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“Vi ho chiamati amici”

Laici responsabili per il Vangelo e per il mondo

sintesi del materiale preparatorio elaborato dai gruppi della rete chiccodisenape

Cercare di trovare strade nuove per rispondere alla chiamata di essere laici responsabili per il
Vangelo e per il mondo, libera da sterili rivendicazioni e lontana da modalità anacronistiche, è stata la
sfida che la rete chiccodisenape sta sperimentando in questi mesi.
Ci siamo incontrati per la prima volta a marzo 2007, per scrivere una lettera aperta piena delle
nostre preoccupazioni vero un clima ecclesiale nel quale vediamo debole l’espressione del pensiero, la
ricerca, il dialogo. Abbiamo pensato che si potesse fare qualcosa di più e nell’ottobre 2007 abbiamo
lanciato una proposta tematica per occuparci in modo nuovo della Chiesa: invece di costituire un
gruppo consueto di riflessione, abbiamo sollecitato associazioni già esistenti e gruppi di amici interessati
a discutere insieme a creare piccoli gruppi di riflessione, capaci di lavorare in grande autonomia e al
contempo di aderire a un progetto comunitario. Così, da novembre 2007 a luglio 2008, 13 gruppi
piuttosto vivaci –segno della presenza di nuovi amici, aggiuntisi strada facendo- si sono incontrati per
discutere insieme, “ad alta voce”, su tre tematiche che abbiamo ritenuto cruciali per il momento attuale
della Chiesa: Ricercare le parole per dire Dio nel nostro tempo, Essere cristiani nel mondo, Sperare in una Chiesa di
comunione e di profezia. Ogni gruppo ha prodotto una relazione finale che ha messo a disposizione degli
altri gruppi e del coordinamento.
Oggi presentiamo un lavoro di sintesi che se pure non riesce a raccontare la ricchezza e la
profondità del cammino sperimentato in questi mesi, traccia un quadro d’insieme delle questioni basilari
e racchiude le idee principali. Nel testo sono presenti alcune citazioni, tratte dalle relazioni dei gruppi.
È il testo con cui arriviamo al convegno e con il quale i relatori –Serena Noceti, Giuseppe
Ruggieri, Marco Vergottini- si confronteranno, nello spirito comune di riconoscerci “amici” nel
Signore, che così ci ha chiamati per annunciare e testimoniare il suo amore.

Dal Vangelo secondo Giovanni, capitolo 15


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Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. 13Nessuno ha un amore più
grande di questo: dare la vita per i propri amici. 14Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando. 15Non vi chiamo
più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal
Padre l’ho fatto conoscere a voi. 16Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate
frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. 17Questo vi
comando: amatevi gli uni gli altri.

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Ricercare le parole per dire Dio nel nostro tempo

Diagnosi

Il primo convincimento manifesta l’esigenza, quasi come di una precondizione, di un passaggio


negativo: “Non nominare invano”. Prima ancora che dire o fare, si coglie la necessità che l’intera
comunità ecclesiale riprenda il cammino verso la semplicità attraverso degli spazi –il digiuno, la ricerca
del silenzio, la rinunzia a occupare ruoli di potere- che spesso sono vissuti come appelli alla singola
persona del discepolo. Non è forse richiesto invece in quest’ora di passare in questa lotta dal verbo al
singolare al verbo al plurale? Non è forse anche domandato di passare da un’accezione negativa del
deserto –deserto delle relazioni, della solitudine e degli outlet come oasi, deserto della dottrina
insufficiente, deserto della pseudo-catechesi scolastica ai fanciulli- a quella positiva di spazio dove possa
risuonare l’annuncio della consolazione e della bella notizia?
Il secondo punto riguarda l’esigenza di un movimento per mettersi alla presenza del Signore, in
ascolto della Sua voce, l’unica che può dare le risposte alla domanda: “Chi ci dirà le cose da dire?”.
“Come dire Dio oggi? Chiedendo a Lui “chi sei?”. Il Dio incarnato in Gesù Cristo non è un’idea ma
una persona, e il modo più diretto per incontrare una persona è conoscerla attraverso ciò che fa e dice;
quindi più che parlare di Dio/su Dio, forse occorre ascoltare Dio stesso, che si racconta così come vuol
essere conosciuto”. E invece troppo spesso nella vita dei cristiani non c’è tempo e spazio per ascoltare
la Parola, confinata spesso nei soli momenti liturgici o ridotta a semplice studio, mentre è indispensabile
uscire dai rifugi e stare vigilanti, in attesa che il Signore passi per dire quello che ha da dire.
In terzo luogo, proprio nell’ascolto, come uditori, tutti i credenti sono costituiti evangelizzatori:
“Chi parlerà?”. Vi è un legame intrinseco fra lo status di laici e l’annuncio evangelico: fuori dal tempio,
nella vita ordinaria, “sulla strada” (un pensiero del biblista Romano Penna), tocca ai laici annunciare,
per missione propria e non soltanto per supplire alla carenza di ministri ordinati. Questo sguardo
permette anche di appropriarsi del proprio vissuto vocazionale: “laici non si nasce ma si diventa
attraverso una decisione, una scelta, quindi il laico non è il semplice battezzato; … il battezzato può
scegliere di diventare prete, religioso, diacono oppure laico” (pensieri del teologo Carlo Molari).
Declinati questi aspetti, si giunge al punto centrale: “Che cosa diremo? E perché? E come?”.
Solamente il riconoscimento di se stessi come persone evangelizzate può portare a un annuncio
autentico, che riesca a trasmettere la profondità dell’incontro personale con una Persona che ha mutato
la comprensione del mondo donando il suo perdono e la notizia dell’avvento del Regno di Dio. Il
Vangelo raggiunge le vite nell’esistere quotidiano, ordinario e banale, di indifferenza e di rassegnazione,
ovvero di regole da rispettare per sentirsi all’altezza. “Qui” ed “ora” è la Galilea, una terra non
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particolarmente “santa” dove il Vivente ci precede dopo avere instaurato il Regno. Il perdono è
incondizionato, e proprio qui sta l’aspetto stupefacente e creatrice: grazie alla esperienza del perdono
gratuito, ricevuto ed accolto, e nuovamente dato, si creano relazioni di qualità nuova, “gratuite, forti e
durature, cementate dalla mutua accettazione e dal perdono reciproco” (per usare le parole di Enzo
Bianchi), in cui si mostra che la pace è effettivamente possibile e che è parte integrante dell’annuncio.
Questo annuncio assume un significato solo a partire dal progetto di uomo [che Dio ha pensato].
Infatti, senza la rivelazione dell’amore di Dio e della sua chiamata, l’uomo … sarebbe imperfetto,
egoista, orgoglioso, violento, corrotto, ... ma non sarebbe peccatore. Forse più che preoccuparsi della
perdita del senso del peccato, dobbiamo chiederci se noi veramente riusciamo ad annunciare a quale
pienezza di vita ci ha chiamato Dio creandoci”. Forse infatti solo la testimonianza di “donne e uomini
“eucaristici”, ossia persone che tentano di vivere nella propria vita l’atteggiamento di Gesù-Eucarestia,
di offerta per Dio e per i fratelli, facendo scelte di pace e di comunione” può incidere sulle persone che
quotidianamente sperimentano la fatica, la sofferenza, la morte.
L’ultimo nodo da sciogliere riguarda le domande: “Con chi parleremo? E dove?”. Si è già fatto
riferimento che la strada è il luogo di annuncio, ma ora si vuole aggiungere una parola sui destinatari: se
c’è chi vede la necessita di annunciare ai lontani –come la figura di Charles de Foucault, approfondita
da un gruppo, testimonia- vi è in tutti i gruppi l’esigenza nuova di ri-annunciare ai vicini o ai semi-vicini. Il
popolo di Dio è infatti variegato e formato anche persone che hanno sì avuto un certo grado di vaga
formazione cristiana in gioventù ma che possono essere considerate in questo ambito “analfabeti di
ritorno”; comprende coloro secondo, coloro che hanno un interesse per Dio e per Gesù Cristo, ma
sono scoraggiati dall’insegnamento o dall’atteggiamento di persone della Chiesa o anche ostili ad essa,
percepita esclusivamente come istituzione; e abbraccia anche i giovani estranei alla cultura “cattolica”,
privi ormai quasi del tutto della possibilità di contatti linguistici diretti con il Vangelo.

Prospettive

Chiarito che la prima parola non è una parola, ma un gesto, uno stile, un volto, l’accoglienza, e
senza condizioni, e che ciò nasce dal fatto di essere stati dapprima accolti, i primi luoghi di possibile
accoglienza segnalati sono la propria casa e le assemblee liturgiche, sopratutto quelle eucaristiche e poi quelle
che celebrano il sacramento della riconciliazione, non abbastanza valorizzate. Tra le molte proposte vi è
quella delle “case della Parola” nelle quali non si trasmettono delle informazioni del testo biblico, ma si
impari la Parola vivendo insieme, trovando “occasioni in cui partendo dal testo si spezza insieme il pane
della Parola, ci si ammaestra reciprocamente, ci si accompagna nella ricerca, in cui si impara a

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raccontare le meraviglie che Dio ha compiuto… L’esperienza di ciascuno, letta alla luce della Parola di
Dio, fa sì che ciò che prima era solo Scrittura ridiventi Parola che comunica con la vita dell’uomo e
della donna, qui, oggi.... Case della Parola che possano diventare case del Verbo, luoghi in cui Gesù
Cristo può abitare e noi con Lui”. Come avveniva, del resto, nelle prime comunità cristiane.

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Essere cristiani nel mondo

Diagnosi

La definizione della società contemporanea in termini di liquida da parte del sociologo Zygmunt
Bauman fa da sfondo a molte considerazioni sulla condizione del laico sia nella Chiesa che nel mondo:
l’identità del laico cristiano sembra diventare sempre più sfuggente e precaria, anche se per motivi quasi
opposti.
La Chiesa infatti sembra assumere un forte posizione identitaria; accentuando però gli elementi di
compattezza e di autorità –quasi solo a livello di dottrina e di dottrina morale- di fatto espone il
credente alle sue sole forze nel tentare di tradurre la fede nel vissuto della condizione quotidiana.
Di converso, le tendenze di pensiero e di vita diffuse non possono non influire anche sulla vita
del credente, per quanto egli voglia assumere una posizione critica, anche se sempre più costretta nei
limiti dell’individualità per l’affievolirsi di una ricerca comunitaria reale e condivisa.
Chiesa e mondo ritornano a relazionarsi polarmente. Le prospettive del Vaticano II –la Chiesa nel
mondo contemporaneo- sono state abbandonate, quasi che la Chiesa voglia uscirne per ridefinire se
stessa. Per il laico questo indirizzo ha l’effetto di costringerlo ad una condizione dilaniata con
conseguente divaricazione: credenti critici o credenti acritici. Nel primo caso si è risospinti ai margini
della Chiesa, perché in assenza di luoghi di ricerca e di dibattito l’aspetto critico è avvertito come
inaffidabile e pericoloso; nel secondo vi si è installati ben dentro ma si evitano le domande e le
questioni poste dalla vita e ci si affida a soluzioni nette e preconfezionate.
Dalle relazioni di sintesi del percorso di riflessione dei gruppi emerge un forte desiderio di
dialogo che non trova però la possibilità di esprimersi perché non è pratica corrente nella vita della
Chiesa. Ciò che il Vaticano II aveva detto del laicato sembra arretrare nel passato di un’acquisizione
teologica senza corso nella vita recente e attuale della Chiesa. Nell’opinione pubblica ma anche nella
pratica ecclesiale la Chiesa ritorna ad essere la gerarchia. E se questa è molto più presente nella vita
pubblica, senza deleghe e mediazioni, non ne consegue una maggior comunicazione anche nello stesso
popolo credente (“va ribaltata la procedura attuale secondo la quale la gerarchia si pronuncia e i laici si
arrabattano”).
“È comunque sotto gli occhi di tutti che, a 40 anni da quei momenti, oggi, anche limitando lo
sguardo all’accoglienza delle indicazioni del Concilio per quanto riguarda il laicato, il bilancio appare
non solo modesto ma sostanzialmente scoraggiante: i consigli pastorali, a livello sia parrocchiale che
diocesano, hanno per lo più solo un ruolo formale di ricezione di decisioni prese altrove; in Italia, ma
anche all’estero, l’idea di istituire una sorta di consiglio pastorale a livello nazionale, inizialmente
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avanzata, è quasi subito abortita; nell’assunzione delle sue decisioni e nella formulazione dei suoi
pronunciamenti in campo etico o politico, l’episcopato non sembra avvalersi di laici credenti esperti
nelle materie coinvolte, se non in forma quasi clandestina e facendo ricorso solo a pochi interlocutori
che sembrano essere stati accuratamente pre-selezionati in base alla certezza di un loro previo consenso
sulle linee già da questo assunte; e anche quasi nulla appare la collaborazione alla messa a punto degli
annunci di fede richiesta ai laici credenti che pure vivono a diretto contatto con i destinatari di questi
annunci e direttamente ne conoscono la psicologia e le attese”.

Prospettive

Se la diagnosi precedente è in qualche modo corretta e attendibile, è quasi necessaria una nuova
partenza, in grado di far tesoro delle stesse motivazioni che hanno portato alla situazione attuale –da
parte dei pastori e dei laici. Uno studio sulla situazione reale del laicato è indispensabile, anche perché la
complessità sociale ha creato un contesto nuovo rispetto ai parametri usati nella fase conciliare.

La nuova qualificazione del credente laico dovrebbe assumere alcuni obiettivi.


Il punto di partenza pare essere la necessità di elaborare una vera e propria spiritualità laicale. Le
fonti sono quelle di sempre –la Scrittura, la liturgia, il magistero, la storia della santità- ma la vocazione
universale alla santità deve essere declinata attraverso una ricerca comune che sappia trovare le forme di
testimonianza adatte al contesto e alle sue sfide.
L’indole secolare della vita cristiana del laico deve esprimersi in particolare nell’assunzione di
specifiche responsabilità da esercitare nella vita sociale, culturale e politica. In questo contesto si deve
anche esplorare il legittimo spazio di autonomia che spetta al laico in nome della sua partecipazione al
sacerdozio universale e alla sua specifica vocazione. Si tratterà di compiere un duplice movimento: da
un lato appropriarsi di uno stile indispensabile quanto disatteso per affrontare l’incarnazione del
Vangelo e la complessità del mondo: accoglienza, ascolto, dialogo, nella Chiesa e ovunque, soprattutto nelle
situazioni di marginalità sociale e ecclesiale che sono in via di rapido aumento.
Si tratta di individuare stili di vita coerenti, nella quotidianità delle situazioni familiari, professionali,
comunitarie e politiche. Gli ambiti di vita scelti dalla Chiesa italiana nel recente convegno di Verona
sono un’opportunità solo se includeranno la competenza e la responsabilità dei laici. Concretezza e
coerenza permetteranno di comprendere come possa e debba essere la testimonianza cristiana nel mondo
contemporaneo.
Contemporaneamente sono da ricercarsi comportamenti attivamente responsabili nell’ambito delle
comunità ecclesiali, a tutti i livelli: parrocchiali, diocesani, nazionali. È da superare il modello che

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concepisce la partecipazione in termini di “volontariato” entusiastico quanto improvvisato e volatile o
di ben delimitati apporti ministeriali (ministri della comunione), e, in particolare, non è più dilazionabile
una riflessione articolata sul ruolo della donna nella Chiesa, oltre gli schemi in atto di mera supplenza
nelle attività pastorali.
È l’insieme di queste prospettive che permette ai laici credenti di saldare la loro vita di fede con la
loro vita nel mondo e nella Chiesa. Senza questa promozione non si eviterà la crescita dell’indifferenza
come esito finale in una parte cospicua degli stessi credenti.

Da un punto di vista concreto e operativo si dovrà studiare in modo preciso e accurato la


presenza e la partecipazione laicale oggi nella vita della Chiesa a tutti i livelli, con il superamento di
schemi preconfezionati (ad es. non solo la famiglia ma anche i single…), individuando gli spazi e i modi
per aprire ricerca, confronto e di battito all’interno della Chiesa, in particolare quelli prima elencati, ma
non solo, con l’intento che non siano meramente teorici.

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Sperare in un Chiesa di comunione e di profezia

Diagnosi

I diversi gruppi di riflessione hanno tracciato analisi omogenee, pur nella varietà dei modi di
approccio al problema, sin dal frequente richiamo al Vaticano II a partire dalla sensazione che il
Concilio non abbia potuto dare i suoi frutti, perché è prevalsa la volontà di annacquare o addirittura di
archiviare. Sembra infatti che temi quali il sacerdozio universale, la Chiesa come popolo di Dio, la
responsabilità primaria dei laici nella testimonianza del Vangelo del mondo siano progressivamente
diventati in gran parte obsoleti.
Nasce di qui un diffuso senso di disagio e qualche volta di frustrazione: il Concilio, che aveva
aperto la speranza di una Chiesa di comunione e di profezia (e i due termini sono inseparabili), è per
molti una speranza delusa. Alla comunione si oppongono, infatti, due atteggiamenti molto diffusi. Da
un lato, un irrigidimento della struttura verticistica della Chiesa –dalla Chiesa universale alla parrocchia-
che può essere valutato sul piano sociologico come un esito inevitabile di tutte le organizzazioni sociali,
ma che non per questo non va contrastato. Esso ha sottratto ai laici anche i neonati spazi di autonomia
che qualche decennio fa ancora sussistevano e ha accentuato il dualismo chierici-laici all’interno della
Chiesa, consolidatosi in un atteggiamento di ascolto e comprensione minori. D’altro lato, almeno nei
suoi vertici, sembra aver sostituito la profezia con la politica sia riguardo alle forme del suo agire (forme
da gruppo di pressione che adotta metodi e strategie politiche e ricerca il consenso) sia, molto spesso,
riguardo agli obiettivi perseguiti, che sono obiettivi di difesa e consolidamento di posizioni di potere e
di presenza istituzionale nella società. Conseguenza inevitabile di questo orientamento è la riabilitazione
del cattolicesimo come religione civile e cioè religione etico-politica e identitaria, e il corrispondente
tramonto della parola e dell’azione profetica, che ha sempre un carattere dialettico e rimanda al Regno e
al “non ancora”.

Prospettive

Nelle proposte formulate dai gruppi vi è una sentita esigenza di puntare sull’essenziale, su ciò che
fonda l’appartenenza alla Chiesa e in questo vi è certamente la fedeltà al depositum fidei garantito dalla
gerarchia e il rispetto della funzione della gerarchia medesima, ma anche cose non meno importanti
quali l’ascolto della Parola, la comune chiamata alla testimonianza del Vangelo, la comunione fraterna,

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la pratica della riconciliazione, il reciproco confermarsi nella speranza, la profezia, cioè il saper giudicare
il mondo sulla base della Parola e allo stesso tempo aprirlo alla speranza. Non si dimentichi che proprio
il ritorno all’essenziale non può che favorire l’ecumenismo, la cui stagnazione non sembra essere
avvertita con la preoccupazione che meriterebbe.
Molti sono convinti che la liturgia abbia bisogno di essere anch’essa ripensata e rivitalizzata, vista
la diffusa prassi a cadere in ritualismi esteriori e poco curati, incapaci di coinvolgere in modo attivo i
laici. Giusto per fare un esempio delle proposte emergenti per rendere le celebrazioni eucaristiche più
partecipate e più comunitarie, si potrebbero pensare a una preparazione delle omelie domenicali in
collaborazione tra chierici e laici capaci di farsi portatori della sensibilità e dei problemi dei fedeli.
Numerosi interventi sono stati sulla forma della Chiesa. Anzitutto è parso importante uscire da
una logica rivendicativa –o addirittura di risentimento- nei confronti della gerarchia nella
consapevolezza che la situazione attuale della Chiesa è stata causata anche dagli atteggiamenti dei laici,
sempre più lontani dall’assunzione di responsabilità ecclesiali e dal senso di appartenenza alla Chiesa.
Questa, del resto, era la tesi su cui è nata l’iniziativa chiccodisenape.
Il passo successivo è stato riconoscere la necessità di individuare alcuni atteggiamenti che
favoriscano la conversione dei cuore e la nascita della comunione fraterna, di cui dovrebbe essere segno
la Chiesa stessa.
Il primo di questi è respirare un forte senso di libertà nella Chiesa, perché senza libertà non c’è
comunione. È necessario, inoltre, sollecitare una maggiore capacità di ascolto reciproco anche attivando
(o riattivando) canali di comunicazione interna, spesso interrotti con il deplorevole risultato che ciascun
gruppo, associazione, parrocchia, fino al singolo credente fa la sua strada ritenendo inutile il confronto
con le altre esperienze ed escludendole di fatto dal suo orizzonte. Il confronto tra i laici è necessario per
permettere l’autonomia nelle scelte e nelle modalità di manifestare la fede nelle realtà e nelle attività
mondane. Quest’opera di mediazione è, infatti, un’opera tipicamente laica e rispetto ad essa non spetta
alla gerarchia impartire direttive, ma piuttosto vigilare perché siano fatte salve la fedeltà al Vangelo e la
comunione ecclesiale. In questo ambito sarebbe auspicabile una presenza della gerarchia non meno ma
invece più intensa, più preoccupata cioè di realizzare l’unità dei credenti nella fede e nella carità non
nonostante, ma proprio attraverso la molteplicità non solo di carismi ma anche di interpretazioni e
applicazioni della fede comune. Le prese di posizione della gerarchia su problemi di ordine etico,
politico, sociale, dovrebbero essere l’espressione di un’ampia e frequente consultazione dei laici e
dovrebbero in ogni caso rispettare la possibilità di legittime opzioni diverse. E anche nelle questioni di
fede, ferma restando la responsabilità e il dovere dei pastori di dire l’ultima parola, sarebbe auspicabile
una più ampia consultazione dei credenti.

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Da un punto di vista operativo sarà necessario che i luoghi in cui avviene la formazione della
spiritualità laicale, a cui si è fatto riferimento nella seconda relazione, siano fucine dell’assunzione di
responsabilità, nel mondo e nella Chiesa. Riguardo a quest’ultimo aspetto, si dovrà puntare a un
rinnovamento nella formazione e nella gestione dei consigli pastorali ai diversi livelli favorendo la
libertà di espressione e la pubblicità dei dibattiti, trovando forme che –se pur diverse da quelle degli
organismi politici- puntino a partecipazione e attitudini democratiche maggiori.
E infine la Chiesa può esercitare la sua funzione profetica solo se assume la forma di piccolo
gregge in diaspora, libero da compromessi con i poteri del mondo, che con la sua vita e il suo annuncio
porta germi di speranza senza pretendere di dare una risposta a tutti i problemi, ma ricercando la verità
con tutti gli uomini di buona volontà. Va riconosciuto che la profezia è il dono più grande, perché
senza di essa la Chiesa degenera in istituzione, si adatta allo spirito del mondo e diventa collusa con i
poteri del mondo. Mettere l’accento sulla profezia significa sottolineare la funzione dello Spirito, che è
libertà e universalità: l’azione dello Spirito non conosce confini. Profezia è rompere le incrostazioni, è
creatività, apertura al futuro. Ma la profezia non deve esistere senza la carità e cioè deve farsi carico
anche del problema dell’unità della Chiesa.
In un confronto serio e caritatevole, nel costante confronto con la Parola, sarà forse possibile
superare le lacerazioni che attualmente attraversano la Chiesa, lacerazioni che possono sfociare
nell’indifferenza e nella marginalizzazione di molti credenti e che impoveriscono la testimonianza della
Chiesa nel mondo.

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