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Contributi alla storia di Velletri medioevale

Sono ormai decenni che si vanno pubblicando storie ed articoli relativi ai Castelli Romani, che offrono lopportunit di leggere sempre le stesse cose (salvo rare eccezioni), mentre mancano delle risposte convincenti a questioni tuttora rimaste aperte, alle quali anche quei pochi che si sono occupati dei nostri Castelli, non hanno trovato soluzione alcuna. Confuse e contraddittorie sono soprattutto le vicende storiche del periodo che va dalla fine dellImpero romano agli anni del Rinascimento; in particolare vige un buio appena squarciato da qualche scarso sprazzo di luce sul periodo che va dallVIII al XII secolo, come se alla storia mancasse un intero capitolo, ed esattamente quello in cui i Castelli Romani si formano. Eppure su tale periodo storico relativo al Lazio gli studi non mancano. Dai tempi di Baronio, di Maffei, di Mabillon e di Ludovico Antonio Muratori, giusto per citarne alcuni, i cosiddetti tempi bui vengono indagati con crescente acume critico. Dalla fine del secolo XVIII poi, epoca nella quale furono aperti agli studiosi gli archivi vaticani, fino ai giorni nostri, migliaia di documenti sono stati pubblicati, dando vita ad innumerevoli studi e ricerche. Tra alti e bassi, gli specialisti hanno frugato diligentemente negli archivi, hanno interpretato scritte a prima vista illegibili, hanno distinto i falsi dai genuini, hanno riportato alla luce i pezzi della storia, che resta in parte ancora da scrivere. Per i nostri Castelli, non si capisce perch, dopo Nibby e Tomassetti, poco si visto, a parte studi particolari, raramente di largo respiro e ristretti a singoli comuni. Eppure nel 1955, la British School di Roma inizi una serie di studi approfonditi sulle sedi medioevali dei territori attorno a Roma, intraprendendo anche diversi scavi in siti tardoantichi e medioevali, i cui risultati sono stati pubblicati nel corso degli anni Sessanta e Settanta(1). Ma va specificato immediatamente, per chi intendesse abbandonarsi a delle illusioni, che tali ricerche si sono svolte lontano dal Vulcano Laziale, forse troppo preso ad urbanizzarsi caoticamente. Sempre nel 1955 uno studio metodico sullarchitettura militare antica, medioevale e rinascimentale, sugli accampamenti antichi e sui castelli medioevali italiani fu lanciato da G. Chierici e G. Zander seguendo una precedente proposta di Giuseppe Marchetti-Longhi, studioso al quale legato e dal quale parte un lungo filone di studi e ricerche sul Lazio medioevale ancora oggi vivo e che ha trovato la propria palestra nellIstituto di Storia e di Arte del Lazio Meridionale con la sua prestigiosa sede situata nel palazzo bonifaciano di Anagni, il quale recentemente per opera di

Gioacchino Giammaria ha pubblicato un volume sui castelli del Lazio meridionale, Castelli Romani esclusi (2). Nel corso degli anni 70 la ricerca storica ed archeologica relativa ai siti medioevali assume contorni sempre pi netti, tanto da imporsi come campo di ricerca particolarmente favorevole allormai affermata archeologia medievale, un fenomeno presente a livello europeo. Si fanno cos strada nuovi concetti, che aiutano a comprendere meglio quali furono i fenomeni sociali, culturali ed economici del periodo storico ormai a torto definito dei secoli bui. Viene cos individuato nella sua ampiezza il processo dellincastellamento, prodottosi tra X e XI secolo e che nellarea attorno a Roma assunse dimensioni notevoli. Le fonti di cui disponiamo ci fanno sapere che alla met del IX secolo sui nostri colli restavano, dopo le devastazioni della guerra gotica e le distruzioni dellinvasione longobarda, Tuscolo, Albano con Aricia, Lanuvio e Velletri; per il resto qualche casale sparso, insediato sulle rovine di grandi ville romane e poi tanti ruderi. A distruzione si aggiunse distruzione, e la seconda met dellottavo secolo passa sopra la nostra zona come un rullo compressore. Con la fine dellimpero carolingio, che pur si era sforzato di far rinascere qualche cosa di simile allimpero romano, e la conseguente dissoluzione delle strutture politiche, la penisola italiana rimane indifesa di fronte alla minaccia saracena. Nell846 unarmata di arabi di Sicilia risal il Tevere saccheggiando e distruggendo quanto incontrava, senza risparmiare le basiliche di San Pietro e di San Paolo, che erano uscite indenni anche dalla guerra gotica. Stabilitisi nei dintorni di Roma c addirittura chi ha sostenuto che si fossero accampati per qualche tempo nellarea del vulcano laziale per circa trentanni devastarono il Lazio; redacta est terra in solitudine, et monasteria sancta sine laudes scriveva un cronista del tempo. Solamente agli inizi del X secolo vennero a crearsi le condizioni politiche e militari per allontanare definitivamente il pericolo saraceno dalla regione laziale. Dopo lunghi e difficili negoziati tra papato, Bisanzio e rappresentanti dei diversi ducati italiani, alcuni dei quali come ad esempio Gaeta ebbero rapporti amichevoli con gli arabi che si erano stanziati principalmente alle foci del Garigliano, si form una grande lega che ebbe come compito leliminazione di ogni presenza mussulmana sulla penisola. Lepico scontro ebbe luogo nel 916 e dur ben tre mesi, al termine dei quali, come scrive Giorgio Falco, Il covo dei saraceni, rovina di tanta parte dItalia, era definitivamente distrutto (3) Qualche tempo dopo la battaglia del Garigliano, Roma ed il suo ducato furono governati, pi che dal papa, da Alberico II, il figlio

della famosa Senatrice Marozia, che gli storici di solito raffigurano come simbolo dellanarchia e dellimbarbarimento che caratterizzarono il IX e X secolo. Fu Alberico II invece, signore incontrastato di Roma ed accusato dai contemporanei di dispotismo, ma anche definito Gloriosus Princeps, a riordinare Roma e dintorni, unopera per niente facile, considerate le condizioni in cui erano ridotti. Tutto era decaduto, compresi i monasteri, come abbiamo visto, i quali, quando non abbandonati del tutto, si erano trasformati in centri di potere ad opera di abati dissoluti e rapaci oppure annientati dalla dispersione dei beni. Scrive ancora Giorgio Falco: Lesempio forse pi scandaloso del dissolvimento era offerto, a poche decine di chilometri da Roma, dallabbazia imperiale di Farfa. In seguito alla distruzione saracena limmenso dominio terriero era caduto in preda al disordine, allinsurrezione dei servi, allusurpazione dei potenti. Alberico II allora propugn, se necessario anche con le armi, la riforma monastica dellabate Odone di Cluny, ai cui seguaci furono affidati i monasteri usurpati e donati interi territori con tanto di castelli. Attraverso l'opera dei monaci il principe inizi a dare un'organizzazione ai territri del Ducato Romano, nel quale le popolazioni vivevano disperse in tanti piccoli gruppi, impossibili da governare. In molti casi furono proprio i monaci benedettini a concedere porzioni del territorio ottenuto a chi avesse costruito dei castelli, nei quali raccogliere la popolazione, e ripopolato le zone abbandonate, a volte da molto tempo, tanto che si era persa addirittura memoria dei nomi dei luoghi. Per questo motivo in genere resta traccia della toponomastica antica solamente in quelle aree nelle quali non si avuto mai uno spopolamento completo e radicale. I toponimi medioevali, che spesso appaiono nel corso del ripopolamento, sono riconoscibili, anche perch la loro genesi segue criteri abbastanza uniformi. Sotto questo aspetto non azzardato affermare, che anche i toponimi hanno un alto valore come fonti, che dovrebbero godere della stessa attendibilit di un diploma corroborato da sottoscrizioni e sigilli, cosa di cui torneremo a parlare al termine del presente scritto. Va detto subito che per i Castelli Romani mancano quasi completamente i documenti relativi a quellepoca, ma quel poco che resta e quel tanto che possiamo desumere da quanto avvenne in zone meglio documentate, sufficiente per ricostruire a grandi linee i fatti, tanto per comprendere cosa potesse essere accaduto. Possiamo dunque affermare senza molte preoccupazioni di sbagliare, che Alberico II oltre a far costruire egli stesso delle rocche e dei castelli per ripopolare il contado e ristabilire i collegamenti viari, affid ai monaci lopera di ricostruzione del

territorio attorno a Roma, citt che si era ridotta ad una specie di isola nel deserto. Per la zona a sud di Roma lonere principale cadde sulle spalle del monastero di San Paolo fuori le mura. La memoria pi antica rappresentata da una bolla del 1081 con la quale Gregorio VII prende sotto la propria protezione il monastero e con la quale conferma il possesso dei suoi beni, tra i quali troviamo anche: ...castrum Velletrum, cum omnibus suis pertinetiis, sicut a sanctis pontificibus concessum est. (4) Va sottolineato il fatto che la bolla del 1081 ricorda: que omnia tibi dedit b.m. papa Marinus, e dichiara possessi di San Paolo fuori le mura anche SantAnastasio alle Acque Salvie, le Tre Fontane, e San Lorenzo in Campo Verano. Questo di importanza essenziale per comprendere quanto fosse importante il ruolo di Alberico, del quale si vantano, con buoni argomenti, di essere discendenti i Conti di Tuscolo ed i Colonna. Il papa Marinus non altri che Marino II, che troviamo sul soglio pontificio dal 943 al 946, nel pieno del periodo albericiano, e citato nella famosa pergamena del 946 di Leone Vescovo veliterno, con la quale viene concesso in enfiteusi fino alla terza generazione ad un tal Demetrio di Melioso un monte nel territorio di Velletri in cambio della costruzione di un castello. I monasteri delle Tre fontane e di San Lorenzo, abbandonati o comunque in condizioni pietose ai tempi di Alberico, una volta rinati ed esauritasi la funzione del monastero di San Paolo, si sostituiranno in parte a questo nel possesso di ampie fette di territorio. Chi conosce bene la storia di Velletri, a questo punto dovrebbe aver fatto un salto sulla sedia leggendo del "castrum Velletrum". Che si tratti proprio di Velletri certo, come conferma anche il fatto che bolle successive in favore del cenobio paolino parlano ripetutamente delle possessiones in Civitate Velletri. Queste possessiones, forse, sono le stesse delle quali ebbe in seguito titolo di propriet labbazia di San Paolo in Albano, ma questa unaltra storia. Gli storici veliterni infatti da sempre rimpiangono la perdita di unipotetica pergamena di Gregorio VII a favore del comune veliterno. Nonostante le pi diligenti ricerche fatte da Teoli, Borgia, Calderoni ed altri studiosi, non se ne potuta trovare traccia concreta. Nessun riferimento vi fa Urbano II, che parla solo, in merito al territorio che forma la giurisdizione del Comune Veliterno, di: qu continentur in antiquis privilegiis vestr Civitatis ed aggiunge significativamente: nobis cognitis. Si pu qui supporre che per qualche motivo avesse gi frequentato Velletri, e c chi sostiene che sia stato Vescovo della citt, da

identificarsi con quello stesso Ottone che nel 1085 consacr la Chiesa di San Silvestro, della quale resta una Lapide con un elenco delle reliquie. Ma anche se non fosse lo stesso Ottone, fu un fedele collaboratore e seguace di Gregorio VII, del quale dunque conosceva loperato, compreso quanto poteva aver fatto a favore di Velletri. Nella sua bolla Pasquale II si impegna a non cambiare nulla della benignit verso Velletri mostrata da Gregorio VII, definito: prdecessore nostro sanct memori, ma non si parla di bolle, privilegi, lettere o altro. Non parla di documenti o bolle precedenti neanche Gregorio IX con la sua bolla del 1235, pur dicendo: Ad exemplar autem prdecessorum nostrorum Gregorii VII et Urbani II. Non cita direttamente bolle o documenti, ma abbiamo visto che quella di Urbano II esiste veramente, dunque si portati a supporre anche lesistenza di una bolla gregoriana. Se il documento di Gregorio VII in favore della citt di Velletri fosse effettivamente esistito, questo sarebbe stato assai importante, e dunque maggiore sarebbe stata la possibilit che si conservasse in originale o in copia. Pasquale II probabilmente si riferiva alla citazione di Gregorio VII nella bolla di Urbano, senza sottilizzare se un pezzo di pergamena effettivamente esistesse. Comunque sia, qualcosa deve per aver fatto Ildebrando di Soana per Velletri, perch altrimenti non si spiegherebbero tutte queste citazioni. Per la semplice esistenza di una pergamena nella quale si conferma la propriet del Castello di Velletri al monastero di San Paolo fuori le Mura esclude in qualche modo che lo stesso identico pontefice potesse aver pubblicato qualche documento simile a favore del comune, il quale, sia detto a margine, a quell'epoca difficilmente poteva godere di una configurazione giuridica autonoma di carattere laico. Gregorio "conferma" nel 1081 i beni e privilegi del monastero paolino, il che ci suggerisce che gi possedeva, alla data, il "castrum Velletrum"; ci significa anche, che Gregorio, quando ancora era pi semplicemente Ildebrando e ricopriva la carica di Abbate di San Paolo, dovette avere a che fare con Velletri, cos come il suo successore nella carica di abate e di papa Pasquale II, lasciando un grato ricordo. Per chiarire esattamente come si svilupparono i rapporti tra la comunit veliterna ed il monastero di San Paolo, avremmo bisogno di documenti dei quali non abbiamo pi notizia e chiss se sono mai esistiti. L'unico atto di una certa importanza precedente alla bolla di Gregorio VII la carta di Leone vescovo del 946, nella quale di San Paolo non si parla nemmeno incidentalmente (5). Una

lettura attenta di questo, che il documento pi antico relativo alla citt di Velletri, conservato nell'archivio della curia vescovile, pone ancora pi interrogativi e fa venire a galla ancora pi dubbi di quelli che generazioni di storici locali hanno gettato sul tavolo. Il primo dato importante rappresentato dal beneficiario della carta veliterna, Demetrio di Melioso, spesse volte "non meglio identificato", in particolare da parte di studiosi un tantino frettolosi. Sembrerebbe un personaggio di secondo piano, in particolare se si deve dare retta all'interpretazione pi diffusa di questa carta, secondo la quale a Demetrio viene concesso un monte, la cui ubicazione nessuno riesce ad indicare, nonostante il gran numero di nomi di luogo tramandati dal documento e si ha quasi l'impressione che il compito posto dal vescovo leone non fu raggiunto, visto che nessun autore in seguito, sino ai nostri giorni, stato in grado di indicarci il castello di Demetrio. Intanto non era uno qualsiasi, ma uno degli uomini pi importanti alla corte di Alberico II. Era certamente presente al sinodo del 6 novembre 963 convocato dall'imperatore Ottone II, mentre in una bolla di Giovanni X citato un Demetrio arcario, che se fosse identico al Nostro, avrebbe ricoperto un altissimo incarico gi nel 926. Ebbe anche un figlio, Giovanni, che stipul un contratto con un monastero romano per il ripopolamento di una zona marginale del Patrimonium Appiae tra il 963 ed il 977. Altre tracce di Melioso nei dintorni di Velletri non se ne trovano pi, ma per quasi un secolo certo che i Tuscolani, discendenti di Alberico II, ebbero tra le proprie zone di influenza e potere certamente anche Velletri. La carta veliterna, per come , ci fa capire che Demetrio ebbe successo nella sua impresa. Non si spiegherebbe altrimenti il fatto che tale documento ci sia giunto in una copia autentica del secolo XI e conservata talmente bene, da indurre a credere che anche in tempi assai remoti sia stata tenuta in alta considerazione, avendo valore e peso giuridico. La carta stessa ci dice infatti che in caso di insuccesso il documento stesso avrebbe perso il proprio valore. Alla luce del fatto che la carta veliterna non altro che un atto di incastellamento, dobbiamo andare a cercare questo castello. Il grande storico di Velletri, Alessandro Borgia, pubblic per primo l'atto, e fu lui a parlare di un non meglio identificato monte con annessi dei fondi. Dichiara inoltre di non aver pubblicato il documento per intero, avendo omesso alcune parti di scarsa importanza. Tali brani omessi da Alessandro Borgia furono in seguito pubblicati da Enrico Stevenson alla fine del XIX secolo, e la loro lettura, nel contesto gi noto, cambia completamente aspetto alle cose. Innanzitutto si capisce chiaramente che Demetrio di

Melioso riceve in consegna un intero territorio, compatto nella sua completezza, e non soltanto un qualsiasi monte e degli appezzamenti sparsi di terreno. Si citano inoltre "...parietibus antiquis... che fanno tanto pensare ai resti della Velletri classica, nel decimo secolo conservati certo meglio di quanto si possa pensare oggi. Borgia ritiene di scarso valore anche un passo fondamentale, nel quale si descrivono i confini della "insula", nella quale si trova la chiesa di San Clemente. Salta agli occhi la malafede dello storico settecentesco, che cancella la descrizione di questa "insula" e si arrampica sugli specchi per far credere che si tratti di una contrada lontana dalla citt, spersa lungo i confini comunali. Basta ancora una volta solo leggere il documento per capire senza alcun dubbio, che questa "insula" non altro che un pezzo di territorio cittadino posto attorno alla cattedrale di San Clemente e definito "isola", perch rappresenta una sorta di enclave all'interno del pi ampio territorio veliterno, escluso dalle norme contrattuali. Il castello edificato da Demetrio di Melioso del resto ha lasciato una traccia evidente nella decarcia di Castello, se vi fosse ancora qualche dubbio. Tracce della cinta muraria del Castello Veliterno di decimo secolo erano ancora visibili agli inizi del secolo scorso e potrebbero essere facilmente ritrovate ancora oggi. Se non fosse sufficentemente chiaro, sia detto che la carta del 946 non altro che l'atto della rinascita medioevale di Velletri. Questo lo doveva aver capito bene anche Alessandro Borgia, il quale per, troppo preso a voler celebrare la continuit tra la Velletri antica e quella moderna, bara un tantino su quella medioevale. Del resto basta confrontare i confini del territorio assegnato a Demetrio di Melioso ed i confini del territorio Veliterno delineati nella bolla di Pasquale II per vedere che si tratta della stessa cosa, a parte qualche cambiamento di nome, pi o meno marcato, o qualche aggiunta. Non a caso le elencazioni dei confini iniziano entrambe con il "monte de episcopo" o "mons episcopi", un toponimo che ancora oggi indica un luogo ben preciso nelle immediate vicinanze della antica Rocca di Lariano. E siamo qui infine giunti ad un bel problema toponomastico: perch questo luogo si chiama cos? La risposta immediata potrebbe essere: perch apparteneva al vescovo di Velletri. Giusto, ma non sufficente, perch al vescovo appartenevano molti altri posti a Velletri e dintorni, e non si spiega dunque perch proprio questo si debba chiamare cos. Doveva esservi un motivo pi che importante. Questo colle, come hanno tra l'altro dimostrato recenti scavi ed una serie di intelligenti ricognizioni da parte di un gruppo di

volontari, ha dimostrato che in un periodo relativamente lungo dell'alto medioevo, fu abitato. In una serie di tuguri scavati in banchi di pozzolana sui fianchi del colle, furono ricavate delle abitazioni. Si ha l'impressione che tale frequentazione abbia avuto una qualche relazione con la rocca di Lariano, che probabilmente esisteva gi molto prima della pergamena del 1059, conservata anche questa nell'archivio vescovile, nella quale si cita tra i testimoni un "Johannes de Lariano". Anche in mancanza di documenti diretti impensabile che la cima di Lariano non abbia svolto un qualche ruolo strategico-difensivo nel periodo altomedioevale. Ma torniamo al nome di Monte o Colle del Vescovo. Per certo sappiamo che si chiamava cos nel 946, ai tempi del vescovo Leone. Di tutto il territorio veliterno questo tra i punti pi alti e riparati da incursioni e scorribande, e questa constatazione fa tornare alla memoria la famosa lettera del 592 con la quale Papa Gregorio Magno comanda a Giovanni, vescovo di Velletri, dal momento che incombe il pericolo dei Longobardi, di trasferire la sede episcopale nella localit detta Arenata a Sant'Andrea Apostolo. Ora gli storici praticamente unanimemente identificano, con qualche legittimo dubbio, questo luogo con Sant'Andrea in Silice, lungo la Via Appia nei pressi dell'odierna localit di Le Castella. Questa identificazione, per motivi di pura e semplice logica andrebbe esclusa. Gregorio Magno infatti dice esplicitamente di lasciare la citt per un posto pi sicuro e Sant'Andrea in Silice, luogo posto in pianura lungo una strada comodamente percorribile non certo pi sicuro della citt posta sul dorso di un monte. Si trova a volte citato un abate di Sant'Andrea in Silice et Arenati come prova ultima che la localit citata nella lettera di San Gregorio fosse identica alla zona lungo l'Appia. Va ora chiarito che il termine "arenata" in antico indicava delle cave di pozzolana, disseminate per tutta la campagna romana, cos come non era difficile trovare delle chiese intitolate a Sant'Andrea, diverse una dall'altra. Questa constatazione permette di ipotizzare comunque che il "monte del vescovo" si chiama cos, perch a partire dal 592 e per un periodo relativamente lungo vi ebbe la propria sede il vescovo di Velletri, prima di ritornare nella sua "insula" di san Clemente, attorno alla quale restavano i resti abbandonati della antica citt di Velletri, i cui abitanti vivevano sparsi nei vari casali e fondi del territorio Veliterno e che grazie all'intervento di Demetrio di Melioso decisero di ripopolare la citt antica. Corrado Lampe

<corradolampe@googlemail.com>
(1) David Whitehouse, Sedi medievali nella Campagna Romana: la Domusculta e il villaggio fortificato, in Quaderni Storici n. 24, Ancona, 1973. Si rimanda a questo articolo per la bibliografia. (2) Paolo Delogu, Lo studio dei centri rurali originati dallincastellamento medievale nel Lazio, in Benedettini ed insediamenti castrali nel Lazio meridionale, Giornate di Storia a Patrica n. 6 - Atti del Convegno, 26 ottobre 1986, Patrica, 1990. (3) Giorgio Falco, La Santa Romana Repubblica - profilo storico del medioevo, terza ed. ampliata, aggiornata e corretta, Milano-Napoli, 1958. (4) B. Trifone, Le carte del monastero di San Paolo, in Archivio della Societ di Storia Patri, vol. XXXI (1908) p. 278. (5) I regesti delle pergamene dell'Archivio Capitolare di Velletri, a cura di Tiziana Testone; Velletri, 1998.

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