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La Stampa, 1 settembre 2002

Heidegger a Johannesburg
Il contributo dei filosofi alla salute del pianeta terra
C´era una volta la domenica "Laetare", chiamata così dalla prima parola dell'Introito. Era una
domenica della Quaresima, o dell'Avvento - da quando la liturgia della messa è cambiata e,
soprattutto, ha bandito il latino, non so più bene dove collocarla. Era una specie di intervallo (la
parola latina significa "rallegrati"), un momento di sollievo concesso ai fedeli durante un periodo di
penitenza, come usava essere quello della preparazione al Natale o alla Pasqua. Torna in mente
questo saggio uso liturgico leggendo le tante apocalittiche riflessioni ispirate in questi giorni dalla
conferenza mondiale di Johannnesburg. Che certo non promette niente di buono sul piano dei
risultati, ed è stata l'occasione per fare l'inventario drammatico di tutti i mali che minacciano il
nostro pianeta, dalla devastazione dell'ambiente alla povertà e alle malattie dilaganti.

Non c'è ovviamente da stare allegri, e se non cambia qualcosa al più presto corriamo davvero - noi,
e soprattutto le generazioni future - il rischio di una catastrofe paragonabile a quella (peraltro
felice) che fece sparire i dinosauri miliardi di anni fa. Tuttavia, per rallegrarci cristianamente un po',
possiamo anche ricordare che all'inizio dell'Ottocento qualche ecologista ante litteram pronosticava
che Londra, prima della fine del secolo, sarebbe diventata invivibile perché sommersa dallo sterco
dei cavalli, data la sempre più intensa circolazione di carrozze private e pubbliche trainate dal
nobile animale. Si sa come andò a finire, il mostro della tecnica partorì l'automobile e almeno
questa spiacevole morte ci fu risparmiata.

Non ha certo senso, proprio mentre si sollevano sempre più legittimi dubbi sulla "mano invisibile"
del mercato, affidarsi alla mano invisibile e provvidenziale della tecnica, sperando che essa, anche
questa volta, ci salverà. Ma certo, se si legge con attenzione l'inventario dei problemi di cui si parla
a Johannesburg, e per esempio si mettono insieme i disastri ambientali con le epidemie di Aids, di
malaria, di tubercolosi, ci si rende conto che una qualche fiducia nella tecnica dobbiamo pur averla:
si potrà dire che vanno limitate le emissioni di anidride carbonica; ma chiederemo insieme che le
industrie farmaceutiche producano più medicine contro l'Aids e a prezzi inferiori, poiché è difficile
pensare che l'epidemia (anche se fosse l'esito di un errore di biologi, o degli esperimenti di un
pazzo) possa essere vinta solo da un ritorno a condizioni generali di vita più vicine alla "natura", e
meno soggette alla hybris, alla volontà tracotante della tecnica.

Se la filosofia viene evocata, come talvolta si fa, solo per rafforzare il pessimismo apocalittico che
vede il futuro dell'uomo ormai definitivamente segnato da un destino di autodistruzione, si rischia
di rendere un cattivo servizio alla filosofia e, soprattutto, al destino dell'uomo. Se c'è un senso,
forse l'unico, in cui la polemica di Popper e dei suoi discepoli contro Platone (diventata d'attualità
negli ultimi tempi) va presa sul serio, è proprio là dove ci mette in guardia contro le pretese
totalizzanti dei discorsi dei (di certi) filosofi. Non si ricorda, per esempio, che non solo Popper ma,
con ben più significativi argomenti, anche Heidegger è stato un critico di Platone. Anche per lui, se
c'è per l'uomo una possibilità di uscire dall'alienazione e dalla miseria in cui lo ha piombato la
metafisica (cioè la persuasione di poter conoscere l'ordine eterno del mondo con l'unico fine di
accettarlo e di adattarvisi, secondo destino e necessità), questa è proprio la forza innovativa della
tecnica, in cui risiede, come dice Heidegger in Identità e differenza (1957), "un primo lampeggiare
dell'evento (nuovo) dell'Essere". I problemi ecologici e quelli sociali del pianeta sono certi enormi.
Non coinvolgiamo i filosofi in una visione che, oltre a non ascoltarli con attenzione, finisce per
giovare solo alla pigrizia pessimistica di chi, pensando che non c'è soluzione, si sente esonerato da
qualunque sforzo per cercarla.

GIANNI VATTIMO

La Stampa, 6 settembre 2001


Squali no global
Se l'uomo tecnologico distrugge il pianeta
Non so se gli etologi dimostreranno che anche l'inusitata ferocia degli squali che, sulle coste
americane, hanno cominciato di recente ad attaccare bagnanti inermi a pochi metri dalla riva è una
conseguenza della globalizzazione; non credo però che sarebbe difficile, né esagerato, vedere un
simile nesso, partendo dalle questioni del clima, dal mancato rispetto delle decisioni di Kyoto, e in
genere dalla modificazione dell'ambiente che è in corso a opera di quella stessa tecnologia globale
che sta intaccando tanti aspetti, non solo economici ma anche banalmente "naturali", della nostra
esistenza. Non staremo scoprendo che l'uomo globale non è solo fatalmente nemico delle piante,
dell'aria e dell'acqua, ma anche degli animali? Certo gli squali, almeno lo speriamo, non stanno
organizzando manifestazioni violente antiglobal; ma il loro nuovo comportamento, la loro
sanguinosa invasione di zone che finora avevano lasciato all'uso esclusivo degli umani non può non
essere vista come un aspetto non del tutto casuale della crescente violenza che caratterizza
l'insieme della nostra società, e che tocca anche il rapporto con la natura.

Le esplosioni di violenza "superflua" di cui sono piene le nostre cronache, sia a livello individuale (il
"forcené" di Beziers, da ultimo; ma poi i tifosi che distruggono gli stadi, i black bloc che sfasciano le
città, affrontati da altri giovani in uniforme spesso non meno violenti di loro) sia a livello collettivo e
politico (i kamikaze palestinesi, i genocidi africani e serbi, gli automobilisti del ponte newyorkese
che incitano l'aspirante suicida a buttarsi, pur che liberi il traffico) non sono forse segno che il
mondo che stiamo costruendo, con tutta la sua tecno-scienza, si avvicina sempre più alla natura nel
suo senso più immediato e brutale? E' in questa natura che il pesce grande mangia il pesce piccolo
(o anche il piccolo di uomo, se gli capita a tiro), che i forti si fanno valere contro i deboli - e
giustamente, pensano in molti, giacché è solo attraverso una simile selezione "naturale" che si può
creare sviluppo e ricchezza.

Forse esageriamo; ma davvero si può ridurre il problema degli squali che azzannano i bagnanti a
una questione di polizia ittica, risolvibile con l'invenzione di qualche marchingegno che li tenga
lontani o li elimini del tutto? Anche qui, non respingiamo troppo bruscamente la domanda. Se nelle
nuove condizioni climatiche e ambientali create dall'uomo tecnologico gli animali si rivoltano
(magari impazzendo a causa dell'alimentazione che abbiamo loro imposto), le tecniche che
inventeremo per difenderci non rischieranno di produrre nuovi squilibri da cui deriverà ulteriore
violenza? Benché sembri una strada difficile, non mettiamo troppo presto da parte il sospetto che la
violenza dello squalo globalizzato e la violenza che cresce nella nostra società siano aspetti dello
stesso problema. Forse anche gli squali non sarebbero insensibili all'esempio di una società umana
meno conflittuale e più pacificata.

GIANNI VATTIMO

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