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LA GENERAZIONE PERDUTA I poeti della Grande Guerra PARTE PRIMA Introduzione La letteratura e la guerra, da Tirteo al 1914 Lepoca in cui

viviamo unepoca in cui la guerra viene costantemente esorcizzata, al pari di altre manifestazioni fenomeniche della vita umana, che, in qualche modo, vengono percepite come sgradevoli, scomode, o angoscianti per la sensibilit delluomo moderno. Lidea stessa della morte, che, in epoche meno evolute ma anche meno spiritualmente labili veniva accettata con rassegnazione e vissuta come una parte integrante dellesperienza esistenziale1, oggi viene descritta sempre con perifrasi che ne attenuino il significato, o, addirittura, viene camuffata, come accade negli Usa, per mezzo di artifici imbalsamatorii. La figura stessa delleroe, che sempre stata limmagine esemplare della guerra, da trasmettere alle future generazioni per alimentarne lamore di Patria, ha subito un clamoroso processo di trasformazione: oggi, gli eroi che la giovent osanna e che vede come esempi cui cercare di assomigliare sono i giocatori di football, gli attori, i cantanti o, in subordine, i fotomodelli e le vallette televisive. Il che, se ci si fa caso, indica un autentico ribaltamento dei valori, dato che lo sport e il teatro, spesso, altro non sono che la trasposizione metaforica del combattimento e, nel caso dello sport, addirittura una sua simulazione incruenta. Insomma, la nostra civilt tende a depotenziare tutto ci che ne potrebbe turbare la spensierata incoscienza esistenziale, riducendo la tragedia ad una specie di dramma satiresco ed accettando una versione parodistica e virtuale della lotta per la vita, che fu il leit motiv dellesistenza dei nostri antenati. E naturale che, in un contesto del genere, limmagine della guerra subisca pesanti ritocchi, per renderla il pi possibile indolore ed attenuarne la drammaticit: da qualche anno (diciamo dallinizio delle guerre del Golfo, nel 1990) si affermata lidea di una guerra intelligente, in cui le bombe cerchino chirurgicamente i bersagli, evitando di colpire civili innocenti e, quasi, non ammazzando nemmeno i soldati nemici, ma solamente annientandone le possibilit combattive. Il paradosso consiste nel fatto che, in questera basata sullimmagine informativa, in cui tutto sembra essere alla nostra portata in tempo reale, basti non mostrare immagini cruente perch la guerra si trasformi, nellimmaginario collettivo, in qualcosa di asettico e, in definitiva, di civilizzato e di innocuo. Il che , ovviamente, del tutto falso: le guerre pi recenti non hanno per nulla abbandonato le modalit letali delle guerre che le hanno precedute, limitandosi a derubricare le vittime civili sotto il nome, ipocritamente agghiacciante, di danni collaterali, ma mantenendo intatto tutto il proprio bagaglio di dolore e di orrore, nonch le interminabili liste di caduti. Semplicemente, tutto questo non viene registrato ed esibito, nei patinatissimi notiziari televisivi: sicch, non esiste, visto che, ormai, solo ci che trasmesso in televisione ha il crisma del reale. La censura mediatica agisce alla fonte dellevento, non certo nei palinsesti. Non a caso, vengono sempre scelte immagini spettacolari, ma, fingendo che ci avvenga
1 P.Aris, Storia della morte in Occidente, BUR; M.Fini, La ragione aveva torto, Mediterranee

per ragioni deontologiche, vengono accuratamente evitate visioni raccapriccianti di morti e feriti. Daltronde, questo avveniva gi agli albori della fotografia giornalistica: basti pensare allordine dato dal Comando in capo italiano, durante la prima guerra mondiale, di evitare accuratamente immagini in cui apparissero nostri soldati caduti. Questo libro, viceversa, intende mostrare la guerra vera, magnifica ed orrenda, eroica e miserabile, vista attraverso locchio privilegiato e ipersensibile dei poeti che la combatterono, senza filtri e senza belletti: la Grande Guerra, in cui unintera generazione di giovani europei fu sacrificata, in un gigantesco tritacarne. Dalle anime dolenti e dai nervi scoperti di questi narratori-soldati, emerge un affresco immane e terribile della lotta delluomo contro luomo: una sorta di Giudizio Universale, senza Dio. Eppure, questa la verit della guerra: fango, e sangue, fatica e dolore, furia e coraggio. Perch, per quanto la si possa ritoccare ed abbellire, la guerra questo. E questo luomo. Ed dai primordi della letteratura che, con una brevissima premessa introduttiva, intendiamo partire per questo viaggio bello e terribile, che ci porter dal colle di Hissarlik, su cui sorgeva la cittadella di Troia, fino ai campi fangosi delle Fiandre e alle pietre aride del Carso, su cui i nostri nonni e bisnonni versarono il proprio sangue. 1. La guerra nella letteratura classica La guerra ha sempre rappresentato unattivit primaria delluomo: logico, pertanto, che la letteratura le abbia sempre dedicato un occhio di assoluto riguardo. Il genere letterario delezione per descrivere eroi e battaglie sempre stato, naturalmente, quello della poesia epica, in cui i miti religiosi e quelli eroici si sono mescolati strettamente, dando vita ad una tradizione che ancora influenza la sensibilit occidentale. Possiamo, anzi, dire che la letteratura nata con lepica: pur lasciando perdere lantichissimo poema epico sumero Gilgamesh ed assumendo come campo dindagine la sola civilt letteraria occidentale, la primissima opera poetica del mondo greco, lIliade, altro non che il resoconto epico di una guerra. Anzi, della guerra tra due mondi: quello dellAsia Minore, destinato a soccombere perch militarmente meno efficiente, e quello acheo, indoeuropeo, giovane ed aggressivo, gi in possesso, per le proprie armi, della tecnologia del ferro. Omero (o chi per lui) volle descrivere le origini della fortuna militare di una razza cui anchegli apparteneva2, creando uninfinita serie di archetipi che sarebbero sopravvissuti nei millenni, fino a giungere ai nostri giorni. Possiamo dire che, nellIliade, la guerra si risolva in due elementi fondamentali: la partecipazione degli dei, schierati dalla parte di uno dei contendenti, e gli scontri individuali tra gli eroi, con uninevitabile disinteresse per la massa combattente, relegata a ruolo di anonimo comprimario. Lelemento divino serviva allaedo per giustificare il prevalere di una parte sullaltra, a parit di valore; la figura delleroe era, invece, una figura istituzionale ben precisa, antesignana di quella degli spartiates, soldati di mestiere, cui la citt delegava la propria difesa, e che non potevano sottrarsi al proprio dovere-destino. Possiamo assumere come esemplare in entrambi i casi la figura di Ettore, il difensore di Troia: nel duello finale contro Achille, leroe troiano viene ingannato dagli dei, che si sostituiscono al suo auriga, Deifobo, determinando la sua sconfitta e la sua morte 3. In precedenza4, nellultimo
2 Tra la guerra di Troia e la stesura del primo poema omerico trascorsero circa sette secoli 3 Inserire nota 4 Inserire nota

dialogo con la moglie Andromaca, Ettore le aveva spiegato di non poter sfuggire al proprio destino, poich mancare al proprio dovere avrebbe significato divenire un paria, disprezzato da tutti: un eroe viene onorato e coperto di privilegi, ma, in fondo, legato ad una servit ben precisa, da cui non pu emanciparsi, pena il ripudio da parte della citt. Solo in un secondo tempo, questa logica elementare si sarebbe trasformata nel moderno concetto di eroismo, che i romantici , sovente a sproposito, saccheggiarono a mani basse, trasformando Ettore in un eroe consapevole e malinconico. Questo alle origini. In epoca classica, tuttavia, non fu solamente lepica ad affrontare il tema polemico in letteratura: questo compito venne spesso svolto dalla lirica e dalla tragedia. Tra il VI ed il V secolo a.C. questi due generi si svilupparono notevolmente: la lirica soprattutto nelle colonie orientali e ad Atene, la tragedia solamente nella capitale attica. E il lirico Tirteo, Ateniese prestato a Sparta, figura semimitica, colui al quale viene attribuito il primo autentico slogan guerresco: Morire bello, combattendo in prima fila, autentico antesignano dei vari Chi per la Patria muor vissuto assai e Dulce et decorum est pro Patria mori, di cui avremo modo di occuparci ampiamente in questo libro. Per la verit, per, levento epocale, la Grande Guerra del mondo greco antico, furono le guerre persiane, che tra il 490 ed il 478 a.C. impegnarono la Grecia e soprattutto Atene in una terribile battaglia per la propria sopravvivenza, contro gli eserciti del Re dei Re. E inevitabile che questa straordinaria pagina militare abbia lasciato profonde tracce nella letteratura polemica: queste tracce, com naturale, trasudano dellorgoglio greco per la propria incredibile vittoria contro forze tanto preponderanti. Per ragioni di brevit, citeremo soltanto lepitaffio di Simonide di Ceo per i caduti alle Termopili, che inaugura lidea di memoria incorruttibile delle gesta eroiche5 e la scena della battaglia di Salamina, come compare nella tragedia di Eschilo I Persiani, in cui la pugna appare come autentica sinfonia collettiva, dove leroismo trionfa sul numero6. Nel brevissimo apogeo della civilt letteraria greca, il tema della guerra venne elaborato con una completezza che ancora oggi ci lascia ammirati e stupiti: in un secolo soltanto, partendo quasi dal nulla, arte e pensiero raggiunsero vertici forse ineguagliati nella tradizione occidentale. Va da s che altrettanto ci stupisca la rapidit con cui questo circolo virtuoso si arrest, lasciando il campo ad altri competitori culturali. Comunque sia, dopo aver perfettamente delineato i canoni di una poesia che celebrasse la guerra ed il valore militare, la Grecia seppe anche descrivere gli aspetti accessori del fenomeno. La tragedia, che con Eschilo era stata lo strumento principe per lesaltazione del valore della Polis e delle virt militari ateniesi, con Euripide assunse toni assai pi psicologici ed intimisti, fino a giungere allaffermazione dellinutilit della guerra, fonte esclusivamente di dolore e di pianto: Euripide, nelle sue Troades7, si pose nellottica delle vedove, degli orfani e, in definitiva, degli sconfitti, ribaltando i canoni della guerra eroica, in cui lobiettivo inquadrava solamente i combattenti nellacm del proprio valore. Con il grande comico Aristofane, autentico fustigatore dei costumi ateniesi e straordinario creatore satirico, la guerra diviene semplicemente un passatempo stupido degli uomini: un equivalente dellandare a vedere la partita di football la domenica pomeriggio. Protagoniste di alcune tra le pi fortunate commedie di Aristofane sono le donne, che, stanche di vivere lontano dai propri mariti, perennemente occupati
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a combattere contro Sparta nella terribile guerra del Peloponneso, decidono di entrare in sciopero sessuale, riunendosi in parlamento: nacquero cos le Ecclesiazuse e la Lisistrata, che avrebbero rappresentato un autentico archetipo della letteratura pacifista. Come si vede, con una rapidit davvero straordinaria, la letteratura greca seppe creare un mito eroico e farlo a pezzi: invent, si pu dire, un genere poetico ed il suo esatto contrario. La civilt latina, che pure fu debitrice al mondo greco di quasi tutti i suoi generi letterari 8 ed essendo il prodotto di una societ in cui il valore militare e la guerra erano elementi capitali, non ebbe una grande tradizione di poesia a tema polemico: lepica latina, generalmente, non fece che elaborare temi e stilemi gi affrontati dai greci, ruotando quasi sempre intorno al ciclo omerico. Anche i poemi che si staccarono dal mito troiano9, per affrontare temi ed epopee solamente romani, non seppero creare nuove figure eroiche o nuove descrizioni della guerra, limitandosi ad applicare i canoni dellepica tradizionale ad eventi reali e pi recenti, circondandoli di un alone mitologico. In un certo senso, la figura delleroe divenne catastematica, ed il carattere letterario della guerra rimase invariato per pi di due millenni. Sarebbero dovuti arrivare nuovi popoli da oriente e avrebbero dovuto imparare a combattere a cavallo, coperti di ferro ed armati con lunghe spade, prima che comparisse una nuova poesia a descrivere il combattimento. In quel tempo, per, la gloria di Roma era finita da seicento anni: quella di Atene da pi del doppio. 2. Guerre e poesia nel Medioevo e nel Rinascimento La poesia di guerra medievale ruota intorno al concetto di eroismo individuale, anche se, spesso, calato in un contesto di generico valore collettivo, sotto legida della religione e delle sue inevitabili implicazioni storiche. Nelle sue prime manifestazioni, questa poesia risent certamente di fenomeni epocali assai importanti, come la Reconquista, nel caso dei cantari ispanici10, o le lotte dei Franchi contro le armate mozarabiche, com nel caso della pi celebre11 delle Chanson de Geste. E pur ver, per, che tutta la civilt dei Romans, che si svilupp in ambito normanno-angioino, introdusse, accanto a questi temi diciamo cos politici una nuova etica, originata dalla trasformazione del concetto di cavalleria: nacque un nuovo genere di guerriero, che poneva, accanto alla battaglia, altri valori fondamentali, come lamore ed il codice donore. Possiamo dire che le tre materie dellepica medievale, quella antica, quella di Francia e quella di Bretagna, segnarono il graduale passaggio da una poesia storico-celebrativa ad una poesia fantastica e di intrattenimento, come sarebbe stata essenzialmente quella del XV e XVI secolo, con il poema cavalleresco italiano, che di queste materie rappresent un ardito sincretismo. Leroe medievale un guerriero dalleccezionale valore (addirittura capace di imprese sovrumane, grazie allaiuto di Dio), che combatte a cavallo, pesantemente corazzato, e che, in definitiva, fa il soldato di mestiere, perch a questo lo destina la sua nascita aristocratica. E una poesia figlia del feudalesimo, e ne celebra i valori e la mistica. Sarebbe, per, sbagliato ridurre tutta la poesia polemica medievale ai tre generi di cui si detto pocanzi. Impossibile dimenticare il grande cantore della guerra che fu il trovatore (il termine usato estensivamente, giacch Gisors non faceva certo parte
8 Orazio sostenne che solo la satira si poteva considerare un genere autenticamente originale del mondo latino: Satura tota nostra est 9 Inserire nota 10 Celeberrimo il Cantar de mio Cid 11 La chanson de Roland, della fine dellXI secolo

dellarea linguistica trobadorica) Bertram de Born, valoroso cavaliere e inascoltato consigliere di Riccardo I dInghilterra: in Bertram espresso a chiare lettere un concetto che sarebbe riapparso, carsicamente, nella nostra civilt letteraria, ossia quello della bellezza della guerra in s, come atto estetico. Per il poeta, solo la guerra rallegra lanimo, con i suoi colori sgargianti e la sua feroce animazione. Il resto noia, in attesa di unoccasione propizia per montare a cavallo ed impugnare la lancia. Del pari, non vanno trascurati cicli epici minori, ma certamente significativi, come quello finnico di Kalevala, il russo Slovo, le saghe e i poemi eddici di area scandinava oppure la materia irlandese che ruota intorno alla regina Maev e a Cuchulain. Ognuno di questi cicli ci mostra una societ primitiva, che alterna luso della violenza e della guerra a peculiari operazioni di diplomazia, in quelle che appaiono, nella stragrande maggioranza dei casi, come lotte tribali o poco pi. Tuttavia, essi sono espressione genuina di quella carica combattiva e di quei protovalori che si affinarono nei secoli, fino a produrre la raffinata poesia che materia centrale di questo lavoro. Abbiamo perci, ritenuto che fosse necessario almeno un brevissimo preambolo su questo argomento, a titolo propedeutico. Daltronde, la primitiva strategia del combattimento a cavallo del basso Medioevo rappresent a lungo lideale di valore militare europeo, che, pur essendo soppiantato da armi tecnologicamente pi avanzate e, in sostanza, dal prevalere nuovamente della fanteria sulla cavalleria e della difesa sullattacco, venne rimpianto da poeti e letterati per molti anni ancora. Si pensi allepilogo dellincompiuto Orlando Innamorato, di Matteo Maria Boiardo, in cui, nel 1494, si lamenta la mancanza di cavalleria dei soldati di Carlo VIII e ancor pi allesecrazione delle armi da fuoco, morte della cavalleria, espressa trentanni pi tardi dallAriosto nel Furioso12: evidente che, nellimmaginario collettivo, anche in et rinascimentale, il vero eroe era il cavaliere che combatteva allarma bianca. Questa tradizione sopravvisse nei duelli, nei tornei e, in tempi pi recenti, nello sport. La poesia, invece, poco alla volta volse la propria attenzione altrove: la letteratura di guerra sarebbe rinata soltanto in tempi assai recenti. Possiamo dire che la fine dellepica militare ed eroica dati intorno agli anni della battaglia di Lepanto o gi di l: alla fine del XVI secolo apparvero due capolavori che avrebbero segnato, con caratteri diversissimi tra loro, lepigrafe funebre del poema cavalleresco: La Gerusalemme liberata di Tasso e Il Don Quijote di Cervantes Saavedra. Nella prima, il cavaliere diviene una sorta di attore che recita il proprio ruolo in uno scenario maravigliosoe assai poco realistico; nel secondo, il vecchio hidalgo, che si crede un grande eroe poetico, preferisce sognare che vivere il proprio presente: anzi, vive il proprio presente come se sognasse. Quando gli viene tolto il suo sogno eroico, Don Quijote muore. Quale epitaffio migliore per il gran sogno della gloria cavalleresca? 3. Verso la guerra moderna La poesia di guerra, dopo la straordinaria fioritura che la caratterizz tra il basso Medioevo e lavvento delle armi da fuoco campali, sub una notevole battuta darresto: nei secoli XVII e XVIII essa rimase un genere marginale oppure non si discost dai rigidi canoni di una pedissequa imitazione dei modelli cavallereschi. Possono essere, in qualche modo, indicate come poesia di guerra le parodie, i poemi macheronici 13, le liriche celebrative di questo o
12 Inserire nota 13 Nota sul Baldus di Folengo

quel condottiero: si tratta, per, fin troppo evidentemente, di opere in cui ladesione dellautore al tema bellico del tutto accademica, laddove non appaia una vera e propria volont antibellicista. Per assistere ad un nuovo riavvicinarsi della poesia ai temi polemici bisogn attendere il Romanticismo, con il suo recupero di valori sia estetici che etici delle letterature romanze. Per la verit, per, leroe romantico possiede caratteri un po troppo individualisti e psicospiritualmente anomali per incarnare pienamente il concetto di eroe guerriero: la gran battaglia che egli combatte soprattutto una battaglia dello spirito. Cos, anche la guerra divenne secondaria, tematicamente, rispetto al punto di vista delleroe: il pensiero stava prendendo decisamente il sopravvento sullazione, nonostante i proclami altisonanti, cui non sfugg neppure il meno romantico dei nostri poeti ottocenteschi, Giacomo Leopardi, nella sua canzone AllItalia14. E, se in Francia, i narratori naturalisti scelsero spesso il conflitto franco-prussiano del 1870-71 come sfondo per i loro racconti15, il Verismo italiano confin perfino un episodio saliente della terza guerra dindipendenza del tutto sullo sfondo16. In definitiva, dunque, possiamo dire che, soltanto con il Novecento, le nuove tensioni sociali e il nuovo, straordinario, sviluppo della scienza e della tecnica, che ne caratterizz i primi anni, la guerra torn ad occhieggiare, se non nei versi dei poeti europei e, in particolare, italiani, almeno nei pensieri degli intellettuali. Dapprima, semplicemente come metafora della vita, poi, come vedremo, come soggetto letterario e politico. Non si trattava di un fenomeno del tutto nuovo, quanto, piuttosto, di una sorta di carsismo storico: esso prese le mosse da quella che noi qui definiamo mobilitazione totale permanente, che, secondo lopinione di chi scrive, fu la vera matrice del fenomeno interventista italiano, accanto allidea, maturata in senso allIntesa, di una crociata contro la barbarie germanica e a quella, tipicamente nazionale, di un Risorgimento da completare. 4. Dalla letteratura militante allinterventismo Dopo il silenzio, che avvolse la poesia bellica per molti anni, nonostante linfuriare in Europa e nel mondo di molte guerre, alcune delle quali lunghe e terribili, allalba del XX secolo cominci ad affacciarsi alla ribalta letteraria una nuova generazione di artisti, che rappresentarono il trait dunion ideale tra il ribellismo ottocentesco e la letteratura che, genericamente, si definisce interventista, ma che, in realt, si dovrebbe definire bellicista o polemista, giacch postula un approccio delluomo alla propria esistenza e a quella altrui molto simile a quello che ha il soldato in guerra. Questi nuovi intellettuali furono i primi ad immaginare una societ in cui tutti operino con valoroso impegno, dando la preminenza allazione e al bene della comunit, piuttosto che alla riflessione e al benessere individuale. Li abbiamo chiamati militanti, poich ci parso che essi riprendessero, nelle proprie idee, un concetto antichissimo di militanza, che, evolvendosi nei secoli, ha portato ad unimmagine di popolo permanentemente mobilitato, con ogni propria energia, per il raggiungimento di un benessere collettivo. Una storia, dunque, che ci pare provenga da molto lontano, e che trov nella Grande Guerra e nellinterventismo il suo sbocco inevitabile. La storia ha voluto che, tra i due
14 ...qua larmi, qua larmi. Combatter, procomber solio... 15 Uno per tutti: Boule de suif di Maupassant 16 Nota sulla battaglia di Lissa ne I Malavoglia

modelli politici pi significativi del mondo greco, alla fine venisse esportato e tramandato quello ateniese, mentre quello spartano fu, viceversa, consegnato alla storia museale e, sostanzialmente, imbalsamato. Vero che, come abbiamo visto in precedenza, la letteratura ateniese godette di una fioritura eccezionale, mentre a Sparta nessuno ebbe lidea di trasmettere ai posteri virt e gesta della propria citt: come ebbe a dire lo storico latino Sallustio, i Romani non erano meno valorosi dei Greci in battaglia, ma non avevano nessuno che ne tramandasse il valore.17 Limportanza della propaganda appariva evidente anche ad un romano del primo secolo avanti Cristo. A questa cancellazione dalla memoria, inoltre, contribu in modo importante un equivoco di fondo sul grado di partecipazione popolare alla gestione del potere. Sia ad Atene che a Sparta, in realt, i pieni doveri ed i pieni diritti riguardarono percentuali estremamente esigue della popolazione, ma Sparta fu catalogata come unoligarchia (tecnicamente, in realt, si trattava di una diarchia), mentre Atene divenne il modello della democrazia e della isonomia, e, in tal modo, fu la madre di tutte le civilt politiche a venire. Eppure, letica civile spartana vantava origini pi antiche e pi nobili di quella della capitale attica: essa si fondava sul concetto antichissimo di cittadino-soldato, legato strettamente alla terra, almeno quanto gli ateniesi dipendevano dal mare. Oggi, diremmo di mobilitazione permanente. Gi allalba della coscienza occidentale, nei poemi omerici, possiamo riconoscere i segni di questo atteggiamento mentale. La societ omerica era un esempio primitivo di mobilitazione permanente, in cui, se la citt era in pace, il cittadino si dedicava alle proprie attivit normali, ma che, in caso di guerra, vedeva ognuno scendere in campo, secondo le proprie possibilit ed il proprio rango. Il fatto che si trattasse di una civilt assai semplice e dalle relazioni sociali ed internazionali poco sviluppate limit, di fatto, agli episodi bellici questa mobilitazione: quando, tuttavia, si svilupparono societ pi complesse, il cittadino, come vedremo, fu chiamato ad impegni assai pi assidui. Abbiamo detto della societ spartana: a Sparta, dalladolescenza alla vecchiaia, lo spartiate (cio il cittadino a tutti gli effetti) era tenuto a mantenere il proprio corpo in esercizio e le proprie armi in efficienza, per essere sempre pronto nelleventualit di una guerra. Possiamo dire che la vita di un cittadino spartano del V secolo fosse, in pratica, un unico allenamento alla guerra e che la guerra fosse il fine ultimo dellesistenza di uno spartano. Questo perch la grandezza di Sparta si fondava sulla guerra e non su altro. Il mondo romano introdusse, di fatto, un concetto pi raffinato e sfaccettato di mobilitazione permamente. Il civis romanus aveva, in sostanza, due doveri, che lo accompagnavano per tutta la vita: quello militare e quello politico. Anche Roma fond il suo prestigio sulla propria invincibilit militare, ma i Romani esportarono, sulla punta delle loro lance, anche la superiorit delle proprie leggi e del proprio senso dello Stato. Cos, luomo romano, il vir, crebbe con due imperativi categorici: essere un disciplinato combattente ed essere un disciplinato cittadino. Non a caso, la Roma repubblicana fu presa ad esempio dalliconografia di tutti i regimi giuridico-militari della storia: il dovere, linflessibilit, il rigore, la disciplina, da allora hanno sempre avuto il volto severo dellUrbe senatoria. Soltanto molti secoli dopo, sul finire del XIX secolo, questa idea di mobilitazione permanente si avvi ad inglobare il terzo ed ultimo suo elemento costitutivo: il lavoro. Fino ad allora, avevamo assistito allaffermazione di modelli di societ incomplete, dal punto di vista
17 Inserire da DCC

partecipativo: quella feudale conosceva solo obblighi di carattere privatistico e privilegi, quella comunale si resse su governi di consorterie, di Gesellschaften, il mondo giacobino e liberale fu dominato dalle borghesie professionali. In nessun caso, protagonista dellazione nazionale fu il popolo, inteso come totalit della Nazione, ma solo categorie determinate e sempre in funzione proprio delle loro caratteristiche sociali. In taluni periodi e in determinate circostanze, assistemmo anche a vere e proprie mobilitazioni totali, in cui tutti i membri delle comunit concorsero, ognuno a vario titolo, al raggiungimento di obiettivi ben precisi: ledificazione delle cattedrali, le crociate, la costruzione dei navigli, ad esempio. Quello che manc a questi picchi partecipativi fu, naturalmente, la durata, dato il loro carattere di eccezionalit. Lunica variante introdotta dal marxismo a questa societas tripertita, vista nelle sue manifestazioni cronologiche, fu quella di considerare lEuropa (il mondo) come ununica realt sovranazionale, in cui, al posto delle Nazioni e dei popoli, i confini fossero tracciati, verticalmente, dalle stratificazioni della piramide sociale. Naturalmente, questa divisione per classi dellumanit non aggiunse una virgola al sistema preesistente, limitandosi a modificarne la classificazione. Al declinare del secolo dellindustrializzazione, invece, si cominci a capire che esisteva unaltra strada verso il benessere comune e verso la gestione del potere politico, che di tale benessere comune dovrebbe essere lo strumento. Lantica idea della mobilitazione permanente torn a galla: non a scopi esclusivamente militari, o difensivi, ma per combattere una battaglia quotidiana, nelleterna guerra della vita. Nasceva lidea di mobilitazione totale permanente, in cui ogni singolo membro di un popolo avrebbe dovuto avere responsabilit e doveri, proprio come un soldato che, in battaglia, difenda la propria terra. Vi fu, nellenunciazione di questi concetti, una forte carica retorica, molta utopia, una spiccata tendenza a confondere elementi socialrivoluzionari ed elementi mistico-tradizionali e, non ultima, una buona dose di narcisismo ideologico; tuttavia, possiamo dire con buona approssimazione che, a cavallo tra il 1880 ed il 1914, in quel crogiuolo che fu lEuropa di allora, elementi antichissimi delletica politica e del patriottismo, come lidea della mobilitazione permamente, ed elementi assolutamente moderni, come lidea della partecipazione totale della Nazione al tracciato dei propri destini, furono fusi in un unica lega. Era nato un metallo nuovo, che avrebbe dato i suoi frutti. Dal pragmatismo allintervento Roba da filosofi, verrebbe da dire: il pragmatismo, in soldoni, fu un movimento filosofico che si proponeva di cambiare la societ con la filosofia. E non si creda essere stato il ghiribizzo di qualche studentello esaltato: il suo pi serio ed autorevole esponente, Giovanni Vailati, fu un filosofo di quelli veri, da mettersi alla pari con quelli che allora andavano per la maggiore, come Bergson e lo stesso Croce. Eppure, questidea di un intellettuale che interveniva direttamente nei processi storico-sociali, avrebbe dato esiti estremamente vari ed interessanti. Ammiratore di Vailati (e con lui di Sorel e di Bergson) fu il primo degli scrittori di cui ci occuperemo in questo paragrafo, dedicato agli intellettuali militanti, ai padri della mobilitazione totale permanente: Giovanni Papini. Di Papini si detto tutto e il contrario di tutto: nessuno ne ha mai negato i meriti, ma, in fondo, non mai stato letto seriamente: sempre stato catalogato come un pensatore ibrido, a met tra la scienza vera ed il proprio

destino privato, di toscano inquieto ed autodidatta. La prima cosa che intendiamo qui sottolineare di questa figura di scrittore-agitatore culturale che, se non primo, tra i primi, si rese conto della direzione che aveva preso il vento del secolo nuovo: che le gherminelle positiviste, in cui anche lui era incappato da adolescente, non bastavano pi a spiegare il mondo. Cera bisogno di altre strade, magari esoteriche, certamente scandalose e, soprattutto, militanti. Nel 1903, allinterno del quasi fatiscente palazzo Davanzati, a Firenze, il giovanissimo Papini inaugur la prima delle riviste che lavrebbero reso celebre e che ne avrebbero fatto un punto di riferimento culturale: il Leonardo. Era poco pi che una fanzine, ma attir lattenzione del mondo culturale pi emancipato e, probabilmente, fu la matrice da cui provenne la straordinaria messe di riviste che felicit gli anni burrascosi che precedettero la Grande Guerra. Papini vi propugnava un suo pragmatismo particolare, in cui al centro della questione esistenziale stava il rapporto tra lindividuo ed il mondo: come cambiare il proprio rapporto individuale con la societ e le cose divenne il perno di questo personalismo, che, naturalmente, si contrapponeva inevitabilmente al collettivismo marxista. A ci si aggiunga il fatto che, basandosi questo rapporto sulla volont del singolo (in cui riconosciamo echi ben noti del pensiero di quegli anni, da Nietzsche allo stesso Sorel), esso sottendeva molti degli elementi che altri distillarono nel crogiuolo della guerra, facendone dottrina. Evidente, nellimpianto ideologico di Papini, era anche il peso dellopera di DAnnunzio, come sempre imprescindibile, quando si debba parlare di primissimo Novecento. Papini scrisse sul Leonardo con lo pseudonimo di Gian Falco e il suo inevitabile sodale Giuseppe Prezzolini, di cui diremo pi innanzi, con quello di Giuliano il Sofista. I due mescolavano pensieri profondi e volutt romantiche (la battaglia pragmatista era ancora di l da venire), tanto che il Croce giudic Papini un idealista tout court, ma avevano ben chiara lidea di una letteratura militante e di un intellettuale il cui motivo dessere era lintervento nella vita e nella societ: va da s che, non molto tempo dopo, questa filosofia interventista avrebbe trovato ragioni assai concrete. Esaurita lesperienza del Leonardo, nel 1907, di ritorno dal suo primo, fondamentale, viaggio a Parigi, Papini collabor a La Voce, diretta da Prezzolini, che cominci le sue pubblicazioni nel 1908, per arrivare, a fasi alterne, compresa una direzione di Papini, fino al 1913. In quellanno, possiamo dire che alcuni nodi vennero al pettine: la rivista prezzoliniana si sdoppi: La Voce gialla, diretta sempre da Prezzolini, divenne una pubblicazione prettamente politica, mentre La Voce bianca, diretta De Robertis, ebbe un taglio eminentemente letterario. E un po come se le pagine della cultura di un quotidiano diventassero un altro quotidiano a loro volta. La ragione di questa svolta chiara: propagandando una letteratura militante, una rivista doveva, ad un certo punto, militare. Chi non si fosse sentito abbastanza deciso avrebbe dovuto e potuto andarsene: e De Robertis se ne and. Lalta cultura e la cultura della mobilitazione permanente cominciavano a dividersi piuttosto nettamente. Era nellaria una svolta radicale nei rapporti tra il pensiero e lazione: questa svolta sarebbe stata rappresentata dal Futurismo. Papini fu un protofuturista, pi che un prefuturista e, in seguito, un futurista ed un futurista pentito: egli, con la sua inquietudine e la sua rabbia intellettuale era inevitabilmente sfasato rispetto alle epoche letterarie, che, in quel periodo, erano fulminee. Quando pubblic Il crepuscolo dei filosofi (1906), Papini aveva gi del tutto rifiutato limmagine dellintellettuale che interveniva astrattamente, con la propria riflessione, nel dibattito politico e sociale: era gi per lAvanguardia; e la prima

delle avanguardie fu proprio il movimento di F. T. Marinetti. Dato che il Futurismo uno dei grandissimi dimenticati e vilipesi nelle nostre antologie, che gli dedicano qualche paginetta di calligrammi, quasi che fosse langolo delle curiosit, da sempre stato sottovalutato limpatto che ebbe sui pensieri ed i comportamenti degli Italiani del primo anteguerra: esso fu, invece, determinante, pur con molte contraddizioni, nello spostare lago della bilancia verso la guerra. Qui basti sapere che Papini, tre anni prima del Manifesto futurista apparso sul Figaro (1909), aveva gi assunto un atteggiamento futurista nei confronti del mondo della cultura: egli cercava veicoli culturali rapidi ed efficaci, ed indic lo scandalo come il principale tra questi. Proprio lo scandalo, il gesto plateale, lo schiaffo al pensiero borghese e allintelligentsija ammuffita, sarebbero stati le armi del primo Futurismo: la provocazione, nei contenuti, nello stile, nellazione. La parabola di Papini, del Papini futurista, parte di qui e si conclude, nel 1919, con la pubblicazione di Lesperienza futurista. In mezzo, per, vi sono anni cruciali: gli anni della Grande Guerra, in cui lidea di mobilitazione totale permanente si sarebbe incarnata in una figura ben precisa: quella del volontario interventista. Papini non partecip al primo conflitto mondiale, a causa della sua progressiva miopia, ma molti suoi amici e compagni si arruolarono con entusiasmo, e molti caddero da valorosi, per compiere il Risorgimento, ma anche per gettare le basi di un uomo nuovo: quelluomo ipotizzato nelle pagine delle riviste danteguerra. Sia in quelle pragmatiste o personaliste, che in quelle di chiara matrice interventista, come Hermes o il Regno, che in quelle futuriste, come Lacerba, sulle cui pagine si propagandava di continuo lidea di arte militante ed attiva. Certo, il linguaggio era quello di allora, e parte di esso si travas nella crepitante retorica mussoliniana; ma lidea grande era quella di un artista che, liberatosi dalle pastoie dellautocompiacimento e dellautocommiserazione, fosse il tedoforo di unepoca nuova ed una guida per il popolo. Si tratta, in realt, di una figura piuttosto complessa: vi possiamo ritrovare elementi diversissimi tra loro e provenienti da fonti molto differenti, dal vivere inimitabile dannunziano al poeta-vate carducciano, dallUebermensch di Nietzsche al Mafarka di Marinetti. Certamente, per, questo artista-militante, non poteva essere un inetto: non poteva vivere la semivita di uno Zeno Cosini o di un povero poeta sentimentale. Le grisaglie in naftalina di Svevo o le emottisi di Corazzini sarebbero state ignote a quegli intellettuali che trovarono il loro destino sul Podgora o sulle Dolomiti. Vivere diversamente voleva dire anche morire diversamente: nasceva, forse per la prima volta dai tempi lontanissimi di Bertran de Born, un nuovo poeta, uno scrittore diverso. La generazione eroica sarebbe stata quella su cui si sarebbe innervata la retorica arditista ed avanguardista di piazza Sansepolcro. Ed acquistava enorme valenza, in questottica di azione e di intervento, lesserci stati: i reduci avrebbero creduto solo a chi avesse condiviso il loro dramma e il loro valore. Perfino DAnnunzio, che pure combatt con grande valore, veniva guardato con sospetto dalla fanteria del Carso: troppo personale ed avventuriera pareva la guerra del poeta ai soldati; e, soprattutto, troppo diversi i turni di riposo nelle retrovie...Invece, il sottotenente, il tenente, il capitano, che morivano nel fango o sulle pietraie erano simili tra simili: erano limmagine stessa della mobilitazione totale permamente. Non tutti, naturalmente, furono fanaticamente interventisti: Renato Serra, straordinaria figura di giovane critico e collaboratore della Voce, forse il pi promettente di quella promettente generazione, non era per lintervento, ma, scoppiata la guerra, decise che il

suo dovere era quello di partire. La guerra fu, per Serra, una necessit dolorosa per unire gli intellettuali al popolo: altrimenti, il letterato sarebbe stato semplicemente uno snob astratto ed imbelle. Di fatto, soltanto le riviste fiorentine, secondo lo scrittore cesenate, diedero qualcosa alla letteratura del primo Novecento: un giudizio pesante, soprattutto se si considera lautorevolezza della fonte. "Se si toglie il gruppo fiorentino -scrisse Serra- i movimenti degli ultimi anni niente hanno dato alla nostra letteratura". Lultima (e pi famosa) opera di Serra, il postumo Esame di coscienza di un letterato (1916), non lascia scampo, da questo punto di vista, ed inchioda la classe intellettuale alle proprie responsabilit nei riguardi della societ: la guerra non bella e non ha giustificazioni (in questo, Serra fu ferocemente antidannunziano), ma il letterato, se la guerra in atto, deve andare, per non essere un uomo incompleto ed inconciliabile col proprio popolo. Cos, da tenente di complemento, Renato Serra fece il proprio dovere fino in fondo, facendosi ammazzare alla testa della sua compagnia, sulle trincee del Podgora (Calvario), il 21 luglio del 1915. Su quello stesso monte, nello stesso periodo, cadde un altra figura essenziale di quel frangente storico letterario: Scipio Slataper. Difficile spiegare, oggi, chi furono gli Slataper: famiglia di eroi generosi e di patrioti straordinari. Difficile spiegare, soprattutto, il patriottismo viscerale, spesso disperato, della gente triestina: per tanto tempo staccata dallItalia, eppure, forse per questo, ancora pi italiana. Slataper amava profondamente la sua terra: le dedic le sue pagine pi belle, Il mio Carso (1913). E anche lui, interventista ed irredento, cadde su quella montagnola tremenda, che merit dai soldati il nome di Calvario: anche lui fece esattamente quello che aveva predicato. Un altro letterato-militante. E molti ve ne furono, poich lidea stessa di militanza imponeva che alle parole seguissero i fatti: Boccioni e Marinetti, Ardengo Soffici e Giuseppe Ungaretti, Clemente Rebora e Carlo Emilio Gadda, furono tutti, consapevoli o inconsapevoli, figli prediletti delle intuizioni di Papini e Prezzolini, degli slanci retorici di DAnnunzio, del patriottismo imperiale di Carducci. Il fatto di vedere accomunati nomi tanto diversi della nostra storia letteraria ci deve far riflettere sulla trasversalit del fenomeno della militanza e della sua immediata succedanea, ossia la milizia vera e propria. Possiamo, un po semplificando, cos riassumere la situazione morale ed intellettuale di quella che sarebbe stata la generazione perduta del Novecento, quella che visse la Grande Guerra tra i venti ed i trentanni det: vi furono solo tre possibilit per gli intellettuali. La prima possibilit era quella di rifugiarsi nelle ampie braccia della tradizione, reclamando un ritorno alla grande letteratura ottocentesca e, parimenti, ad un ruolo di mediazione tra la cultura e le masse per gli intellettuali: lo fece, ad esempio, Giuseppe Antonio Borgese, che pure era della cerchia dei sodali di Prezzolini. Il capolavoro di Borgese, Rub (1921), veramente un lucidissimo ritratto di una categoria di uomini incapaci di trovare la strada: sospesi a met tra cervellotico razionalismo ed azione concreta, essi non scelsero e, alla fine, si autodistrussero. Allo stesso modo, Filippo Rub, eroe-vigliacco in guerra, simpatizzante dei fascisti, ma, tutto sommato, irresoluto su tutto, finisce per morire, travolto da un cavalleggero, in un tumulto socialista: scambiato, addirittura, per un socialista e pianto come martire della rivoluzione. La seconda possibilit, era, viceversa, quella di intervenire: di assumere una posizione estrema, violenta, antidemocratica. Di battersi, insomma, anzich esortare gli altri a farlo: fu la posizione dei futuristi, degli interventisti e di tanti Italiani che sentivano ancora vivo il mito risorgimentale. Esponente tipico di

questa scelta fu Soffici: poeta, pittore di vaglia, valoroso soldato, egli ci lasci una testimonianza fra le pi interessanti della letteratura di guerra, ossia il vasto affresco futurista di Kobilek. Non vi vengono nascoste le tragedie della guerra: essa, anzi, appare terribile. Ma comunque una guerra artistica, perch fa parte dellarte del poeta militante il combatterla: ormai la vita e lopera darte davvero si confondono in modo inestricabile18. Resta una terza possibile via, ed quella che oggi definiremmo buonista, in cui lintellettuale si rifugia nel proprio cantuccio, a studiare il violino o a scrivere strambotti, in attesa che la tempesta passi: si tratta della solita zona grigia, che da sempre affligge la nostra Patria e ne maggioranza pachidermica. Questi intellettuali non combatterono o, se lo fecero, lo fecero di malavoglia e quasi distratti da altro. Citiamo a titolo desempio uno dei pi grandi nostri poeti del Novecento, Eugenio Montale: a Montale la guerra non piaceva particolarmente. Vi partecip da ufficiale subalterno, grazie al suo diplomino da ragioniere, ma per poco tempo e in un settore decisamente tranquillo, come la media Vallarsa. Lunica poesia del poeta ligure che faccia esplicito riferimento a questa esperienza Valmorbia, che fa parte della raccolta Ossi di seppia (1925). Ebbene, di tutto si parla in quella breve composizione, tranne che della guerra. Questo per dire che non bast partecipare alla Grande Guerra per essere intellettuali militanti: occorse anche condividere le ragioni di quella guerra e le ragioni della guerra in senso pi generale. Bisognava avere la guerra dentro. La guerra dentro Chiudiamo questo paragrafo, in un certo senso, propedeutico allo studio della poesia di guerra italiana, con quello che pu sembrare un dissennato elogio della guerra: non lo o, almeno, non dissennato. Il demone del combattimento vive nelluomo: la stirpe degli uomini ne infiammata. La cosa pu, naturalmente, non piacere: tuttavia positivo che luomo non possa vivere senza guerra. Forse sarebbe pi corretto scrivere che un certo genere di uomini non pu vivere senza guerra. In effetti, oggi, il sentimento polemico parrebbe nettamente in crisi: se ci guardiamo intorno, tuttavia, noteremo che esso in crisi soltanto in certi luoghi e presso certi popoli, che, proprio in questo periodo, stanno vivendo una terribile crisi valoriale. La guerra una cosa feroce e crudele: ma, che piaccia o no, il pi poderoso collante nazionale che possa esistere. LItalia non fu unita dalla proclamazione unitaria del 1861, n fu unita dai Savoia, dalla nascita della banca dItalia, nel 1894, dalla legge Casati del 1859: essa trov la propria coesione nelle trincee del Carso, nellimmane massacro. Questo, certo ebbero in mente quei giovani intellettuali che concepirono limpegno culturale come mobilitazione: in guerra e in pace, solo un senso militare della Patria, solo unabnegazione guerresca dei cittadini, tempra lacciaio di un popolo. Lidea semplice, e, per qualche tempo, parve anche che funzionasse, se dobbiamo credere al consenso di cui godettero, per larghi periodi, il regime fascista e quello nazionalsocialista. Il problema si rivel di carattere culturale e morale: culturale, perch in un regime, fatalmente, gli intellettuali tesero a divenire vestali del dittatore; morale, perch il prezzo per questa mobilitazione coatta fu la libert. Dunque, non questo vagheggiavano Papini e Prezzolini, che pure furono prefascisti: Papini che fu anche esponente di spicco della nomenklatura culturale fascista e divenne accademico dItalia, Prezzolini che, dopo la sua straordinaria attivit allIstituto Bibliografico, se ne
18 Si pensi allestetica della battaglia di Juenger

and dallItalia e divenne, nella sostanza, un dropout. Ci pare di poter dire che fu sempre critico nei riguardi di questa rivoluzione imborghesita anche Ardengo Soffici, coscienza nettissima e vigile del fascismo. Certo non voleva questo Borgese, che, anzi, fu ferocemente antimussoliniano (si ricordi Don Camaleo, impietoso ritratto del duce) e se ne and in America. Marinetti, fu normalizzato: divenne il simbolo di quella rivoluzione che poteva essere e non fu. Fin oscuramente, nellanno pi oscuro, il 1944. Eppure, questi sconfitti apparenti, vissero, con tutti i disagi e le ambasce del caso, una stagione straordinaria: raramente accade che le azioni e le parole possano cos bene compenetrarsi come nel caso di un grande conflitto mondiale. E bene comprendere questo, perch altrimenti non sin potr comprendere lo studio dei capitoli seguenti: la Grande Guerra fu, culturalmente, soprattutto un infinito laboratorio: in una simile estrema situazione (estrema per le circostanze e perch rappresent la cesura nettissima tra il passato e la modernit), tutto ci che era stato, fino ad allora scontato, pass in subordine. Rest la nuda realt dellintellettuale di fronte al problema filosofico ultimo: quello della propria morte. La guerra costrinse gli intellettuali ad una scelta: essere o esistere. Alcuni restarono a gingillarsi con fontane agonizzanti e ville in collina: altri, i pi, si gettarono nella fornace, portando con s la forza del loro pensiero. Cos, dalle ceneri dellinterventismo, dalle pagine ingiallite di Leonardo e della Voce, nacquero alcune tra le pi belle tradizioni letterarie del secolo passato: il filtro della guerra distill nuove generazioni e nuovi stili. Dalla guerra nacque Porto sepolto (1916) di Ungaretti, che dett le regole di una nuova poesia, che sarebbe divenuta lErmetismo. Dalla guerra nacquero Ugo Betti e Bonaventura Tecchi, compagni di prigionia del pi grande narratore italiano del Novecento, Carlo Emilio Gadda. Tutti cercavano qualcosa,negli anni convulsi del biennio rosso: tutti quei giovani che avevano creduto nella guerra, ora cercavano nella pace qualcosa per cui continuare a combattere, per cui restare mobilitati. Dapprincipio, questo qualcosa venne incarnato dalla bella e pazza gesta di Fiume dItalia: a Fiume parve, davvero, che si realizzasse la repubblica della bellezza, in cui lintellettuale potesse vivere il suo sogno in tutta la sua pienezza. Poi, venne il Natale di sangue. E sorse allorizzonte un nuovo miraggio di militanza: il fascismo. Molti interventisti divennero cos fascisti. La mobilitazione totale permanente aveva trovato uno Stato ed un governo. Per realizzarsi avrebbe avuto bisogno anche di una Nazione. Il fascismo tent di realizzare proprio questo sincretismo Stato-Nazione. Ci volle una guerra per dimostrare che sbagliava, come cera voluta una guerra per propiziarne la nascita. Ma i regimi passano: luomo resta, con la sua voglia di battersi per una giusta causa. La mobilitazione totale permanente non una vuota idea. E dorme sotto la cenere. 5. La poesia interventista Gabriele DAnnunzio: il primo interventista Una sera di fine estate, contemplando la placida calma grigiastra dellAdriatico, resa a tratti scintillante dagli ultimi raggi del sole, Gabriele DAnnunzio ebbe una visione. Vide grandi navi dacciaio, che eruttavano nuvole nere dai molti fumaioli, e fendevano il mare con speroni poderosi. Vide il leone, sullaltra riva, che ancora ruggiva: vide il gonfalone disseppellito a Perasto, e le colonne nautiche di Zara. Vide il mare dellItalia, da sempre percorso da vele latine,

finalmente restituito al suo destino, dal sangue dei marinai e dallocchio vigile dei nautarchi. Vide poi le cime innevate, come una collana di perle smaglianti, dallAltissimo al Nevoso: sulle giogaie invincibili, stavano uomini invitti, vestiti di ruvido verde, con occhi glauchi come una promessa damore. E sulle cime aleggiava una nenia piena di pena e di lusinga, che parlava dItalia. Il poeta sent come una fitta, alla tempia, accanto allorbita, come un punteruolo infisso nel teschio: aggricci lo sguardo e vide ancora: ali vibranti, con ronzo acuto dacciaio, e mitraglie e pistoni uniti in settemplice armonia. E sulle ali la coccarda di Pier Fortunato Calvi e di Bixio. Gli ordigni, con un fremito nuovo, si alzavano dal suolo: miracolosamente vincevano la gravit e si avventavano nellazzurro. E portavano sui tetti colorati della cattedrale, sul Graben, sulla cripta dove riposa il sacro Impero, la voce possente dItalia. Un comando risuon: dove saranno loro, tu sarai, Gabriele. Come larcangelo di cui porti il nome, annuncerai al mondo una novella lieta: lItalia risorta e lotta e vincer e sar una, da Spartivento al Krn. Il poeta si scosse: come potr, come far? La tua volont invincibile dar vigore alle tue ossa e ai tuoi nervi, rispose la voce imperiosa: troverai nel fuoco la bellezza e la gloria, poich solo la fiamma tutto dona e tutto sconfigge. Sar fuoco, sussurr Gabriele DAnnunzio, veramente io sar fuoco. E giur con il pi terribile dei sacramenti, di non mai riposare, finch quel sogno sfocato non fosse realt. Alzatosi, torn verso la villa: splendeva nel suo occhio un fiammeggiante destino. Il primo passo: Le Odi navali Il 26 novembre del 1892, mor a Roma lammiraglio Simone di Saint Bon, ministro della Marina e M.O.V.M.. Loccasione della scomparsa delleroe di Lissa19forn al poeta, che in quel periodo era impegnato nella stesura del Poema Paradisiaco e stava cominciando a maturare unideologia di impronta nicciana e decisamente antidemocratica, lo spunto per la composizione di dieci Odi navali20, in prosa lirica, che, se non sono un documento fondamentale nella carriera poetica di DAnnunzio, sono certamente assai importanti storicamente, poich contengono in nuce alcuni dei temi che torneranno nellepica militare dannunziana. Limmagine della nave, come strumento di talassocrazia e di potenza, ma anche come oggetto formidabile e meraviglioso, era gi delineata nelluniverso imaginifico del poeta: nelle Odi, questa immagine misteriosa21 e possente divent limmagine stessa della grandezza nazionale: la spada nella mano dellItalia, per rivendicare un ruolo preminente nella storia mediterranea. DAnnunzio, in queste pagine, anticip molte delle suggestioni futuriste, che, non a caso, sarebbero confluite nellinterventismo e, poi, nel fascismo: il fascino dellacciaio e della macchina sono sottolineati con estrema chiarezza nella poesia A una torpediniera nellAdriatico, di cui questo lincipit: Naviglio dacciaio, diritto, veloce guizzante/bello come unarme nuda,/vivo palpitante/come se il metallo un cuore terribile chiuda;. Perfino la limitata punteggiatura ricorda quello che sarebbe stato lo stile futurista, sulle cui derivazioni dannunziane, date per scontate ma pochissimo indagate, rimane
19 Era stato decorato di M.O. per il suo eroico comportamento, al comando della Formidabile, nello scontro di S.Giorgio di Lissa, 18-20 luglio 1866 20 apparvero in fascicolo nel dicembre del 1893, ma retrodatate al 1892 21 vi , nella prima lirica del fascicolo, intitolata, appunto, La Nave, quasi un eco di Baudelaire, di Rimbaud e, perfino, del Gordon Pym di Poe: Va, va, o Nave, corri secura oltre tutte le sirti;/attingi lAtlantide estrema;/reca a la nuova terra le glorie degli uomini e i segni./Va, va!Come lalbatro forte/lanima che ti segue sul gorgo oceanico, o Nave.

ancora molto da dire. In realt moltissimo da dire, come abbiamo visto e vedremo, resta su tutti i debiti contratti dalla nostra letteratura nei riguardi di DAnnunzio, la cui esperienza poetica segn praticamente tutti i letterati di quegli anni. Certamente, per, la nota fondamentale di queste Odi consiste nellesaltare la grandezza ritrovata dellItalia e collegarla con la potenza sul mare: sono poesie ormai libere dalle pastoie della retorica risorgimentale, e tutte piene di quel tono alto (a volte, fastidiosamente alto) che avrebbe caratterizzato la mitologia umbertina. Rivolgendosi alle navi della flotta, a Genova, DAnnunzio scrive22: (...) voi/che per tutte le sponde/recate il divin nome/dItalia e il suo diritto/eterno e la sua nova/forza, raggiando come/fari, pronte al gran conflitto/supremo, a la gran prova...E difficile non riconoscere in questi versi un antivedere profetico di quella che sar davvero la gran prova: il conflitto supremo venne certamente previsto ed invocato dal DAnnunzio. Questo conferma quanto scritto nel capitolo precedente, ossia che per DAnnunzio, come per molti altri intellettuali della sua generazione, la Grande Guerra rappresent lagognata occasione di agire, di smuovere le acque della propria vita, che si erano fermate, formando, talvolta, una palude 23. E nella profezia del veggente, vi limmagine di Trieste24, che, desolata, sperava da Saint Bon la liberazione, ed ora, come vedova in gramaglie, nutre ancora una flebile speranza, anche se la dominazione si fa ogni giorno pi dura: Credi tu sempre? Lalta speranza non scossa/ne lanima fedele, da che chiusa la fossa/ov disceso senza spada il TUO Ammiraglio?/Trista che linvocavi su lacque a la riscossa,/per la tua bocca pronto un pi duro bavaglio.Vi sarebbe stato un lungo e oscuro interludio, ma, alla fine, Trieste avrebbe tolto il velo nero del lutto, per vestire quello bianco, da sposa, nellabbraccio festante dellItalia. Il voto sarebbe stato sciolto. La gesta doltremare Mentre si trovava in Francia, dividendo il proprio tempo tra Arcachon e Parigi, Gabriele DAnnunzio fu richiamato alla veglia da uno squillo di battaglia: lItalia aveva dichiarato guerra alla Turchia per il possesso della Libia. Giovanni Pascoli esultava e scriveva il celebre articolo La grande Proletaria s mossa!25, moltissimi intellettuali italiani, invece, guardavano allimpresa libica con grande scetticismo e ritenevano che loccupazione di uno scatolone di sabbia non ci avrebbe portato che fastidi. DAnnunzio non ebbe esitazioni, e salut la guerra di Libia come il primo passo del destino mediterraneo dellItalia: ai suoi occhi, con la conquista della Libia, si sarebbe finalmente riunito quel mondo romano26 che Genserico e i suoi vandali, prima, e lespansione dellIslam, poi, avevano diviso traumaticamente. Insomma, il poeta vide in questa campagna militare unepopea consolare: una necessit storica.
22 In: Per la festa navale nelle acque di Genova 23 si pensi a quanto scrisse, a riguardo, in Rub (1921) G.A.Borgese 24 In: Trieste al suo ammiraglio 25 Inserire nota 26 Vi per il DAnnunzio una sorta di unit civile e storica, tra mondo greco, romano ed italiano; si vedano questi versi dedicati alla romana Leptis Magna (Libia) e al mito alessandrino (Canzone doltremare, 1912): Ch'io pieghi e chiuda un ramo d'oleandro in Lebda, nella cuna di colui che suggell la tomba d'Alessandro.

Oggi pi alta sei che il tuo destino, pi bella sei che la tua veste d'aria; e di lungi il tuo vlto pi divino. Odo nel grido della procellaria l'aquila marzia, e fiuto il Mare Nostro nel vento della landa solitaria. Con tutte le tue prue navigo a ostro, sognando la colonna di Duilio che rostrata farai d'un novo rostro. E nel cuore, oh potenza dell'esilio, il nome tuo m' giovine e selvaggio come nel grido delle navi d'Ilio. Italia! Italia! Non fu mai tuo maggio, nella citt del Fiore e del Leone quando ogni fiato era d'amor messaggio, s novo come questa tua stagione maravigliosa in cui per te si canta con la bocca rotonda del cannone.

Con questi versi27, Dannunzio inaugur il quarto libro delle Laudi, Merope28, che contiene le Canzoni della gesta doltremare, dedicate allimpresa libica: sono gi evidentissimi i temi dominanti dellopera, che sono il destino italiano legato al Mare Nostro29, la voce della Patria, resa pi forte dallesilio e la storia dItalia, che porta con s lineluttabilit di questo destino. I riferimenti colti, tratti da Dante30, come dalla storiografia medievale e moderna, non servono ad altro che a confermare la fondatezza del vaticinio. Vi , in questa fase della produzione dannunziana, quasi un messianesimo: la lezione foscoliana, qui pare rielaborata in modo da giustificare ab anteriore, le scelte politiche e militari del presente, che paiono indefettibili ed inevitabili. Dunque, DAnnunzio non era ancora Il Comandante, ma, certamente, era gi linterprete dei destini patrii: era gi luomo del Discorso di Quarto, era gi interventista per vocazione. Nella Gesta libica, il poeta vide, contemporaneamente, il compiersi di un voto imperiale (che sarebbe ritornato nella retorica fascista) e il riscatto di un Risorgimento inadeguato e doloroso. Si veda nei versi che seguono il rimando sia alla sconfitta di Lissa, nella terza guerra dindipendenza (1866) che alla tradizione mediterranea romana:
Emerge dalle sacre acque di Lissa un capo e dalla bocca esangue scaglia Ricrdati! Ricrdati! e s'abissa. E il Mar Mediterraneo, che vaglia le stirpi alla potenza ed alla gloria, in ogni flutto freme la battaglia. Ch'io mi discalzi dice la Vittoria,

Vi pure, in Merope, specialmente nei componimenti come La canzone del Sacramento, La canzone dei Trofei, La canzone della Diana, insomma, nel nucleo centrale della raccolta, dedicato alle Repubbliche marinare e, pi in
27 Canzone doltremare, 1912

28 nella Canzone ad Elena di Francia, DAnnunzio scrive: o Merope d'Atlante, mia navale Musa
29 Cos il DAnnunzio chiama sempre il Mediterraneo 30 Ad esempio: (...) e la pace era femmina da conio che per ruffian s'avea qualche Bonturo e un Zanche per mezzano al mercimonio. (ibidem)

generale, al Medioevo, una forte eco carducciana: meglio, la volont di raccontare la storia dItalia, quasi che fosse parte di quel processo messianico di cui si diceva pi sopra. Accanto alla citazione erudita, compare spessissimo il quadro di genere, lallegoria della storia, alla maniera del Carducci. Si vedano, a titolo desempio, questi versi de La canzone del Sacramento:
Torn Guglielmo Embraco recando ai consoli giurati, in sul cuscino, tra la sesta e il bastone di comando, tra la coltella e il regolo, il catino ove Giuseppe e Nicodemo accolto aveano il sangue dell'Amor divino. Era desso, l'Embraco, figliuolto, quei che fece al Buglione il battifredo onde il vto santissimo fu sciolto.

Lattenzione al particolare, quasi alla miniatura, e il rimando ad un vocabolario medievale, sono gli stessi che utilizza il Carducci, in celebri poesie neoclassiche, come Il Parlamento. Se una parte del quarto libro della Laudi, per, tende un po a perdersi nel gusto dei colori e della scenografia, DAnnunzio muta i toni quando deve parlare della guerra vera, che si sta combattendo, fatta di sangue, di orrore, ma anche di coraggio e di gloria. Si veda, ne La canzone di Elena di Francia, ad esempio, il quadro sanguinoso dei feriti, che sar ben presente nelle pagine di DAnnunzio dedicate alla Grande Guerra , in Asterope:
(...) E quegli ch'ebbe stritolato il mento dalla mitraglia e rotta la ganascia, e su la branda sta sanguinolento e taciturno, e i neri grumi biascia, anch'egli ha l'indicibile sorriso all'orlo della benda che lo fascia,

Oppure la gioiosa celebrazione della flotta che rientra nel porto di Taranto, ne La canzone dei Dardanelli:
(...) Passan cos le belle navi pronte, per entrar nella darsena sicura, volta la poppa al ionico orizzonte. Sembran sazie di corsa e di presura, mentre nel Mar di Marmara e nel Corno d'oro imbozzate l'ansia e la paura

sognano fumi al Tnedo ogni giorno (...)

DAnnunzio aveva ben chiara loperazione poetica che stava inaugurando: egli mescolava il passato ed il presente, in unassociazione che tendesse a farli sovrapporre e a trasformarli in un unicum: cos, nella medesima canzone, dichiarava:
Fendo i secoli, lacero l'oblo, ritrovo le correnti della gloria nell'acqua ove portammo il nostro Dio. Levo sul mar l'onda della memoria e col soffio dell'anima la incalzo, che ferva sotto il pi della Vittoria,

Dato il pi che evidente intento del poeta, ci sarebbe da stupirsi se gi in Merope non fosse apparso chiaro quale avrebbe dovuto essere il vero nemico. In realt, DAnnunzio aveva gi perfettamente maturato la sua idea di civilt latina, contrapposta alla barbarie germanica, che avrebbe animato tutta la quinta raccolta delle Laudi: su questa idea di supremazia latina, egli innest un antiaustriacismo di chiara matrice risorgimentale, facendo spessissimo riferimento alle forche di Belfiore e, in generale, al martirologio patriottico. Nonostante ci trovassimo in anni di Triplice , linvettiva antiaustriaca del poeta assunse toni violentissimi, giungendo allinsulto volgare. Non ci si deve stupire, perci, constatando che lalleanza si reggesse per la volont dei governanti, contro il sentimento popolare, e che, al di l di una necessit diplomatica, in fondo, sia lItalia che lAustria si guardassero pi come nemici che come alleati. Ancora una volta, DAnnunzio si mostr un passo avanti a tutti. Ecco cosa scrisse dellimpero danubiano nella medesima Canzone dei Dardanelli:
La schifilt dell'Aquila a due teste, che rivomisce, come l'avvoltoio, le carni dei cadaveri indigeste!

Insomma, le Canzoni della Gesta dOltremare rappresentarono, certamente, un inno alla quarta sponda e al valore italiano nella guerra di Libia, ma, molto pi, esse furono il viatico per la nuova esperienza dannunziana: quella delleroe e del Comandante, che, di l a poco, avrebbe avuto il suo palcoscenico sanguinoso. DAnnunzio non aveva alcun dubbio: la guerra vera, quella definitiva, era una sola. La guerra latina. DAnnunzio aveva necessit fisica di quella guerra, che, sola, avrebbe dato senso al suo desiderio di gloria militare: lunica gloria autentica. Non a caso, lultima canzone di Merope tutta pervasa da un senso di delusione, di estraniamento, dopo che il cannone ha cessato di tuonare ed il silenzio si steso sui campi di battaglia. Il poeta soffriva linerzia, maledicendo la pace: la storia, di l a poco, lavrebbe clamorosamente accontentato.
Mi risveglio io cos, dopo il delirio dell'improvvisa primavera, solo

con la mia vita, ahim, senza martirio cruento, nella notte del mio duolo antico e nel silenzio delle stelle infauste, inerte su lo stranio suolo. E nelle vene che parean novelle m'incresce il vano sangue non versato e la febbre che aggrava il polso imbelle.31

Asterope Ufficialmente, Gabriele DAnnunzio rientr in Italia nel maggio del 1915, per prendere le redini del movimento interventista, che vedeva in lui, giustamente, un precursore ed un vate. Di fatto, per DAnnunzio la guerra era gi cominciata da quasi un anno: il 13 agosto del 1914, su Le Figaro, era apparsa la sua Ode pour la rsurrection latine, che potremmo indicare come il manifesto dellinterventismo dannunziano a fianco dellIntesa. DAnnunzio esult, perch la guerra latina era finalmente scoppiata: non si sent pi esule n imbelle, ma fratello dei combattenti, perch latini e perch soldati:
Je ne suis plus en terre d'exil, je ne suis plus l'tranger la face blme, je ne suis plus le banni sans arme ni laurier.

In attesa, dunque, di poter vestire la divisa del soldato, DAnnunzio fece propria linsegna del poeta militante, esaltando la fratellanza darmi e di storia che univa la Francia, gi in guerra, allItalia, che avrebbe dovuto schierarsi al suo fianco, creando ununione invincibile, perch superiore per civilt al proprio nemico:
je crie et j'invoque les deux noms divins, les plus hauts de la terre, jusqu' ce que le ciel entier s'enflamme de la double ardeur et que toutes les sources taries rejaillissent et se mlent en un seul torrent indomptable, je crie et j'invoque: O Italie! O France!.

Non si possono nascondere la tempestivit, la lucidit e la chiarezza di questo esordio: il poeta, che era voce assai ascoltata ed influente in tutta Europa e, specialmente, in Francia, si schier per la civilt latina, indicando allItalia, che tentennava tra Sonnino e Di San Giuliano, tra Inghilterra e Germania, la strada che la storia e la tradizione nazionale ci indicavano
31 Lultima canzone

infallibilmente. Questa posizione sarebbe stata ulteriormente chiarita da un celebre articolo di DAnnunzio, apparso su Le Journal il 30 settembre successivo, dopo che il poeta si era recato a visitare le linee, a Soissons: egli indicava la strada con unautorit nuova e con un senso naturale del comando. Egli si apprestava a rivestire i panni che aveva lungamente atteso: quelli del comandante duomini, che trasformava le parole, fascinose ma ambigue, in atti. Contemporaneamente, riaffiorava nellopera del poeta una vena mistico-religiosa che gi altre volte si era manifestata e che avrebbe pervaso tutto Asterope, il quinto libro delle Laudi, fino a giungere ne La Preghiera di Doberd, alla similitudine strettissima tra le ferite dei soldati e le stigmate francescane: vi in tutta la produzione dannunziana di guerra una sorta di esaltazione febbrile, che, spesso, lascia il posto a vere e proprie visioni, in cui lelemento religioso detiene un ruolo fondamentale: Vierge, accompagne mon message, affermis ma voix! prega il poeta nella sua Rsurrection. Perch, per DAnnunzio, la guerra latina anche guerra cristiana, guerra di un mondo nuovo (o, meglio, rinato) e di uomini nuovi (gli Uebermenschen, forse) contro gli imperi sanguinari del passato, contro il palo e la forca. Intendiamoci, vi fu molto di autocompiacimento in questo indulgere al tono evocativo delle proprie parole: la scelta metrica, spesso ad imitazione della salmodia o dei versetti evangelici, con una sovrabbondanza ieratica di figure di ripetizione, anafore ed anadiplosi, fu un elemento non sempre sincero, anzi, spesso decisamente artefatto. Tuttavia, innegabile in queste prime poesie di guerra del poeta abruzzese, una capacit di indagine e di sintesi, assai pi lucida di quella dei suoi contemporanei ed enormemente superiore a quella dei nostri contemporanei. La guerra latina era per DAnnunzio talmente ecumenica, da salutare come difensori della nostra civilt perfino gli Americani, venuti in esiguo numero in nostro soccorso, dopo la ritirata di Caporetto: certo, se avesse letto Addio alle armi di Hemingway, probabilmente il suo entusiasmo per gli yankees sarebbe stato un poco meno sconfinato, ma nel 1918 il gran libro era ancora in mente Iovis e lo scrittore se ne stava a Milano con la gamba per aria. Cos, DAnnunzio scrisse lentusiastico canto AllAmerica in armi. Esaurita la parte, diciamo cos, internazionale, di Asterope, gli altri canti hanno toni assai diversi: quelli dedicati al Re, alla Regina e al Generalissimo, si possono agevolmente inquadrare nella poesia encomiastica dannunziana. Non si deve, per, pensare che il DAnnunzio scrivesse queste poesie a titolo di piaggeria. In realt, il poeta soldato condivideva appieno il disprezzo del Cadorna per la massa, ed aveva, anzi, abbracciato subito la farneticante teoria del tradimento delle truppe a Caporetto, tanto da maledire i prigionieri e chiamarli vigliacchi e traditori, suscitando una vasta ondata di odio nei propri confronti, tra le truppe. Allo stesso modo, DAnnunzio, che combatteva eroicamente, vero, ma se ne stava, sostanzialmente, fuori dalla realt della guerra, vivendo con lo sfarzo di un capitano di ventura nella Casa rossaa Venezia, da cui partiva per le sue imprese, non aveva percezione dello spessore reale del re. Il poeta vedeva in V.E. il re combattente, che si recava in prima linea e che, paterno e semplice, avvicinava lumile fante: si trattava, naturalmente, di pura mitologia, ma DAnnunzio ci credette o volle credervi. Di ben altro livello, i canti dedicati agli uomini comuni, ai soldati, allaristocrazia della trincea e

alla carne da cannone (i due concetti, spesso, in DAnnunzio, si sovrappongono), che si offrono alla morte, quasi come agnelli sacrificali di questo corrusco rito sanguinoso che la battaglia 32. La guerra, come dicevamo, diviene un momento mistico per il poeta: la rivelazione delluomo e della sua terribile fragilit. Lidentit tra la guerra e la fede assume proporzioni quasi deliranti nella Preghiera di Doberd, in cui si sovrappongono immagini care al sistema mistico-profetico dannunziano: nella chiesetta di Doberd, scoperchiata dalle cannonate, che serve da ricovero ai feriti, San Francesco prega per i soldati, che sono come lui, laceri e piagati. I soldati stessi vengono associati a figure evangeliche.E questo paragone, tutto sommato piuttosto blasfemo, ritorna con maggior enfasi anche ne La preghiera di Sernaglia in cui, addirittura, si postula un Cristo che, smesso di piangere, combatte, come un fante. Insomma, tutto Asterope, pi che essere un libro di poesia bellica, un libro di poesia religiosa, in cui, veramente, DAnnunzio raggiunse il tono della lauda, che avrebbe dovuto essere il trait dunion dei cinque libri della raccolta: un tono estraneo alle cose, quasi transumanato. Il tono di chi aveva compiuto il voto supremo e gi viveva al di l della vita. E Nel Cantico per lottava della vittoria, il poeta esplose in un autentico peana, che riunisce i temi risorgimentali (..si scopron le tombe si levano i morti...), quelli carducciani, la mistica francescana ed un canto di gioia sfrenata, liberatorio e pasquale. Notturno Scritto nel 1916, ma pubblicato nel 1921, diviso in quattro offerte, il Notturno , probabilmente, lopera pi nota del DAnnunzio combattente. La critica ha a lungo sottolineato il carattere sperimentale di queste prose (anzi di questi cartigli), derivato, prevalentemente, dalloccasione stessa della scrittura, durante i mesi di convalescenza del poeta, ferito agli occhi e costretto a rimanere bendato e nelloscurit (di qui il titolo), costretto a vergare alla cieca, su striscioline di carta, le sue annotazioni sparse. In verit, Notturno nasce subito come libro (le bozze sono del 1917) e alcuni dei suoi nuclei tematici pi noti (la morte e il funerale di Giuseppe Miraglia, ad esempio, nella offerta prima) sono precedenti la data33 dellincidente aereo che cost a DAnnunzio la perdita di un occhio e la temporanea cecit. E, tuttavia, vero che la condizione di immobilit e di buio (da scriba egizio, disse il poeta) cui lautore fu costretto, diedero a queste prose un carattere affatto particolare. La scrittura lampeggiante, frammentata, a scatti: una sorta di raffinatissimo taccuino dimpressioni, tra le quali prevale senzaltro la nota cupa del dolore e del lutto. Si potrebbe quasi azzardare il giudizio per cui Notturno sia lunica opera dannunziana dedicata alla guerra che abbia vero carattere tragico: manca, per certo, in questo libro, la costruzione teatrale, da dramma sacro, che accompagna Asterope. La scrittura pi scarna, essenziale, pregnante. Di qui a parlare di un DAnnunzio ripiegato in se stesso, tuttavia, ce ne corre! E un po come la pretesa di scoprire a tutti i costi un Carducci decadente: unassurdit. Non si pu confondere la retorica del dolore dannunziana con unintrospezione psicologica: nel Notturno, il poeta , comunque, un uomo pubblico che parla al suo pubblico, sempre il vate, lorbo veggente, il 32
33 nel febbraio 1916: Miraglia era morto a fine dicembre del 1915

Comandante. 6. Guerra! Nemmeno troppo tempo fa, con semplicismo commovente, la guerra veniva proposta ai giovani come leffetto di un meccanismo elementare: i ricchi ed i potenti dovevano difendere i propri interessi e, a tale scopo, facevano le guerre. La povera gente veniva, perci, mandata al massacro, con dei risibili pretesti ideologici: ed essa, supinamente, con lo stesso fatalismo un po bovino con cui azionava telai o spingeva aratri, manovrava la terribile macina della battaglia. Alla fine, ricchi e potenti si mettevano sempre daccordo tra loro, mentre il popolo se ne tornava a casa senza un grazie. Si tratta di una visione piuttosto affascinante della storia dellumanit: peccato che sia anche piuttosto fantasiosa. Sarebbe bello e tranquillizzante pensare che esistano due umanit distinte: la prima, quella ricca ed egoista, decide a tavolino dove scatenare la prossima apocalisse, per vendere le proprie armi, i propri giornali, le proprie bende, il proprio uranio impoverito. La seconda, che quella che, evidentemente, raccoglie le simpatie di ogni uomo di buona volont, si limita a recalcitrare, in varia forma34, di fronte alla porta del mattatoio e, poi, a versare il proprio sangue innocente e quello dei propri fratelli dellaltra sponda. Questo universo a due piani, penthouse & pavement, la grande scoperta del pensiero marxista: la lotta di classe che si contrappone alla guerra borghese. Davvero sarebbe la pi felice delle spiegazioni: peccato che le cose non funzionino cos. Lasciamo perdere lantichit, quando i poveracci alla guerra non potevano neppure partecipare35: le guerre moderne sono state tutte quante affatto peculiari, sia per cause, che per svolgimento, che per esiti. Lidea di paragonare lesercito professionale inglese della guerra boera con quello semivolontario della guerra civile americana, con le leve di massa francesi e italiane della Grande Guerra, operazione storicamente assurda. Cos come assurdo pensare che le motivazioni di una guerra coloniale possano essere le medesime di quelle di una rivoluzione armata. E che dire di una guerra borghese che, di fatto, permise al popolo di abbattere proprio dei regimi borghesi, cosa che accadde puntualmente in moltissimi Paesi europei, Italia compresa, per conseguenza della prima guerra mondiale36? Come si vede, la questione molto pi complessa di come tenda a presentarla il pensiero unico: perfino Lenin se nera accorto, proclamando la guerra levatrice della rivoluzione. Altri, viceversa, si stupirono della paura della borghesia per la guerra, come Vilfredo Pareto, che pure era uno che possedeva un bel cervello: egli sostenne, in tempi non sospetti, che ...se c una grande guerra europea, il socialismo ricacciato indietro almeno per un mezzo secolo. E la borghesia salva per quel tempo.37 Pareri diversi, come si vede, perfino sullo stesso fronte: questo emerge, analizzando i fenomeni polemici dellEt moderna. E, in particolare, proprio la Grande Guerra rappresent un punto di rottura del pensiero politico e sociale di matrice ottocentesca: da una parte, essa fu la morte del Positivismo, che aveva dominato la seconda parte del XIX secolo e, dallaltra, fu la realizzazione delle aspirazioni di una massa proteiforme di
34 Girotondi, manifestazioni, bandiere e stendardi alle finestre, scioperi sessuali (Lisistrata) e sindacali 35 Alla formazione dellesercito, in quasi tutte le civilt antiche, si concorreva in base alla propria nascita o alla propria ricchezza: sia nelloligarchica Sparta che nella democratica Atene la plebe urbana e contadina non partecipava alle battaglie 36 Crediamo bastino, come esempi contrapposti, la rivoluzione sovietica e quella fascista 37 In un articolo su Il Regno del 21 febbraio 1904

persone, che soffocavano nella palude dellEuropa liberale e monarchica. Fu la morte dellumanit, ma fu anche la culla di unumanit nuova: unumanit n peggiore n migliore, ma, certamente, diversa. Cos, parlando della Grande Guerra vista con gli occhi degli intellettuali e, in particolare, dei poeti, non si pu non notare lestrema variet dei giudizi e delle posizioni: anzi, proprio questa variet ne fu lelemento distintivo. Con buona pace della vulgata e dei suoi sacerdoti. Prima del diluvio Il brodo di coltura da cui scatur la Grande Guerra funzionava gi da decenni, quando le pistolettate di Gavrilo Prinzip scatenarono il conflitto: scaramucce coloniali38 e revanscismo39, indebolimento degli imperi sovranazionali e potenziamento dellindustria, avevano gi segnato il cammino verso la catastrofe. Eppure, in Europa, ben pochi avrebbero creduto nel suicidio di una civilt: questo il dato che balza per primo agli occhi. Va detto anche che, per lItalia, una guerra europea avrebbe avuto ben altro significato, rispetto a tutte le altre potenze continentali: fin dalla guerra di Crimea (1855-56), i Savoia avevano interpretato le guerre internazionali come unoccasione per loro di incrementare il proprio dominio sulla Penisola40. La guerra austro-prussiana (1866) aveva permesso di aggiungere al neonato Regno dItalia la Venezia Euganea, nonostante gli imbarazzanti disastri di Custoza e Lissa, cos come quella franco-prussiana del 1870 aveva distolto i Francesi dalla loro caparbia difesa del Santo Padre, permettendo ai soldati di Raffaele Cadorna di entrare a Roma da Porta Pia. Va da s che, alla vigilia di una nuova guerra, inevitabilmente, negli ambienti vicini alla Corte, si sentisse odore di acquisizioni territoriali. Quando venne il momento per lItalia di decidere se partecipare o meno al conflitto, la guerra non era uneventualit astratta: era gi scoppiata. In questo contesto bisogna giudicare lassoluta specificit dei fenomeni, tutti italiani, dellInterventismo e del Neutralismo, che animarono la pubblicistica dei mesi che precedettero il 24 maggio 1915. Bisogna, del pari, tener conto che, per molti Italiani, quella guerra non era la prima guerra mondiale, ma la quarta guerra dindipendenza. Di qui discendono i giudizi, diversissimi tra loro, circa la necessit o meno di una nostra entrata in guerra. Daltronde, se cera chi vedeva nella guerra lostetrica della rivoluzione, come i sindacalisti rivoluzionari di discendenza soreliana, vi era anche chi, come, ad esempio, Enrico Corradini, direttore del giornale nazionalista Il Regno, giudicava il conflitto unarma straordinaria per arginare proprio il socialismo e garantire un ritorno allordine pubblico, oltre che una manifestazione della coscienza guerresca da opporre alla coscienza pacifista41. A ci si aggiungano le sirene formidabili, rappresentate da Trento e Trieste, irredente e viste quasi in un alone mistico-mitologico da molti intellettuali, per capire che il quadro, alla vigilia del maggio radioso era tuttaltro che monocromo. Gi nel 1909, il creatore del Futurismo, Filippo Tommaso Marinetti, proclamava Trieste: Faccia
38 Gli incidenti di Fascioda (la cosiddetta guerra di Fascioda 1898-1906) tra Gran Bretagna e Francia e di Agadir (1911) tra Francia e Germania 39 Si chiam cos lo spirito di rivincita (revanche) radicatissimo in Francia dopo la sconfitta del 1870 e la perdita di Alsazia e Lorena) 40 Dopo gli accordi segreti di Plombires (1858), Napoleone III affianc il Piemonte nella seconda guerra dindipendenza 41 Parole pronunciate in un discorso a Savona, nel dicembre 1913

purpurea e violenta dellItalia, rivolta verso il nemico (...) nostra unica polveriera!, scagliandosi contro tutti coloro che riteneva essere dostacolo al naturale espandersi delle razze: passatisti, avveniristi e internazionalisti. Il violentissimo e bellicoso linguaggio antiaustriaco di Marinetti lasci il segno, e fu il modello, insieme a quello di Gabriele DAnnunzio, della pubblicistica interventista. Questo richiamo alla guerra come turbine ed accelerazione della storia, contrapposto alla staticit di una societ liberale, inchiodata ai propri principi, dettati, in sostanza, dalla vigliaccheria, anim il pensiero di molti pensatori di quegli anni, e fior in gran parte sulle pagine di quelle riviste nuove, di cui dicemmo nel paragrafo dedicato alla mobilitazione totale permanente, come La Voce, di Prezzolini, su cui un filosofo del calibro di Giovanni Amendola ebbe a scrivere: Ma gli uomini, nonostante sappiano che dalla guerra non avranno vantaggi materiali, continuano a prepararsi alla guerra, e c da prevedere, senza esser profeti, che si combatteranno per lavvenire, come si son combattuti per il passato. Ci vuol dire che gli uomini preferiscono i mali della lotta, e il rischio, e il dolore, ed anche la morte, a quello stato di pace in cui tutta la vita fosse dominata da motivi economici e regolata saggiamente in base al tornaconto...42. Come si pu vedere, era largamente diffuso, negli anni che precedettero la guerra, un sentimento di ribellione per quelle regole di vita che il Positivismo aveva introdotto, e che venivano considerate come espressione di materialit e, infine, di panciafichismo. Non a caso, allo scoppio delle ostilit, Amendola avrebbe lasciato luniversit di Pisa, per partire volontario, insieme a moltissimi altri intellettuali come lui. Daltra parte, era ben chiaro a molti il fatto che questa guerra non sarebbe stata come tutte le altre: che avrebbe rappresentato una cesura netta tra il vecchio mondo nato dal congresso di Vienna e un mondo nuovo, misterioso e terribile, ma anche straordinariamente affascinante. E non parteciparvi avrebbe significato perdere una grande occasione per plasmare il futuro dellumanit. Giuseppe Prezzolini, scrisse su La Voce del 26 agosto 1914 (si noti la data) parole fondamentali per comprendere questo punto: Il mistero della generazione di un nuovo mondo europeo si compie (...) ed il parto avviene tra rivi mostruosi di sangue e gemiti che fanno fremere. (...) Ci dar la guerra quello che molti delle nostre generazioni hanno atteso da una rivoluzione?. Eppure, nelle stesse pagine, proprio Prezzolini postula lesistenza di unulteriore possibile vigliaccheria: lentrata in guerra per comodit, in linea con quanto abbiamo scritto poco sopra, a proposito della tendenza sabauda ad approfittare delle contingenze per fare il proprio interesse. Questo rispecchia perfettamente un certo atteggiamento incline al mercanteggiare, che caratterizz lattivit diplomatica italiana di quei mesi, tra Intesa ed Alleanza, in una sorta di asta sulla nostra entrata in guerra con uno dei due schieramenti. Ebbene, Prezzolini rifiuta le ragioni della convenienza: Andiamo con lidea che dovere andare, non con lidea che mette conto andare. Siamo guerrieri e non mercanti.... Quindi, anche allinterno dello schieramento interventista, sono necessari numerosi distinguo: da un lato potremmo collocare le ragioni della mente e dello stomaco, che vedevano nella guerra la possibilit concreta di ottenere (anche solo restando neutrali) consistenti cessioni territoriali dallAustria-Ungheria. Dallaltro, per, vi era una fortissima tensione eroica, che nasceva da una generazione allevata nel culto degli ideali risorgimentali, ma che non aveva mai avuto loccasione di mettersi alla prova. Per costoro, la
42 2 marzo 1911, nella recensione del libro di N. Angell The great illusion

Grande Guerra divenne un palcoscenico formidabile: unincudine su cui temprarsi o bruciare. In altro capitolo, parlando di DAnnunzio, indicammo le parole dentusiasmo con cui salut lo scoppio delle ostilit: come una liberazione. Loccasione era venuta. Finalmente, la guerra!43 Proprio cos salut il conflitto immane Giovanni Papini, in una pagina de Lacerba, dellautunno 1914: Finalmente arrivato il giorno dellira dopo i lunghi crepuscoli della paura. (...) E finita la siesta della vigliaccheria, della diplomazia, dellipocrisia e della pacioseria.. Erano dunque completamente impazziti, tutti questi scrittori, che inneggiarono entusiasticamente al massacro e alla battaglia? In un certo senso, sarebbe meno inquietante per noi pensare ad una sorta di follia collettiva: e leggendo certe espressioni di Papini, come quelle sui vantaggi per lagricoltura derivanti dalla concimazione coi cadaveri dei campi, verrebbe da pensarlo. Eppure, a parte i paradossi e le provocazioni papiniani, dobbiamo ammettere che vi fu, nellamore per la guerra dei cantori dellintervento, soprattutto una reazione feroce e, a volte, scomposta, ad una vita senza eroismo. Crediamo che la sciagurata frase di Bertolt Brecht sul bisogno di eroi sia una delle peggiori idiozie che mai letterato abbia concepito (e Dio sa se ne hanno concepite!). Una Nazione non pu vivere a lungo senza eroi: ne ha bisogno per riconoscersi e per sentirsi viva. E gli eroi pi sacri e pi disinteressati non possono che essere i martiri guerrieri: altrimenti, si cerca di fabbricarsene di deteriori, e si arriva a definire eroe un calciatore o un fotomodello. Certo, la guerra cosa terribile e piena di sofferenze: ma luomo, paradossalmente, ne ha bisogno, per ritrovare i propri valori, la propria essenzialit, addirittura per apprezzare la pace. Non che anche chi scrive sia stato aggredito da questo virus guerrafondaio: eppure, ai tempi belli della giovinezza, egli pure constat quanto possa lo spirito sulla mente. Egli prov su di s e vide sui coscritti il fascino magnetico dellalzabandiera e la purit del sentimento della Patria. E ne conserva abbastanza buona memoria da garantire al lettore che gli interventisti arrabbiati non eran pazzi. Semmai erano invasati: ed cosa affatto diversa. Nessuno si sognerebbe di dire che Leonida fosse matto come un cavallo: perch lo si dovrebbe pensare di Marinetti o di Prezzolini? A questo si aggiungano le spiegazioni razionali, di cui lo scrivente difetta, essendo egli eminentemente uomo di trippe, ma di cui lo pu benissimo sovvenire il filosofo Giovanni Gentile, neoidealista e, naturalmente, favorevole alla guerra, che, in una conferenza palermitana dellottobre 1914, cos si espresse a proposito della guerra come atto assoluto: La guerra non il conflitto di un certo numero di Stati. Questo bens un carattere necessario, ma uno solo dei caratteri di essa; e non n anche lurto di due tendenze o forze della politica mondiale (...) Non adunque, soltanto, una crisi economica, giuridica e politica (...) Si tratta, si badi, come sempre, di uno sforzo in cui tutto, il Tutto, impegnato: di un atto assoluto. (...) Il nostro supremo e in questo senso il nostro unico interesse.. Gentile non si limit a descrivere lessenza della guerra, ma affront, nella medesima circostanza, il problema cardinale per un intellettuale di quegli anni: E dobbiamo noi, uomini di pensiero e di studio, gridare guerra o pace ai popoli, supposto che questi possano ascoltare la nostra voce?. La prima cosa che il filosofo disse essere il dovere di un pensatore tacere: porsi umilmente di fronte alla grandezza degli avvenimenti e non unire la propria voce al coro schiamazzante dei soloni 43 Je ne suis plus en terre d'exil,/je ne suis plus l'tranger la face blme,/je ne suis plus le
banni sans arme ni laurier.

da quattro soldi, sempre pronti a spiegare quale sia il bene della Patria, sia che si tratti di guerre che di partite di calcio. La seconda accettare la necessit ineluttabile della guerra e guardare al nemico senza odio, come ad un fratello che condivida con noi il compimento di un dovere supremo, cui tutti, intellettuali in testa, devono concorrere. E gli intellettuali, come vedremo, concorsero ampiamente, facendo, anzi, a gara per chi raggiungesse il fronte per primo. Ma non precorriamo troppo i tempi: ci troviamo ancora nella fase di gestazione della guerra. Abbiamo detto dei fautori, talvolta forsennati, dellintervento: essi ebbero voce potente, ma rappresentavano, tuttavia, una netta minoranza di fronte al Paese. Evero che tale rapporto di forze, se si esamina soltanto la categoria dei letterati, variava sensibilmente a favore del bellicismo; tuttavia non dobbiamo dimenticare che molti intellettuali di allora si mostrarono tiepidi o addirittura decisamente ostili nei riguardi dellintervento italiano nelle ostilit gi in corso. In testa a tutti, naturalmente, quelli che oggi definiremmo gli uomini della sinistra, socialisti in testa, che bollarono il conflitto come strumento doppressione delle borghesie europee e non esitarono a scrivere Abbasso la guerra! nei loro quattro manifesti contro la guerra 44. Accanto ai socialisti, si dicevano nemici della guerra anche i liberali di sinistra, i radicali, gli anarchici e buona parte dei cattolici. Proprio in seno al blocco socialista, per, cominciarono a distinguersi posizioni diverse sulla questione dellintervento: da una parte, Leonida Bissolati ed i suoi e, dallaltra, i massimalisti rivoluzionari, cominciarono a parlare una lingua diversa. Le loro ragioni erano, sostanzialmente, opposte: i primi credevano che, nelleventualit di una guerra, gli Italiani avrebbero comunque dovuto compiere il proprio dovere45, mentre i secondi abbracciavano la teoria della strage levatrice della rivoluzione. Vicino alle posizioni del socialismo moderato e del liberalismo meno conservatore fu, ad esempio, il grande filosofo Benedetto Croce, che, alla fine del 1914, scriveva su Italia nostra: La guerra come lamore e lo sdegno: qualcosa che mille raziocini ed incitamenti non producono, ma che, a un tratto, non si sa come, si produce da s, invade lanima e il corpo, ne centuplica e indirizza le forze, e si giustifica da s, per il solo fatto che ed agisce. Auguro al mio Paese di far la guerra solo quando sar entrato spontaneamente in questa crisi di amore e di furore, che arra di vittoria o, almeno, di lotta gloriosa. . Sono parole diverse da quelle che ci si sarebbe aspettati da Croce, a dimostrazione del fatto che, nelle contingenze della storia, lopinione di ognuno va presa per quello che in quel momento, a prescindere dalle sue scelte anteriori o successive. Sullaltro versante, ossia su quello massimalista, tempestava, con ben altra prosa, Benito Mussolini, che, da direttore del quotidiano socialista Avanti!, nellottobre del 1914, fece propria la dottrina della neutralit attiva ed operante, che lavrebbe portato, di l a poco, allespulsione dal partito e alla decisa deriva interventista. Fondato un nuovo giornale, Il popolo dItalia, Mussolini inizi una formidabile campagna a favore dellintervento, giustificandola paventando una vittoria dei barbari tedeschi, che sarebbe stata fatale per lEuropa, sia borghese che proletaria. Cos, questo Mussolini prefascista, si rivolgeva alla giovent italiana, esortandola a
44 Si tratta dei manifesti elaborati dalla Direzione socialista il 29 luglio, il 22 settembre ed il 20 ottobre 1914, nonch di quello pubblicato la vigilia della nostra entrata in guerra, il 23 maggio 1915 45 Questo atteggiamento fu comune a molti giovani intellettuali, non interventisti, ma neppure sabotatori, che accettarono di compiere il proprio dovere fino in fondo, in ossequio alle sacre leggi della Patria: tra loro, esemplare fu il caso di Renato Serra, che ne scrisse in modo limpidissimo nella sua riflessione intitolata Esame di coscienza di un letterato, pubblicata su La Voce il 30 aprile 1915 e che sarebbe caduto il 20 luglio successivo sul Podgora.

combattere a fianco dellIntesa: (...) E a voi, giovani dItalia; giovani delle officine e degli atenei; giovani danni e giovani di spirito; giovani che appartenete alla generazione cui il destino ha commesso di <<fare>> la storia; a voi che io lancio il mio grido augurale, sicuro che avr nelle vostre file una vasta risonanza di echi e di simpatie. Il grido una parola che io non avrei mai pronunciato in tempi normali, e che innalzo invece forte, a voce spiegata, senza infingimenti, con sicura fede, oggi: una parola paurosa e fascinatrice: guerra!. Come si vede, la metamorfosi da socialista a fascista era gi iniziata nel futuro Duce; e proprio lui ci dice che fu la guerra ad originare questa metamorfosi. Come nel caso di Mussolini, cos in quello di milioni di altri giovani italiani, la Grande Guerra avrebbe rappresentato il punto di non ritorno, oltre il quale non si poteva pi accettare il mondo borghese e pacifico del liberalismo dellItalietta. Nel bene e nel male, il futuro sarebbe stato dellItalia, senza diminutivi. Una cosa notevole di quei giorni anche la nascita di una nuova retorica: di un nuovo stile letterario ed esistenziale insieme. Principale interprete di questa tendenza fu, naturalmente, Gabriele DAnnunzio: suo epigono, rozzo ma efficace, fu lo stesso Mussolini. Si confronti, ad esempio, il celebre periodo dannunziano dellarringa al popolo romano del 13 maggio 1915 (Se considerato come crimine lincitare alla violenza i cittadini, io mi vanter di questo crimine, io lo prender sopra me solo.) con quello altrettanto celebre che Mussolini indirizz al parlamento a proposito delle violenze squadriste ( se il fascismo unassociazione per delinquere, io sono il capo di questa associazione per delinquere...): lanalogia potrebbe apparire stupefacente, se non si conoscesse lenorme debito che la retorica del Ventennio contrasse nei riguardi di DAnnunzio, in particolare, e della cultura interventista pi in generale. In realt, bisogna tener conto del fatto che, proprio durante la guerra e a causa della guerra, si form quellenorme carica denergia politica e sociale che port allascesa del fascismo: del tutto normale, dunque, che la maggior parte degli intellettuali fascisti si fosse formata su quel tipo di retorica e di visione della vita, esattamente come le generazioni precedenti si erano abbeverate di Risorgimento. Stava nascendo, nellItalia del 1914-15, una nuova epopea, che avrebbe dato vita ad una nuova epica: terminava let dellintervento e cominciava quella della guerra vera e propria. Una crociata moderna A molti, in Europa, la Grande Guerra parve una moderna crociata: la pubblicistica dellIntesa batt fortemente sul tasto della civilt contro la barbarie, enfatizzando alcuni episodi, pi o meno autentici, capitati nelle prime fasi dellinvasione del Belgio, come il bombardamento della cattedrale di Lovanio. In Italia, non cera un gran bisogno di ricordare chi fosse il nemico ereditario: tutto il Risorgimento si era nutrito di una martellante propaganda antiaustriaca, in cui si contrapponevano i valori di civilt e di cultura italiani alla rozza crudelt alemanna. Si rispolverarono per loccasione le citazioni petrarchesche: Virt contra furore divenne quasi uno slogan della guerra allAustria Ungheria. E in Italia, come nel resto dellEuropa, esclusa la Triplice, legioni di giovanotti si arruolarono volontarie, nella convinzione di combattere per laffermazione della civilt e della tradizione. Inutile specificare che, anche dallaltra parte della barricata, si sprecarono gli appelli alla superiorit culturale

germanica e alla benevolenza di Dio46. Una delle caratteristiche della Grande Guerra fu proprio la reazione degli intellettuali di fronte alla constatazione dellassoluta imparzialit di Dio, di fronte agli immani massacri. Ben presto, dalla iniziale certezza nella vittoria, si pass ad una sorta di fatalismo attonito, e dalla fede nellaiuto di Dio si giunse alla convinzione disperata dellassenza di Dio dai campi della follia umana. Ecco, dunque, fiorire una letteratura desolata e dolente: espressione del lento e faticoso trascinarsi degli uomini verso un baratro tanto terribile quanto ineluttabile. Fin dallinizio delle ostilit, alcuni tra i pi sensibili, cominciarono a dubitare della bont delle proprie scelte: perfino coloro i quali furono accesi interventisti, come Giani Stuparich, legionario giuliano, che avrebbe onorato la letteratura e la Patria, fregiandosi di una MOVM. Ecco come egli risolse una di queste crisi di coscienza: La coscienza soscura nel dubbio, se abbiamo fatto bene a voler la guerra. Questo il tormento pi grave di tutti. Ma non pu durare. Lanimo si ribella a questa debolezza. No, nessunaltra via era possibile, se non questa che abbiamo scelto.47. Per contrasto, un altro fervente interventista, Carlo Emilio Gadda, cos descrisse la sua esperienza di guerra, che conferm, nel suo caso, le aspettative che egli aveva maturato, anche a causa di quelleducazione risorgimentale di cui dicevamo, impartitagli in famiglia: Il regno dItalia, per i miei, era una cosa viva e verace; che valeva la pena servirlo e tenerlo su: se pur movesse allo scherno i legittimisti francesi, la nobilt romana a una musoneria tanto pi decorosa quanto tuttaltro che pericolosa, e a tracotante alterigia lo imperatore cordaiolo ed i suoi, che Dio lo faccia rosolare ben bene. (...) Io ho voluto la guerra, per quel pochissimo che stava in me di volerla. Ho partecipato con sincero animo alle dimostrazioni del 15, ho urlato Viva Dannunzio, Morte a Giolitti, e conservo ancora il cartello con su Morte a Giolitti che ci eravamo infilati nel nastro dei cappelli. (...) Io ho presentito la guerra come una dolorosa necessit nazionale, se pure, confesso, non la ritenevo cos ardua. E in guerra ho passato alcune ore delle migliori di mia vita, di quelle che mi hanno dato oblio e compiuta immedesimazione del mio essere con la mia idea: questo, anche se trema la terra, si chiama felicit.48. Come si pu facilmente notare da questi due primi esempi, lesperienza della guerra ebbe un impatto assai diverso, a seconda dellindole, delle motivazioni, degli esiti di ciascuno: anche per questo, la letteratura di guerra e di memoria, di cui avremo modo di occuparci nella prossima parte di questo lavoro, appare come un magma dalle forme molteplici, in cui unanalisi sistematica appare assai complessa e, comunque, ben superiore agli obiettivi di questopera. Daltra parte, la Grande Guerra suscit entusiasmi etici ed estetici, come nel caso di Ernst Juenger o di Giovanni Comisso, ma produsse anche, per converso disgusto e protesta, come in quello di Barbusse o di Erich Maria Remarque: solo avendo sempre presente questa dicotomia, che nacque prima dello scoppio del conflitto e si acu durante lo svolgersi della guerra stessa, potremo leggere con occhio obiettivo le mille pagine che la prima guerra mondiale strapp alla letteratura.

LENTUSIASTICO EQUIVOCO
46 Sulle cinture dei soldati germanici campeggiava la scritta Gott mit uns: Dio con noi...ma tutti i belligeranti erano convinti di avere lOnnipotente dalla loro parte 47 G. Stuparich, Guerra del 15, 1931 48 C.E.Gadda, Il castello di Udine, Impossibilit di un diario di guerra, 1933

Gli storici, a pi di novantanni dallo scoppio della prima guerra mondiale, non sono ancora giunti ad unopinione concorde sullatteggiamento dellEuropa allindomani dellassassinio di Serajevo: parte di loro sostiene che sia le nazioni dellAlleanza che quelle dellIntesa fossero, sostanzialmente, incoscienti del conflitto che si andava delineando. Altri, per, riconoscono segnali assai evidenti di un intento bellicoso nel comportamento dellEuropa degli anni immediatamente antecedenti lo scoppio del conflitto, vedendovi i chiari segnali di una preparazione su vasta scala ad uno scontro armato di vaste proporzioni. Questo dipende soprattutto dalla valenza attribuita al riarmo e ai preparativi bellicosi, che hanno caratterizzato la politica militare delle principali potenze europee, in un arco di tempo che possiamo approssimativamente collocare tra la fine della guerra russo-giapponese, nel 1905, e quella della seconda guerra balcanica, nel 1913. Che vi fosse, in molti autorevoli personaggi, la sensazione di un conflitto imminente, vero: si prenda ad esempio il FM Conrad, che, in tempi non sospetti, organizz il riarmo dellAustria-Ungheria, giustificandolo col fatto che, se per fare una guerra basta un giorno, per organizzare un esercito che la combatta ci vogliono anni49. Tuttavia, non vi stato periodo della storia moderna in cui una guerra non sia stata paventata o invocata, senza che, necessariamente, questo conflitto, poi, deflagrasse effettivamente. Per la verit, entrambe le teorie hanno qualche fondamento, e, forse, la verit si trova nel mezzo: da un lato, indiscutibile che i futuri contendenti fossero da tempo sul piede di guerra e, dallaltro, probabilmente nessuno si sarebbe aspettato di dover affrontare un conflitto di tali modalit e proporzioni. Neppure la Germania guglielmina, che pure era lo stato che aveva aggiornato in maniera pi considerevole il proprio armamento e le proprie caratteristiche tattico-strategiche, era, in realt, preparato allo scontro mondiale. Questo perch quasi nessuno, nel 1914, aveva intuito quali sarebbero state le armi decisive e quale la tattica di logoramento che esord nella Grande Guerra: in fondo, le uniche vere modifiche alla tecnica militare riguardavano la precisione, la pesantezza ed il numero di proiettili in grado di scagliare sul nemico. Era un cambiamento quantitativo, non qualitativo, che avvantaggiava enormemente la difesa e che avrebbe costretto milioni di uomini ad una vita da talpe per anni. Soltanto nel 1918 apparvero armi in grado di riportare lago della bilancia dalla parte degli attaccanti: tra queste, lattacco in massa di mezzi blindati. Ma la Grande Guerra, allora, era gi decisa. Gli uomini che partirono per la guerra, nel 1914, non avevano alcuna idea di cosa avrebbe rappresentato per loro questa nuova esperienza: avevano della guerra una visione sostanzialmente ottocentesca, legata alle guerre napoleoniche o, al massimo, a qualche impresa coloniale ed andarono incontro alla Grande Guerra convinti di dover affrontare qualcosa del genere. Evidentemente, a nulla erano valse le pur significative indicazioni provenienti dal conflitto russo-giapponese o dalle guerre nei Balcani: segnali che erano iniziati gi durante la guerra civile americana, con luso tattico della trincea e dei fucili a canna rigata e a ripetizione. Pertanto, se anche le nazioni belligeranti fossero state preparate al conflitto, certamente non lo erano i soldati che, ben presto, avrebbero dovuto affrontare orrori fino a quel momento ignoti allumanit. Lo prova il sostanziale entusiasmo con cui, in ogni parte dEuropa, furono salutate le truppe in partenza per il fronte. Lo provano le
49 G.E. Rothenberg, LEsercito di Francesco Giuseppe, LEG, 2004

numerose testimonianze di patriottismo e di orgoglio che animavano poesie e canzoni di quei giorni. E lo provano, a stufo, le lettere e le testimonianze dei soldati e dei loro ufficiali, che erano quasi onninamente animati dalla fiducia in una guerra breve e vittoriosa. Questa fiducia era tanto radicata e forte da contagiare anche gli Italiani, che pure entrarono in guerra quasi un anno dopo Serajevo, e che per parecchi mesi si dissero certi del fatto che la guerra non sarebbe arrivata a Natale. La poesia di guerra non ha mancato di registrare puntualmente questa prima fase, diciamo cos, di elaborazione del conflitto: scrittori notissimi e poeti sconosciuti non mancarono di esprimere il proprio entusiasmo per quella che, soprattutto ai popoli dellIntesa appariva come uno scontro di civilt, che avrebbe visto, immancabilmente, trionfare la parte giusta. Esaminando il materiale che fa riferimento al primissimo periodo di guerra, non possiamo non riconoscervi, sostanzialmente, due correnti tematiche: lesaltazione del patriottismo e del sacrificio personale e la crociata contro la barbarie. E singolare che, in questo affollato coro in lode del valore del Belgio e, soprattutto, della Francia, siano assai numerose le poetesse: moltissime intellettuali, ma anche donne comuni, si appassionarono al tema della Francia, erede di tradizioni gloriose e baluardo di civilt, cos come a quello del piccolo ed innocuo Belgio, proditoriamente invaso e che si difendeva con valore contro un nemico tanto preponderante. Scriveva, ad esempio, Stephen Phillips, nella sua poesia Il Kaiser e il Belgio, in cui si ripropone leterno tema di Davide contro Golia.
He said: "Thou petty people, let me pass. What canst thou do but bow to me and kneel?" But sudden a dry land caught fire like grass, And answer hurtled but from shell and steel. He looked for silence, but a thunder came Upon him, from Lige a leaden hail. All Belgium flew up at his throat in flame Till at her gates amazed his legions quail. Take heed, for now on haunted ground they tread; There bowed a mightier war lord to his fall: Fear! lest that very green grass again grow red With blood of German now as then with Gaul. If him whom God destroys He maddens first, Then thy destruction slake thy madman's thirst.

Analogamente, lo strapotere arrogante della Germania, personificato dallodiata figura del suo Kaiser (...God's decree and William's order --), emerge chiaramente in questaltra poesia di Dana Burnet, intitolata The Battle of Lige: si tratta di una poesia di scarso livello letterario, ma, certamente, contiene molti degli elementi dellimmaginario poetico di quei giorni. In realt, lossessione di raggiungere Parigi, tema portante della poesia, fu unautentica pecca del piano Schlieffen: inconsapevolmente, il poeta ha preceduto lo storico nella valutazione, a botta calda, di un evento.
Now spake the Emperor to all his shining battle forces, To the Lancers, and the Rifles, to the Gunners and the Horses; -And his pride surged up within him as he saw their banners stream! -" 'Tis a twelve-day march to Paris, by the road our fathers travelled, And the prize is half an empire when the scarlet road's unravelled -Go you now across the border, God's decree and William's order --

Climb the frowning Belgian ridges With your naked swords agleam! Seize the City of the Bridges -Then get on, get on to Paris -To the jewelled streets of Paris -To the lovely woman, Paris, that has driven me to dream!" A hundred thousand fighting men They climbed the frowning ridges, With their flaming swords drawn free And their pennants at their knee. They went up to their desire, To the City of the Bridges, With their naked brands outdrawn Like the lances of the dawn! In a swelling surf of fire, Crawling higher -- higher -- higher -Till they crumpled up and died Like a sudden wasted tide, And the thunder in their faces beat them down and flung them wide! They had paid a thousand men, Yet they formed and came again, For they heard the silver bugles sounding challenge to their pride, And they rode with swords agleam For the glory of a dream, And they stormed up to the cannon's mouth and withered there, and died. . . . The daylight lay in ashes On the blackened western hill, And the dead were calm and still; But the Night was torn with gashes -Sudden ragged crimson gashes -And the siege-guns snarled and roared, With their flames thrust like a sword, And the tranquil moon came riding on the heaven's silver ford. What a fearful world was there, Tangled in the cold moon's hair! Man and beast lay hurt and screaming, (Men must die when Kings are dreaming!) -While within the harried town Mothers dragged their children down As the awful rain came screaming, For the glory of a Crown! So the Morning flung her cloak Through the hanging pall of smoke -Trimmed with red, it was, and dripping with a deep and angry stain! And the Day came walking then Through a lane of murdered men, And her light fell down before her like a Cross upon the plain! But the forts still crowned the height With a bitter iron crown! They had lived to flame and fight, They had lived to keep the Town! And they poured their havoc down All that day . . . and all that night. . . . While four times their number came, Pawns that played a bloody game! -With a silver trumpeting, For the glory of the King, To the barriers of the thunder and the fury of the flame! So they stormed the iron Hill, O'er the sleepers lying still, And their trumpets sang them forward through the dull succeeding dawns,

But the thunder flung them wide, And they crumpled up and died, -They had waged the war of monarchs -- and they died the death of pawns. But the forts still stood . . . . Their breath Swept the foeman like a blade, Though ten thousand men were paid To the hungry purse of Death, Though the field was wet with blood, Still the bold defences stood, Stood! And the King came out with his bodyguard at the day's departing gleam -And the moon rode up behind the smoke and showed the King his dream.

Naturalmente, come ogni mitologia che si rispetti, anche quella legata allo scoppio della Grande Guerra si nutrita di figure eponime, circondate da un alone di gloria e di mistero. Ogni causa necessita di martiri e di eroi, nonostante linconsulto aforisma di Bertolt Brecht, il cui cinismo ed opportunismo politico fu, forse pari soltanto alla sua miopia intellettuale: tuttavia, va detto che, in ogni epoca, laddove mancasse la materia prima, stata proprio la letteratura a confezionare simboli su misura per guerre e rivoluzioni. Un caso tra i molti quello della leggenda della crocerossina barbaramente assassinata dai soldati germanici, perch curava dei feriti (addirittura tedeschi, in alcune versioni, come quella che segue): lepisodio, sostanzialmente falso, pur non essendo certamente mancati in Belgio episodi di brutalit da parte degli invasori, fece scalpore. La stampa se ne appropri e si sprecarono copertine e poesie. Qui di seguito ne mostriamo una, uscita dalla penna di un buon poeta come Laurence Binyon ed intitolata Edith Cavell: la martire, come una moderna Antigone, confessa ai propri giudici di avere infranto la loro legge in nome di una legge pi grande, che quella della fratellanza tra uomini. Insomma, un grido di civilt, soffocato dalla barbarie.
She was binding the wounds of her enemies when they came -The lint in her hand unrolled. They battered the door with their rifle-butts, crashed it in: She faced them gentle and bold. They haled her before the judges where they sat In their places, helmet on head. With question and menace the judges assailed her, "Yes, I have broken your law," she said. "I have tended the hurt and hidden the hunted, have done As a sister does to a brother, Because of a law that is greater than you have made, Because I could do no other." "Deal as you will with me. This is my choice to the end, To live in the life I vowed." "She is self-confessed," they cried; "she is self-condemned. She shall die, that the rest may be cowed." In the terrible hour of the dawn, when the veins are cold, They led her forth to the wall. "I have loved my land," she said, "but it is not enough: Love requires of me all. "I will empty my heart of bitterness, hating none." And sweetness filled her brave With a vision of understanding beyond the hour That knelled to the waiting grave. They bound her eyes, but she stood as if she shone.

The rifles it was that shook When the hoarse command rang out. They could not endure That last, that defenceless look. And the officer strode and pistolled her surely, ashamed That men, seasoned in blood, Should quail at a woman, only a woman, -As a flower stamped in the mud. And now that the deed was securely done, in the night When none had known her fate, They answered those that had striven for her, day by day: "It is over, you come too late." And with many words and sorrowful-phrased excuse Argued their German right To kill, most legally; hard though the duty be, The law must assert its might. Only a woman! yet she had pity on them, The victim offered slain To the gods of fear that they worship. Leave them there, Red hands, to clutch their gain. She bewailed not herself, and we will bewail her not, But with tears of pride rejoice That an English soul was found so crystal-clear To be the triumphant voice Of the human heart that dares adventure all But live to itself untrue, And beyond all laws sees love as the light in the night, As the star it must answer to. The hurts she healed, the thousands comforted -- these Make a fragrance of her fame. But because she stept to her star right on through death It is Victory speaks her name.

Non mancarono, naturalmente, poesie dedicate alla Francia, quasi tutte basate sullevocazione della gloria francese e sui temi pi caratteristici della rapsodia transalpina, come la libert o la civilt latina. Qui di seguito, si pu leggere una poesia intitolata semplicemente France dovuta a Cecil Chesterton, in cui il richiamo alla tradizione eroica francese , per la verit, abbastanza equilibrato.
Because for once the sword broke in her hand, The words she spoke seemed perished for a space; All wrong was brazen, and in every land The tyrants walked abroad with naked face; The waters turned to blood, as rose the Star Of evil Fate denying all release. The rulers smote, the feeble crying "War!" The usurers robbed, the naked crying "Peace!" And her own feet were caught in nets of gold, And her own soul profaned by sects that squirm, And little men climbed her high seats and sold Her honour to the vulture and the worm. And she seemed broken and they thought her dead, The Overmen, so brave against the weak. Has your last word of sophistry been said, O cult of slaves? Then it is hers to speak. Clear the slow mists from her half-darkened eyes, As slow mists parted over Valmy fell, As once again her hands in high surprise Take hold upon the battlements of Hell.

Lo stesso non si pu dire per questaltra poesia, The name of Francedi Henry

Van Dyke, in cui la retorica del pittoresco daccatto prevale sul resto: daltronde, nei paesi anglosassoni, quasi tutte le nazioni europee venivano (e vengono) affidate a stereotipi piuttosto rozzi. Anche la Francia in guerra, naturalmente, non sfugg a questa modellizzazione.
Give us a name to fill the mind With the shining thoughts that lead mankind, The glory of learning, the joy of art, -A name that tells of a splendid part In the long, long toil and the strenuous fight Of the human race to win its way From the feudal darkness into the day Of Freedom, Brotherhood, Equal Right, -A name like a star, a name of light. I give you France! Give us a name to move the heart With a warmer glow and a swifter flood, -A name like the sound of a trumpet, clear, And silver-sweet, and iron-strong, That calls three million men to their feet, Ready to march, and steady to meet The foes who threaten that name with wrong, -A name that rings like a battle-song. I give you France! Give us a name to move the heart With the strength that noble griefs impart, A name that speaks of the blood outpoured To save minkind from the sway of the sword, -A name that calls on the world to share In the burden of sacrificial strife Where the cause at stake is the world's free life Andthe rule of the people everywhere, -A name like a vow, a name like a prayer. I give you France!

Sovente, questo sentimento nazionale stato mescolato allidea religiosa: per la mentalit britannica, i popoli latini sono tutti troppo devoti e, in definitiva, papisti. E in questa logica che la protagonista della poesia che segue, Vive la France, di Charlotte Holmes Crawford, prega devotamente per la salvezza della Patria. La sensazione , comunque, quella di trovarsi di fronte a degli stereotipi troppo rigidi, che nuocciono, certamente, allefficacia poetica di queste opere, nate, peraltro, senza troppe pretese.
Franceline rose in the dawning gray, And her heart would dance though she knelt to pray, For her man Michel had holiday, Fighting for France. She offered her prayer by the cradle-side, And with baby palms folded in hers she cried: "If I have but one prayer, dear, crucified Christ -- save France! "But if I have two, then, by Mary's grace, Carry me safe to the meeting-place, Let me look once again on my dear love's face, Save him for France!" She crooned to her boy: "Oh, how glad he'll be, Little three-months old, to set eyes on thee! For, 'Rather than gold, would I give,' wrote he,

'A son to France.' "Come, now, be good, little stray sauterelle, For we're going by-by to thy papa Michel, But I'll not say where for fear thou wilt tell, Little pigeon of France! "Six days' leave and a year between! But what would you have? In six days clean, Heaven was made," said Franceline, "Heaven and France." She came to the town of the nameless name, To the marching troops in the street she came, And she held high her boy like a taper flame Burning for France. Fresh from the trenches and gray with grime, Silent they march like a pantomime; "But what need of music? My heart beats time -Vive la France!" His regiment comes. Oh, then where is he? "There is dust in my eyes, for I cannot see, -Is that my Michel to the right of thee, Soldier of France? Then out of the ranks a comrade fell, -"Yesterday -- 't was a splinter of shell -And he whispered thy name, did thy poor Michel, Dying for France." The tread of the troops on the pavement throbbed Like a woman's heart of its last joy robbed, As she lifted her boy to the flag, and sobbed: Vive la France!"

Dovendo fare una breve carrellata del repertorio tematico delle poesie scritte allo scoppio della guerra, per sostenere la causa dellIntesa, quasi inevitabile imbattersi in una poesia che esalti la principale eroina francese, oltre che il simbolo stesso della Francia che combatte per la propria sopravvivenza: Giovanna dArco. Poco importa che, storicamente, questa eroina abbia combattuto proprio contro gli antenati del poeta e che da loro sia stata raggirata e mandata al rogo, in un bellesempio di Realpolitik ante litteram: ci che conta infiammare gli animi. Ossia, alla fine dei conti, fare della buona propaganda. La poesia intitolata The soul of Jeanne DArc, ne un esempio alquanto significativo.
She came not into the Presence as a martyred saint might come, Crowned white-robed and adoring, with very reverence dumb, -She stood as a straight young soldier, confident, gallant, strong, Who asks a boon of his captain in the sudden hush of the drum. She said: "Now have I stayed too long in this my place of bliss, With these glad dead that, comforted, forget what sorrow is Upon that world whose stony stairs they climbed to come to this. "But lo, a cry hath torn the peace wherein so long I stayed, Like a trumpet's call at Heaven's wall from a herald unafraid, -A million voices in one cry, 'Where is the Maid, the Maid?' "I had forgot from too much joy that olden task of mine, But I have heard a certain word shatter the chant divine, Have watched a banner glow and grow before mine eyes for sign. "I would return to that my land flung in the teeth of war, I would cast down my robe and crown that pleasure me no more, And don the armor that I knew, the valiant sword I bore. "And angels militant shall fling the gates of Heaven wide,

And souls new-dead whose lives were shed like leaves on war's red tide Shall cross their swords above our heads and cheer us as we ride. "For with me goes that soldier saint, Saint Michael of the sword, And I shall ride on his right side, a page beside his lord, And men shall follow like swift blades to reap a sure reward. "Grant that I answer this my call, yea, though the end may be The naked shame, the biting flame, the last, long agony; I would go singing down that road where fagots wait for me. Mine be the fire about my feet, the smoke about my head; So might I glow, a torch to show the path my heroes tread; My Captain! Oh, my Captain, let me go back!" she said.

Va detto che furono soprattutto le donne a prestarsi a questa operazione un tantino dozzinale di poesia propagandistica; e nelloperazione non si limitarono a risvegliare il mito di Giovanna dArco, ma sottolinearono tutti gli aspetti della brutalit tedesca, che non si fermava davanti a nulla. In questa poesia di Grace Hazard Conkling, intitolata Rheims Cathedral1914, appare, per esempio, il tema del non rispetto di luoghi sacri alla religione o alla cultura (il bombardamento della cattedrale di Reims o dello scriptorium della cittadina belga di Lovanio/Leuwen, ne furono un esempio, amplificato enormemente dalla stampa). Da una parte c, come si detto, la civilt, col suo rispetto delle regole: dallaltra la violenza cieca, che non guarda in faccia a nessuno, nemmeno a Dio. Il sottinteso che Dio, prima o poi, far trionfare le armi della giustizia. Appare difficile, oggi, accettare il fatto che una simile impostazione manichea fosse, in realt, condivisa dalla stragrande maggioranza della gente: e perfino delle classi pi colte. Eppure and proprio cos, e queste poesie sono l a testimoniarlo.
A wingd death has smitten dumb thy bells, And poured them molten from thy tragic towers: Now are the windows dust that were thy flowers Patterned like frost, petalled like asphodels. Gone are the angels and the archangels, The saints, the little lamb above thy door, The shepherd Christ! They are not, any more, Save in the soul where exiled beauty dwells. But who has heard within thy valuted gloom That old divine insistence of the sea, When music flows along the sculptured stone In tides of prayer, for him thy windows bloom Like faithful sunset, warm immortally! Thy bells live on, and Heaven is in their tone!

Nella celebrazione della virt gallica non poteva, naturalmente, mancare un cenno alla Rivoluzione : levento che trasform radicalmente la storia umana. In questa poesia di Florence Earle Coates, intitolata Place de la Concorde, 14 august 1914, il tema delle stragi giacobine viene associato a quello della perduta Alsazia: insomma, Robespierre e Napoleone III possono anche andare a braccetto, quando si tratta di dare fiato alle trombe!
Near where the royal vicitims fell In days gone by, caught in the swell Of a ruthless tide Of human passion, deep and wide: There where we two

A Nations's later sorrow knew -To-day, O friend! I stood Amid a self-ruled multitude That by nor sound nor word Betrayed how mightily its heart was stirred. A memory Time never could efface -A memory of Grief -Like a great Silence brooded o'er the place; And men breathed hard, as seeking for relief From an emotion strong That would not cry, though held in check too long. One felt that joy drew near -A joy intense that seemed itself to fear -Brightening in eyes that had been dull, As all with feeling gazed Upon the Strasbourg figure, raised Above us -- mourning, beautiful! Then one stood at the statue's base, and spoke -Men needed not to ask what word; Each in his breast the message heard, Writ for him by Despair, That evermore in moving phrase Breathes from the Invalides and Pre Lachaise -Vainly it seemed, alas! But now, France looking on the image there, Hope gave her back the lost Alsace. A deeper hush fell on the crowd: A sound -- the lightest -- seemed too loud (Would, friend, you had been there!) As to that form the speaker rose, Took from her, fold on fold, The mournful crape, gray-worn and old, Her, proudly, to discolose, And with the touch of tender care That fond emotion speaks, 'Mid tears that none could quite command, Placed the Tricolor in her hand, And kissed her on both cheeks!

E, per concludere questa breve carrellata di sproloqui patriottardi, inseriamo una poesia di uno dei pi celebrati poeti americani: quellEdgar Lee Masters che, merc lo smisurato amore dimostratogli da Fernanda Pivano, diventato, con la sua Antologia di Spoon Riveruno degli autori pi amati da certa Italia. Noi non condividiamo le sicinnidi dellanziana intellettuale, e qui di seguito indichiamo linsospettabile poesia Glorious France del poeta statunitense. Siamo certi che i toni di questopera risulterebbero assai meno flautati alle orecchie dei nostri esegeti, rispetto alle lapidi parlanti del cimitero di Spoon River. Tant: qui si parla di storia e questa, che piaccia o meno, storia. Il resto, semmai, letteratura.
You have become a forge of snow-white fire, A crucible of molten steel, O France! Your sons are stars who cluster to a dawn And fade in light for you, O glorious France! They pass through meteor chnges with a song Which to all islands and all continents Says life is neither comfort, wealth, nor fame,

Nor quiet hearthstones, friendship, wife nor child, Nor love, nor youth's delight, nor manhood's power, Nor many days spent in a chosen work, Nor honored merit, nor the patterned theme Of daily labor, nor the crowns nor wreaths Of seventy years. These are not all of life, O France, whose sons amid the rolling thunder Of cannon stand in trenches where the dead Clog the ensanguined ice. But life to these Prophetic and enraptured souls in vision, And the keen ecstasy of faded strife, And divination of the loss as gain, And reading mysteries with brightened eyes In fiery shock and dazzling pain before The orient splendour of the face of Death, As a great light beside a shadowy sea; And in a high will's strenuous exercise, Where the warmed spirit finds its fullest strength And is no more afraid, and in the stroke Of azure lightning when the hidden essence And shifting meaning of man's spiritual worth And mystical significance in time Are instantly distilled to one clear drop Which mirrors earth and heaven. This is life Flaming to heaven in a minute's span When the breath of battle blows the smouldering spark. And across these seas We who cry Peace and treasure life and cling To cities, happiness, or daily toil For daily bread, or trail the long routine Of seventy years, taste not the terrible wine Whereof you drink, who drain and toss the cup Empty and ringing by the finished feast; Or have it shaken from your hand by sight Of God against the olive woods. As Joan of Arc amid the apple trees With sacred joy first heard the voices, then Obeying plunged at Orleans in a field Of spears and lived her dream and died in fire, Thou, France, hast heard the voices and hast lived The dream and known the meaning of the dream, And read its riddle: how the soul of man May to one greatest purpose make itself A lens of clearness, how it loves the cup Of deepest truth, and how its bitterest gall Turns sweet to soul's surrender. And you say: Take days for repitition, stretch your hands For mocked renewal of familiar things: The beaten path, the chair beside the window, The crowded street, the task, the accustomed sleep, And waking to the task, or many springs Of lifted cloud, blue water, flowering fields -The prison-house grows close no less, the feast A place of memory sick for senses dulled Down to the dusty end where pitiful Time Grown weary cries Enough!

Dopo i primi entusiasmi collettivi (peraltro, non sempre condivisi da chi la guerra doveva andarla a combattere davvero), sarebbe venuta la seconda fase di questa stagione poetica, che abbiamo definito della generazione perduta: il primo contatto con la realt della guerra avrebbe prodotto, se non disillusione, almeno sconcerto. La Francia e il Belgio avrebbero cessato di essere luoghi sentimentali o da cartolina, per assumere quellaspetto che sarebbe, poi, divenuto tragicamente abituale ai poeti di guerra: una landa sempre uguale, dove il fango e la morte hanno incontrastato dominio. Ma sarebbero dovuti passare molti mesi ( e molte stragi spaventose), perch lentusiasmo iniziale si attenuasse veramente, lasciando il posto ad una poesia pi crudamente realistica. Da furore a cenere, appunto.

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