dei precedenti sulle risorse
del rumore, appare il 27 giugno a New York. Tuttavia bisogna attendere il 6 ottobre, con la storica prima di The
Jazz Singer al Warners’ Theatre, per assistere a un vero salto di qualità nelle produzioni Vitaphone. Infatti il film di
Crosland, benché privo (o quasi) di dialogo, introduce per la prima volta all’interno di un lungometraggio di finzio-
ne sequenze con il suono diretto, inaugurando quella commistione di muto e sonoro che caratterizzerà i part-talkies
prodotti dalla casa negli anni successivi.
Parallelamente, si affaccia sulla scena anche la Fox, unica major in grado in questa fase di competere con la War-
ner grazie all’adozione di un sistema di sincronizzazione concorrente, il Movietone, dove il suono è impressionato
direttamente sulla pellicola secondo il procedimento ottico che di lì a poco si imporrà in tutto il mondo. Il primo
programma Movietone, presentato in gennaio, consiste in una serie di canzoni eseguite dalla cantante spagnola Ra-
quel Mellar, registrate in presa diretta secondo il modello degli short Vitaphone. Tuttavia già da aprile William Fox
comincia a sfruttare il suo sistema, più adatto di quello su disco alle riprese in esterni, per girare delle attualità so-
nore. Il debutto del Fox Movietone News avviene il 2 maggio al Roxy Theatre di New York: tra i “numeri” propo-
sti una parata dei cadetti di West Point e la partenza di Lindbergh per il suo volo transatlantico. In seguito al suc-
cesso della serata, una seconda e più ricca edizione dello stesso programma, contenente anche short musicali, viene
presentata il 25 maggio in combinazione con Seventh Heaven di Frank Borzage, uno dei primi lungometraggi della
Fox postsincronizzati con il Movietone. Un nuovo programma di attualità, comprendente anche un breve discorso
di Benito Mussolini, fa la sua apparizione ancora al Roxy il 14 giugno. La casa, che a partire da ottobre comincia a
produrre regolarmente un cinegiornale sonoro, nell’ambito del film di finzione preferisce invece limitarsi a registra-
re partiture per pellicole mute (è il caso, per esempio, di quella che accompagna Sunrise di Murnau, apparso in set-
tembre). Bisogna attendere il 1928 perché Fox si decida finalmente ad applicare le risorse del Movietone a produ-
zioni parlate.

1928
È l’anno in cui il cinema hollywoodiano acquista progressivamente la parola. Benché le pellicole mute (provviste o
meno di musica postsincronizzata alle immagini) siano ancora nettamente prevalenti, i film con sequenze di dialogo
in presa diretta divengono sempre più numerosi, raggiungendo un totale di quasi una trentina di titoli alla fine di
dicembre. Il 7 marzo la Warner presenta Tenderloin di Michael Curtiz, il primo lungometraggio della storia del ci-
nema che fa parlare dei personaggi sullo schermo (se si escludono le poche battute pronunciate da Al Jolson in The
Jazz Singer). Nonostante il parlato sia concentrato in quattro brevi sequenze della durata complessiva di 10-15 mi-
nuti, il film riscuote un notevole successo di pubblico. Bisogna attendere ancora fino alla fine di maggio per assiste-
re all’uscita di The Lion and the Mouse, la prima produzione che manifesta pienamente le potenzialità del nuovo
mezzo nella riproduzione del dialogo. Terzo part-talkie licenziato dalla Warner (il secondo è Glorious Betsy di A-
lan Crosland, uscito il 26 aprile, interpretato dai protagonisti di Tenderloin, Dolores Costello e Conrad Nagel, e
premiato dallo stesso successo di pubblico), il film di Lloyd Bacon viene pubblicizzato disonestamente come “the
first talking motion picture”: in realtà la parola è presente soltanto nel primo e nell’ultimo rullo, per un totale di una
trentina di minuti di proiezione. Manca poco, comunque, al grande passo, compiuto l’8 luglio con il debutto di The
Lights of New York, primo all-talkie realizzato in America e quindi nel mondo. Progettato inizialmente come un
two-reels e affidato a Brian Foy, supervisore degli short Vitaphone, che ne firma la regia, viene trasformato durante
la lavorazione in un lungometraggio della durata di 56 minuti. Entro la fine dell’anno la Warner licenzia, oltre a
numerosi part-talkies, altri tre film interamente parlati (The Terror di Roy del Ruth, The Home Towners di Brian
Foy e On Trial di Archie Mayo, apparsi rispettivamente il 16 agosto, il 23 ottobre e il 14 novembre), confermando
il suo schiacciante primato nel processo di transizione al sonoro.
Frattanto, verso la fine dell’anno, anche Fox muove timidamente i primi passi nella registrazione del dialogo. Il 2
settembre esce il suo primo part-talkie, The Air Circus, girato muto da Howard Hawks e addizionato di alcune se-
quenze parlate dirette da un secondo regista. Ma assai più significativo è l’esordio nel sonoro di John Ford con Na-
poleon’s Barber, mediometraggio interamente dialogato. Uscito il 24 novembre, il film sfrutta la superiorità del si-
stema Movietone nelle riprese in esterni, ottenendo effetti sonori realistici e convincenti. Il regista ha affermato di

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avere sfruttato per primo le risorse del suono diretto en plein air ed è vero senz’altro, almeno per quanto riguarda la
finzione. Non deve quindi sorprendere il clamoroso debutto natalizio di In Old Arizona (25 dicembre) di Raoul
Walsh, primo lungometraggio sonoro a evadere dai teatri di posa. Gli esterni, girati in presa diretta in alcuni dei set
naturali più frequentati dal western, occupano circa due terzi della durata del film.
Nello stesso periodo cominciano ad apparire pellicole sonore prodotte da altri studios. È il caso di Lonesome (2 ot-
tobre) di Paul Fejos, primo part-talkie licenziato dalla Universal, un classico del muto hollywoodiano addizionato
di poche e superflue sequenze di dialogo. Vale la pena di ricordare come vennero realizzate. La casa, che non aveva
ancora finito di adattare i propri studi alle riprese sonore, chiese in prestito alla Fox un’unità mobile usata per i ci-
negiornali Movietone col pretesto ufficiale di girare dei test per il musical Show Boat. In realtà il vero scopo era di
realizzare segretamente e in gran fretta un all-talkie (Melody of Love di A. B. Heath, uscito verso la fine dell’anno),
nonché delle sequenze parlate da inserire in alcuni film muti già completati, tra i quali appunto Lonesome.
L’aneddoto è desunto da A. Walker, The Shattered Silents. How the Talkies Came to Stay [Elm Tree Books, Lon-
don, 1978, p. 101]. Il libro è una fonte inesauribile di informazioni indirette ma preziose sui film girati a Hollywo-
od negli anni della transizione. Dopo alcuni prodotti di scarso rilievo (un muto postsincronizzato con musica ed ef-
fetti sonori apparso il 15 luglio, Warming Up di Fred Newmeyer, e un trascurabile part-talking –Varsity di Frank
Tuttle – uscito alla fine di ottobre), la Paramount esordisce in grande stile nel parlato al 100 % con Interference (16
novembre) di Roy Pomeroy, un film con un cast prestigioso che esibisce l’elegante confezione delle produzioni Pa-
ramount all’epoca del muto e si distingue per la buona qualità della registrazione del dialogo e dei rumori, giudicati
per la prima volta dalla critica convincenti e verosimili. Infine, accanto al Vitaphone e al Movietone, si afferma un
terzo sistema di riproduzione del suono, il Photophone della RCA, già impiegato nel 1927 per la postsincronizza-
zione della colonna sonora di Wings (Paramount) di William Wellman, presentato al Criterion di New York il 12
agosto, che utilizza il metodo ottico adottato dalla Fox e viene scelto inizialmente da case di produzioni minori
(come la FBO, la Pathé e la Tiffany-Stahl). Ormai soltanto la Metro resta ferma a guardare. Infatti, per la politica
fin troppo prudente dettata da Irving Thalberg, che decide di attendere ulteriori sviluppi nella tecnologia del sonoro,
studiando nel frattempo le mosse della concorrenza e le reazioni del pubblico, questa casa sarà l’unica major a pro-
durre film muti “di serie A” fino alla fine del decennio: è il caso di White Shadows in the South Seas (31 luglio) di
Woodbridge S. Van Dyke e Robert Flaherty (non accreditato nei titoli), pubblicizzato disonestamente come il pri-
mo film della MGM provvisto di dialogo.

1929
È l’anno in cui l’industria hollywoodiana realizza pienamente la transizione al sonoro. Per fornire qualche cifra si-
gnificativa, ricordiamo che dei 539 lungometraggi di finzione recensiti su “Variety” nel 1928 soltanto 70 erano so-
nori, includendo in questo gruppo i film muti sincronizzati con musica e rumori, ancora nettamente maggioritari
(gli all-talkies licenziati entro la fine dell’anno sono soltanto 7, mentre il numero dei film parzialmente parlati si
aggira intorno alle 20 unità). Nel corso del 1929 l’ago della bilancia si sposta invece a favore del sonoro: infatti dei
467 film recensiti ben 265 sono parzialmente o totalmente parlati (fra di essi predominano ormai nettamente gli all-
talkies, che sono più di 200), mentre i prodotti interamente muti, distribuiti o meno con un accompagnamento regi-
strato, sono solo 202. In realtà il punto di svolta va situato intorno alla metà dell’anno precedente, dal momento che
i lungometraggi di finzione che utilizzano il suono sincrono su disco o su pellicola apparsi fra l’agosto del 1926 e il
luglio del 1928 sono meno di una ventina, e di essi soltanto quattro utilizzano parzialmente la presa diretta: un nu-
mero davvero irrisorio se commisurato alla produzione complessiva dei quasi due anni compresi fra l’uscita di Don
Juan e quella di The Lights of New York.
Sul piano dell’assetto produttivo la novità di maggiore rilievo è il debutto della RKO (Radio-Keith-Orpheum),
nuova casa di produzione fondata nell’ottobre del 1928 e controllata dalla RCA, che entra subito in concorrenza
con gli altri studios adottando, com’è naturale, il sistema sound-on-film nella variante Photophone. Ormai soltanto
la Warner continua a utilizzare il sistema Vitaphone (che abbandonerà solo nel 1931), anche se le altre case distri-
buiscono i propri film in doppia versione per non precludersi l’accesso alle numerose sale attrezzate col fonografo.
Mano a mano che ci si addentra nel 1929, i film muti si fanno sempre più rari e l’assenza del suono si restringe
dapprima a pellicole di medio o basso costo realizzate da indipendenti o da case di produzione minori, e poi solo ai
quickies destinati al circuito delle double-feature houses. L’unica eccezione di rilievo è rappresentata dalla MGM,
che continua a licenziare fino alla fine dell’anno produzioni di lusso interamente postsincronizzate, seppure arric-
chite con un numero sempre più consistente di effetti sonori: è il caso per esempio di The Pagan di Woodbrige S.
Van Dyke – uscito in maggio e provvisto di canzoni – e di The Kiss di Jacques Feyder (distribuito in novembre),
ultimo film muto di rilievo prodotto da una major hollywoodiana. Contemporaneamente, sul versante del parlato, si
afferma saldamente una produzione di medio calibro sempre più a proprio agio con la tecnologia del sonoro, in
continua evoluzione, ma nel complesso ancora deludente sul piano della tecnica e dello stile. In questo “interregno”
un po’ grigio che precede la maturità degli anni Trenta cominciano tuttavia ad apparire alcune opere originali e

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formalmente coerenti, come Broadway Melody (1 febbraio) di Harry Beaumont, Hallelujah! (20 agosto) di King
Vidor, Applause (7 ottobre) di Rouben Mamoulian o The Love Parade (19 novembre) di Ernst Lubitsch.

1.11. “Uncle Vitaphone Wants You”


È noto che nessuno alla Warner, nell’estate del 1926, pensava ancora di utilizzare il sistema Vitaphone per intro-
durre il dialogo sincrono all’interno del film narrativo. Il nuovo mezzo era visto piuttosto come una sorta di esten-
sione visiva del fonografo, come un mezzo per fissare e diffondere la performance musicale. Lo dimostrano le pa-
role inaugurali pronunciate da Will Hays nello short che apriva il programma del 6 agosto: “Nella presentazione di
queste immagini, la musica svolge un ruolo incalcolabile. Il cinema è il fattore più potente nello sviluppo di un gu-
sto nazionale per la buona musica. Ora questo servizio potrà essere ampliato, poiché il Vitaphone porterà le orche-
stre sinfoniche nei piccoli centri. È stato detto che l’arte dell’interprete vocale e strumentale è effimera, che egli
crea solo per l’istante. D’ora in avanti l’artista e la sua arte non moriranno più interamente”. Del resto gli scopi ini-
ziali della Warner si palesano già nel doppio programma della prima serata: da una parte la registrazione in presa
diretta delle esibizioni di strumentisti e di cantanti (gli otto cortometraggi Vitaphone), dall’altra la sincronizzazione
delle immagini mute di un lungometraggio narrativo di finzione con un commento orchestrale inciso su dischi di
fonografo (Don Juan).
La seconda opzione, che apparentemente non introduce sul piano estetico novità di rilievo rispetto alla prassi
dell’accompagnamento dal vivo del cinema muto, in realtà comporta già delle conseguenze tutt’altro che trascura-
bili. In generale, come osserva Alan Williams, la fissazione del suono su un supporto di registrazione porta a com-
pimento un processo più ampio iniziato molto prima e tendente a una progressiva meccanizzazione e standardizza-
zione dello spettacolo cinematografico: “La presentazione dei film muti era notoriamente variabile. Lo opere pote-
vano essere proiettate a velocità differenti. Vi erano manuali di istruzioni che prescrivevano ai proiezionisti di mo-
dificare la velocità dell’apparecchio durante lo spettacolo. Una stessa opera poteva esistere in diverse versioni: in
bianco e nero o colorata con uno dei vari metodi a disposizione, di lungo, corto o medio metraggio, accompagnata
da una grande orchestra seguendo le indicazioni di dettagliati cue sheets o da un unico pianista ubriaco. Fra le di-
verse versioni di un film c’erano enormi differenze, concernenti in primo luogo la durata” [A. Williams, Historical
and Theoretical Issues in the Coming of Recorded Sound to the Cinema, in R. Altman (a cura di), Sound Theory
Sound Practice, New York 1992, pp. 128-129]. Al contrario, come osserva Michel Chion, la registrazione e la sin-
cronizzazione del suono “ha costretto il cinema a stabilizzare la velocità di registrazione e di lettura delle proprie
immagini, permettendo a quest’arte cinematografica (in grado di fissare il movimento), di divenire ugualmente
un’arte “cronografica” (che registra il tempo)” [M. Chion, La Musique au cinéma, Paris 1995, p. 61]. Si può notare
però che il sistema Vitaphone rappresenta una prima tappa incompleta e imperfetta del percorso descritto da Wil-
lams: infatti la riuscita dello spettacolo dipendeva ancora per una parte essenziale (anzi, perfino maggiore che nel
periodo del muto) dall’apporto del proiezionista, responsabile del delicato compito di mantenere il sincronismo fra
dischi e pellicola, nonché di altre mansioni che verranno di lì a pochissimo “meccanizzate” dal cinema sonoro, co-
me quella di regolare il volume del suono in funzione della distanza o dell’effetto drammatico che si voleva ottene-
re. Inoltre, piuttosto che una maggiore stabilità testuale, la transizione al sonoro sembra comportare in un primo
momento una proliferazione ancora più accentuata delle versioni e delle varianti, in apparente contraddizione con la
lettura di Williams: un film può circolare contemporaneamente in versione muta e sonora, oppure con il suono inci-
so su dischi o impressionato sulla pellicola, per non parlare delle sue eventuali versioni in lingua straniera destinate
all’esportazione.
Ciò non toglie che l’avvento del sonoro debba essere interpretato complessivamente come il punto di arrivo di un
processo più generale tendente ad appianare il divario fra testo e performance, ancora sensibile nel cinema muto
maturo, a favore della chiusura testuale, spogliando il corpo del film da qualsiasi elemento non riprodotto tecnica-
mente o annettendolo a esso: la colorazione artigianale della pellicola (sostituita dal bianco e nero o dal colore fo-
tografico), il commento verbale del bonimenteur (messo fuori gioco dall’introduzione delle didascalie e recuperato
più tardi dalla narrazione in voice over), l’accompagnamento musicale eseguito in sala, le presentazioni e i mono-
loghi dal vivo, residuo dello spettacolo composito delle origini, che ancora negli anni Venti precedevano la proie-
zione dei film nelle sale di prima visione (e che saranno sostituiti da materiale ugualmente filmato: notiziari, cor-
tometraggi). Occorre dunque sottoscrivere con cautela il luogo comune diffuso secondo cui il cinema sarebbe sem-
pre stato sonoro. La musica del pianista e dell’orchestra, insieme agli altri eventi acustici che potevano avere luogo
durante la proiezione di un film muto (rumori, lettura delle didascalie, commento verbale), era parte integrante del-
lo spettacolo cinematografico ma non del testo filmico, con il quale intratteneva un rapporto oltremodo precario e
problematico. Il suono e l’immagine partecipavano di due forme di testualità profondamente diverse: vicina,
quest’ultima, alla forma replicabile all’infinito del testo scritto, mentre il primo era soggetto alle condizioni ogni
volta diverse della performance dal vivo. La qualità delle prime colonne sonore su disco non era certo esaltante:
“L’adattamento sinfonico – scrive il compositore Darius Milhaud dopo avere assistito alla proiezione di un film Vi-
taphone – inondava le orecchie di un suono grossolano, un po’ confuso, una specie di nebbia sonora piena di ottime

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intenzioni ma che lasciava perplessi e irritati” [D. Milhaud, Deux expériences de film sonore, in “La Revue du Ci-
néma”, n. 5, 1929, p. 36]. In compenso il suono registrato, oltre a garantire un sincronismo più perfetto della parti-
tura con l’azione, ne legava stabilmente il destino a quello del film. Solo con l’avvento del Vitaphone la musica,
sottratta alla precarietà dell’esecuzione dal vivo, viene a condividere insieme agli altri suoni lo statuto riproduttivo
delle immagini, seppure fissata mediante una tecnologia eterogenea su un diverso supporto. Grazie al Movietone e
agli altri sistemi a lettura ottica destinati a sostituire rapidamente il fonografo, il suono, con un gesto di forte portata
simbolica, si insedierà ufficialmente sullo stesso supporto del film. Quando si afferma che lo spettacolo cinemato-
grafico è stato fin dal principio pienamente audiovisivo, bisogna dunque precisare che il testo filmico lo è divenuto
realmente soltanto alla fine degli anni Venti.
Naturalmente le potenzialità del nuovo mezzo erano meglio sfruttate nei programmi di cortometraggi distribuiti
dalla Warner a partire dall’estate del 1926. Si trattava pur sempre di musica, almeno inizialmente, ma la presa diret-
ta del suono consentiva una perfetta sincronizzazione con le immagini, e al pubblico affascinato pareva che ogni
nota sgorgasse quasi per miracolo dalle labbra degli esecutori e dai loro strumenti. Charles Wolfe ha mostrato mol-
to bene l’importanza storica dei cortometraggi realizzati con il sistema Vitaphone fra il 1926 e il 1931. Gli short di
soggetto musicale si imposero come punto di riferimento obbligato per l’unico genere nato con l’avvento del sono-
ro, fissando le prime convenzioni relative alla messa in scena cinematografica dei numeri di danza e di canto. Inol-
tre gli esemplari parlati, “atti unici” comici o drammatici inizialmente più rari ma destinati ad aumentare col tempo,
trasformandosi in brevi film narrativi e raggiungendo talora la lunghezza di due rulli, fornirono ai primissimi tal-
kies un modello anteriore e assai più decisivo della breve sequenza di dialogo contenuta in The Jazz Singer (come
si è detto, The Lights of New York era un two-reels gonfiato durante la lavorazione alla durata di un lungometrag-
gio). In realtà questo breve passaggio di “dialogo” (1 minuto e 20 secondi), di cui si è molto esagerata l’importanza,
è piuttosto un monologo di Jakie, dal momento che la madre gli risponde a monosillabi, “come se desiderasse resta-
re […] sottomessa alla rappresentazione afona, precedente alla parola” [M. Marie, La Bouche bée, in “Hors Cadre”,
n. 3, 1985], p. 127. Inoltre, come osserva Michel Chion, esso “mantiene un piede nel canto, poiché l’eroe, seduto al
pianoforte, mentre parla strimpella degli accordi che sono come l’accompagnamento del suo discorso, del suo ‘me-
lodramma’” [M. Chion, La Musique au cinéma cit., p. 72]. Entrambi consentirono inoltre al personale tecnico di
prendere confidenza con le nuove apparecchiature, sperimentando modalità di ripresa (come quella della cinepresa
multipla) che diverranno d’uso corrente in tutto il primo cinema sonoro. Si può aggiungere che nel panorama con-
traddittorio della transizione, caratterizzato dalla coesistenza di spinte innovative e di pulsioni regressive, il pro-
gramma eterogeneo delle prime proiezioni Vitaphone richiama lo spettacolo composito del periodo primitivo, in
una sorta di temporaneo ritorno all’infanzia sotto il segno del vaudeville. Del resto gli short della Warner, al pari
dei film primitivi, erano spesso presentati come singoli numeri all’interno di esso. “Strutturati sull’esempio del
vaudeville, i programmi Vitaphone sostituirono le rappresentazioni dal vivo in molte sale. […] I teatri che pro-
grammavano gli spettacoli di vaudeville o di “vaudfilm” (un mix di vaudeville più film), ridotti sul lastrico, capiro-
no rapidamente i vantaggi economici di assicurarsi gli “show” preconfezionati dei numeri Vitaphone. I cortome-
traggi Vitaphone aprirono anche la strada a una maggiore circolazione dei numeri di vaudeville nelle piccole città e
nelle aree rurali tagliate fuori dal circuito essenzialmente urbano degli spettacoli dal vivo” [Ch. Wolfe, Sulle tracce
dei cortometraggi Vitaphone, in “Cinegrafie”, n. 6, 1993, p. 22]. In modo analogo le attualità realizzate dalla Fox
con il Movietone a partire dal 1927, che costituiscono un modello altrettanto importante per il primo cinema sono-
ro, presentano brevi riprese dal vero di eventi selezionati in funzione delle loro potenzialità “fonogeniche” (e spes-
so oltremodo chiassosi: parate militari, incontri sportivi, partenze e arrivi di aerei o di altri mezzi di locomozione,
ecc.), ponendo al centro della rappresentazione non solo e non tanto il reale in se stesso, quanto piuttosto la facoltà
del microfono di coglierne la dimensione sonora, secondo una strategia che richiama ugualmente il periodo delle
origini.
Quanto a The Jazz Singer, un film su cui giustamente sono stati versati dei fiumi d’inchiostro, si ricorderà soltanto
la sintesi che esso realizza per la prima volta fra i due modelli proposti inizialmente dalla Warner: gli short musicali
in presa diretta con cui solitamente si aprivano le proiezioni Vitaphone vengono annessi al lungometraggio
synchronized che occupava la seconda metà della serata (non è un caso se il film di Alan Crosland fu presentato da
solo, senza il consueto programma di corti). Notiamo che in questo duplice sistema gli interventi del suono diretto
costituiscono altrettante interruzioni della linea narrativa, ancora veicolata interamente dalle immagini mute, inte-
grate dal testo scritto delle didascalie e dal commento extradiegetico di una partitura orchestrale, secondo le con-
venzioni degli anni Venti. Si può essere allora tentati di definire la voce di Al Jolson “a-diegetica”, dal momento
che, invece di servire l’azione e di farla procedere, la sospende e la travalica, ponendosi in relazione diretta con lo
spazio della sala cinematografica in una sorta di continua e malcelata interpellazione del pubblico (ancora più evi-
dente nel celebre manifesto pubblicitario del film, da cui la sagoma stilizzata del cantante protende gli occhi e le
grandi mani verso chi guarda in un gesto deittico che può ricordare un altro famosissimo affiche, quasi fosse sul
punto di prorompere in un più confidenziale ma altrettanto perentorio: “Uncle Vitaphone wants you”). Infatti, da
una parte i numeri musicali riproducono (simulano) la dimensione “live” della relazione fra il crooner e il suo pub-

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blico (raddoppiato sullo schermo da quello finzionale), dall’altra forniscono altrettante esemplificazioni delle risor-
se del sincronismo labiale, conservando ancora, in una forte misura, la funzione promozionale e “dimostrativa” dei
cortometraggi Vitaphone. Una lettura analoga è proposta da Claudia Gorbman, secondo cui è inadeguato definire
extradiegetica la partitura di The Jazz Singer, “poiché il film non costruisce sul piano diegetico alcuno spazio sono-
ro coerente al quale opporre la musica non diegetica. Infatti le scene provviste di suono sincrono si svolgono chia-
ramente su un palcoscenico come altrettante performance. Quando Jack canta Mammy davanti a un pubblico teatra-
le, o Blue Skyes nella casa paterna, si esibisce all’interno della finzione; ma anche durante il dialogo con la madre
[…] si percepisce chiaramente che Jolson, a un livello meta-finzionale, sta “esibendosi” ugualmente sul set davanti
al microfono” [C. Gorbman, Unheard Melodies. Narrative Film Music, Bloomington-Indianapolis 1987, p. 47].

1.12. Il muto negli anni del parlato


Nel triennio 1927-1929, durante l’offensiva dapprima contenuta, poi sempre più travolgente dei talkies, si continua
a produrre un gran numero di film interamente muti, anche se spesso dotati di una colonna sonora su disco o su pel-
licola che prevede di norma un accompagnamento orchestrale, degli effetti sonori (più o meno numerosi) e talora
una theme song. Alcuni di essi, come The Crowd (1927) di King Vidor, Sunrise (1927) di Friedrich W. Murnau,
The Cameraman (1928) di Edgar Sedgwick o The Wind (1928) di Victor Sjöström, sono annoverati giustamente
dagli storici del cinema tra i prodotti più prestigiosi ed esemplari della maturità del muto hollywoodiano. Nondi-
meno ci si può chiedere se al loro interno il suono registrato, qualora sia presente, incida in qualche modo sullo stile
e sulle strutture significanti della messa in scena visiva; oppure, più in generale, se il muto degli anni del parlato
porti impressi in una forma qualsiasi i segni tangibili del cataclisma produttivo ed estetico che si sta consumando
nel frattempo.
Come si è detto, nella maggior parte dei prodotti classificati dalle recensioni dell’epoca come synchronized il trat-
tamento del suono non presenta innovazioni di particolare rilievo rispetto alle forme dell’accompagnamento dal vi-
vo praticate durante le proiezioni del muto. In alcuni di essi, tuttavia, si verificano localmente degli scarti vistosi di
regime e di registro che sollevano il fondale sonoro della partitura orchestrale, lasciando intravedere dietro a esso,
seppure per pochissimi istanti, uno spazio audiovisivo di tipo “realistico”. In Sunrise, per esempio, quando i due
protagonisti attraversano la strada come in stato di trance, senza curarsi delle auto che rischiano di travolgerli, il
montaggio introduce con una dissolvenza incrociata un’immagine mentale, benché totalmente oggettivata: lo sfon-
do in trasparente di veicoli viene sostituito da un paesaggio campestre nel quale i due personaggi, inquadrati di
spalle, si addentrano (evidentemente Murnau vuole dirci che Ansass e Indre, ormai rappacificati, si illudono per un
attimo di trovarsi già nelle rassicuranti adiacenze del focolare domestico, al riparo dalle temibili insidie della città
tentacolare). Ma, proprio nel momento in cui si baciano, il loro sogno a occhi aperti viene interrotto bruscamente
dalle immagini del traffico, sincronizzate con il rantolo asmatico dei clacson (un suono che è quasi una firma invo-
lontaria delle prime produzioni sonore) e con le proteste in wild track dei conducenti inferociti (il termine veniva
usato per indicare qualsiasi battuta o frammento di dialogo postsincronizzato all’azione visiva senza alcuna precisa
coincidenza con il movimento delle labbra degli attori), così rumorose da coprire il commento dell’orchestra. An-
cora più curioso è quanto accade nella sequenza clou di The Kiss, ultimo film muto interpretato da Greta Garbo.
Quando il marito, dopo avere sorpreso la protagonista fra le braccia di quello che crede il suo amante, aggredisce
brutalmente il malcapitato, la cinepresa resta immobile davanti alla porta oltre la quale si svolge la colluttazione,
che per giunta si chiude come spinta da una folata di vento, nascondendo i personaggi al nostro sguardo. Allora
l’accompagnamento extradiegetico ammutolisce del tutto, e nel silenzio che ne segue si percepiscono due soli ru-
mori: un colpo di pistola fuori campo (in verità troppo fioco per risultare credibile) e lo squillo di un telefono, mo-
strato a tutto schermo nell’inquadratura successiva. Tuttavia, nel momento in cui la protagonista solleva il ricevito-
re, la nostra speranza di udire la voce della Garbo viene brutalmente delusa: la musica riprende ininterrotta e pos-
siamo accedere al contenuto della telefonata soltanto grazie al testo delle didascalie: dopo l’effetto di momentaneo
spaesamento provocato dall’irruzione del suono naturale e del silenzio nella scena del delitto, la routine musicale
delle proiezioni del muto riacquista il suo pieno controllo sulla colonna sonora.
Quasi per rivendicare a posteriori, per desiderio di rivincita, la totale autosufficienza semiotica dello stile visivo del
cinema muto (o, più semplicemente, in vista di una successiva sincronizzazione con effetti registrati), i film muti
degli anni del parlato alludono spesso attraverso l’immagine a oggetti ed eventi sonori. Si pensi per esempio
all’inquadratura di The Docks of New York (Paramount, 1929) di Josef von Sternberg, descritta con ammirazione da
Arnheim, dove un colpo di pistola esploso fuori-campo ci viene segnalato da uno stormo d’uccelli che si leva in vo-
lo; oppure alla bizzarra sequenza di montaggio di Flesh and the Devil (MGM, 1927) di Clarence Brown in cui la
parola “Felicitas” (nome della protagonista) si compone graficamente per tre volte sulle immagini che mostrano il
ritorno in patria di Leo: la posizione in cui la scritta di volta in volta compare – in corrispondenza degli zoccoli di
un cavallo, sui pistoni del motore di una nave, sovrapposta alle ruote di una locomotiva – indica chiaramente che ci
troviamo di fronte a un esempio di suono soggettivo ante litteram: nella mente dell’eroe i rumori dei mezzi di tra-
sporto che lo portano a casa si trasformano nel nome della amata Felicitas (il cui volto appare sovraimpresso in alto

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a destra, in una composizione verbo-visiva che fa pensare a un rebus). Si tratta di una figura che anticipa in chiave
puramente visuale alcune soluzioni riproposte con successo qualche anno più tardi grazie alla presenza effettiva del
suono riprodotto. Basta pensare a una sequenza del film francese Jean de la Lune (Jean Choux, 1931) dove,
sull’immagine della protagonista che siede con espressione assorta nello scompartimento di un treno, accanto
all’amante addormentato, una voce quasi impercettibile sovrapposta al rumore ritmico del convoglio bisbiglia in-
cessantemente le cinque sillabe del soprannome dell’uomo da cui lei sta fuggendo (lo stesso che dà il titolo al film).
In un altro veicolo divistico per Greta Garbo, The Mysterious Lady (MGM, 1928) di Fred Niblo, un capitano
dell’esercito austriaco viene degradato e imprigionato per essersi fatto sottrarre documenti segretissimi da
un’affascinante spia russa. Su un’inquadratura di poco successiva che mostra il personaggio rinchiuso in una cella
appare in sovrimpressione la stessa fila di tamburini in prospettiva che avevamo visto durante la sequenza della de-
gradazione: il personaggio si aggira sempre più inquieto nella piccola stanza e alla fine si copre le orecchie con le
mani come per non sentire il rullo dei tamburi. Ecco un altro singolare esempio di suono soggettivo realizzato con
mezzi indiretti, che richiede naturalmente la presenza di un rullo di tamburi reale (eseguito dal vivo o registrato)
per raggiungere pienamente il proprio effetto, ma dimostra al tempo stesso che i principi di molte figure audiovisi-
ve “scoperte” poi dal cinema sonoro erano già noti perfettamente ai cineasti del muto.
Anche Eternal Love (United Artists, 1929) di Ernest Lubitsch, un mediocre Bergenfilm hollywoodiano interamente
postsincronizzato, nobilitato soltanto dal tocco sapiente del regista, contiene degli esempi interessanti di allusione
visiva a fenomeni acustici. Per esempio, allo scopo di suggerire che lo scampanio della chiesa dove si celebra il
matrimonio dell’amata Ciglia (Camilla Horn) con un altro uomo raggiunge le orecchie di Marcus (John Barrymo-
re), ritiratosi sulle montagne che circondano il villaggio, Lubitsch sovrappone a un montaggio di immagini in mo-
vimento del paesaggio alpino l’inquadratura delle campane, producendo l’illusione che siano esse stesse a volare
fino a lui (più avanti, il colpo di fucile con cui Marcus, in montagna, uccide il rivale in amore sarà udito simmetri-
camente da Ciglia in paese). Sembra proprio che il regista tedesco abbia intuito qui precocemente una delle princi-
pali risorse del suono cinematografico: quella di collegare e unificare ciò che il montaggio scinde e decompone,
mettendo in relazione degli spazi che senza di esso resterebbero privi di comunicazione reciproca. Infine, in alcuni
passaggi del già citato The Kiss, Jacques Feyder non si limita a mostrare allo spettatore la traduzione in immagini
del racconto verbale di un personaggio, secondo la convenzione già da lungo tempo codificata del flashback, ma
cerca di suggerire delle precise corrispondenze fra inquadrature filmiche ed enunciati verbali. Così, nella sequenza
dell’interrogatorio, quando l’agente chiede alla protagonista a che ora si è ritirata nella sua stanza, il regista intro-
duce un dettaglio del quadrante di un orologio con le lancette che oscillano fra le 21.10 e le 21.20, L’inquadratura
vuole esprimere probabilmente, nell’intenzione del regista, l’enunciato verbale: “In un arco di tempo compreso tra
le nove e dieci e le nove e venti”, o mira piuttosto a tradurre l’esitazione della donna riguardo all’ora da dichiarare
ai poliziotti. Anche qui l’immagine muta sembra volere affermare con decisione la sua potenziale autonomia. Inol-
tre, ciò che colpisce in numerosi film muti degli anni del parlato è la tendenza ad anticipare tecniche di ripresa o di
montaggio che diverranno consuete solo dopo l’avvento del sonoro. Per esempio, la cifra stilistica che caratterizza
la messa in scena di A Woman of Affairs (MGM, 1929) di Clarence Brown, un altro interessante mélo interpretato
dalla Garbo, risiede senza dubbio nei movimenti di macchina impiegati in maniera sistematica nel corso del film:
inquadrature lunghe con panoramiche laterali che seguono i personaggi durante il dialogo, con una tecnica affine
allo stile di ripresa del primo cinema sonoro, oppure carrellate, all’indietro o in avanti, che iniziano dal dettaglio di
un oggetto (come la maniglia di una porta) per inquadrare il totale di una stanza o che, all’opposto, restringono
progressivamente il campo dell’immagine fino a racchiudere il primo piano di un volto. Si tratta di una soluzione
stilistica alquanto inusuale per il cinema muto degli anni Venti, americano e non, dove il passaggio dal campo tota-
le al dettaglio viene effettuato di norma attraverso il montaggio.

1.13. I generi classici del cinema hollywoodiano alla svolta del sonoro: un tentativo di inventario
Nel complesso l’impatto dell’avvento del sonoro sul sistema “istituzionale” dei generi affermatosi nel periodo del
muto è assai meno violento e incisivo di quanto si possa immaginare. Come si sa, il nuovo assetto estetico, tecnolo-
gico e produttivo tende a penalizzare gravemente tutti quei generi cinematografici in cui i valori paesaggistici, la
ricchezza della ricostruzione scenografica o il ritmo accelerato dell’azione visiva costituivano un ingrediente essen-
ziale per la riuscita del prodotto (il western, l’avventuroso o la slapstick comedy, per esempio). Infatti, la pessima
resa in esterni delle prime apparecchiature sonore e l’incremento dei budget richiesti per la realizzazione dei film,
insieme all’accentuato verbocentrismo dei primi talkies, inducono i registi e i produttori a privilegiare soggetti di
derivazione teatrale, o comunque girati in interni e incentrati sul dialogo sincrono oppure sul canto (il musical, il
mystery, la commedia e il melodramma sono senza dubbio i quattro generi dominanti). Tuttavia, i rapidi progressi
compiuti dal nuovo mezzo nei primi anni Trenta consentiranno in breve tempo al cinema hollywoodiano di reinte-
grare nel “sistema” i generi che sembravano destinati a una prematura estinzione. Inoltre, non si può dimenticare
che durante la transizione i soggetti inadatti al film sonoro continueranno a essere sfruttati in assoluta libertà
dall’ancora cospicua e vitale produzione muta.

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Per esempio, la filmografia del periodo 1928-1929 abbonda di western a basso costo, che garantiscono la sopravvi-
venza della horse opera in questa difficile congiuntura. Nello stesso tempo, il successo ottenuto alla fine del 1928
dalla Fox con In Old Arizona riconcilia l’industria hollywoodiana con un genere che sembrava destinato a tramon-
tare insieme al cinema “silenzioso”, aprendo la strada a una serie di nuove produzioni altrettanto prestigiose. The
Virginian (Paramount, 1929) di Victor Fleming, Hell’s Heroes (Universal, 1930) di William Wyler, Billy the Kid
(MGM, 1930) di King Vidor, The Texan (Paramount, 1930) di John Cromwell, The Big Trail (Fox, 1930) di Raoul
Walsh e Cimarron (RKO, 1931) di Wesley Ruggles sono alcune tappe successive di questa rapida riconquista del
western da parte del nuovo cinema sonoro.
Quanto al film di cappa e spada, l’esordio nel sonoro di Douglas Fairbanks con The Iron Mask (1929) di Allan
Dwan, un prodotto quasi interamente postsincronizzato, suona più come un commiato elegante e un po’ funebre al
genere in cui l’attore si era distinto nell’ultimo decennio del muto che come una premessa per nuovi sviluppi futuri:
bisogna attendere infatti la seconda metà degli anni Trenta perché lo swashbuckler sia riportato all’antico splendore
dal binomio Michael Curtiz-Errol Flynn. Tuttavia, durante il periodo di transizione il film avventuroso e d’azione
virile è mantenuto in vita, oltre che dai western citati, dalle classiche imprese coloniali di The Four Feathers (Pa-
ramount, 1929) di Merian C. Cooper ed Ernest B. Schoedsack (postsincronizzato) o di The Black Watch (Fox,
1929), primo feature sonoro diretto da John Ford, oppure, in una chiave più moderna, dalle prodezze aviatorie degli
eroi di Flight (Columbia, 1929) di Frank Capra o di The Dawn Patrol (Warner, 1930) di Howard Hawks.
Insomma, l’unico genere portante del muto hollywoodiano destinato realmente a scomparire come “sistema” auto-
nomo, pur lasciando una traccia indelebile nel patrimonio genetico della comedian comedy sonora, è senza dubbio
il burlesque in senso stretto. Mentre Chaplin si chiude in un silenzio risentito che non sarà rotto neppure dal suo
debutto tardivo nel sonoro, già nell’ottobre del 1929 Harold Lloyd licenzia la sua prima commedia interamente par-
lata, Welcome Danger, diretta dal fido Clyde Bruckman. Nonostante il moderato successo di questa pellicola, se-
guita l’anno successivo da Feet First, diretto anch’esso da Bruckman, l’attore durante gli anni Trenta diraderà pro-
gressivamente le sue interpretazioni. L’accoglienza positiva riservata nel 1930 da “Variety” ai due primi talkies con
Buster Keaton, Free and Easy e Doughboys, entrambi prodotti dalla MGM e diretti da Edgar Sedgwick, non fa an-
cora presagire il rovinoso e irreversibile declino a cui andrà incontro la star nel corso del decennio. Resta da chie-
dersi se la decadenza dello slapstick vada imputata esclusivamente a un dato “estrinseco” al genere come l’avvento
del sonoro o se non sia anche l’effetto di una crisi “strutturale” – magari dovuta a un eccesso di autocoscienza, op-
pure al naturale logoramento di formule fin troppo sfruttate – i cui sintomi si potrebbero già scorgere in alcune oc-
correnze dei tardi anni Venti: da una parte la maturità di capolavori come The Circus e The Cameraman, dall’altra
la routine un po’ stanca di prodotti come Speedy (1928) di Ted Wild o Spite Marriage (1929) di Edgar Sedgwick,
ultimi muti interpretati rispettivamente da Harold Lloyd e da Buster Keaton.
L’assoluta sovranità conferita in questo periodo alla voce umana e alla parola sincrona (pronunciata o cantata) fa-
vorisce naturalmente quei generi che possono vantare una solida tradizione teatrale precedente e coeva. Non sor-
prende dunque che gli archetipi del dramma borghese e della commedia salottiera e bavarde, già operanti nel pe-
riodo del muto ma penalizzati inevitabilmente dall’assenza del dialogo, circolino liberamente in forma pura o con-
taminati con altri modelli (come quelli del musical imperante). Bisogna attendere tuttavia diversi anni per assistere
alla nascita e alla fioritura della grande commedia hollywoodiana sonora, sofisticata o screwball, e lo stesso si può
dire del mélo: i soli esemplari di rilievo apparsi alla fine degli anni Venti appartengono pienamente alla tradizione
del muto: Seventh Heaven, Flesh and The Devil, The Last Command (1928) di Josef von Sternberg, ecc. Più curio-
so, almeno in apparenza, è il grande successo di cui gode per qualche anno il genere poliziesco, nelle tre varianti
del gangster movie, del mystery e del film giudiziario. Non è certo un caso se tanto il primo part-talkie che il primo
all-talkie realizzati a Hollywood, Tenderloin e The Lights of New York, sviluppano soggetti che le recensioni
dell’epoca, in assenza di una precisa etichetta di genere, definiscono d’ambientazione underworld. Nel biennio
1928-1929 il fenomeno del gangsterismo urbano è già al centro di numerose pellicole, sia mute che sonore, che an-
ticipano la nota fioritura dei primi anni Trenta: The Racket (Howard Hughes, 1928) di Lewis Milestone, The Drag
Net (Paramount, 1928) di Josef von Sternberg, State Street Sadie (Warner, 1928) di Archie Mayo, While the City
Sleeps (MGM, 1928) di Jack Conway, Me Gangster (Fox, 1928) di Raoul Walsh, Gang War (FBO, 1928) di Bert
Glennon e Thunderbolt (Paramount, 1929), ancora di Josef von Sternberg, sono fra i titoli di maggiore successo.
Inoltre la contiguità fra il mondo della malavita e quello dello spettacolo consente possibili connivenze fra la crime
story e il musical backstage, come nel caso di Broadway (Universal, 1929) di Paul Fejos. Ma il tipo di poliziesco
privilegiato è sicuramente il whodunit (di solito classificato come mystery nelle recensioni dell’epoca), sottogenere
di derivazione letteraria destinato a occupare una posizione marginale durante la maturità del sonoro per via delle
sue scarse potenzialità “fotogeniche”. Così il secondo all-talkie dalla Warner, The Terror, deriva da una pièce di
Edgar Wallace, mentre The Canary Murder Case (Paramount, 1929) di Malcom St. Clair e The Green Murder Ca-
se (Paramount, 1929) di Frank Tuttle portano sullo schermo con successo due celebri romanzi di Van Dine In en-
trambi il detective Philo Vance è interpretato da William Powell. Lo stesso anno tre personaggi di derivazione lette-
raria già noti agli spettatori del muto e destinati a una lunga carriera seriale dopo l’avvento del sonoro, il detective

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Sherlock Holmes, l’avventuriero Bull Drummond e il criminale cinese Fu Manchu, vengono impersonati sullo
schermo rispettivamente da Clive Brook, da Ronald Colman e da Warner Oland in The Return of Sherlock Holmes
(Paramount) di Basil Dean, Bulldog Drummond (Samuel Goldwyn) di F. Richard Jones e Dr. Fu Manchu (Para-
mount) di Rowland V. Lee.
Una variante del mystery molto diffusa negli anni della transizione è quella del film giudiziario, sottogenere a cui
appartengono On Trial (Warner, 1928) di Archie Mayo, The Bellamy Trial (MGM, 1929) di Monta Bell, The Trial
of Mary Dougan (MGM, 1929) di Rayard Veiller e His Captive Woman (Warner 1929) di George Fitzmaurice, un
part-talkie in cui i flashback sono muti, mentre la cornice giudiziaria a partire da cui si sviluppano è pienamente
sonora, per citare soltanto gli esempi più significativi. Si tratta quasi sempre di film che a partire dalla cornice del
processo avvicendano le deposizioni in flashback degli imputati e dei principali testimoni. Sotto questo aspetto la
maggiore sorpresa è costituita senza dubbio dall’ingegnosa costruzione narrativa impiegata in Thru Different Eyes
(Fox, 1929) di John Blynstone, dove i flashback, secondo il principio enunciato programmaticamente dal titolo, vi-
sualizzano le versioni contrastanti degli stessi eventi offerte dai tre protagonisti. Occorre però ricordare che si tratta
di una soluzione non del tutto innovativa, dal momento che traduzioni in flashback di testimonianze verbali inat-
tendibili si incontrano già in due film muti girati a Hollywood verso la metà degli anni Venti: The Goose Woman
(1925) di Clarence Brown e Footloose Widows (1926) di Roy Del Ruth. Un flashback menzognero è presente del
resto in un altro film dello stesso anno che si conclude nell’aula di un tribunale, il già citato The Kiss. Non è diffici-
le comprendere le ragioni di questa preferenza per gli intrecci di tipo poliziesco, dovuta senza dubbio all’intenzione
di compensare sul piano dell’intreccio la staticità dei primi talkies attraverso l’iniezione di suspense garantita dallo
schema stesso dell’inchiesta, ma anche alla complessità narrativa infinitamente maggiore consentita dai poteri del
dialogo sincrono, capace di marginalizzare le azioni pragmatiche per spostare l’accento sulla dimensione cognitiva
del racconto, oppure di fornire l’indispensabile intelaiatura verbale a costruzioni retrospettive inaccessibili
all’immagine muta.
Il solo musical in senso proprio prodotto a Hollywood nel 1928 è The Singing Fool di Lloyd Bacon, presentato il
19 settembre, un part-talkie con cui Al Jolson e la Warner ripropongono la stessa commistione di biopic e melo-
dramma già sfruttata felicemente in The Jazz Singer, ottenendo un successo perfino maggiore grazie ai progressi
tecnologici ed estetici raggiunti nel frattempo. Chi voglia investigare sulla genesi dell’unico genere classico appar-
so con l’avvento del sonoro non può tuttavia trascurare l’importantissimo ruolo degli short musicali prodotti dalla
Warner a partire dal 1927, che forniscono al lungometraggio di finzione un primo elementare repertorio di opzioni
stilistiche relative alla messa in scena cinematografica dei numeri di danza e di canto. La moda del film all talking,
all singing e all dancing esplode comunque nel biennio 1929-1930, durante il quale i prodotti provvisti di esibizio-
ni coreografiche e canore divengono così numerosi da rendere talora problematica e incerta la linea di confine fra il
musical in senso stretto e il film sonoro tout court. Alcuni, come The Lucky Boy (Tiffany-Stahl, 1929) di Norman
Taurog, imitano fedelmente il modello backstage e larmoyant inaugurato da Jolson, mentre altri collaudano nuovi
schemi destinati ugualmente a orientare la produzione a venire. Una formula che gode in questi anni di un’effimera
fortuna è quella della musical revue, sprovvista di una narrazione unitaria e fondata esclusivamente sulla giustappo-
sizione di turns eterogenei – canzoni, scene comiche, danza – secondo un modello derivato dal vaudeville america-
no, ma anche tipico dello show coreografico inaugurato nel primo decennio del secolo dalle Follies di Flo Ziegfeld
(nonché dei programmi compositi di short della Vitaphone, proiettati di norma in un ordine fisso che prevedeva al-
meno un’ouverture e un numero finale): Fox Movietone Follies of 1929 di David Butler, Hollywood Revue (MGM,
1929) di Charles Reisner, The Show of Shows (Warner, 1929) di John Adolfi, The King of Jazz (Universal, 1930) di
J. Murray Anderson e Paramount on Parade (1930), diretto da numerosi registi, sono altrettante confezioni di lus-
so, quasi sempre impreziosite da sequenze in Technicolor, attraverso cui i principali case di produzione si autocele-
brano ed espongono in vetrina le proprie star di maggiore prestigio. A giudicare dai film musicali distribuiti nel
biennio 1929-1930, sembra quasi che l’abbandono del bianco e nero sia un evento imminente: infatti una ventina
circa di essi è girata interamente in Technicolor, mentre un numero ancora più alto contiene sequenze a colori. As-
sai più numerosi, comunque, sono i film che preferiscono servirsi di un pretesto narrativo, seppure talora esilissimo,
come cornice e tessuto connettivo per introdurre le performance canore o coreografiche. Molti di essi, seguendo la
strada indicata dalle prime interpretazioni di Al Jolson, preferiscono il melodramma alla commedia e fanno ricorso
a soggetti ambientati nel mondo dello spettacolo allo scopo di “naturalizzare” gli scarti fra il dialogo e il canto.
Prodotti di grande successo come Broadway Melody (MGM) di Harry Beaumont, The Innocents of Paris (Para-
mount) di Richard Wallace, On with the Show (Warner) di Alan Crosland, Broadway Babies (Warner) di Mervyn
Le Roy o Gold Diggers of Broadway (Warner) di Roy Del Ruth, tutti apparsi nel 1929, contribuiscono precoce-
mente a fissare gli archetipi del sottogenere che Busby Berkeley porterà alla perfezione nella prima metà del de-
cennio seguente, denominato da Rick Altman “show musical”, Termine che lo studioso americano preferisce al più
comune “backstage musical”, a suo avviso eccessivamente legato al contesto teatrale, per designare tutti i film in-
centrati sull’allestimento di uno spettacolo, di qualunque tipo esso sia [Cfr. R. Altman, The American Film
Musical, Bloomington-Indianapolis-London 1989, p. 200]. Al pari degli altri due sottogeneri discussi da Altman, lo

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show musical deriva i propri modelli dalla tradizione teatrale. Infatti, in seguito al successo conseguito nel 1919 dal
play di While Hopwood The Gold Diggers, prodotto dal famoso impresario David Belasco, “gli anni Venti portaro-
no a Broadway una serie infinita di drammi incentrati sulle gioie e i dolori dei professionisti dello spettacolo” [I-
bid., p. 205]. Alla fine dell’anno la formula è stata già sfruttata così intensivamente da esporre l’intero genere musi-
cale al rischio di un prematuro esaurimento, come mostra lo scarso entusiasmo con cui gli esigenti recensori di
“Variety” accolgono i nuovi esemplari apparsi all’inizio del 1930. Per esempio, a proposito di Glorifying the Ame-
rican Girl (Paramount) di Millard Webb, si legge sul numero del 15 gennaio: “Troppa acqua è passata sotto i ponti
da quando la formula backstage è stata promulgata per la prima volta da Hollywood. Sei mesi fa Glorifying sarebbe
apparso molto superiore”.
Quasi altrettanto comuni, tuttavia, sono i prodotti che immettono la performance musicale all’interno di intrecci
sprovvisti di implicazioni metalinguistiche. Si tratta di film ascrivibili al vasto filone definito da Rick Altman “fairy
tale musical”, nel quale sono più evidenti e dirette le influenze dello spettacolo teatrale. Alcuni, come Sunny Side
Up (Fox, 1929) di David Butler, sono basati su soggetti originali, mentre altri si ispirano liberamente agli schemi
forniti dalla tradizione europea dell’operetta, inaugurando un ulteriore sottogenere che annovera tra i suoi primi e-
semplari The Love Parade (Paramount, 1929) di Ernst Lubitsch, ma la maggior parte di essi si limita a portare sullo
schermo successi di Broadway precedenti o coevi: è il caso di fortunati “protomusical” come The Desert Song
(Warner, 1929) di Roy Del Ruth, Rio Rita (RKO, 1929) di Luther Reed o Whoopee (Goldwyn, 1930) di Thornton
Freeland. Assai meno frequenti sono invece in questo stadio iniziale i film riconducibili al modello del “folk
musical”, votato alla rievocazione nostalgica e mitizzante delle radici culturali americane. Ciò non toglie che già
nel 1929 il folklore del vecchio sud fornisca lo sfondo musicale e scenografico a pellicole archetipiche come Show
Boat (Universal) di Harry Pollard, o Heart in Dixies (Fox) di Paul Sloane, primo esemplare in assoluto di
un’ulteriore “sottospecie” destinata a cristallizzarsi in sottogenere nel periodo maturo, il musical all-negro (inter-
pretato esclusivamente da attori di colore). Filone marginale ma longevo a cui solo formalmente appartiene Halle-
lujah (MGM, 1929) di King Vidor, un’opera che ignora gli stilemi del musical e rifiuta ogni stretta definizione di
genere in nome di un approccio quasi antropologico alla vocalità afroamericana.
L’eclisse temporanea del film musicale durante il periodo 1931-1932 manifesta senza dubbio una reazione “esteti-
ca” contro gli eccessi di stilizzazione e di irrealismo causati nel primo cinema sonoro dalla onnipresenza della dan-
za e del canto (non è un caso se nello stesso periodo si assiste al successo di generi crudamente realisti quali il film
gangsteristico o carcerario). Nondimeno, come suggerisce Rick Altman, questa brusca inversione di tendenza si po-
trebbe anche attribuire all’insofferenza del pubblico verso il tentativo iniziale “di stabilire una sintassi tragica per il
musical (musica = separazione)”, in accordo con la vocazione melodrammatica di film come The Singing Fool o
Broadway Melody, destinati a una totale obsolescenza dopo la svolta del ’31 ma ancora oltremodo influenti nel
biennio precedente.

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2. SUSANNA DI HOWARDS HAWKS E LA SCREWBALL COMEDY AMERICANA DEGLI ANNI
TRENTA

2.1. Il film
Titolo originale: Bringing Up Baby; regia: Howard Hawks; soggetto: Hagar Wilde; sceneggiatura: Dudley Ni-
chols, Hagar Wilde; fotografia: Russell Metty; effetti speciali: Vernon L. Walker; scenografia: Van Nest Polglase,
Perry Ferguson; arredamenti: Darrell Silvera; costumi: Howard Greer; montaggio: George Hilvey; musica: Roy
Webb; suono: John L. Cass; interpreti: Katharine Hepburn (Susan Vance), Cary Grant (David Huxley), Charles
Ruggles (Major Horace Applegate), May Robson (Elizabeth Randon), Walter Catlett (Constable Slocum), George
Irving (Alexander Peabody), Virginia Walker (Alice Swallow), Fritz Feld (Dr. Fritz Lehman), Tala Birrell (Mrs.
Lehman), Barry Fitzgerald (Gogarty), Leonah Roberts (Mrs. Gogarty), John Kelly (Elmer), il cane Asta (George),
il leopardo Nissa (Baby); produzione: Howard Hawks per la RKO; produttore associato: Cliff Reid; distribuzione:
RKO; riprese: dal 3 settembre 1937 al 12 gennaio 1938; prima proiezione pubblica: 18 febbraio 1938; durata: 102
minuti.

2.2. La storia
Un telegramma comunica al paleontologo David Huxley la notizia del lieto evento che tanto attendeva: l’ultimo
pezzo mancante dello scheletro di brontosauro alla cui ricostruzione aveva dedicato anni di indefesso lavoro, una
“clavicola intercostale”, è stato finalmente riportato alla luce e il suo arrivo si preannuncia imminente. Nel frattem-
po, su suggerimento della sua assistente e futura sposa, l’arcigna Alice Swallow, si reca presso un campo da golf
per incontrare Alexander Peabody, legale della ricca Elizabeth Randon, dalla quale spera di ottenere una cospicua
somma di denaro a sostegno del suo museo di storia naturale. Qui David fa involontariamente la conoscenza di Su-
san Vance, una giovane ereditiera stravagante e totalmente priva di inibizioni il cui principale passatempo sembra
essere quello di impossessarsi di cose che non le appartengono. Prima la ragazza si impadronisce indebitamente
della palla di Mr. Peabody, che David cerca invano di recuperare, quindi scambia l’auto del paleontologo per la
propria, mandando a monte partita e colloquio d’affari. I due si ritroveranno la sera stessa in un locale elegante, do-
ve lui si è recato in cerca di Peabody: l’incontro sarà cagione di nuovi ed esilaranti incidenti, che impediranno per
la seconda volta al protagonista di conferire col legale.
Il giorno dopo, David riceve da un fattorino in un pacco postale l’attesa clavicola, ma prima di potersene rallegrare
apprende da una telefonata di Susan, della quale credeva di essersi liberato per sempre, che la ragazza si trova in
balia di un pericoloso leopardo. Accorso precipitosamente in aiuto della sua persecutrice, egli scopre con disappun-
to che Baby (così si chiama l’animale) è in realtà addomesticato e più innocuo di un gatto d’appartamento. Ma or-
mai il gioco è fatto: l’irresoluto e imprudente paleontologo si lascerà facilmente convincere ad accompagnare la ra-
gazza fino alla tenuta di campagna della zia, a cui spera di vendere il felino per un milione di dollari. Il movimenta-
to viaggio in auto alla volta del Connecticut si rivela per l’eroe soltanto il preludio di nuove e peggiori disavventu-
re: costretto ad abbigliarsi in maniera umiliante e ridicola per colpa di Susan, che gli ha sottratto i vestiti allo scopo
di precludergli la fuga, David viene subito derubato da un cane del suo rarissimo fossile, che inopinatamente ha
portato con sé, con la grottesca caccia al tesoro che ne segue. Come se non bastasse, apprenderà di lì a poco che zia
Elizabeth altri non è che la ricca mecenate da cui sperava di ottenere una sovvenzione per il suo museo.
La vicenda si complica con la fuga di Baby e con l’entrata in scena di un secondo leopardo che i due protagonisti
stessi sottraggono per errore agli uomini del circo, intenzionati ad abbatterlo per la sua ferocia. La partita di caccia
notturna si concluderà presso l’ufficio dello sceriffo, dietro le sbarre di una cella. Nella sequenza finale vediamo,
come all’inizio, David Huxley in cima a un’impalcatura, assorto nella contemplazione del suo brontosauro. Quando
Susan, trafelata, fa irruzione nella sala con l’osso ritrovato, annunciando che provvederà lei stessa a finanziare il
museo, lui replica a sorpresa di non essersi mai divertito così tanto in vita sua. In preda all’emozione e allo stupore
la ragazza sale su una scala malsicura e, per evitare di cadere, si aggrappa all’enorme carcassa, provocandone il
crollo. Alla fine i due si abbracciano, ma lui non sembra felice: a giudicare dall’espressione del suo volto pare piut-
tosto inebetito, frastornato.

2.3. Il contesto
Punto di intersezione fra stereotipi di genere e prassi autoriale, fra tradizione teatrale e modelli specificamente ci-
nematografici, Bringing Up Baby occupa nel panorama del cinema americano degli anni Trenta una posizione pa-
radossale. Citato a buon diritto come uno degli esempi maggiormente rappresentativi della commedia hollywoodia-
na, dove gli elementi distintivi del genere si manifestano nella maniera più appariscente ed esemplare, è al tempo
stesso caratterizzato da una serie di opzioni narrative e tematiche fortemente originali, per non dire trasgressive, che
rinviano ad alcuni tratti specifici della poetica del suo autore, Howard Hawks. Non vi è dubbio che la commedia
occupi nella produzione di questo regista, oltremodo discontinuo ed eclettico nel suo rapporto con i generi e forse
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più noto alla maggior parte del pubblico per le avventure di eroismo virile, una posizione del tutto privilegiata. Per
quanto Hawks abbia affrontato con uguale successo soggetti drammatici (dal gangster movie al western, dal noir al
film bellico, dal melodramma al film storico), nella sua produzione le opere riconducibili al genere comico sono di
gran lunga le più numerose. Per l’esattezza le sue commedie sono sette – Ventesimo secolo (Twentieth Century,
1934), Susanna (Bringing Up Baby, 1938), La signora del venerdì (His Girl Friday, 1940), Colpo di fulmine (Ball
of Fire, 1942), Ero uno sposo di guerra (I Was a Male War Bride, 1949), Il magnifico scherzo (Monkey Business,
1952) e Qual è lo sport preferito dall’uomo? (Man’s Favorite Sport, 1964) – ma divengono nove se si includono
anche i due film musicali: Venere e il professore (A Song Is Born, 1948) e Gli uomini preferiscono le bionde (Gen-
tlemen Prefer Blondes, 1953). Non è dunque azzardato parlare di una commedia hawksiana, così come si fa riferi-
mento a buon diritto a una commedia lubitschiana, capriana o wilderiana. Essa appare infatti caratterizzata non solo
dalla circolazione di temi, motivi, personaggi, situazioni, schemi narrativi e moduli recitativi ricorrenti, ma anche
dalla presenza costante di una serie di scarti dalla “norma”, che in Bringing Up Baby si manifestano forse nella ma-
niera più appariscente. È quindi impossibile, anche focalizzando primariamente l’attenzione sulle caratteristiche del
film esemplari del genere a cui appartiene, prescindere totalmente dalle relazioni che esso intrattiene con il resto
della produzione comica di Howard Hawks.
Negli studi sul cinema hollywoodiano classico e nei lavori specifici dedicati alla commedia, il film viene sempre
citato come uno degli esempi più tipici e significativi della screwball comedy, sottogenere menzionato quasi sem-
pre senza essere descritto in maniera precisa ed esauriente, e talora non definito del tutto. Come ricorda James Har-
vey [Romantic Comedy in Hollywood from Lubitsch to Sturges, Alfred A. Knopf, New York, 1987], l’aggettivo
screwball o madcap (“svitato”, “pazzoide”, “stralunato”) fu impiegato per la prima volta dalla stampa a proposito
della commedia cinematografica nel 1936, in seguito all’apparizione di L’impareggiabile Godfrey (My Man Go-
dfrey) di Gregory La Cava. Alcuni – per esempio Donald McCaffrey [The Golden Age of Sound Comedy, Barnes
and Co., New York, 1973] – utilizzano il termine come sinonimo di sophisticated o romantic comedy, in opposi-
zione alla comedian comedy, vale a dire il genere comico vero e proprio. Altri – come Roberto Campari [Il modello
e le contaminazioni, “Cinema & Cinema”, n. 33, 1982] preferiscono distinguere la sophisticated comedy – caratte-
rizzata dal netto predominio della parola sull’azione, dal rispetto della verosimiglianza psicologica nella caratteriz-
zazione dei personaggi e dall’adozione di un registro sottilmente ironico, piuttosto che apertamente burlesco – dalla
screwball comedy, in cui l’azione viene ad assumere la stessa importanza dei dialoghi e la comicità diviene molto
più accentuata, con la presenza di vere e proprie gag visive derivate dalla slapstick comedy del periodo del muto.
Tutti gli autori sono invece concordi nel situare l’apogeo del genere in un periodo compreso all’incirca fra il 1934 e
l’inizio della seconda guerra mondiale.
Kristine Brunovska Karnick distingue, sul piano narrativo, due tipi fondamentali di screwball comedy: la comedy of
committment, che descrive la formazione di una nuova coppia, e la comedy of reaffirmation, incentrata sulla ricon-
ciliazione di una coppia che si è separata in precedenza: si tratta esattamente di quel tipo di commedia che Stanley
Cavell definisce comedy of remarriage nel suo importante saggio Alla ricerca della felicità. La commedia hollywo-
odiana del rimatrimonio [Einaudi, Torino, 1999]. L’autrice individua all’interno dei due sottogeneri degli schemi
narrativi ricorrenti. Molto spesso, per esempio, nella comedy of committment il protagonista all’inizio è fidanzato
con una donna che non ama realmente, ma l’incontro con un’altra ragazza più adatta a lui mette in crisi il primo
rapporto. Inoltre il plot è caratterizzato dalla presenza di due percorsi narrativi ricorrenti, strettamente interrelati. Il
primo ha per oggetto l’affermazione del protagonista maschile in termini di carriera e promozione sociale, il secon-
do il rapporto che egli instaura con la protagonista femminile. Come osserva Brunovska Karnick, le due sfere – la-
vorativa e amorosa – intrattengono di solito una relazione conflittuale: “Entrambi i partner devono fare dei sacrifici
per raggiungere il giusto equilibrio fra faccende professionali e private. [...] Quello che lavora è presentato spesso
come troppo assorbito dagli impegni della carriera, ed è costretto a rinunciare a qualche obbiettivo professionale”
[K. Brunovska Karnick, D. Jenkins (a cura di), Classical Hollywood Comedy, Routledge, New York, 1995, pp.
132-133].
Dunque, in apparenza, il film di Hawks rispetta fedelmente le convenzioni narrative del genere e sembra avere tutte
le carte in regola per essere citato come una fra le sue occorrenze più esemplari. Grazie all’incontro felice fra un
grande cineasta, una giovane scrittrice (Hagar Wilde, autrice della novella da cui deriva il soggetto) e uno dei più
dotati sceneggiatori hollywoodiani (Dudley Nichols), questo film ha fissato un modello che può vantare
un’influenza durevole sulla commedia successiva. Il cinema hollywoodiano, classico e moderno, deve moltissimo a
Bringing Up Baby: pellicole come Lady Eve (The Lady Eve, 1941) di Preston Sturges, È ricca: la sposo e
l’ammazzo (A New Leaf, 1971) di Elaine May, Ma papà ti manda sola (What’s Up Doc?, 1972) di Peter Bogdano-
vich o Appuntamento al buio (Blind Date, 1987) di Blake Edwards lo dimostrano in maniera evidente. Tuttavia si-
mili generalizzazioni rischiano di farci perdere di vista la peculiarità del film di Hawks, che sembra consistere anzi-
tutto nella radicalizzazione di alcune delle tendenze indicate come tipiche del genere screwball dagli autori citati.
Per esempio la componente slapstick, o farsesca, occupa uno spazio senza dubbio assai maggiore che in qualsiasi
altra commedia precedente. O ancora, la conflittualità fra sfera lavorativa e amorosa qui è portata alle estreme con-

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seguenze (tutti i disastri combinati a David da Susan hanno a che fare con il suo lavoro), e soprattutto non consente
mediazioni: l’unione con Susan Vance comporta per il protagonista la totale rinuncia alla sua precedente esistenza
professionale (il crollo del brontosauro ne è il simbolo inequivocabile), così come in Ero uno sposo di guerra (I
Was a Male War Bride, 1949) il matrimonio con Catherine Gates comporta per Henri Rochard l’abbandono del
proprio paese (dove si presume che abbia una casa, degli affetti, un lavoro) e perfino la rinuncia temporanea al pro-
prio sesso.
Quanto alla conclusione, Edoardo Bruno osserva che è tipica dei finali di molte commedie hollywoodiane classiche
una forte ambiguità semantica: “Il sistema concettuale della commedia esige infatti un happy end, o comunque una
conclusione – con un evento o una battuta – che non lasci lo spettatore nella spirale delle congetture; ma le conget-
ture resistono comunque e il finale resta aperto a tutte le possibili conseguenze” [E. Bruno, Pranzo alle otto. Forme
e figure della Sophisticated Comedy, Il Saggiatore, Milano, 1994, p. 86].
È senza dubbio il caso di quello di Bringing Up Baby. Si può parlare qui di un happy end? Il regista, intervistato da
Bogdanovich, lo afferma senza alcuna esitazione. Effettivamente il protagonista si disfa della frigida Miss Swallow
in cambio della pirotecnica Susan, che probabilmente diventerà sua moglie, e soddisfa il proprio desiderio
d’avventura e di fun, affrancandosi da un’idea della vita eccessivamente seriosa. In tal senso il crollo del brontosau-
ro simboleggia evidentemente il compimento della trasformazione di David, la sua “liberazione” definitiva. A que-
sto livello siamo ancora totalmente all’interno del sistema di valori veicolato dalla commedia hollywoodiana anni
Trenta: vitalismo, anti-intellettualismo, blando anticonformismo, ecc. Ma che cosa accadrà, ci si chiede, dopo la fi-
ne del film? I due si sposeranno? Avranno figli? Difficile immaginare la protagonista alle prese con creature che
non siano cuccioli di leopardo. David ricostruirà il brontosauro o abbandonerà definitivamente la paleontologia,
magari diventando zoologo (come lo definisce impropriamente Susan)? Il finale non sembra consentire compro-
messi di sorta. Susan restituisce a David l’osso ritrovato, ma poi, con un gesto che smentisce del tutto le sue buone
intenzioni, abbatte il brontosauro. Lei: “Potrai mai perdonarmi?” (lui scuote la testa costernato). Lei: “Mi ami lo
stesso?” Lui: “Il brontosauro...” Poi la abbraccia, ma non sorride affatto. Dopo avere conquistato il paleontologo,
Susan Vance deporrà finalmente le armi o continuerà a dedicarsi sistematicamente alla sua spogliazione? Se
l’uomo è protagonista assoluto dei film d’azione di Howard Hawks, regista da molti definito misogino, la donna è
motore e centro altrettanto assoluto della sua commedia. Il principio femminile è una forza distruttiva la cui nocivi-
tà è pari soltanto al suo potere di fascinazione e dalla quale l’uomo è totalmente soggiogato. “Ci sono dei momenti
in cui ti trovo sinistramente attraente. Come un serpente che fissa un uccellino”, dirà Roger (Rock Hudson) ad Abi-
gail (Paula Prentiss) in Qual è lo sport preferito dall’uomo? (Man’s Favorite Sport, 1964), esplicita variazione sul
tema di Susanna.
Un fatto, molto spesso ignorato dalla letteratura su Bringing Up Baby, è degno di nota. Il film di Hawks, considera-
to attualmente uno dei capolavori della commedia hollywoodiana anni Trenta, all’epoca fu un totale disastro al box-
office. Il suo insuccesso costò a Hawks il contratto con la RKO e pose fine alla carriera di Katharine Hepburn allo
studio. “I recensori – scrive a questo proposito James Harvey – dicevano che i meccanismi della screwball erano
stati spinti a conseguenze troppo estreme, che era troppo sciocco e svitato” [J. Harvey, Romantic Comedy, cit., p.
307]. Si rimproverava, dunque, al film di essere troppo “stravagante”, di prendere l’aggettivo screwball troppo alla
lettera. Lo stesso Hawks, intervistato da Peter Bogdanovich, afferma che Bringing Up Baby aveva un grave difetto:
“Non c’era gente normale. Ogni personaggio che incontravi era una testa matta, e da allora ho imparato la lezione,
e non intendo fare altri film dove sono tutti pazzi. Se il giardiniere fosse stato normale... se lo sceriffo fosse stato
solo un uomo perplesso venuto dalla campagna... Ma nel modo in cui erano descritti erano tutti fuori centro” [A.
Aprà, P. Pistagnesi (a cura di) Il cinema di Howard Hawks, La Biennale di Venezia, Venezia, 1981, p. 233]. Tutta-
via l’accoglienza negativa del film è forse da imputare soprattutto alla maniera in cui il regista descriveva i prota-
gonisti, piuttosto che i personaggi periferici, al modo in cui utilizzava gli attori principali, piuttosto che i caratteristi
e le comparse. Laddove la comedian comedy infligge tradizionalmente continue vessazioni al corpo dei suoi attori,
la commedia romantica – sofisticata o screwball – tende a salvaguardare la loro aura, la loro “dignità”, il loro
appeal. Per questo motivo le gag sono spesso assegnate a personaggi secondari (il domestico, il provinciale, il tuto-
re, ecc.), che ricoprono una funzione analoga a quella del servo comico nella commedia teatrale e nell’opera buffa.
In tal senso, come sottolinea Andrew Sarris, Ventesimo secolo (Twentieth Century, 1934) si presenta già come un
film innovativo, in anticipo sui tempi. È infatti “la prima commedia in cui protagonisti sessualmente attraenti e so-
fisticati sostengono essi stessi le situazioni schiettamente comiche, anziché delegarle a personaggi di rango inferio-
re”. In Bringing Up Baby il principio è portato alle estreme conseguenze e viene applicato così radicalmente da an-
dare oltre i confini definiti fino a quel momento dal genere. Anche Ventesimo secolo, almeno sul piano della recita-
zione, è fondato sul principio dell’eccesso (di teatralità, di interpretazione: l’intonazione e la mimica di John Bar-
rymore e Carol Lombard sono così sopra le righe da risultare esilaranti), ma le gag vere e proprie sono ancora affi-
date a personaggi di contorno. Al contrario in Bringing Up Baby il corpo dei due protagonisti è al centro di continui
momenti di comicità visiva: Cary Grant è sottoposto a ridicoli travestimenti (la vestaglia femminile che è costretto
a indossare preannuncia già il suo destino in I Was a Male War Bride), entrambi i divi inciampano e capitombolano

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in continuazione, camminano a quattro zampe, si esibiscono in corsettine grottesche. La commedia hawksiana non
si distingue soltanto per una presenza particolarmente accentuata di gag visive, ma anche – e soprattutto – per il fat-
to che vittima designata di tali gag è il corpo stesso della star, soprattutto maschile.

2.4. Analisi narrativa e tematica


Come ogni grande capolavoro della storia del cinema, Bringing Up Baby è un’opera aperta e polisemica, che ha
stimolato più di ogni altra commedia del periodo l’esercizio interpretativo. Molti autori hanno sottilmente inventa-
riato le allegorie e le opposizioni messe in gioco dal film. Spesso le loro analisi, tuttavia, lasciano in parte insoddi-
sfatti: talora privilegiano un unico percorso di lettura a scapito di altri che sembrano ugualmente significativi, talora
accumulano una molteplicità di spunti interpretativi che non riescono però ad articolare in un sistema unitario e co-
erente. Come nello scheletro del brontosauro assemblato da David Huxley, c’è sempre qualche osso che non com-
bacia, o che manca, circostanza che testimonia della ricchezza e dell’ambiguità del film, piuttosto che
dell’inefficienza dei suoi esegeti.
Secondo Robin Wood le due donne che si contendono David incarnano rispettivamente i due poli dell’opposizione
Natura/Dovere, ovvero, in termini freudiani, Es e Super-Io, principio di piacere e principio di realtà, tra i quali si
dibatte l’eroe. Questa interpretazione trova conferma nell’opposta caratterizzazione di Alice Swallow e Susan Van-
ce, l’una fredda, autoritaria e razionale, l’altra totalmente irresponsabile e amorale. “L’opposizione tra le due donne
nello schema di base del film – scrive Wood – è rafforzata da quella, altrettanto evidente, fra animali, vivi e morti:
lo scheletro del dinosauro [...] e il leopardo, estensioni rispettivamente dello stile di vita di David e di Susan” [R.
Wood, Howard Hawks, British Film Institute, London, 1981, p. 70]. Si può aggiungere che lo scheletro del bronto-
sauro è definito “our child” da Miss Swallow all’inizio del film, così come il leopardo di Susan si chiama Baby,
nome dai cui dipende tanto il doppio senso del titolo (to bring up in inglese significa “tirare su”, “allevare”: un a-
nimale, ma anche un bambino) che l’equivoco della macelleria, dove David, per giustificare l’acquisto di quindici
chili di carne, precisa al commesso esterrefatto: “It’s not for me, it’s for Baby”. I modelli di maternità evocati dalle
due donne sono dunque altrettanto inquietanti: da una parte la carcassa di un animale preistorico, dall’altra un neo-
nato mostruoso che divora enormi quantità di carne cruda. Ugualmente, osserva ancora Wood, si assiste a una pro-
gressione geografica dalla città alla campagna, ovvero dalla cultura alla natura, dal mondo del Super-Io a quello
dell’Es: “Il film comincia in ambienti tra i più civilizzati – museo, campo da golf, night-club – si sposta nella casa
di campagna della zia di Susan, quindi in giardino, infine nei boschi; e c’è un corrispondente movimento dalla luce
alle tenebre. Passiamo dall’ordine innaturale del museo al disordine naturale del bosco di notte” [Ibid., pp. 70-71].
La liberazione del leopardo feroce segna il culmine di questa discesa in un pericoloso e disordinato stato di natura.
Poi, quando l’ordine sembra ormai ristabilito, la distruzione del brontosauro segna l’irruzione e la vittoria definitiva
del caos, delle forze dell’Es.
Assai più ampia e dettagliata, l’analisi condotta da Stanley Cavell nel capitolo dedicato a Susanna del già citato Al-
la ricerca della felicità pone soprattutto l’accento sulla sfera dell’eros come motore decisivo dell’azione. All’inizio
del film, quando David propone ad Alice Swallow di partire per il viaggio di nozze, lei lo richiama subito alle sue
responsabilità, affermando che nulla deve interferire con il lavoro. “Il nostro matrimonio – precisa – non deve im-
plicare complicazioni domestiche di nessun genere”. David, perplesso, le chiede allora se fra queste “complicazioni
domestiche” sono inclusi anche i bambini e lei risponde, indicando il brontosauro: “Esattamente. Questa sarà la no-
stra creatura [our child]”. Dunque il film si apre con un’interdizione che riguarda la sfera della sessualità. Il mo-
mento è cruciale e ci dice espressamente che Bringing Up Baby parla dell’eros, autorizzandoci a leggere tutto il
comportamento successivo del protagonista come la sua reazione a questa minaccia di castità e di sterilità. Il plot
del film si presta dunque a una doppia lettura: da una parte può essere descritto come il tentativo di David di libe-
rarsi di Susan Vance per tenere fede ai propri impegni lavorativi e sentimentali, dall’altra, inversamente, come
quello di sfuggire al sinistro futuro coniugale prospettatogli dalla sua promessa sposa, seguendo l’altra donna. In
effetti, la domanda “chi segue chi?”, è di grande importanza tematica fin dall’inizio del film. Al party Susan si av-
vicina a David e lo accusa di seguirla. Lui nega, sostenendo che è lei a perseguitarlo e che al golf l’ha rincorsa sol-
tanto per riavere la palla. Dice la verità, ma non vi è dubbio che tecnicamente sia stato lui ad andarle dietro. Poco
più avanti, quando David fa per abbandonare la festa, Susan afferra le code del suo smoking, lacerandolo. Tuttavia,
quando è lei ad allontanarsi, lui calpesta per sbaglio l’orlo del suo vestito, strappandone la parte posteriore (il gesto
denuncia chiaramente il suo desiderio inconscio di fermarla). Da qui in poi la situazione si ribalta ed è il protagoni-
sta a trattenere la ragazza, seppure allo scopo di proteggerla dallo sguardo della gente. Continuerà a seguirla – suo
malgrado? – fino alla fine del film.
Questo doppio percorso narrativo è scandito dai continui doppi sensi veicolati dal dialogo. In Bringing Up Baby
ogni parola e ogni azione visiva sembrano consentire due opposte letture: “Stai uscendo o entrando?”, chiede zia
Elizabeth al maggiore Applegate, sorpreso a cavalcioni di una finestra; “Sì, ho visto Mr. Peabody, ma non l’ho vi-
sto... gli ho parlato due volte, ma non gli ho parlato”, balbetta David Huxley al telefono cercando inutilmente di
spiegare a Miss Swallow la sua strana giornata; e Susan si chiede perplessa se nel telegramma del fratello

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l’espressione “a Baby piacciono i cani” significa che il leopardo si trova bene in loro compagnia oppure che ama
cibarsi della loro carne. Del resto il numero due, come nota ancora Cavell, è la cifra del film: due palle da golf, due
scambi d’auto, due borsette, due apparizioni – all’inizio e alla fine – dello scheletro del brontosauro, due scene di
schiamazzi notturni sotto le finestre di case rispettabili, due ossi e soprattutto due leopardi. A ben vedere, infatti,
questa commedia, apparentemente disordinata e anarchica nel suo sviluppo narrativo, è in realtà sapientemente
strutturata, con un continuo gioco di simmetrie e ripetizioni.
Un’ultima, importantissima, osservazione di Cavell riguarda la centralità della dimensione ludica. In effetti le azio-
ni dei due protagonisti si configurano come una serie ininterrotta di giochi: golf, tiro al bersaglio, nascondino, cac-
cia al tesoro, travestimenti, modellismo (l’assemblaggio dell’animale preistorico). David, almeno inizialmente, gio-
ca di mala voglia: confonde gli affari e il tempo libero (scambia una partita di golf per un incontro di lavoro, te-
diando Mr. Peabody con la richiesta di una donazione al museo, finché lui, visibilmente irritato, protesta: “Quando
gioco a golf parlo unicamente di golf”) e non riesce a distinguere il gioco da ciò non lo è (nel bosco, quando Susan
cammina a carponi per evitare le sferzate dei rami spostati da David, lui osserva che “non è il momento di mettersi
a giocare a nascondino”). Il gioco, al contrario, è il terreno naturale di Susan: “Non è divertente, David? È come un
gioco”, esclama mentre lui, tutt’altro che divertito, insegue il fox terrier che gli ha rubato l’osso. Come ricorda Tina
Olsin Lent, un aspetto fondamentale della cultura giovanile americana negli anni Venti-Trenta è la ricerca del di-
vertimento attraverso la danza, lo sport e altre forme di intrattenimento di massa: “L’etica del divertimento [fun
morality] raccomandava lo svago come un nuovo obbligo sociale, e reputava il divertirsi troppo poco come qualco-
sa da evitare” [Classical Hollywood Comedy, cit., p. 322]. Alla fine, quando David afferma che le ore trascorse con
Susan sono state le più divertenti della sua vita, sembra essersi ormai convertito alla concezione del mondo della
protagonista, alla fun morality. Sotto il segno del gioco, il percorso dei due protagonisti è anche (e soprattutto) una
regressione all’infanzia o più precisamente, almeno secondo Cavell, a “quello stadio dell’infanzia che precede la
pubertà, il periodo che Freud chiama latenza, durante il quale la curiosità sessuale infantile è stata repressa fino a
quando l’insorgere di nuove richieste fisiologiche, o di nuovi istinti, non la risveglia”. Diventare bambini, diventare
animali: David e Susan camminano ripetutamente a quattro zampe, e durante la sequenza nel bosco non ci sorpren-
deremmo se li vedessimo annusarsi a vicenda. Il tema della regressione all’infanzia sarà affrontato in modo ancora
più esplicito da Hawks in Il magnifico scherzo (Monkey Business, 1952), dove assistiamo ugualmente al ritorno a
una sorta di stato di natura, concepito in maniera tutt’altro che idillica (Cary Grant, anche qui uno scienziato con la
testa fra le nuvole, si traveste da indiano e insieme a un gruppo di monelli lega al palo di tortura il suo rivale in a-
more) e connesso anche in questo caso con il tema dell’animalità: l’attore con la sua mimica irresistibile si atteggia
a pellerossa ma imita anche una scimmia, l’animale che ha composto accidentalmente la pozione che lo ha fatto
tornare bambino.

2.5. Lo stile del dialogo


In Bringing Up Baby le interazioni verbali si fondano essenzialmente su tre principi: il doppio senso, il malinteso e
l’iterazione. Essi regolano il funzionamento del dialogo anche nelle altre commedie del periodo, ma qui sembrano
portati alle estreme conseguenze. La trama di doppi sensi intessuta dal film si concentra in particolare intorno alla
famosa “clavicola intercostale”, osso dallo statuto paradossale – una clavicola situata tra le costole – che, come os-
serva Cavell, richiama il mito di Adamo, quindi l’origine dell’opposizione maschile-femminile, e al tempo stesso
diviene una metafora esplicita del fallo di David. “Dov’è la mia clavicola intercostale?”, esclama allarmato il pale-
ontologo dopo avere trovato la scatola vuota. “La tua che?”, gli chiede stupita Susan. “La mia clavicola intercosta-
le, il mio osso. È raro, è prezioso”, risponde David. Del resto, come nota ancora Cavell, il falso nome inventato dal-
la protagonista per David è Mr. Bone, “un titolo che rivendica a Grant la personificazione del soggetto della con-
troversia”.
Il malinteso domina soprattutto le interazioni conversazionali a cui partecipa Susan, che sembra dotata del potere di
mettere in corto circuito qualsiasi comunicazione verbale equivocando sistematicamente le parole del suo interlocu-
tore. Esemplare, in tal senso, è il dialogo con l’agente Slocum, che riportiamo qui integralmente:

SLOCUM Signorina, c’è un idrante.


SUSAN Lo so.
SLOCUM È proibito parcheggiare davanti a un idrante.
SUSAN Lo so.
SLOCUM Venga qui.
SUSAN Io? Perché?
SLOCUM Sono l’agente Slocum.
SUSAN Piacere, Susan Vance.
SLOCUM Piacere... Non mi importa chi è lei, voglio solo avvertirla che è proibito parcheggiare davanti a un idrante.
SUSAN Sì, ma stavo guardando la parata. Suppongo che lei entri gratis al circo.

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SLOCUM Sì, di solito... Signorina, devo farle una contravvenzione (I’ll give you a ticket).
SUSAN Oh, grazie agente, lei è molto gentile, ma non importa che mi procuri un biglietto (ticket), sono molto occu-
pata stasera.
SLOCUM Signorina, lei è in contravvenzione.
SUSAN Perché?
SLOCUM Per avere parcheggiato davanti a un idrante.
SUSAN Ma io non ho parcheggiato davanti a un idrante.
SLOCUM E quello come lo chiama?
SUSAN Lei crede che questa sia la mia auto?
SLOCUM Non lo è?
SUSAN No, quella è la mia auto.
SLOCUM Perché non me lo ha detto subito?
SUSAN Perché non me lo ha chiesto.

La protagonista aggredisce l’avversario a colpi di misunderstandings in un crescendo incalzante, con un dialogo


assai più vicino a quello dei Marx Brothers che al testo di qualsiasi altra screwball comedy contemporanea. Talora
fraintende il significato di un termine o di una frase (per esempio la parola ticket), talora ne equivoca o ne ignora
del tutto l’intenzionalità implicita, interpretandola in senso letterale (la frase “È proibito parcheggiare davanti a un
idrante”, che, detta da un agente, sottintende un’ingiunzione, è recepita come una semplice constatazione). Alla fine
ha l’ultima parola e mette ko l’avversario, riducendolo al silenzio e sottomettendolo alla sua logica paradossale ma
coerente: effettivamente Slocum non le ha mai chiesto se l’auto è la sua. Osserviamo che gli equivoci verbali inne-
scati da Susan hanno spesso per oggetto un particolare tipo di deittici: i pronomi e gli aggettivi possessivi. Uno dei
suoi comportamenti più usuali è infatti quello di attribuire a se stessa cose altrui, o viceversa. Del resto il personag-
gio ostenta una totale noncuranza verso le regole della proprietà privata: all’inizio si appropria della palla di Mr.
Peabody, quindi dell’auto di David, poi ancora della borsetta della moglie del dottor Lehman e più avanti di una se-
conda automobile.
Uno dei procedimenti più tipici del dialogo della commedia hollywoodiana, sofisticata o screwball, è la circolazio-
ne ossessiva di frasi o parole, ripetute da personaggi diversi in contesti diversi con rinnovato effetto comico. Anche
in Bringing Up Baby, come osserva ancora Cavell, troviamo “la ripetizione abituale di frasi e parole, talvolta da-
vanti alla perplessità del personaggio a cui la battuta è rivolta, come se quello potesse non aver inteso correttamen-
te, talvolta come una sorta di tic verbale, come se un personaggio non avesse udito o inteso bene le proprie parole”.
Nel film di Hawks questa prassi pone in secondo piano il senso di alcune battute (come il ritornello “I’ll be with
you in a minute, Mr. Peabody”), attirando l’attenzione dello spettatore sulla loro sonorità e sul modo, irresistibil-
mente comico, con cui gli attori le pronunciano. Il dialogo – e questo è un altro tratto che distingue Bringing Up
Baby dalla commedia teatrale e dalla maggior parte delle commedie cinematografiche contemporanee – non forni-
sce più l’ossatura portante di tutto il racconto, ma è soltanto una delle componenti di un film che dà ugualmente
spazio alle significazioni visive, e in cui parola e immagine si integrano vicendevolmente. Esso diviene talora ru-
more dei personaggi, e perfino jam session verbale, come nei momenti in cui i due protagonisti intonano la theme
song del film, I Can’t Give You Anything But Love, per ammansire il leopardo, oppure nella sequenza “carceraria”,
quando Katharine Hepburn imita la pronuncia e il linguaggio della pupa di un gangster, rispondendo in slang alle
domande del poliziotto.
In un’intervista Hawks ricorda di avere avuto delle difficoltà con Katharine Hepburn, che all’inizio si sforzava
troppo di recitare in maniera divertente: “I problemi più grandi – afferma – si hanno con le persone che cercano di
essere divertenti. Quando smettono, lo diventano immediatamente” [J. McBride, Il cinema secondo Hawks, Prati-
che, Parma, 1992, p. 97]. Per risolvere questo inconveniente, il regista si rivolse a Walter Catlett, uno dei caratteri-
sti utilizzati nel film, che riuscì a persuadere la diva del suo errore. Da quel momento Katharine Hepburn “seppe
come recitare meglio la commedia, che consiste solo nel dire le battute” (Ibid., p. 98). Sembrerebbe
un’affermazione del primato del testo, secondo una concezione di tipo teatrale. Tuttavia, nella stessa intervista,
Hawks afferma: “Non uso battute comiche, non sono divertenti finché non le vedi. [...] Non ricordo di avere mai
usato una battuta divertente in un film. Diventano divertenti per gli atteggiamenti degli interpreti, che contrastano
con quello che cercano di dire” [Ibid., p. 92]. Dunque per Hawks l’effetto comico non nasce interamente dal testo,
le battute delle sue commedie non sono divertenti al di fuori del contesto in cui vengono pronunciate. L’idea di
fondo è piuttosto che l’attore deve essere l’oggetto, la vittima involontaria, e non l’agente della gag, verbale o visi-
va che sia: l’effetto comico si consuma interamente a sue spese. Egli deve limitarsi a compiere le azioni e a recitare
le battute previste dal copione. Come accade al protagonista di Il circo (The Circus, 1928) di Chaplin – un autore
particolarmente amato da Hawks – l’interprete comico non riesce più a divertire il suo pubblico quando cerca co-
scientemente di essere funny.

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3. CINEMA E POLITICA A HOLLYWOOD DALLA SECONDA GUERRA MONDIALE ALLA GUER-
RA FREDDA

3.1. Il cinema americano e la seconda guerra mondiale


“Desidero ricordarvi che nessun bastardo ha mai vinto una guerra morendo per il proprio paese. Se
l’ha vinta è perché ha costretto altri bastardi a morire per il loro paese. Soldati, chi di voi ha sentito di-
re che gli americani non vogliono battersi, che vogliono stare fuori dalle guerre? Sono tutte balle! Gli
americani per tradizione amano battersi, ogni vero americano cerca sempre la mischia. Da ragazzi tutti
avrete ammirato quello che giocava meglio a palline, chi era più veloce, chi giocava meglio a rugby,
chi faceva meglio a pugni. Gli americani sono per chi vince e hanno sullo stomaco chi perde. Per que-
sto non hanno perduto e non perderanno mai una guerra. Perché la sola idea di perdere ripugna agli
americani. Noi abbiamo il migliore equipaggiamento, lo spirito più alto e i soldati più in gamba del
mondo. Intendiamoci, io sento della pietà per quei poveracci che ci troveremo di fronte, sì, ve lo giuro,
perché non ci limiteremo a sparargli, noi gli tireremo fuori le frattaglie dalla pancia e le useremo per
ingrassare i cingoli dei nostri carri armati. Sì, noi li faremo a pezzi quei maledetti bastardi, ve lo pro-
metto.”
(dal film Patton, generale d’acciaio, 1970, di Franklin J. Schaffner)

Se prendiamo in esame la produzione cinematografica anteriore allo scoppio della seconda guerra mondiale, ci ac-
corgiamo che sono veramente pochissimi i film che fanno cenno agli avvenimenti salienti della politica estera con-
temporanea (per esempio l’avvento del nazismo in Germania o del fascismo in Italia, oppure la guerra civile spa-
gnola): Questo essenzialmente per due ragioni: da una parte la ferma convinzione dei produttori hollywoodiani che
i soggetti politici, e in generale i film con un messaggio, fossero poco graditi alla maggior parte del pubblico, e
quindi poco remunerativi al botteghino; dall’altra il fondato timore che se i film americani si fossero mostrati aper-
tamente critici nei confronti della Germania, dell’Italia o di altri governi stranieri l’industria cinematografica ne a-
vrebbe risentito, perché avrebbe visto chiudersi numerosi mercati. Circa il 40 % degli introiti delle case di produ-
zione hollywoodiane proveniva proprio dall’esportazione ed è quindi comprensibile che non si producessero film
destinati a non essere distribuiti in uno o più paesi. Questa politica fu perseguita con decisione per tutti gli anni
Trenta dalla Production Code Administration, l’ufficio che vigilava sull’applicazione del codice di autocensura
(negli Stati Uniti per il cinema non è mai esistita una censura di stato, ma all’inizio degli anni Trenta, per evitare
che venisse istituita in seguito alle pressioni dei moralisti, le case di produzione stesse decisero di darsi un proprio
codice di autoregolamentazione, passato alla storia come “codice Hays” dal nome di Will H. Hays, che ne fu il
promotore). Joseph Breen, a capo dell’ufficio, faceva appello al codice, che imponeva agli sceneggiatori il rispetto
della legge e dell’autorità costituita, qualunque essa fosse, per censurare ogni pellicola che si mostrasse critica nei
confronti di governi stranieri.
Fra le rare eccezioni si possono citare Marco il ribelle (Blockade, 1938) di William Dieterle, un film sulla guerra di
Spagna dove tuttavia viene omesso paradossalmente qualsiasi riferimento esplicito a Franco e al franchismo, e
Confessioni di una spia nazista (Confessions of a Nazi Spy, 1939) di Anatole Litvak, un film sull’attività cospirato-
ria dei nazisti negli Stati Uniti che suscitò forti proteste da parte della Germania. Di particolare interesse è la vicen-
da produttiva di Spregiudicati (Idiot’s Delight, 1939) di Clarence Brown. La sceneggiatura del film era tratta da un
dramma di Robert Sherwood apertamente pacifista e fortemente critico nei confronti del fascismo che aveva riscos-
so un notevole successo nel 1926. La storia era ambientata in un albergo italiano al confine con la Svizzera dove si
incontravano personaggi di nazionalità diverse decisi per diverse ragioni ad abbandonare il paese. La situazione
precipitava quando gli italiani, a sorpresa, chiudevano le frontiere e attaccavano la Francia, dando inizio a una nuo-
va guerra mondiale. La MGM, che aveva acquistato i diritti del dramma, per poter realizzare il film fu costretta a
eliminare ogni riferimento che potesse risultare offensivo verso l’Italia fascista. La sceneggiatura dovette poi essere
sottoposta all’ambasciatore italiano. Alla fine del testo originale restava solo il titolo. Gli eventi non si svolgevano
più in Italia, ma in un paese imprecisato dell’Europa centrale dove si parlava l’esperanto. Scompariva ogni riferi-
mento politico e tutta l’enfasi cadeva sulla storia d’amore tra i due protagonisti, interpretati da due star come Clark
Gable e Norma Shearer. Il film fu un insuccesso al botteghino, venne stroncato dalla critica, che rimproverò agli
sceneggiatori di avere totalmente travisato il soggetto originale, e fu ugualmente rifiutato dall’Italia, dalla Spagna e
da altri paesi europei.
Lo scoppio della guerra segna la fine del controllo che Breen aveva esercitato sul contenuto dei film. Quando nel
1941 gli Stati Uniti entrano in guerra è il governo stesso a farsi avanti e a scavalcare il potere della Production Co-
de Administration creando un’agenzia di propaganda governativa, l’Office of War Information, che impone a Hol-
lywood il proprio codice. Contrariamente a Breen, questo ufficio voleva che la politica entrasse nei film. In ogni
modo a partire dal 1941 la guerra invade gli schermi americani. Stili e generi vengono influenzati direttamente o
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indirettamente dalla guerra: alcuni generi, come il western, scompaiono temporaneamente per riapparire dopo il
1945 in una forma sensibilmente mutata; altri, come il film bellico, raggiungono una fioritura senza precedenti.
Tenteremo qui una sommaria classificazione dei film americani sul secondo conflitto mondiale.
Il documentario, genere fino a questo momento marginale e disprezzato, gode improvvisamente grazie alla guerra
di una nuova vita. Esso diventa di colpo importante per l’addestramento dei militari, la propaganda, l’informazione
e molti registi affermati vi si dedicano (Frank Capra, John Ford, John Huston, ecc.). L’uso del cinema durante il
primo conflitto mondiale forniva un importante precedente. L’United States Army Signal Corps aveva istituito una
unità cinematografica che aveva ripreso sistematicamente le attività belliche americane in Europa. È interessante il
fatto che allo scoppio della seconda guerra mondiale il governo non si rivolga ai documentaristi di professione,
bensì ai registi e agli sceneggiatori hollywoodiani. Uno dei primi studi a lavorare per la propaganda governativa fu
quello di Walt Disney, che produsse numerosi film di addestramento per le truppe, realizzò effetti speciali e anima-
zioni per molte altre pellicole e si distinse in una serie di cortometraggi antinazisti, tra cui Donald Duck in the Nu-
tzi Land (1942).
Nell’ambito della produzione documentaristica di propaganda, rivestono una particolare importanza i sei film della
serie Why We Fight, prodotti dal Signal Corps for the War Department e diretti o supervisionati dal regista Frank
Capra fra il 1942 e il 1944. Per realizzarli Capra si avvalse di una squadra di collaboratori di talento, tra cui il regi-
sta Anatole Litvak, lo sceneggiatore Anthony Veiller, il musicista Dimitri Tiomkin e l’attore Walter Huston, a cui
era affidato il commento fuori campo. Si tratta dei più ideologici tra i documentari bellici americani, perché mirano
a spiegare le ragioni della guerra e a descrivere da una parte gli ideali che animano la civiltà americana e il mondo
libero in generale, dall’altra i regimi autoritari dei paesi dell’Asse. Con il loro montaggio dinamico, la presenza i-
ninterrotta della voce narrante e il ricorso sistematico a inserti di animazione (con carte geografiche e visualizza-
zioni grafiche oltremodo fantasiose) costituiscono un modello insuperato in quest’ambito. Di essi il critico francese
André Bazin ha scritto: “Il principio di questo genere di documentario consiste essenzialmente nel prestare alle
immagini la struttura logica del discorso e al discorso stesso la credibilità e l’evidenza dell’immagine fotografica.
Lo spettatore ha l’illusione di assistere a una dimostrazione visiva, mentre questa non è in realtà che una successio-
ne di fatti univoci che stanno insieme solo grazie alle parole che li accompagnano. L’essenziale del film non sta
nella proiezione ma nella colonna sonora” [A. Bazin, Che cosa è il cinema?, Milano, Garzanti, 1979, p. 25].
Con la guerra il thriller e il film di suspense si popolano di spie naziste. Così Alfred Hitchcock dirige Il prigioniero
di Amsterdam (Foreign Correspondent, 1940), Sabotatori (Saboteur, 1942) e Notorious (1946), mentre Fritz Lang
gira Duello mortale (Man Hunt, 1941), Anche i boia muoiono (Hangmen Also Die, 1943) e Maschere e pugnali
(Cloak and Dagger, 1946). La produzione antinazista si avvale della collaborazione essenziale dei numerosi registi,
sceneggiatori, operatori e attori fuggiti dalla Germania o da altri paesi europei ed emigrati negli Stati Uniti. Esem-
plare in tal senso è Anche i boia muoiono, diretto da Lang su sceneggiatura di Bertolt Brecht e musicato da Hanns
Eisler, che si svolge nel 1942 a Praga dopo l’uccisione di Heydrich da parte della resistenza cecoslovacca. Un altro
film interessante è La casa della 92a strada (The House of 92nd Street, 1945) di Henry Hathaway, che descrive la
lotta del controspionaggio americano contro una rete di spie naziste attiva negli Stati Uniti con uno stile documen-
taristico che mostra l’influenza esercitata dal modello Why We Fight anche sul cinema di finzione.
Quasi tutti i generi classici del cinema hollywoodiano vengono toccati, direttamente o indirettamente, dalla temati-
ca bellica. Così troviamo musical che uniscono numeri di canto e di danza e propaganda patriottica, come La taver-
na delle stelle (Stage Door Canteen, 1943) di Frank Borzage, oppure melodrammi che raccontano vicende famiglia-
ri sullo sfondo del conflitto, come La signora Miniver (Mrs. Miniver, 1942) di William Wyler e Da quando te ne
andasti (Since You Went Away, 1944) di John Cromwell. Fra le commedie si possono citare Molta brigata vita
beata (The More the Merrier, 1943) di George Stevens, che ironizza sulla crisi degli alloggi a Washington in tempo
di guerra, e soprattutto Vogliamo vivere (To Be or Not to Be, 1942) di Ernst Lubitsch, che racconta le esilaranti vi-
cende di un gruppo di attori polacchi a Varsavia durante l’occupazione tedesca. Il film, che sbeffeggia in maniera
devastante i nazisti, venne criticato per il fatto di trattare avvenimenti drammatici in chiave farsesca. Un filone au-
tonomo è costituito dai numerosi film sul problema dei reduci apparsi dopo la fine della guerra, come I migliori an-
ni della nostra vita (The Best Years of Our Life, 1946) di William Wyler e Anime ferite (Till the End of Time,
1946) di Edward Dmytryk.
Secondo Franco La Polla, “fino all’entrata in guerra degli Stati Uniti non esiste un solo film hollywoodiano che
possa essere definito bellico e che metta in scena soldati americani impegnati sul campo di battaglia, se non con ri-
ferimenti alla prima guerra mondiale” [F. La Polla, Sogno e realtà americana nel cinema di Hollywood, Il Castoro,
Milano, 2004, p. 120]. In effetti i film hollywoodiani sulla grande guerra vantano una lunga tradizione che inizia
nel periodo del muto con classici come La grande parata (The Big Parade, 1925) di King Vidor e Gloria (What
Price Glory?, 1926) di Raoul Walsh e prosegue dopo l’avvento del sonoro con l’ancora più celebre All’Ovest nien-
te di nuovo (All Quiet on the Western Front, 1930) di Lewis Milestone, tratto dal celeberrimo romanzo di Remar-
que. Tuttavia questi film non sono certo abbastanza numerosi per dare vita a un vero e proprio genere, e sono tutti
successivi di molti anni al conflitto. Allo stesso filone, comunque, appartiene anche Il sergente York (Sergeant

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York) di Howard Hawks, in cui il protagonista, interpretato da Gary Cooper, inizialmente si rifiuta di combattere
per ragioni religiose, ma poi cambia idea e si distingue sul campo di battaglia catturando da solo un’intera divisione
tedesca. Apparso nel 1941, questo film evidentemente riprende il tema dell’intervento americano nella grande guer-
ra in funzione della nuova situazione internazionale. Come osserva La Polla, si tratta di un film importantissimo
perché “dà corpo a un’intera ideologia nazionale in relazione al concetto stesso di guerra. Le radici rurali di York, i
suoi modi, la sua cultura, la sua religiosità, i suoi trucchi per cogliere il nemico al fronte sono segni certi di ameri-
canità, di qualcosa cioè che distingue quel soldato da chiunque altro, per quanto coraggioso, nobile, eccezionale.
York incarna il potere della semplicità e della verità, dell’innocenza e del valore” [Ibid., p. 121].
Sicuramente il film bellico diviene un genere forte del cinema classico hollywoodiano solo dopo l’inizio della se-
conda guerra mondiale, guadagnandosi una posizione stabile all’interno del sistema dei generi anche dopo la con-
clusione del conflitto. Come osserva Roberto Campari, precedentemente il film di guerra era strutturato in termini
molto vicini a quelli del film avventuroso. Al contrario, dopo lo scoppio della guerra esso viene ad assumere carat-
teristiche che lo apparentano piuttosto al film western: “la missione da compiere infatti diviene, come nel western,
qualcosa di mitico e di ineluttabile insieme” [R. Campari, Hollywood-Cinecittà. Il racconto che cambia, Milano,
Feltrinelli, 1980, p. 73].
L’affinità tra i due generi secondo Campari è confermata anche dal fatto che i nomi dei registi più interessanti sono
gli stessi per entrambi: John Ford, Howard Hawks, Raoul Walsh, ecc. A ulteriore conferma di questa tesi si può ri-
cordare che per tutto il periodo del conflitto il western scompare pressoché totalmente dagli schermi americani: da
una parte il cinema hollywoodiano abbandona apparentemente il territorio del mito per affrontare direttamente gli
eventi storici contemporanei, dall’altra, con un processo inverso, rielabora il materiale narrativo fornito dalla guerra
per mettere in scena, sotto nuove sembianze, i classici valori dell’eroismo americano e aggiungere un nuovo capito-
lo al ciclo dell’avventura virile. Possiamo notare in tal senso una progressiva evoluzione del modo in cui viene trat-
tato il tema della seconda guerra mondiale. Fortemente condizionati dalle esigenze della propaganda, i film bellici
realizzati contemporaneamente al conflitto (o al momento della sua conclusione) rifuggono ogni elemento contro-
verso ed esaltano incondizionatamente l’eroismo dei soldati americani: ciò accade in alcuni capolavori del genere,
come Arcipelago in fiamme (Air Force, 1943) di Howard Hawks, Destinazione Tokyo (Destination Tokyo, 1943)
di Delmer Daves, Obiettivo Burma! (Objective, Burma!, 1945) di Raoul Walsh o I sacrificati (They Where Ex-
pendable, 1945) di John Ford. Dopo la fine della guerra, al contrario, i film bellici divengono più problematici e i-
deologicamente complessi. Il processo è già evidente in due pellicole apparse nel 1949, Bastogne (Battleground,
1949) di William Wellman e Cielo di fuoco (Twelve O’Clock High, 1949) di Henry King. Si tratta di due film
tutt’altro che pacifisti, ma accomunati da una certa crudezza, dal tono antiretorico (se non antieroico) e dal fatto che
in entrambi il nemico praticamente scompare e il vero centro di interesse è costituito dalle dinamiche e dai conflitti
che si sviluppano fra i soldati americani. Ma una svolta veramente decisiva nell’approccio del cinema hollywoo-
diano alla seconda guerra mondiale avviene soltanto con l’apparizione nel 1957 di Prima linea (Attack!) di Robert
Aldrich, un film antieroico e dissacrante dove lo stato maggiore pullula di ufficiali opportunisti, cinici, arrivisti e
senza scrupoli, mentre il comandante della compagnia che vediamo in azione è un inetto arrogante e vigliacco che
alla fine viene ucciso dai suoi stessi uomini.

3.2. La lunga guerra fredda


La rapida trasformazione del rapporto fra Stati Uniti e Unione Sovietica dalla condizione di alleati durante il con-
flitto mondiale al crescente antagonismo che contraddistingue il dopoguerra si riflette chiaramente in molti film
americani prodotti fra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta. Il titolo di questo capitolo potrebbe es-
sere “La guerra dei mondi”, in omaggio all’omonimo film di fantascienza diretto da Byron Haskin nel 1953 (come
vedremo il cinema fantascientifico nei primi anni Cinquanta diventerà, insieme al cinema di spionaggio, il genere
in cui si manifestano maggiormente le ossessioni del periodo della guerra fredda: l’invasione aliena, il pericolo nu-
cleare, ecc.), ma anche alludendo a una sequenza del documentario di Frank Capra Preludio alla guerra (Prelude to
War, 1942) in cui il secondo conflitto mondiale è presentato appunto come una guerra fra due mondi (visualizzati
sullo schermo): il mondo “libero”, che è descritto in termini estremamente vaghi ma si identifica sostanzialmente
con il sistema americano, e il mondo “schiavo” (ovvero quello delle potenze dell’asse). Non è difficile scorgere in
questa semplificazione binaria una flagrante mistificazione ideologica. In realtà alle soglie della Seconda Guerra
Mondiale i mondi in conflitto non erano due, ma tre. Il mondo delle democrazie parlamentari, quello delle dittature
totalitarie di destra e il modello altrettanto antagonista rappresentato dal comunismo sovietico. Ora, se nel docu-
mentario di Capra i mondi sono due, ciò dipende evidentemente dal fatto che l’alleanza degli Stati Uniti con i russi
durante la seconda guerra mondiale impone al discorso di propaganda la rimozione di qualsiasi elemento conflittua-
le esistente fra modello americano e modello sovietico. L’alleato sovietico deve essere valorizzato e suscitare la
simpatia del pubblico, senza tuttavia che il suo sistema sociale, radicalmente antagonista a quello americano, venga
al tempo stesso legittimato o anche semplicemente descritto. Esemplare a questo proposito è un altro documentario
della serie Why We Fight, diretto questa volta da Anatole Litvak, che si intitola The Battle of Russia (1944) ed è

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dedicato interamente alla guerra sul fronte orientale. Il film mostra e cita Stalin, enumera le popolazioni che abitano
il territorio sovietico, si sofferma sulle risorse economiche del paese e su alcuni episodi salienti della sua storia, de-
scrive soprattutto lo sforzo bellico compiuto dalla Russia, ma non fa mai alcun cenno al suo sistema politico e so-
ciale, alla collettivizzazione dell’economia, alla dittatura staliniana.
Accanto ai documentari durante la guerra furono prodotti a Hollywood tre film di finzione di notevole impegno fi-
nanziario che avevano come protagonisti gli alleati sovietici. Il più importante è senza dubbio Mission to Moscow
(1943), diretto da Michael Curtiz e tratto dal diario omonimo di Joseph Davis, che era stato ambasciatore a Mosca
fra il 1936 e il 1938. Pubblicato nel 1941, il libro divenne un bestseller e contribuì sensibilmente ad addolcire
l’opinione pubblica americana nei confronti della Unione Sovietica. Pur senza aderire all’ideologia comunista e a
partire da una concezione democratico-borghese, l’autore descriveva positivamente la società sovietica, minimiz-
zava e in parte giustificava le purghe staliniane, auspicava una completa normalizzazione dei rapporti fra i due pae-
si (Davis nel maggio del 1943 andò a Mosca per assistere insieme a Stalin all’anteprima del film, che fu distribuito
anche in Russia). Le stesse esigenze propagandistiche sono presenti in Song of Russia (1944), che utilizza come
pretesto una convenzionale storia d’amore fra un pianista americano bloccato a Mosca dall’inizio della guerra e una
ragazza russa per tracciare un altro ritratto positivo del popolo sovietico. Il terzo film, Fuoco a oriente (North Star,
1944) di Lewis Milestone descrive invece l’eroica resistenza di un gruppo di contadini russi all’invasore sovietico.
Negli anni della “caccia alle streghe” i tre film procurarono non pochi grattacapi a coloro che li avevano realizzati,
che furono accusati di propaganda bolscevica.
Ritornando all’opposizione binaria fra i due mondi disegnata dal documentario di Capra, possiamo dire che la me-
tafora si realizza pienamente solo dopo la fine della guerra, quando, uscito definitivamente di scena il pericolo na-
zista e fascista, Stati Uniti e Unione Sovietica restano sole a contendersi il dominio del mondo. Si potrebbe allora
immaginare una nuova versione del film aggiornata alla guerra fredda con, da una parte, il mondo “libero”, ovvero
l’America e i paesi dell’Europa occidentale, e dall’altra il mondo “schiavo”, rappresentato non più dalle forze
dell’Asse, ma dall’URSS e dai suoi satelliti. In realtà il deterioramento dei rapporti fra le due superpotenze non è
certo immediato. Sotto la presidenza di Franklin D. Roosevelt (1933-45) la politica nei confronti dell’Unione So-
vietica si basava, piuttosto che su una politica di rivalità, sull’idea di una trattativa e una collaborazione, con il pro-
getto di inglobarla nella sfera dell’egemonia economica americana. Al contrario, dopo la morte di Roosevelt (12
aprile 1945), la nuova amministrazione di Harry S. Truman (1945-1952) scelse una linea di “contenimento” del
comunismo, decidendo di avviare la costruzione della bomba a idrogeno, concedendo aiuti militari alla Grecia e al-
la Turchia ed enunciando nel 1947, in un messaggio inviato al congresso, la “dottrina Truman”, che garantiva
l’appoggio politico e militare degli Stati Uniti a tutti i paesi “minacciati dal comunismo”. Sotto la presidenza di
Truman assistiamo anche, nel 1950, all’intervento militare americano contro la Corea del Nord, appoggiata dalla
Russia e dalla Cina, che aveva aggredito la Corea del Sud, filo-occidentale. Il nuovo clima è esemplificato molto
bene da un altro diario di un ambasciatore a Mosca, il generale Walter Bedell Smith, intitolato My Three Years in
Moscow. Apparso nel 1950 e divenuto anch’esso un bestseller, il libro descrive i sovietici come degli incomprensi-
bili alieni, degli automi in cui tutti i sentimenti sono spenti o soffocati. La guerra fredda proseguirà sotto
l’amministrazione di Dwight D. Eisenhower, che succederà a quella di Truman nel 1952. In politica estera, a dire il
vero, l’operato di questo presidente fu contraddittorio: da una parte affrettò i tempi delle trattative per l’armistizio
che pose fine alla guerra di Corea (1953), dall’altra parte si attenne a una linea rigidamente antisovietica e anticine-
se. Il suo discorso all’Assemblea Generale dell’Onu dell’8 dicembre 1953 sottolinea soprattutto l’effetto deterrente
delle armi atomiche, cercando di dimostrare che la proliferazione nucleare razionalizzata preserva la pace.
La prima e più diretta conseguenza della guerra fredda sul cinema americano è l’apparizione di una serie di film di
spionaggio di contenuto dichiaratamente anticomunista. Si tratta nella maggior parte dei casi di film di propaganda
nel senso più deteriore dell’espressione, spesso a basso costo, che descrivono i comunisti come gangster senza
scrupoli e che non sono per nulla rappresentativi della produzione maggiore hollywoodiana dei tardi anni ’40 e dei
primi anni ’50, del tutto estranea a problemi di politica contingente. Alcuni titoli significativi: I Married a Commu-
nist (1949) di Robert Stevenson, I Was A Communist for the FBI (1951) di Gordon Douglas, Invasion USA (1952)
di Alfred Green, che ipotizza l’invasione degli Stati Uniti da parte dell’Unione Sovietica, Salto mortale (Man on a
Tightrope, 1953), diretto da Elia Kazan, regista ex comunista che nel 1952 aveva testimoniato davanti alla Com-
missione per le Attività Antiamericane denunciando colleghi e amici. Unno dei film migliori appartenenti a questo
filone è La spia (The Thief, 1953) di Russell Rouse, che racconta una vicenda estremamente rappresentativa del pe-
riodo della guerra fredda (basta pensare al caso dei coniugi Rosenberg, giustiziati proprio nel 1953 perché ritenuti
colpevoli di avere trasmesso all’URSS segreti sulla costruzione della bomba H). Nel film un fisico nucleare che la-
vora per il governo fotografa documenti riservati che, attraverso un circuito di spie, raggiungono probabilmente
l’Unione Sovietica. Probabilmente, perché questo film presenta una caratteristica che lo rende del tutto unico nella
storia del cinema sonoro: utilizza la musica e i rumori ma è totalmente privo di dialogo. Infatti dall’inizio alla fine
il protagonista è sempre solo e non comunica mai con nessuno. Questa assenza singolare della parola, oltre a impe-
dire a priori un discorso di esplicita propaganda, accentua la solitudine del protagonista, distrutto dai sensi di colpa,

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creando un’atmosfera da incubo, un clima di vera paranoia. Si tratta di un piccolo capolavoro misconosciuto del ci-
nema americano postbellico.
Un filone importante della produzione americana del periodo della guerra fredda è quello dei film dedicati alla
guerra di Corea. Come si è detto, il film bellico come genere classico del cinema hollywoodiano nasce e si sviluppa
molto tardi rispetto agli altri generi maggiori, ovvero in concomitanza con la Seconda Guerra Mondiale. A partire
all’incirca dal 1943 il film bellico si costituisce come genere e al tempo stesso attraversa un rapido processo di tra-
sformazione e maturazione. I film realizzati durante il conflitto, talora notevoli, sono però fortemente condizionati
dalle esigenze della propaganda: aderiscono pienamente alla causa degli Alleati e tendono ovviamente a presentare
i soldati americani sotto la luce migliore, esaltandone le virtù eroiche. Mano a mano che ci si allontana dalla fine
della guerra i personaggi vengono caratterizzati in maniera sempre più complessa, le sceneggiature divengono più
realistiche e antiretoriche (se non addirittura antieroiche), i tedeschi (o i giapponesi) vengono relegati sempre più
sullo sfondo e i conflitti tendono a spostarsi al di qua delle linee nemiche. L’inizio di questa maturazione è sensibile
in due film realizzati nel 1949, Bastogne di William Wellman e Cielo di fuoco (Twelve O’Clock High) di Henry
King. Nel primo i nemici sono quasi invisibili e l’eroismo dei soldati americani è celebrato in maniera sorprenden-
temente dimessa e antiretorica: sono uomini che compiono il proprio dovere con totale dedizione ma senza alcun
compiacimento e non desiderano altro che tornarsene a casa sani e salvi. Il secondo è un film d’aviazione che si
svolge interamente in una base aerea (c’è una sola sequenza di battaglia) e concentra interamente l’attenzione sul
conflitto fra il severissimo ufficiale interpretato da Gregory Peck e i suoi uomini. Si tratta ancora di un film milita-
rista, perché la ferrea disciplina che egli impone nel campo è presentata come necessaria, ma al tempo stesso è la
prima tappa di un processo che porterà verso la fine degli anni cinquanta all’apparizione di due film coraggiosi co-
me Orizzonti di gloria (Paths of Glory, 1957) di Stanley Kubrick e Prima linea (Attack!, 1956) di Robert Aldrich,
che offrono un ritratto devastante delle gerarchie militari. Il primo, considerato un classico del cinema antimilitari-
sta, sceglie di distanziare temporalmente e geograficamente il proprio oggetto: infatti racconta un episodio della
Prima Guerra Mondiale che ha per protagonisti soldati dell’esercito francese. In Prima linea, uno dei film più cru-
deli sulla seconda guerra mondiale, l’atto d’accusa si rivolge invece direttamente contro l’esercito americano. Ve-
diamo in azione un capitano al tempo stesso codardo, inetto e tirannico che alla fine verrà giustiziato dai suoi stessi
soldati.
Lo stesso carattere problematico, realistico e antiretorico contraddistingue paradossalmente anche i film sulla Guer-
ra di Corea realizzati negli anni Cinquanta. L’avventura coreana viene intrapresa sotto la presidenza di Truman, che
nel 1950 decide di intervenire a sostegno della Corea del Sud, governata da un regime filo-occidentale, dopo che
l’esercito della Corea del Nord, governato da un regime socialista, aveva varcato il 38° parallelo e occupato Seoul.
In seguito all’intervento americano le sorti del conflitto si ribaltano a favore del Sud, ma vengono riequilibrate
dall’entrata in guerra della Cina. Dopo tre anni di guerra i negoziati di pace si concludono nel 1953 sotto la presi-
denza di Eisenhower, ristabilendo il confine fra le due Coree al 38° parallelo. Realizzati nel periodo della Guerra
Fredda e per lo più contemporaneamente al conflitto, i film sulla Guerra di Corea soddisfano le esigenze contingen-
ti della propaganda anticomunista, ma al tempo stesso, almeno nei casi migliori, sono velati da un certo disincanto,
dalla consapevolezza dell’inutilità del sacrificio e della brutalità della guerra, o comunque presentano una forte am-
biguità. Per esempio in Operazione Z (One Minute to Zero, 1952) di Tay Garnett troviamo un colonnello americano
che ordina di uccidere dei profughi nord-coreani. Naturalmente il massacro di civili viene giustificato come una do-
lorosa necessità, perché alla fine si riveleranno quasi tutti agenti infiltrati, ma è abbastanza sintomatico che si scel-
ga di affrontare un argomento così spinoso. Altrettanto ambiguo e problematico è Corea in fiamme (The Steel Hel-
met, 1951) di Samuel Fuller, considerato da alcuni un prodotto di propaganda rozzamente anticomunista, da altri un
atto di accusa contro la brutalità della guerra, ma che – soprattutto – è un bellissimo film, uno dei classici del gene-
re bellico, e come tale dovrebbe essere giudicato.
Se è vero che il clima della guerra fredda si riflette direttamente nel film bellico (il ciclo dei film sul conflitto core-
ano) e nel film di spionaggio (in cui i contenuti anticomunisti prendono il posto di quelli antinazisti che avevano
caratterizzato la produzione del decennio precedente), il genere cinematografico in cui si manifestano con maggiore
efficacia, seppure in forma metaforica, le ossessioni e le paure proprie di questa epoca storica è senza dubbio la
fantascienza. Ecco allora che uno dei temi centrali della fiction fantascientifica, che in questo periodo conosce una
fioritura e una popolarità senza precedenti sia in ambito cinematografico che letterario, diviene quello
dell’invasione della Terra da parte degli alieni, che si manifesta nelle forme più svariate: la vera e propria aggres-
sione militare da parte dei marziani ne La guerra dei mondi (War of the Worlds, 1953) di Byron Haskin, il ritrova-
mento da parte di una spedizione polare di un’astronave contenente una pericolosissima creatura extraterrestre in-
trappolata nel ghiaccio ne La cosa da un altro mondo (The Thing, 1951) di Christian Nyby, la nascita di una nidiata
di bambini di origine aliena dotati di poteri paranormali ne Il villaggio dei dannati (The Village of the Damned,
1960) di Wolf Rilla, la clonazione degli abitanti di una cittadina da parte di grossi baccelli extraterrestri il cui scopo
è sostituirsi al genere umano ne L’invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers, 1956) di Don Siegel.
In alcuni prodotti minori di questo filone l’allusione al “pericolo rosso” è evidente perfino nel titolo: per esempio

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Quando i mondi si scontrano (When Worlds Collide, 1951) di Rudolph Maté o Red Planet Mars (1952) di Harry
Horner.Strettamente connesso al tema dell’invasione è il tema della disumanizzazione e dell’omologazione, al cen-
tro della metafora sviluppata da Siegel nel suo film, che è sicuramente il capolavoro di questo filone: i cloni di es-
seri umani presenti nel film sono privi di sentimenti e di emozioni, ma anche di individualità, caratteristica che può
essere letta come metafora dei sistemi comunisti ma anche della massificazione nel capitalismo avanzato.
Ugualmente connesso al clima ideologico e culturale della guerra fredda è il tema della catastrofe nucleare, svilup-
pato successivamente in termini fantapolitici o fantascientifici da film come L’ultima spiaggia (On the Beach,
1959) di Stanley Kramer, Il dottor Stranamore (Dr. Strangelove, 1964) di Stanley Kubrick o Il pianeta delle scim-
mie (Planet of the Apes, 1968) di Franklin J. Schaffner. Il timore delle mutazioni genetiche prodotte dalle radiazioni
nucleari è al centro di un altro ciclo di film, del quale fanno parte, per esempio, Assalto alla terra (Them!, 1954) di
Gordon Douglas (a causa degli esperimenti atomici compiuti in New Mexico le formiche della zona si trasformano
in mostri giganteschi che spargono il terrore) e Radiazioni BX distruzione uomo (The Incredible Shrinking Man,
1957) di Jack Arnold, tratto dal romanzo di Richard Matheson Tre millimetri al giorno, dove il protagonista, colpi-
to da una nube radioattiva, rimpicciolisce progressivamente. Qui e in altri casi analoghi il timore della corsa agli
armamenti si unisce a quello suscitato dal progresso tecnologico e scientifico, di cui si colgono le potenzialità di-
struttive nei confronti dell’ambiente e dell’ordine naturale delle cose (non bisogna dimenticare che
l’industrializzazione raggiunge nel dopoguerra vette precedentemente insuperate e che, parallelamente, le ideologie
ottimistiche legate al mito del progresso entrano in crisi e comincia a farsi strada per la prima volta una sensibilità
ecologica).

3.3. Inquisizione a Hollywood


Oltre a riflettersi in modo diretto nei cold war movies e più indirettamente nei film di fantascienza, lasciando il se-
gno su una parte non irrilevante della produzione cinematografica americana degli anni cinquanta, il clima della
guerra fredda diede origine a una crociata anticomunista senza precedenti nella storia degli Stati Uniti, che non ri-
sparmiò la comunità hollywoodiana e colpì attori, registi e soprattutto sceneggiatori sospettati di simpatie comuni-
ste, estromettendoli dall’industria del cinema. Le premesse e le varie tappe di questa epurazione, iniziata nel 1947,
sono ricostruite con dovizia di particolari nel documentatissimo saggio di Larry Ceplair e Steven Englund The In-
quisition in Hollywood. Politics in Film Community 1930-1960 (1980), pubblicato in edizione italiana con il titolo
Inquisizione a Hollywood [Editori Riuniti, Roma, 1981], un volume di più di 500 pagine che ripercorre anche la
storia della sinistra hollywoodiana dagli anni trenta in avanti e al quale nelle pagine che seguono si farà costante
riferimento.
Nel mondo di Hollywood quella degli sceneggiatori è sempre stata la categoria più politicizzata, all’avanguardia
del movimento sindacale e delle lotte politiche sin dai primi anni Trenta. Questo anche per ragioni insite nella loro
professione: erano intellettuali, con ambizioni letterarie, costretti a lavorare spesso in una condizione di semi-
anonimato al servizio dell’industria hollywoodiana con salari molto più bassi di quelli dei registi e degli attori. Il
primo e più importante sindacato degli sceneggiatori è la Screen Writers Guild, fondata nel 1933. Dichiaratamente
di sinistra, l’associazione si scontra contro l’ostilità dei produttori, attraversa un periodo di crisi e nel 1936 rischia
di essere soppiantata da una nuova associazione di categoria più moderata, la Screen Playwrights. Tuttavia nel 1938
la Screen Writer Guild risorge, ottenendo elettoralmente la rappresentanza della categoria, cosicché il 12 settembre
dello stesso anno, per la prima volta nella storia di Hollywood, rappresentanti delle maggiori case di produzione
siedono al tavolo delle trattative con una commissione del sindacato degli sceneggiatori.
Le lotte della Screen Writer Guild producono quadri di sinistra altamente politicizzati e spesso legati al Partito Co-
munista Americano. Negli Stati Uniti i comunisti non avevano uno spazio nell’arco politico nazionale ed erano co-
stretti a operare in una condizione semi-clandestina. Il PCUSA era un piccolo partito filosovietico fortemente cen-
tralizzato che seguiva fedelmente la linea della Internazionale Comunista (Comintern), organizzazione che in realtà
era controllata dal potere sovietico e imponeva ai partiti comunisti dei vari paesi del mondo le direttive di Stalin.
Nel 1928 il Comintern impone ai partiti membri una politica di non collaborazione con le altre organizzazioni della
sinistra moderata. Nel 1936, con una svolta improvvisa, l’Internazionale abbandona questa linea settaria promuo-
vendo la politica dei Fronti Popolari, che auspicava l’alleanza fra i comunisti e le altre forze democratiche in fun-
zione antifascista e antinazista. Nasce così in Francia il governo del Fronte Popolare comprendente comunisti, so-
cialisti e radicali, e lo stesso accade in Spagna, dove però il generale Franco insorge contro il governo delle sinistre
regolarmente eletto dando inizio nel 1936 alla Guerra Civile. La situazione risulta subito sbilanciata a favore dei
Franchisti che possono godere dell’appoggio militare di Italia e Germania, mentre le potenze democratiche, com-
prese la stessa Francia e gli Stati Uniti, assumono una posizione neutrale.
L’influenza del PCUSA sulla comunità hollywoodiana inizia intorno al 1935 e cresce nel periodo del Fronte Popo-
lare, che vede nascere numerose associazioni fra cui la più importante è la Hollywood Anti-Nazi League, la cui at-
tività raggiunge il culmine nel 1936 con lo scoppio della Guerra Civile Spagnola (anche se pochi personaggi del
mondo del cinema seguirono l’esempio dei 3000 americani che formavano il battaglione Abraham Lincoln della

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XV Brigata Internazionale e che andarono in Spagna a combattere a fianco dei repubblicani come tanti democratici
e comunisti di tutto il mondo). Fra il 1936 e il 1939, ponendosi all’avanguardia della lotta antinazista, il PCUSA
ottiene il massimo credito tra gli intellettuali: in questo periodo si realizza la massima saldatura fra comunisti e “li-
beral”. Questo clima si interrompe bruscamente il 24 agosto 1939 quando i ministri degli esteri della Germania
(Von Ribentrop) e dell’unione Sovietica (Molotov) firmano un patto di non aggressione fra i due paesi che prevede
anche la spartizione della Polonia, con la conseguenza che i partiti comunisti, seppure sbigottiti da questa svolta
imprevedibile, seguono fedelmente le direttive di Stalin e abbandonano improvvisamente la politica antifascista e
dei Fronti Popolari per una politica neutrale e anti-interventista. Per questa scelta i comunisti americani appaiono
totalmente screditati di fronte alle altre componenti della sinistra che vedono in loro i docili esecutori degli interessi
di un paese straniero. Così si crea intorno a loro quell’isolamento che faciliterà la persecuzione successiva. Dopo il
patto un comunista non è più semplicemente un comunista, ma un agente dell’unione Sovietica”. La frattura tra li-
beral e comunisti si ricompone temporaneamente nel 1941, quando Hitler invade l’Unione Sovietica, provocando
un ritorno del PCUSA alla politica antinazista e un’ondata di simpatia verso la Russia nell’opinione pubblica ame-
ricana. Con l’entrata in guerra degli Stati Uniti l’attività antinazista si intensifica a Hollywood grazie anche
all’afflusso di numerosissimi registi, attori e sceneggiatori emigrati dall’europa (soprattutto dalla Germania) per
sfuggire a Hitler e alla guerra (tra cui Bertolt Brecht, Fritz Lang, Robert Siodmak, Billy Wilder).
Dopo la morte di Roosevelt viene eletto presidente Harry S. Truman, ugualmente democratico ma di tendenza me-
no liberal del suo predecessore. In questo contesto prende le mosse una crociata anticomunista, sostenuta dalle or-
ganizzazioni della destra, che ha lo scopo di escludere i sospetti di simpatie comuniste dal lavoro e dalla vita socia-
le. Nel 1947 il Congresso cominciò a indagare sulle attività comuniste a Hollywood attraverso il Comitato per le
Attività Antiamericane (House Un-American Activities Committee o HUAC). Il repubblicano Parnell Thomas ten-
ne a Hollywood una serie di udienze per conto dello HUAC. Prima furono sentiti i testimoni disposti a collaborare,
ossia esponenti dell’industria hollywoodiana dichiaratamente reazionari, tra cui i registi Cecil B. Demille e Sam
Wood o gli attori Gary Cooper e Robert Taylor o i produttori Jack Warner e Walt Disney, che fecero i nomi di nu-
merosi presunti comunisti attivi nell’industria hollywoodiana. Quindi furono convocati i presunti comunisti. Dieci
di essi si rifiutarono di rispondere alla commissione appellandosi al Primo Emendamento della Costituzione ameri-
cana, che garantisce la libertà di opinione e di associazione politica. Furono detti “testimoni ostili” e incarcerati
temporaneamente per “disprezzo del Congresso”. Il gruppo dei Dieci di Hollywood comprendeva 8 sceneggiatori:
John Howard Lawson, Dalton Trumbo, Albert Maltz, Alvah Bessie, Samuel Ornitz, Herbert Bibermann, Ring Lar-
dner jr e Lester Cole, il regista Edward Dmytryk e il produttore Adrian Scott. L’undicesimo, Bertolt Brecht, rispose
alle domande della commissione, negò di essere comunista e lasciò gli Stati Uniti per trasferirsi nella Repubblica
Democratica Tedesca.
Inizialmente i produttori cercarono di opporsi alle pressioni dello HUAC, che pretendeva l’espulsione dei comuni-
sti dall’industria cinematografica e all’interno della comunità hollywoodiana si formò un forte movimento
d’opinione a favore dei Dieci. Nacque così il Comitato per il Primo Emendamento, che includeva celebrità come
Humphrey Bogart, Catherine Hepburn e Mirna Loy. Tuttavia con l’intensificarsi del clima persecutorio contro i
comunisti l’industria cedette alle richieste della destra e diede origine al fenomeno delle cosiddette “liste nere”. I
comunisti – o presunti tali – inclusi in esse non avevano più la possibilità di lavorare se non utilizzando prestanome
che firmavano le sceneggiature al loro posto in cambio di una percentuale sul compenso. Anche il Comitato per il
Primo Emendamento si sgretolò rapidamente e i suoi rappresentanti furono costretti a fare marcia indietro e a pren-
dere le distanze dai comunisti (esemplare il caso di Humphrey Bogart, che pubblicò un articolo dal titolo “Non so-
no un comunista”). Anche sul fronte dei “testimoni ostili” cominciarono le prime defezioni. Il regista Edward
Dmytryk, dopo un anno di carcere, si presentò di nuovo davanti allo HUAC per abiurare il suo passato e fare i nomi
dei suoi vecchi compagni. Come premio viene reintegrato nell’industria hollywoodiana.
Le attività della Commissione riprendono con maggiore vigore nel 1951, rafforzate dagli eventi della politica inter-
nazionale di quegli anni, con lo scoppio del conflitto coreano e l’inizio della “guerra fredda” tra Stati Uniti e Unio-
ne Sovietica. A partire dalla fine degli anni quaranta il processo di epurazione dei comunisti si estende a tutti i set-
tori della società americana: veniva espulsa dal posto di lavoro, dalle organizzazioni di quartiere, dagli uffici pub-
blici e dalle liste dei candidati a una carica politica qualsiasi persona che avesse in passato fatto parte del PCUSA o
di una sua organizzazione parallela. Sono gli anni del cosiddetto “maccartismo”, dal nome di Joseph Raymond
mccarthy, la figura più nota e rappresentativa della crociata anticomunista. Fra il 1950 e il 1954, nella sua veste di
presidente della Commissione senatoriale di controllo sulle attività governative, questo senatore repubblicano lan-
ciò una serie di clamorose denunce contro vari enti statali, tra cui il Dipartimento di stato e i servizi segreti, nei
quali a detta sua si erano infiltrate delle spie comuniste. Nel novembre del 1954, coinvolto in uno scandalo, fu ri-
mosso dal suo incarico e nel dicembre il senato votò a maggioranza una deplorazione della sua condotta. Benché
emblematica del periodo della cosiddetta “caccia alle streghe” (altro termine con cui si usa designare la persecuzio-
ne dei comunisti americani), la figura di mccarthy non ha nulla a che fare con Hollywood e con le attività dello
HUAC, iniziate nel 1947, con un anticipo di almeno quattro dalla sua entrata in scena.

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Nelle nuove udienze dei primi anni cinquanta molti dei testimoni convocati accettarono di collaborare, mentre altri
decisero di espatriare. Per esempio il regista Elia Kazan, che era stato iscritto per due anni al PCUSA, nel 1952 de-
nunciò amici e colleghi davanti al Comitato e l’anno successivo, per farsi perdonare del tutto, diresse il film anti-
comunista Salto mortale (Man on a Tightrope, 1953). Ciò gli consenti di proseguire la propria brillante carriera, af-
fermandosi come uno dei registi hollywoodiani di punta degli anni cinquanta. Al contrario il grande Charlie Cha-
plin, che non era mai stato iscritto al partito ma non aveva neppure mai nascosto le proprie idee di sinistra, dopo
avere appreso che lo HUAC aveva aperto un’indagine sul suo conto, nel 1953 abbandonò definitivamente gli Stati
Uniti, dove aveva vissuto e lavorato per una quarantina d’anni, e si trasferì con la famiglia in Gran Bretagna, il suo
paese d’origine. Tale esperienza si riflette chiaramente nel film Un re a New York (A King in New York, 1957),
commedia amara e scopertamente autobiografica che costituisce al tempo stesso una satira della società americana
e un atto d’accusa contro il maccartismo. In essa un re di un immaginario paese europeo, detronizzato e in bolletta,
approda a New York, dove cade vittima degli agenti pubblicitari, di una spregiudicata giornalista televisiva e del
Comitato per le attività antiamericane. Alla fine il protagonista, coinvolto nella caccia alle streghe, abbandona indi-
gnato il paese per trasferirsi a Parigi.
Quali furono le ragioni per cui tanti esponenti della sinistra hollywoodiana si piegarono alla delazione e non esita-
rono a denunciare i vecchi compagni pur di riabilitarsi agli occhi dello HUAC? La storiografia di sinistra ha adotta-
to spesso un atteggiamento sbrigativo e moralistico di totale condanna verso la condotta di Kazan, Hayden o
Dmytryk, considerati dei “traditori”. In alcuni casi si trattava in realtà di registi o sceneggiatori affermati all’apice
del loro successo che avevano aderito superficialmente alla causa del PCUSA nel clima di mobilitazione antifasci-
sta precedente alla seconda guerra mondiale, ma che non erano così motivati politicamente e fedeli al Partito da ac-
cettare di sacrificare alla causa le proprie brillanti e remunerative carriere; in altri casi (la maggioranza) si trattava
invece di persone professionalmente già cadute in disgrazia e fiaccate nello spirito, con una famiglia da mantenere
e la prospettiva di perdere anche le ultime esigue possibilità di un salario (se erano immigrati stranieri, rischiavano
inoltre l’espulsione). Le tecniche subdole e ricattatorie utilizzate per convincerli a parlare sono descritte molto bene
in un brano del bel romanzo poliziesco Il grande nulla (The Big Nowhere, 1988) di James Ellroy, ambientato a Los
Angeles nel 1950, in cui assistiamo all’interrogatorio dello sceneggiatore Nathan Eisler da parte degli agenti Mal
Considine e Dudley Smith. I personaggi (come i titoli dei film citati nel dialogo) sono ovviamente di pura inven-
zione, ma la ricostruzione dello scrittore risulta del tutto attendibile:

Nathan Eisler. Quarantanove anni. Ebreo tedesco, era sfuggito a Hitler e soci nel ’34. Iscritto al partito
comunista dal ’36 al ’40, poi membro di una mezza dozzina di organizzazioni di sinistra. In collabora-
zione con Chaz Minear, aveva scritto la sceneggiatura di una serie di film filorussi. [...] Scriveva sotto
pseudonimo per salvaguardare la sua privacy professionale, e così era riuscito a sfuggire alle grinfie
della Commissione. Al presente, viveva sotto il nome di Michael Kaukenen, l’eroe di Tempesta su Le-
ningrado. Scriveva western di serie B per la RKO, facendoli firmare a un prestanome politicamente
accettabile, a cui passava una percentuale del trentacinque per cento. [...]
Percorsero un vialetto disseminato di giocattoli fino a un piccolo portico. Mal sbirciò oltre una porta
finestra, un piccolo salotto da villetta prefabbricata: mobili di plastica, pavimento di linoleum, tappez-
zeria a disegnini rosa. Dudley gli strizzò l’occhio e suonò il campanello. Dal portico venne un uomo
alto con la barba mal fatta: aveva al fianco un bambino e una bambina di uno o due anni. Dudley sorri-
se. Mal guardò il piccolo, che si succhiava il pollice e parlò per primo: “Signor Kaukenen, siamo
dell’ufficio del procuratore distrettuale. Vorremmo parlare con lei. In privato, la prego”. [...]
Mal entrò dietro Dudley, stupito di quanto fosse modesta la casa: era una baracca da povero bianco, e
ci abitava un uomo che negli anni della Grande Crisi guadagnava almeno tremila dollari alla settima-
na. [...] Una bella casa, signor Kaukenen” disse Dudley. “Il colore, specialmente”. Eisler ignorò il
commento e indicò loro la porta del soggiorno. Mal entrò e vide un piccolo locale dall’aria calda e o-
spitale: libri dal pavimento al soffitto, delle sedie intorno a un tavolino decorato e una grande scrivania
dominata da una macchina per scrivere da protagonista. [...] Eisler chiuse la porta e disse: “Mi chiamo
Nathan Eisler, nel caso non lo sapeste”. [...]
Dudley disse: “Non dovrà dire a nessuno che siamo venuti a interrogarla. Se disobbedisse, potrebbero
esserci delle ripercussioni molto gravi”.
“Di che tipo, Herr...”
Mal tagliò corto. “Mort Ziffkin, Chaz Minear, Raynold Loftis e Claire De Haven. Ci interessano loro,
non lei. Se sarà disposto a collaborare, potrà limitarsi a una dichiarazione scritta. Non dovrà comparire
in aula e probabilmente non avrà nessuna pubblicità. Se l’è già cavata con la Commissione, potrà ca-
varsela anche adesso”. [...] “Ma ci servono dei fatti precisi. Nomi, date, luoghi e ammissioni. Se lei
collaborerà, non le daremo fastidio. Se no, dovrà rispondere a un procuratore che posso descrivere solo
come un incubo, sotto giuramento, in tribunale, con il rischio di essere incriminato. Può scegliere”.

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Eisler allontanò la sedia di qualche centimetro. “Non vedo quella gente da anni”.
“Lo sappiamo. Ci occupiamo delle loro attività di allora”.
“E sono i soli che vi interessano?”
[...] “Sì. Solo loro”.
“E quelle ripercussioni di cui parlava?”
“Convocazione in tribunale. Le foto sui...”
Dudley intervenne: “Signor Eisler, se non collaborerà con noi, informerò personalmente Howard Hu-
ghes del fatto che lei scrive per la RKO dei film che vengono attribuiti a un’altra persona. Questa per-
sona, che rappresenta la sua unica via d’accesso a un’attività professionale retribuita, sarebbe finita.
Informerò anche il Servizio nazionale per l’immigrazione che lei si è rifiutato di collaborare con un
corpo investigativo municipale impegnato in un’inchiesta ufficiale su un’accusa di tradimento e sugge-
rirò al loro ufficio investigativo di occuparsi delle sue attività sediziose, in vista di un provvedimento
di espulsione a suo carico in quanto straniero ostile e a carico di sua moglie e dei suoi bambini in
quanto potenziali stranieri ostili. Lei è tedesco e sua moglie è giapponese e i vostri paesi sono stati re-
sponsabili del recente conflitto: sono certo che il Servizio non si opporrà alla proposta di rimpatriarvi
entrambi”.
Nathan Eisner s’era piegato su se stesso, con i gomiti sulle ginocchia, le mani sotto al mento, la testa
inclinata verso terra. Aveva le guance rigate di lacrime. Mal fece crocchiare le nocche e disse: “Baste-
rà un semplice sì o no”.
Eisler annuì. Dudley disse: “Grande”. Mal prese penna e taccuino. “Conosco già la risposta, ma mi ri-
sponda comunque. Lei è o è stato iscritto al Partito Comunista degli Stati Uniti d’America?”
Eisler fece cenno di sì con la testa. “Dica sì o no” disse Mal. “È per il verbale”.
Un debole “Sì”.
“Bene dove aveva sede la sezione o la cellula che frequentava?”
“Andavo alle riunioni a Beverly Hills, a West Los Angeles e a Hollywood. Ci incontravamo nelle case
di diversi membri del partito”.
Mal trascrisse stenograficamente la risposta, parola per parola. “Per quanto tempo è stato iscritto al
partito?”
“Dall’aprile del ’36 a quando Stalin...”
Dudley lo interruppe. “Niente giustificazioni! Si limiti a rispondere”.
Eisler prese un kleenex dal taschino della camicia e si asciugò la fronte. “Fino all’inizio del 1940”
“Le farò alcuni nomi” disse Mal. “Mi dica quali conosce come iscritti al partito comunista. Claire De
Haven, Reynolds Loftis, Chaz Minear, Morton Ziffkin, Armando Lopez, Samuel Benavides e Juan
Duarte”.
“Tutti” rispose Eisler. [...]
“Lei e Chaz Minear avete scritto la sceneggiatura di Fronte orientale, l’alba dei giusti, Tempesta su
Leningrado e Gli eroi di Yakustok. Tutti questi film esprimo sentimenti filo-russi. Sono stati i dirigenti
del partito comunista a darvi istruzioni perché vi inseriste questo tipo di propaganda?”
Eisler disse: “È una domanda ingenua”.
Dudley diede un gran colpo al tavolino con il palmo della mano. “Non faccia commenti. Si limiti a ri-
spondere”.
[...] “No. Non ci avevano dato istruzioni del genere”.
[...] “Signor Eisler, intende negare che questi film contengano propaganda filo-russa?”
“No”.
“Allora lei Chaz Minear avete deciso di inserirvi quella propaganda di vostra iniziativa?”
Eisler si agitò sulla sedia. “Chaz era responsabile dell’impostazione generale, io badavo a che il dialo-
go e la vicenda esprimessero più eloquentemente possibile questa impostazione”.
“Abbiamo una copia” disse Mal “di quelle sceneggiature, con annotati i passaggi più scopertamente
propagandistici. Torneremo per farle identificare e siglare le battute che a suo dire Minear ha fatto in-
serire per sostenere la linea del partito”.
Nessuna risposta. “Signor Eisler, ha una buona memoria?”
“Sì. Direi di sì”.
“Lavorava con Minear a quelle sceneggiature nella stessa stanza?”
“Sì”.
“E ogni tanto Minear non faceva commenti tipo ‘Grande, come propaganda’ o ‘Questo piacerà al par-
tito’?”
Eisler continuava ad agitarsi, muovendo le braccia e le gambe. “Sì, ma erano solo battute scherzose.
Non...”

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Dudley gridò: “Non ci servono le sue interpretazioni! Risponda soltanto”.
Eisler gridò a sua volta: Sì! Sì! Sì! Sì, che Dio vi maledica!”
Mal fece segno a Dudley di smetterla. Si rivolse a Eisler con la sua voce più persuasiva. “Signor Ei-
sler, lei teneva un diario nel periodo in cui lavorava con Chaz Minear?”
L’uomo si torceva le mani, facendo a pezzetti il kleenex con le dita livide. “Sì”.
“Conteneva delle annotazioni relative alle sua attività con il partito comunista e alla sua collaborazione
con Chaz Minear?”
“Oh, Dio, sì”.
[...] E annotazioni relative alla sua vita personale?”
“Oh, Gott in Himm... Sì!”
“E conserva ancora quel diario?”
Silenzio. Poi: “Non lo so”.
Mal diede una manata al tavolo. “Sì, lo conserva ancora e ce lo mostrerà. Solo le annotazioni stretta-
mente politiche saranno messe a verbale”.
Nathan Eisler singhiozzò quietamente. Dudley disse: “Se non ce lo darà con le buone, faremo emettere
un’ordinanza e verranno degli agenti in uniforme a mettere sottosopra la sua bella casetta, con grave
imbarazzo per la sua famigliola, temo”.
Eisler fece col capo un impercettibile gesto affermativo. Dudley si rilassò sulla sedia, facendola scric-
chiolare sotto il suo peso. Mal vide una scatola di kleenex su una mensola, la prese e la appoggiò in
grembo a Eisler, che cominciò a cullarla come un bambino. “Prenderemo il diario quando andremo
via” disse. [...] “Quanto a questa intervista, può considerarla un primo approccio. Io e il mio collega
prenderemo in esame le sue risposte, le confronteremo con i dati in nostro possesso e le faremo avere
una lista di domande specifiche sulle sue attività nelle organizzazioni collegate al partito comunista.
[...] Un funzionario municipale registrerà il suo assenso alla nostra proposta e un cancelliere del tribu-
nale raccoglierà la sua deposizione definitiva. Dopo questa intervista, una volta che avrà risposto a po-
che altre domande e ci avrà permesso di prelevare il suo diario, le sarà attribuito lo status di testimone
non ostile, e la piena immunità da ogni accusa”.
Eisler si alzò. Incespicando sulle gambe tremanti, andò fino alla scrivania e aprì un cassetto. Ne prese
un’agenda rilegata in pelle e la venne a posare sul tavolo. “Fatemi le vostre poche altre domande e an-
datevene”.
[...] Mal disse: “Abbiamo una seconda intervista in programma, nel pomeriggio, e pensiamo che lei ci
possa aiutare”.
Eisler sbarrò gli occhi. “Chi?”
Dudley, in un sussurro: “Leonard Hyman Rolff”.
La loro vittima riuscì a pronunciare solo un “no” strozzato. [...] “Sì, invece” disse Dudley. “Non se ne
discute nemmeno. Vogliamo che lei ci fornisca qualche informazione particolarmente vergognosa e
compromettente sul suo vecchio amico Lenny, qualcosa che sia a conoscenza anche di qualcun altro,
in modo che sia possibile far ricadere la responsabilità su di lui. Lei lo farà, per cui cerchi di pensare a
qualcosa di davvero utile, qualcosa che faccia sciogliere la lingua a Mr. Rolff e risparmi a lei una mia
seconda visita da solo, senza il mio collega, che è così bravo a trattenermi”.

Fra i non numerosissimi film girati a Hollywood che rievocano questo imbarazzante periodo della storia americana,
il più riuscito è sicuramente Il prestanome (The Front, 1976) di Martn Ritt. In esso il protagonista, Howard Prince
(interpretato da Woody Allen), è un modesto cassiere di bar e scommettitore incallito, perennemente in bolletta,
che accetta di divenire il prestanome di Alfred Miller, uno sceneggiatore televisivo incluso nella lista nera. La nuo-
va attività frutta a Prince molto denaro, poiché l’esempio di Miller viene seguito da altri autori caduti in disgrazia.
Dapprima totalmente inconsapevole della situazione storica e politica in cui si trova, Prince ne acquista a poco a
poco coscienza attraverso il contatto con una giovane militante di sinistra, di cui si innamora, e in seguito alla mor-
te dell’attore comico Hecky Brown, che si suicida per non essere costretto a denunciare alla Commissione per le
Attività Antiamericane i suoi vecchi compagni. Alla fine, denunciato a sua volta e sottoposto a interrogatorio, il
protagonista in un moto inaspettato di orgoglio si rifiuta di collaborare e abbandona l’aula dopo avere mandato let-
teralmente a quel paese i suoi inquisitori (con un gesto che gli assicura il carcere ma che lo rende un eroe agli occhi
degli attivisti di sinistra e della donna amata). Giocato su un sapiente equilibro fra dramma e commedia, Il presta-
nome assume anche il valore di una toccante testimonianza autobiografica, dal momento che il regista Martin Ritt e
lo sceneggiatore Walter Bernstein (insieme a due interpreti del film, gli attori Zero Mostel e Herschel Bernardi),
come precisano orgogliosamente i titoli di coda, furono all’epoca inclusi nella lista nera.
Il fenomeno della caccia alle streghe raggiunge a Hollywood il suo momento culminante nella prima metà degli
anni cinquanta, ma la prassi delle liste nere rimane in vigore fino alla fine del decennio e viene abbandonata soltan-

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to all’inizio degli anni sessanta, nel clima più disteso e democratico degli anni della presidenza Kennedy (1960-
1964). Esemplare è in tal senso la vicenda dell’importante sceneggiatore Dalton Trumbo, appartenente al gruppo
dei “dieci di Hollywood”. Nel 1947 lo scrittore viene condannato a un anno di carcere e iscritto nella lista nera per
essersi rifiutato di rispondere allo HUAC. Dopo avere scontato la pena, riprende a lavorare sotto pseudonimo, scri-
vendo negli anni cinquanta una trentina di sceneggiature e ottenendo perfino un Oscar con il nome Robert Rich per
il film di La più grande corrida (The Brave One, 1956). Soltanto nel 1960 può finalmente tornare a firmare i propri
lavori con il suo vero nome, e ciò per il coraggio dimostrato dal regista Otto Preminger e dall’attore Kirk Douglas.
Il primo comunica infatti pubblicamente alla stampa che la sceneggiatura del suo film Exodus è opera di Trumbo e
che il suo nome apparirà ufficialmente nei titoli di testa, mentre il secondo, in qualità di produttore di Spartacus,
diretto da Stanley Kubrick e sceneggiato anch’esso dallo scrittore blacklisted, decide di seguire l’esempio di Pre-
minger. Apparsi in un anno in cui i tempi in America sono ormai maturi per chiudere l’indegno capitolo della cac-
cia alla streghe, i due film sferrano un colpo mortale alla lista nera.

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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

1. Storie generali del cinema e singole cinematografie nazionali


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2. Sull’avvento del sonoro


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3. Su Howard Hawks, Susanna e la commedia hollywoodiana


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4. Dalla seconda guerra mondiale alla guerra fredda


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ESERCIZI APPLICATIVI
1) Quale casa di produzione hollywoodiana diede inizio alla transizione al sonoro?
2) Quali furono le obiezioni mosse da Luigi Pirandello al film parlato?
3) In che genere di produzioni erano specializzati gli studi aperti dalla Paramount nel 1930 a Joinville, nei
dintorni di Parigi?
4) In quante versioni fu distribuito Blackmail (1929), il primo film sonoro di Alfred Hitchcock?
5) Che cos’è la teoria dell’asincronismo?
6) Che cosa distingueva tecnicamente il sistema Vitaphone, sfruttato dalla Warner Bros., dal sistema Movie-
tone, adottato invece dalla Fox?
7) Quali erano le caratteristiche dei film definiti part-talking?
8) A cosa si deve l’importanza del film La canzone dell’amore (1930) di Gennaro Righelli?
9) Che cos’è il backstage musical?
10) Quali difficoltà comportava nei primi anni del sonoro l’assenza del missaggio?
11) Quale commedia successiva di Howard Hawks è incentrata sul tema, già presente in Susanna, della regres-
sione all’infanzia?
12) Quali sono le principali differenze fra la commedia sofisticata e la screwball comedy?
13) Che cosa simboleggiano Susan Vance e Alice Swallow, le due donne fra cui è diviso il protagonista di Su-
sanna, secondo l’analisi di Robin Wood?
14) In che anno e a proposito di quale film è stato usato per la prima volta dalla critica cinematografica
l’aggettivo screwball?
15) Quali sono i principi che regolano le interazioni verbali fra i personaggi di Bringing Up Baby?
16) Qual è il soggetto di quel tipo di commedia definita da Kristine Brunovska Karnick comedy of reaffirma-
tion e da Stanley Cavell comedy of remarriage?
17) Quale è stata l’accoglienza di Susanna da parte del pubblico americano dell’epoca?
18) A quali personaggi, nella screwball comedy, sono assegnati di solito i ruoli più marcatamente comici?
19) In che cosa consisteva il fenomeno delle “liste nere”?
20) Quale importanti registi americani di finzione si distinsero nella produzione di documentari di propaganda
bellica durante la seconda guerra mondiale?
21) Chi erano i “dieci di Hollywood”?
22) Qual era negli anni trenta e quaranta la categoria professionale più sindacalizzata e politicizzata all’interno
della comunità hollywoodiana?
23) Quali sono le caratteristiche dei film sulla guerra di Corea?
24) Quale importante regista precedentemente iscritto alla PCUSA si è guadagnato la fama di delatore per ave-
re accettato nel 1952 di testimoniare davanti al Comitato per attività antiamericane?
25) Quali sono i generi cinematografici americani degli anni cinquanta in cui si riflette in maniera più esplicita
il clima politico della guerra fredda?
26) A quale pratica in uso negli anni della “caccia alle streghe” si riferisce il titolo del film di Martin Ritt Il
prestanome?
27) Qual era l’atteggiamento dei produttori hollywoodiani nei confronti dei film di argomento politico prima
dello scoppio della seconda guerra mondiale?
28) In quale periodo il film bellico entra a far parte stabilmente del sistema dei generi del cinema hollywoodia-
no?

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