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ISRAELE/PALESTINA, LA TERRA STRETTA

GERUSALEMME:
UN ACCORDO
IMPOSSIBILE? di Paolo PIERACCINI ed Elena DUSI
Sulla Città Santa si incentrano le rappresentazioni
geopolitiche conflittuali di israeliani e palestinesi.
Una storia di veti reciproci e di compromessi falliti.
L’ultimo tentativo americano e la seconda Intifada.

A NCHE L’ULTIMO TENTATIVO DI RAG-


giungere un accordo su Gerusalemme è naufragato nel gennaio del 2001. A nulla
sono serviti gli sforzi dell’ex presidente americano Bill Clinton e del premier
uscente israeliano Ehud Barak. I due, durante lo svolgimento dei negoziati di Wa-
shington, erano ormai allo scadere del proprio mandato, privi quindi della legitti-
mità necessaria per compiere lo storico passo. Il leader palestinese Yasser Arafat
non ha avuto il coraggio di sfidare l’oltranzismo del suo popolo concludendo un
accordo destinato con tutta probabilità a rimanere lettera morta. «Nessun docu-
mento di pace senza la sovranità su Gerusalemme Est e sui suoi Luoghi Santi», ave-
va puntato i piedi Arafat. «Non firmerò alcun trattato che lasci ai palestinesi la so-
vranità sul Monte del Tempio», aveva replicato Barak 1, che si era anche preoccu-
pato di rassicurare personalmente i due rabbini capo di Israele della propria inten-
zione di non cedere a nessun costo 2.
Clinton – già da luglio dell’anno scorso a Camp David – aveva cercato di aggi-
rare l’ostacolo Gerusalemme suggerendo delle «soluzioni creative», ponendo l’ac-
cento sulle parole «possesso», «amministrazione» e «autorità» anziché su quella, così
ingombrante, di «sovranità». Ma il gioco di prestigio non è riuscito. Mentre in luglio
le delegazioni negoziavano, la Knesset (il parlamento israeliano) approvava una ri-
soluzione che «blindava» Gerusalemme, abbassando una pesante saracinesca su
ogni tentativo di compromesso. Il 28 novembre 2000 è passata a maggioranza
schiacciante (84 voti contro 19) una legge di rango costituzionale che impedisce
1. Cfr. «Clinton Weighs International Peace Conference», The Jerusalem Post, on-line edition, 7/1/2001.
2. Il rabbinato ha recentemente emesso un pronunciamento religioso secondo il quale l’halachah (la
legge religiosa ebraica) proibisce di concedere la sovranità o la proprietà del Monte del Tempio ai
gentili. «La sovranità è del popolo d’Israele e solo il discuterne rappresenta una profanazione del no-
me di Dio», ha stabilito il gran rabbinato. Cfr. MELCHIOR, «Mount Can also Be Gate to Hell», The Jerusa-
lem Post, on-line edition, 8/1/2001. 93
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ogni cessione di sovranità sulla parte orientale della città 3. Per modificarla occor-
rerebbe la maggioranza assoluta di 61 voti su 120, difficile da raggiungere quando
è in ballo una questione che coinvolge l’identità stessa dello Stato ebraico 4.
La questione di Gerusalemme, ancora una volta, si è rivelata uno dei nodi più
intricati del conflitto arabo-israeliano. Ne era perfettamente consapevole il premier
laburista Yitzhak Rabin quando, il 13 settembre del 1993, firmò la Dichiarazione di
princìpi con Arafat rimandando i negoziati sulla città a tempi migliori. E ne era
consapevole anche il leader del partito di destra Likud, Ariel Sharon, quando, lo
scorso 28 settembre, decise di recarsi sulla Spianata delle Moschee, terzo luogo
santo dell’islam dopo La Mecca e Medina. La visita di Ariel Sharon è stata una frec-
cia mirata direttamente al cuore del problema. Con quel gesto il «falco» israeliano
ha voluto rivendicare la sovranità israeliana sul sito religioso venerato da entrambe
le religioni (gli ebrei lo chiamano «Monte del Tempio», i musulmani Hāram Al-
Sharı̄f, «Nobile Recinto»). All’uscita, parlando con la stampa, la sua voce ha calcato
con enfasi un termine – sovranità appunto – su cui fa perno il braccio di ferro
israelo-palestinese per un accordo di pace 5.
Ma Sharon ha fatto ancora di più, andando a colpire il simbolo più recente del
confronto religioso fra ebrei e musulmani in Palestina: la moschea Al-Marwāni, un
ampio locale di 500 metri quadri posto nei sotterranei dell’Hāram Al-Sharı̄f, cono-
sciuto con il nome di «Stalle di Salomone». Da lungo tempo oggetto di restauri per
essere adibito a luogo di preghiera islamico, esso è stato aperto al culto nel 1996.
Ai reiterati tentativi della municipalità di Gerusalemme di fermare i lavori, i respon-
sabili del Wāqf (l’autorità che sovrintende ai luoghi sacri islamici) hanno sempre ri-
sposto che l’Hāram appartiene ai musulmani e che nessuna legge o autorità israe-
liana potrebbe impedire il proseguimento dei lavori 6. Alcuni studenti israeliani di
archeologia, andando a rovistare fra le macerie degli scavi gettate nella valle del
Kidron, affermarono di aver trovato dei reperti risalenti all’epoca del Primo Tem-
pio. In una regione in cui anche l’archeologia è piegata alla ragion di Stato, le Stal-
le di Salomone potrebbero dunque rappresentare una preziosa testimonianza del
legame fra Popolo Eletto e Terra Santa. E di conseguenza una base solida per le ri-
vendicazioni politiche di Israele.
Il Wāqf all’inizio del 2000 avviò nuovi scavi per creare un’uscita di sicurezza
alla moschea Al-Marwāni. Molti esponenti della destra israeliana colsero l’occasio-
ne per eccitare un’ennesima disputa di impronta nazionalistica: il governo, per-
mettendo ai religiosi islamici nominati dall’Autorità palestinese di esercitare una
vasta autonomia sul Monte del Tempio, aveva indebolito la sovranità di Israele sul

3. Cfr. «Knesset Passes Law to Secure Jerusalem Limits», Ha’aretz, English Internet edition, 28/11/2000
e «Knesset Bolsters Jerusalem Borders», The Jerusalem Post, on-line edition, 28/11/2000.
4. Un sondaggio del 1997 ha dimostrato che l’80% degli israeliani rifiuta di veder sorgere la capitale
dello Stato palestinese a Gerusalemme Est; il 78% si oppone a qualsiasi negoziato sul futuro della città
e il 60% mantiene questa posizione anche se ciò dovesse significare il totale fallimento dei negoziati
di pace. Cfr. Journal of Palestine Studies, n. 103, Spring 1997, pp. 149-157.
5. «34 Injured after Sharon Tours Temple Mt», The Jerusalem Post, Internet edition, 28/9/2000.
94 6. Cfr. The Jerusalem Post, 10/9/1996.
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sito e, di riflesso, sull’intera Gerusalemme. I lavori condotti dalle autorità islamiche


senza alcun controllo del dipartimento delle Antichità di Gerusalemme si sono
presto trasformati in punto di frizione fra ebrei e musulmani. Su questo contenzio-
so si è gettato il falco Sharon. Quando, il 28 settembre 2000, l’esponente del Likud
è sceso lungo le scale che portano al sotterraneo, un gruppo di palestinesi è insor-
to per aggredirlo e gli scontri dell’Intifada Al-Āqsa hanno preso il via.
Il copione di questa rivolta è simile a quello dei disordini del 1996. Oggetto
della discordia furono allora gli scavi condotti dagli israeliani lungo il tunnel che
corre parallelo al Muro Occidentale. Già da tempo gli archeologi avevano annun-
ciato la presenza in quel sito di importanti resti di epoca asmonea. Ma nel settem-
bre del ’96 la situazione degenerò a causa della decisione del governo di destra di
Netanyahu di realizzare la seconda uscita del tunnel in pieno quartiere arabo. La
mossa – nelle intenzioni del premier – avrebbe riaffermato la sovranità esclusiva di
Israele sull’intera Gerusalemme 7. Arafat rivestì la questione di una connotazione
religiosa. Il leader dell’Olp definì la mossa «sacrilega» nei confronti dell’islam e di-
chiarò che gli arabi non potevano assistere inerti alla «giudaizzazione» di Gerusa-
lemme 8. Secondo le autorità palestinesi, obiettivo degli ebrei era minare le fonda-
menta delle moschee e farle crollare per poi riedificare il Terzo Tempio. I disordini
provocarono un’ottantina di morti, in maggioranza palestinesi.

La storia
Simboli e vestigia, dunque. A questo si riduce il valore di Gerusalemme. Una
città la cui importanza strategica è nulla. Situata su una collina brulla, lontana dal
mare, senza corsi d’acqua che la attraversano, la città sembrava destinata a langui-
re al di fuori delle principali rotte commerciali. Ma, attorno all’anno Mille a.C., la
conquista da parte di re David ne cambiò il destino. Secondo la Bibbia, Davide
comprò un terreno dagli originali abitanti gebusei «per cinquanta scicli d’argento»
con il proposito di erigervi «un altare al Signore» 9. Su quel terreno il figlio Salomo-
ne fece costruire un Tempio 10, trasformando definitivamente la capitale politica
del regno in città santa ebraica. Mille anni più tardi la città divenne teatro dei prin-
cipali eventi della missione redentrice di Gesù: la sua predicazione, morte e resur-
rezione. Una tarda esegesi del Corano, infine, individuò in Gerusalemme la meta
del viaggio notturno che portò Maometto dalla Mecca al cospetto di Allah, passan-
do per la sacra roccia dell’Hāram 11.
I romani capirono subito che da quel magma messianico sarebbero sorti infi-
niti problemi. Perciò, dopo aver raso al suolo il Tempio nel 70 d.C., 65 anni più tar-
di fecero altrettanto con la città, mutandone il nome in Aelia Capitolina, edifican-

7. Cfr. Jerusalem Post, 25/9/1996.


8. Cfr. Jerusalem Times, 27/9/1996.
9. II Samuele, 24, 24-5.
10. I Re, 6, 1-13.
11. Sura, 17, 1. 95
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dovi un importante tempio di Giove e cacciandone tutti gli ebrei. Ma non servì a
nulla. I luoghi sacri presto rispuntarono, le battaglie per Gerusalemme anche.
Riconquistata dai crociati al prezzo di un enorme bagno di sangue nel 1099,
Gerusalemme tornò all’islam per opera di Saladino nel 1187, divenendo in seguito
una sonnacchiosa città di provincia dell’impero ottomano (1517). Durante gli ulti-
mi decenni della dominazione ottomana, la città assistette all’aumento progressivo
degli ebrei. Questa comunità nel 1880 ammontava a 17 mila persone, a fronte di 8
mila musulmani e 6 mila cristiani.
Ai primi ebrei, giunti a Gerusalemme per scopi unicamente devozionali, nei
decenni successivi si aggiunsero gli immigranti sionisti. Una parte di questi, per-
meati di un acceso sentimento nazionalista, vedevano nei Luoghi Santi ebraici dei
simboli nazionali oltre che religiosi.
In seguito alla dichiarazione Balfour del 1917 e alla sostituzione del dominio
inglese a quello ottomano il conflitto tra arabi ed ebrei si inasprì. Culminando negli
incidenti dell’agosto del 1929 che – scaturiti da alcune diatribe religiose al Muro
del Pianto ma determinati dal timore arabo di veder nascere uno Stato ebraico in
Palestina – causarono la morte di 133 ebrei. Le vittime da entrambe le parti si mol-
tiplicarono nel corso della rivolta del 1936-’39. Essa, scaturita dal vertiginoso au-
mento dell’immigrazione ebraica in seguito all’avvento del nazismo, riprese con la
fine della guerra e costrinse le autorità mandatarie britanniche a rimettere la que-
stione nelle mani delle Nazioni Unite.

Un regime internazionale
Il 29 novembre 1947 l’Assemblea generale dell’Onu votò la risoluzione 181,
che prevedeva la nascita di due Stati – arabo ed ebraico – l’uno accanto all’altro.
Gerusalemme sarebbe stata trasformata in un corpus separatum sottoposto ad am-
ministrazione internazionale. I suoi confini sarebbero corsi a nord fino a Shu’fat, a
sud fino a Betlemme, a ovest fino a Ein Kārem e a est fino ad Abu Dı̄s (carta 1).
Questa enclave avrebbe ospitato 100 mila ebrei, 65 mila arabi musulmani e 40 mila
arabi cristiani. Al Consiglio di amministrazione fiduciaria dell’Onu venne affidato il
compito di redigere lo statuto della città. Trascorsi 10 anni il futuro di Gerusalem-
me sarebbe stato deciso dalla sua popolazione tramite referendum.
Tuttavia, la realtà seguì un corso diverso. Il 15 maggio ’48, giorno della procla-
mazione dello Stato di Israele, gli eserciti di Libano, Siria, Transgiordania, Iraq ed
Egitto invasero la Palestina. Gli israeliani tennero duro nella parte occidentale di
Gerusalemme, mentre il 28 maggio la Legione araba della Transgiordania occupò
la sezione orientale della città, inclusa la parte vecchia (vedi carta a colori allegata
al volume). La formula del corpus separatum venne riproposta da una nuova riso-
luzione (la 194 dell’11 dicembre ’48), ma nessun provvedimento internazionale
poté mutare la situazione di fatto: Gerusalemme era ormai una città divisa in due.
A niente valsero gli appelli di papa Pio XII, che con le encicliche In multiplicibus
96 curis (24 ottobre 1948) e Redemptoris nostri (15 aprile 1949) chiese l’instaurazione
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di un «regime internazionale» a Gerusalemme, per «garantire la tutela dei santuari»,


assicurare libertà di accesso e di culto, rispettare le «costumanze» e le «tradizioni re-
ligiose» 12. Alla proposta della Santa Sede si opposero i capi religiosi delle comu-
nità cristiane non cattoliche della Palestina, abilmente persuasi dagli israeliani che
il Vaticano mirava all’instaurazione del corpus separatum per estendere la propria
influenza nella regione 13.
L’approvazione di una nuova risoluzione (la 303 del 9 dicembre ’49) che ri-
proponeva l’internazionalizzazione della città provocò la decisa reazione del go-
verno israeliano. Quattro giorni dopo l’esecutivo dichiarò il provvedimento «total-
mente inapplicabile» perché «violava i diritti naturali e storici del popolo che abita
in Sion» 14. Fu deciso di trasferire a Gerusalemme quasi tutti i ministeri e la Knesset.
Il 23 gennaio 1950 il parlamento approvò una risoluzione che dichiarava Gerusa-
lemme capitale dello Stato ebraico. La mossa non venne riconosciuta dal consesso
internazionale. Americani e inglesi furono i capofila di una resistenza che si tradus-
se nel mancato trasferimento delle ambasciate da Tel Aviv.
Per rendere meno amara la pillola dell’internazionalizzazione, il Consiglio di
amministrazione fiduciaria delle Nazioni Unite elaborò uno statuto della città che
distingueva fra la sovranità vera e propria (affidata all’Onu) e l’autorità amministra-
tiva, che sarebbe stata suddivisa fra israeliani (Gerusalemme Ovest), giordani (Ge-
rusalemme Est e quartiere musulmano della Città Vecchia) e comunità internazio-
nale (quartieri cristiano, armeno ed ebraico della Città Vecchia). Il progetto, detto
«piano Garreau», fu presentato nel gennaio 1950, ma si scontrò ancora una volta
con un muro di veti. Nel frattempo era maturata la divisione del mondo in due
blocchi e l’opposizione sovietica alla tesi dell’internazionalizzazione rese più diffi-
cile che mai l’attuazione di questo progetto. La situazione di Gerusalemme rimase
dunque cristallizzata fino all’estate del 1967.

La guerra dei Sei giorni e le sue conseguenze


Il 7 giugno 1967, nel corso della guerra dei Sei giorni, la parte orientale della
città venne occupata dalle truppe ebraiche. Il gran rabbino dell’esercito, il generale
Shlomo Goren, si precipitò al Muro del Pianto e – deciso a rifarsi delle umilianti li-
mitazioni poste al culto ebraico nel corso del Mandato 15 – vi srotolò la Torah e

12. Cfr. L’Osservatore Romano, 24/10/1948 e 17/4/1949.


13. Cfr. S. FERRARI, Vaticano e Israele, dal secondo conflitto mondiale alla guerra del Golfo, Firenze
1991, Sansoni, pp. 142 e 156-157.
14. Cfr. Documents on the Foreign Policy of Israel, vol. 4, doc. 453, Ben Gurion a Sharett, 4/12/1949.
15. La Wailing Wall Commission, creata nel 1930 dalle autorità mandatarie britanniche in seguito agli
incidenti del 1929, aveva stabilito che il Muro del Pianto costituiva parte integrante dell’Hāram Al-
Sharı̄f ed era di esclusiva proprietà islamica. Agli ebrei era riconosciuto il libero accesso al sito ad
ogni ora del giorno, ma gli consentiva di portare con sé solo pochi oggetti di culto. Un regolamento
fissava addirittura le loro dimensioni. Era proibito ad esempio suonare lo shofar, portare sedie, pan-
che, tappeti e paraventi. Queste decisioni vennero adottate dalla commissione permanente dei man-
dati e divennero legge con la promulgazione – l’8 giugno 1931 – del (Western or Wailing Wall) Order
in Council. Cfr. P. PIERACCINI, Gerusalemme, Luoghi Santi e comunità religiose nella politica interna-
98 zionale, Bologna 1997, EDB, pp. 366-368.
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diede fiato allo shofar. Il comandante dei paracadutisti Motta Gur salì sul Monte
del Tempio e issò in cima alla Cupola della Roccia e alla moschea Al-Āqsa due
bandiere israeliane. Ma il ministro della Difesa Moshe Dayan intervenne e ordinò
immediatamente di toglierle. Contemporaneamente affermò che gli ebrei – ora che
erano finalmente riusciti a riunificare la capitale d’Israele – non avrebbero mai più
lasciato i loro siti religiosi. Ai cittadini di fede cristiana e musulmana sarebbe stata
garantita piena libertà religiosa 16. Gli fece eco il primo ministro Levi Eshkol, il
quale rese subito nota la politica che lo Stato d’Israele intendeva perseguire in ma-
teria di Luoghi Santi: custodirli, garantirne il carattere religioso e universale e per-
mettervi il libero accesso senza interferire nella loro amministrazione 17.
Il governo si diede da fare per rimuovere al più presto il confine fra le due par-
ti della città, così da creare di fatto una Gerusalemme unita ed ebraica prima di ogni
possibile intervento dell’Onu. Contemporaneamente l’esecutivo – di cui facevano
parte anche il Partito nazionale religioso e l’Herut di Menahem Begin – prese la
non facile decisione di lasciare la Spianata delle Moschee in mano ai musulmani. La
scelta si basava su due ragioni: realismo e opportunità. Realismo, perché l’ardore di
alcuni gruppi nazional-religiosi ebraici desiderosi di veder ricostruito il loro Tempio
avrebbe prima o poi provocato gravi problemi per l’ordine pubblico. Se qualche
sconsiderato fosse riuscito a distruggere la Cupola della Roccia o la moschea Al-
Āqsa, la reazione dell’intero mondo islamico sarebbe stata incontrollabile. Opportu-
nità, per mostrare alla comunità internazionale che lo Stato d’Israele era equilibrato
e impegnato a rispettare i diritti delle altre religioni. Dayan, il principale artefice di
questa decisione, era un militare e un laico. Non erano i simboli religiosi a interes-
sarlo, quanto piuttosto il mantenimento dell’ordine e la sicurezza dello Stato.
Le preghiere dei musulmani sull’Hāram Al-Sharı̄f ripresero subito dopo la fine
della guerra. Unica differenza con il passato: agli ebrei sarebbe stato consentito
l’accesso al Monte del Tempio. Una stazione di polizia israeliana fu installata sulla
Spianata e le autorità statali requisirono le chiavi di una delle porte di accesso,
quella più vicina al Muro Occidentale. Tutti i territori conquistati durante la guerra
dei Sei giorni vennero posti sotto il regime di occupazione militare. Non così av-
venne per Gerusalemme, che era considerata la «capitale eterna dello Stato di
Israele». Tra il 27 e il 28 giugno 1967 la Knesset approvò tre leggi che comportava-
no di fatto l’annessione della parte orientale della città.
I confini municipali di Gerusalemme vennero allargati, passando da 38 km2 a
108 km2. I suoi abitanti erano ora 263 mila, di cui 197 mila ebrei, 55 mila musulma-
ni e 11 mila cristiani. Nel fissare il nuovo tracciato della città il governo seguì due
criteri: annettere la maggior quantità di territorio ed escludere il maggior numero
di popolazione araba (carta 2).
I palestinesi che abitavano nella parte orientale della città rifiutarono in massa
la cittadinanza israeliana. Da allora gli arabi di Gerusalemme Est hanno mantenuto
16. Cfr. U. NARKISS, The Liberation of Jerusalem, London 1992, Vallentine Mitchell, p. 262.
17. Cfr. J. LE MORZELLEC, La question de Jérusalem devant l’Organisation des Nations Unies, Bruxelles
1979, Bruylant, pp. 421-422. 99
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uno status giuridico schizofrenico: la loro carta di identità è emessa dallo Stato
ebraico e permette loro di godere di tutti i servizi pubblici e sociali erogati da
Israele, ma il loro passaporto rimane quello giordano. Non possono votare per la
Knesset e, nonostante sia concesso loro di eleggere le rappresentanze municipali,
hanno sempre rifiutato di partecipare alle consultazioni, per non fornire una legit-
timazione all’occupazione israeliana della città.
Gli eventi del 1967 provocarono un importante mutamento nella politica della
Santa Sede. L’ipotesi dell’internazionalizzazione territoriale di Gerusalemme non
era più realistica. Il pontefice cominciò allora a sostenere la necessità di applicare
alla città uno «statuto internazionalmente garantito», mirato alla tutela della libertà
di culto, al rispetto e alla conservazione dei Luoghi Santi, «con particolare riguardo
alla fisionomia storica e religiosa di Gerusalemme» 18.

La lotta per il Monte del Tempio


La decisione di Dayan di lasciare il Monte del Tempio in mano ai musulmani
venne facilitata dalla posizione del gran rabbinato di Israele. Un pronunciamento
religioso vietò agli ebrei di salire sulla Spianata. Camminandovi in condizioni di
impurità rituale, infatti, i fedeli avrebbero corso il rischio di profanare il Santo dei
Santi (la parte più sacra del Tempio, quella dove era stata posta l’Arca dell’Allean-
za), la cui esatta ubicazione era sconosciuta.
I problemi iniziarono quando il rabbino Shlomo Goren – compulsando i testi
sacri ed esaminando le teorie di autorevoli archeologi – affermò di aver individua-
to il luogo dove sorgeva il Santo dei Santi. Egli affermò che il sito era situato pochi
metri ad ovest della Cupola della Roccia ed elaborò un intricato elenco di regole
che avrebbero consentito agli ebrei la visita del Monte senza commettere peccato.
Il 12 agosto 1967 Goren, accompagnato da un gruppo di fedeli, si presentò sul-
l’Hāram, ben deciso a tenervi uno speciale servizio religioso. A infuriarsi non furo-
no solo i musulmani. Dayan reagì immediatamente, dando ordini perché in futuro
fosse impedito a Goren l’accesso sulla Spianata, se intenzionato a celebrare il culto.
Goren rimase sempre fedele alla tradizione ebraica secondo cui il Tempio non
poteva essere ricostruito da mani umane. Ma gruppi più radicali come i Fedeli del
Monte del Tempio la pensavano diversamente. Il Muro del Pianto, secondo loro,
era il simbolo della distruzione del Tempio e della sconfitta del popolo ebraico. A
lungo termine i membri di questo gruppo miravano alla ricostruzione del santua-

18. Cfr. in particolare l’allocuzione di Paolo VI del 26 giugno 1967 e il suo discorso del 22 dicembre
1967 al sacro collegio, in E. FARHAT (a cura di), Gerusalemme nei documenti pontifici, Città del Vatica-
no 1987, Libreria Editrice Vaticana, pp. 127-128 e 131-132. Questa posizione è stata più volte ribadita
dalla Santa Sede, la quale in seguito ha precisato che lo statuto internazionalmente garantito deve es-
sere limitato alla Gerusalemme storica (cioè alla Città Vecchia) e che l’applicazione di tale statuto
spetta a qualsiasi potere si trovi ad esercitare la sovranità sulla Città Santa (il che significa l’abbandono
dell’idea di affidare la sovranità ad un organismo internazionale). Cfr. ad esempio il discorso tenuto il
10 aprile 1989 alle Nazioni Unite dal rappresentante vaticano arcivescovo Renato Martino, in Docu-
ments on Jerusalem, Jerusalem 1996, Passia. 101
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rio. Nell’immediato intanto preferivano utilizzare le armi del diritto, combattendo


la loro battaglia a colpi di ricorsi alla Corte suprema e di richieste di riconoscimen-
to del diritto di preghiera sulla Spianata.
Nel 1976 l’Alta corte di giustizia emanò un’importante sentenza. Il diritto di ac-
cesso al Monte veniva confermato. Ma ogni decisione in materia di libertà di culto
era rimessa al governo. Quest’ultimo naturalmente, preoccupato soprattutto di evi-
tare i disordini, mantenne lo status quo imposto da Dayan nove anni prima.
A metà del 1977 in Israele andò al governo la destra di Menahem Begin. La
giurisprudenza della Corte suprema avrebbe consentito al nuovo premier di elimi-
nare il divieto di culto sull’Hāram. Ma nemmeno il leader di destra ebbe il corag-
gio di mutare lo status quo. Tra la fine degli anni Settanta e la metà degli anni Ot-
tanta, numerosi tentativi di far saltare le moschee della Spianata furono sventati sul
nascere dai servizi di sicurezza israeliani o, all’ultimo momento, dalle guardie del
Wāqf. L’8 ottobre 1990 i Fedeli del Monte del Tempio, in piena crisi del Golfo,
giunsero ai piedi della Spianata con un camion che conteneva un enorme masso –
tagliato senza utensili di ferro come prescrivevano i precetti biblici 19 – da posare
sulla Spianata come prima pietra del Terzo Tempio.
Questo gesto si sommò alla frustrazione dei palestinesi, delusi da oltre
vent’anni di risoluzioni dell’Onu a loro favore rimaste inapplicate. All’inizio degli
anni Novanta la comunità internazionale, che pure era corsa a liberare il Kuwait
invaso dall’Iraq, sembrava aver dimenticato completamente la causa palestinese.
L’Intifada intrapresa nel 1987 aveva prodotto come unici risultati un netto peggio-
ramento delle condizioni di vita degli arabi e la nascita del governo più a destra
che lo Stato ebraico avesse mai avuto. Quel mattino di ottobre dunque i palestinesi
si riversarono in massa sulla Spianata, dove sfogarono la loro rabbia lanciando pie-
tre sui fedeli in preghiera al Muro Occidentale e attaccando il corpo di guardia
israeliano. Gli agenti dello Stato ebraico vennero sommersi da una pioggia di og-
getti di ogni tipo. Credendosi in pericolo di vita, cominciarono a sparare alla cieca
sulla folla, provocando 17 morti e 150 feriti 20.

La colonizzazione di Gerusalemme Est


Dopo il 1967 Israele iniziò la costruzione di una serie di insediamenti nella
parte orientale di Gerusalemme per «accerchiare» la parte araba della città e diluir-
ne l’identità con una continua iniezione di coloni ebrei. Nacquero così le colonie
di Betar, Mevasseret Zion, Giv’at Ze’ev e Ma’ale Edomim. Quest’ultimo, nato nel
’75 e divenuto municipio autonomo nel ’91, ospita oggi 25 mila abitanti ed è il più
grande insediamento dei Territori occupati.

19. Es, 20, 25.


20. Le Nazioni Unite, condannando il comportamento dei militari, definirono Israele una «Occupying
Power» e fecero riferimento alla IV convenzione di Ginevra relativa ai territori conquistati con la forza.
Cfr. risoluzione 672 del 12/10/1990 in R. LAPIDOTH-M. HIRSCH, The Jerusalem Question and Its Resolu-
102 tion, London 1994, Martinus Nijhoff, p. 452.
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ISRAELE/PALESTINA, LA TERRA STRETTA

Il 30 luglio 1980 la Knesset promulgò una legge di rango costituzionale (Basic


Law) che proclamava «Gerusalemme unita» capitale dello Stato di Israele 21. I confi-
ni municipali non venivano modificati, né l’amministrazione della città subiva dei
mutamenti. Gerusalemme, però, rimase di fatto una città divisa. Le scuole arabe se-
guivano programmi diversi da quelle israeliane, i palestinesi gestivano un proprio
servizio di autobus, un ospedale, una Camera di commercio, un’azienda per l’elet-
tricità e un Comitato islamico per la gestione degli affari religiosi.
A partire dalla metà degli anni Ottanta nacquero alcuni gruppi estremistici
ebrei dediti all’insediamento di coloni all’interno dei quartieri arabi di Gerusalem-
me Est. I più importanti erano Ateret Cohanim e El Ad, finanziati da facoltosi ebrei
americani e sostenuti dallo stesso governo israeliano. Ateret Cohanim si occupò di
acquistare case nella Città Vecchia, installarvi famiglie ebraiche e proteggerle dal-
l’odio dei musulmani che le circondavano. Nell’aprile del ’90, in piena Intifada, i
membri dell’organizzazione occuparono un immobile anche nel quartiere cristiano
– l’ospizio greco-ortodosso di San Giovanni, posto in prossimità del Santo Sepol-
cro – scatenando una violenta querelle con le comunità cristiane di Gerusalemme
e il governo di Atene 22.
La specializzazione di El Ad, invece, è soprattutto l’insediamento di ebrei nel
quartiere arabo di Silwan, luogo altamente simbolico perché sede dell’antica città
di Davide. Secondo i membri di questo gruppo, prima dei pogrom degli anni Venti
due terzi della popolazione del quartiere erano ebrei. Obiettivo di El Ad è dunque
ristabilire questa proporzione con il progressivo acquisto di terre dagli arabi e il
trasferimento di famiglie ebraiche 23.
Per frenare il trasferimento di case e terre dalle mani dei palestinesi a quelle
degli ebrei, nel maggio del ’97 il mūfti di Gerusalemme Akrāma Sābri ribadì la vali-
dità di una fātwa emessa settant’anni prima dal suo predecessore Hajj Amı̄n Al-
Hussēini. L’ordinanza religiosa proibiva ai musulmani di vendere terre agli ebrei,
pena l’espulsione dalla comunità dei credenti. Alla morte di un «traditore» non si
sarebbero svolti regolari funerali e la salma non sarebbe stata sepolta in un cimite-
ro musulmano..Non meno drastica la presa di posizione dell’Autorità palestinese, il
cui ministro della Giustizia affermò che le transazioni da arabi a ebrei andavano
considerate come «un’infamia» ed avrebbero dovuto essere punite con la condanna
a morte «in modo sommario» 24.
All’inizio del ’97 il governo Netanyahu diede il via libera alla costruzione di un
nuovo insediamento a sud-est della città. Le ruspe israeliane si presentarono sulla
collina di Har Homa (Jābal Abu Ghnēim per gli arabi) il 18 marzo, accolte da un

21. Cfr. R. LAPIDOTH-M. HIRSCH, op. cit., p. 322.


22. All’interno della Città Vecchia, fuori dal quartiere ebraico, alla fine del 1997 Ateret Cohanim aveva
insediato una sessantina di famiglie e fondato cinque yeshivot (scuole religiose ebraiche). Inoltre, il
movimento stava curando il restauro di altri diciotto appartamenti per continuare l’opera di colonizza-
zione. Cfr. The Jerusalem Post, 21/11/1997.
23. A metà del 1998 El Ad era complessivamente in possesso di ventuno abitazioni nel quartiere di
Silwan. Cfr. The Jerusalem Post, 9/6/1998.
24. Jerusalem Times, 16/5/1997. 103
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GERUSALEMME: UN ACCORDO IMPOSSIBILE?

migliaio di palestinesi intenzionati a dare battaglia. Per costruire il complesso


(6.500 appartamenti per 30 mila abitanti, tutti ebrei), il governo aveva espropriato
una sessantina di ettari dai vicini villaggi arabi di Um Tūba e Bēit Sahūr. Nonostan-
te le violente dimostrazioni arabe e la condanna delle Nazioni Unite, la costruzio-
ne del quartiere di Har Homa completò l’accerchiamento: Gerusalemme Est era or-
mai circondata da una fascia esterna di insediamenti ebraici che impedivano ogni
sviluppo edilizio a favore della prolifica popolazione araba.
Il 25 aprile l’Assemblea generale dell’Onu votò la risoluzione ES-10/2, che
condannava tutte le misure prese per alterare lo status e la composizione demo-
grafica di Gerusalemme. La risoluzione auspicava l’adozione di garanzie interna-
zionali per assicurare libertà di religione e di coscienza e libero accesso ai Luoghi
Santi per i fedeli di tutte le religioni e nazionalità 25. Queste ultime frasi riecheggia-
vano le proposte della Santa Sede per la Città Santa, che nel 1994 avevano ottenu-
to il sostegno incondizionato da parte di tutti i capi religiosi cristiani di Palestina 26.

La Grande Gerusalemme
Nel maggio del ’97 il quotidiano Ha’aretz svelò un progetto segreto della mu-
nicipalità e del ministero dell’Interno chiamato «Allon Plus». Il riferimento era al
piano Allon, elaborato negli anni Settanta, che prevedeva tra l’altro la creazione di
una «Greater Jerusalem» attraverso l’espansione dei confini municipali. Sarebbero
stati inclusi nella città i villaggi arabi di A-Rām, A-Tūr, Abu Dı̄s e gli insediamenti
ebraici di Ma’ale Edomim ad est, Beit El e Givat Ze’ev a nord e Gush Etzion a sud,
per un totale di 440 km2, il 15% della Cisgiordania (carta 3). Il piano avrebbe com-
promesso definitivamente la possibilità dei palestinesi di far valere i loro diritti sul-
la Città Santa. A lungo termine l’Allon Plus mirava a raddoppiare il numero degli
abitanti ebrei di Gerusalemme e a chiudere definitivamente ogni corridoio tra la
città e la West Bank 27.
L’idea della Grande Gerusalemme non era nuova. L’aveva avanzata per la pri-
ma volta il governo Shamir all’inizio degli anni Novanta, quando Israele si trovò a
fronteggiare l’ondata di emigranti dall’ex Unione Sovietica. Rabin la riprese nel ’95,
ma senza mai trasformarla in un progetto dettagliato.
Dal ’67 al ’95 gli israeliani espropriarono per gli insediamenti oltre due terzi
dei terreni di Gerusalemme Est. All’inizio del 1996 – quando la città contava
602.100 abitanti, di cui 180.900 arabi e 421.200 ebrei – nel settore orientale venne
25. Cfr. Journal of Palestine Studies, n. 104, vol. XXVI, Summer 1997, pp. 151-153.
26. Questi, il 4 novembre 1994, resero noto un documento comune nel quale chiesero per Gerusalem-
me uno status speciale, che riflettesse la sua importanza universale. La città era troppo preziosa per di-
pendere da una sola autorità politica, qualsiasi essa fosse. Questo status speciale – stabilito in comune
da autorità politiche e religiose locali e garantito dalla comunità internazionale – avrebbe dovuto fare di
Gerusalemme una città aperta, in grado di rimanere estranea ad ogni sorta di conflitti politici. Il docu-
mento era firmato dai patriarchi latino, greco-ortodosso e armeno, dai vescovi copto, etiope, siriano, lu-
terano, anglicano e dai vicari patriarcali maronita, melchita e siro-cattolico di Gerusalemme. Cfr. Jerusa-
lem Times, 9/12/1994.
104 27. Cfr. Palestine Report, vol. 5, n. 2, 6/1998.
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ISRAELE/PALESTINA, LA TERRA STRETTA

Carta 3 Località
La Grande palestinesi
(area C)
Gerusalemme CONFINI DESIGNATI
DA ISRAELE PER:

la Gerusalemme
metropolitana
Ramallah la Grande
Gerusalemme

la municipalità
di Gerusalemme
Popolazione
< 3000
3000-6000
>6000
Gerusalemme
Est

Città
Gerusalemme Vecchia
Ovest
ISRAELE Abu Dı̄s

Betlemme
I S R A E L E

Aree israeliane CISGIORDANIA


e insediamenti La Gerusalemme
costruiti
o progettati metropolitana
Area di
insediamenti
palestinesi
Zone autonome
Gerusalemme
palestinesi
(area A e B)
Località
palestinesi Hebron
(area B) 105
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GERUSALEMME: UN ACCORDO IMPOSSIBILE?

raggiunta la parità demografica tra le due comunità (360 mila abitanti complessiva-
mente). Tra il 1967 e il 1995 solo 9 mila appartamenti furono costruiti per i palesti-
nesi di Gerusalemme, mentre ne vennero edificati ben 65 mila per gli ebrei 28.
Alla fine del ’95 il governo israeliano adottò una nuova misura per combattere
la battaglia demografica di Gerusalemme: la cancellazione dello status di «residenti
permanenti» ai palestinesi della parte orientale della città, che permetteva di fruire
di alcuni servizi erogati dallo Stato ebraico. Precedentemente la carta d’identità az-
zurra veniva ritirata quando un palestinese rimaneva lontano da Gerusalemme per
sette anni o otteneva un passaporto estero. Da quel momento invece la qualità di
residente venne revocata a tutti i palestinesi incapaci di dimostrare che Gerusalem-
me era al centro della loro vita 29. Ma ben presto la mossa si rivelò un boomerang
per gli israeliani, dato che i palestinesi tornarono in massa nella città per non per-
dere i propri diritti di residenti.
Nel ’98 il governo Netanyahu, allarmato dalle previsioni demografiche che ve-
devano la popolazione araba in netta crescita rispetto a quella ebraica, ripropose
ufficialmente il piano della Greater Jerusalem. Le proteste dell’Onu e della Comu-
nità Europea costrinsero Netanyahu a rallentare la realizzazione del piano. Il pro-
getto venne infine abbandonato a causa della caduta del governo e dell’opposizio-
ne delle piccole municipalità situate nella parte Ovest di Gerusalemme, che non
volevano saperne di essere accorpate nella città. Il nuovo premier, il laburista
Ehud Barak, non fu però più flessibile. Già in campagna elettorale dichiarò di con-
siderare Gerusalemme capitale unica ed indivisibile dello Stato ebraico, nel conte-
sto del progetto della Greater Jerusalem 30.

Alcune proposte di soluzione


A partire dal 1967, un gran numero di studiosi, politici e organizzazioni pacifi-
ste avanzarono proposte per la soluzione del problema di Gerusalemme. Adnan
Abu Odeh, ex ambasciatore giordano presso le Nazioni Unite e fidato consigliere
di re Hussein, nel 1992 propose di dichiarare la parte vecchia di Gerusalemme uno
«spiritual basin» sottratto alla sovranità di tutti gli Stati e amministrato da un consi-
glio delle massime autorità delle tre religioni. Nella parte orientale della città nuova

28. Tra il 1967 e il 1995 furono confiscati ben 23 mila dunum (circa 23 mila ettari) di terra per fini
pubblici da proprietari privati arabi, usati per costruire case per gli ebrei: un concetto di «pubblico»
che Meron Benvenisti trova veramente singolare, se si considera che solo il «pubblico» ebraico ne ha
potuto beneficiare. Cfr. M. BENVENISTI, City of Stone. The Hidden History of Jerusalem, Berkeley-Los
Angeles-London 1996, University of California Press, p. 155.
29. L’annuncio della fine di questa politica è stato dato nell’ottobre 1999 dal ministro dell’Interno del
governo Barak, Nathan Sharansky. Secondo fonti palestinesi, le carte d’identità ritirate fino a quel mo-
mento erano state 2.800; e siccome assieme ai genitori perdevano il diritto di residenza anche i figli, il
totale di questo «esodo silenzioso» aveva interessato circa 11 mila persone in cinque anni. Cfr. A. AN-
TONELLI, «Notorious ID Policy Ended», Palestine Report, vol. 6, n. 18, 20/10/1999.
30. Secondo le linee guida del governo Barak, «Greater Jerusalem, the eternal capital of Israel, will re-
main united and complete under the sovereignty of Israel». Cfr. Journal of Palestine Studies, vol.
106 XXIX, n. 113, Autumn 1999, p. 139.
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ISRAELE/PALESTINA, LA TERRA STRETTA

la sovranità sarebbe stata attribuita allo Stato palestinese, in quella occidentale allo
Stato ebraico 31.
Contemporaneamente, il palestinese Sāri Nussēibeh (membro del comitato di-
rettivo dell’Autorità nazionale palestinese) e l’israeliano Mark Heller (ricercatore
presso il Jaffee Center for Strategic Studies dell’Università di Tel Aviv) presentarono
un piano che prevedeva una Gerusalemme unita, amministrata da un Consiglio
municipale eletto da tutti i suoi residenti. A livello inferiore l’autorità amministrati-
va sarebbe stata suddivisa in quartieri. Quelli arabi sarebbero stati gestiti da una
municipalità palestinese, quelli ebraici da una municipalità israeliana 32.
John Whitbeck, esperto americano di diritto internazionale vicino alle posizio-
ni palestinesi, presentò il suo progetto per la prima volta nel 1989, ma lo ripropose
più volte nei primi mesi del 1996. La sua ipotesi prevedeva una sovranità congiun-
ta sulla città unita. Gerusalemme sarebbe dovuta diventare un condominium, con
un sistema di consigli di quartiere e con un’ampia possibilità di commerci e contat-
ti fra una zona e l’altra. Al culmine del processo di pacificazione, infine, la Città
Santa sarebbe stata completamente smilitarizzata 33.
Un progetto ulteriore – forse il più dettagliato e famoso – venne elaborato nel
1993 dall’organizzazione non-profit Ipcri (Israel-Palestine center for research and
information). Palestinesi e israeliani avrebbero dovuto redigere una «Jerusalem
Charter» con i confini della città e la suddivisione dei poteri fra le comunità. La giu-
stizia sarebbe stata amministrata da uno speciale tribunale misto. La polizia sareb-
be stata composta in ugual parte da israeliani e palestinesi. Ogni cittadino di Geru-
salemme avrebbe potuto scegliere la propria lingua (fra arabo, ebraico e inglese),
la propria scuola e il proprio culto. Il delicato problema della sovranità era affron-
tato secondo il modello della scattered sovereignty: la città sarebbe rimasta unita,
ma le diverse aree sarebbero state sottoposte alla giurisdizione israeliana o palesti-
nese a seconda della composizione demografica. I nuovi confini di Gerusalemme
sarebbero stati tracciati con l’intento di includervi anche la popolazione araba che
era stata volutamente esclusa nel 1967. Il governo cittadino avrebbe potuto essere
diviso in due tronconi (uno affidato agli israeliani, l’altro ai palestinesi), oppure es-
sere amministrato congiuntamente dalle due comunità in base al loro peso demo-
grafico. Il principio che ha ispirato gli autori del modello – al di là della sua effetti-
va realizzabilità – è quello dell’unità nella diversità 34.

L’accordo Beilin-Ābu Māzen


Alcune delle idee avanzate in questi piani furono fatte proprie dal ministro
israeliano Yossi Beilin e da Ābu Māzen, segretario del Comitato esecutivo dell’Olp.

31. «Two Capitals in an Undivided Jerusalem», Foreign Affairs, vol. 70, n. 2, Spring 1992, pp. 183-88.
32. No Trumpet no Drums: A Two State Settlement of the Israeli-Palestinian Conflict, New York 1991,
Hill and Wang.
33. «The Road to Peace Starts in Jerusalem», Middle East International, 14/4/1989 e «Jerusalem: The
Condominium Solution», Jerusalem Times, 15/3/1996.
34. The Future of Jerusalem. Proceedings of the First Israeli-Palestinian International Academic Se-
minar on the Future of Jerusalem, Jerusalem 1993, Ipcri. 107
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GERUSALEMME: UN ACCORDO IMPOSSIBILE?

I due, nel corso di lunghi colloqui segreti, elaborarono un piano che avrebbe do-
vuto servire come base per le trattative previste per il maggio 1996. Queste, secon-
do le scadenze determinate a Oslo, avrebbero dovuto condurre alla firma della pa-
ce definitiva.
Il piano prevedeva una Gerusalemme aperta e indivisa. I limiti municipali sa-
rebbero stati estesi fino ai villaggi arabi di Abu Dı̄s, Eyzarı̄ya, A-Rām e A-Zāim e agli
insediamenti ebraici di Maale Edomim, Giv’at Ze’ev e Giv’on. La «City of Jerusalem»
così ottenuta sarebbe stata amministrata da un «Joint Higher Municipal Council». A
due sub-municipalità – elette separatamente dagli abitanti dei quartieri israeliani e
palestinesi – sarebbero stati affidati importanti poteri amministrativi, come la tassa-
zione, i trasporti pubblici, la gestione del sistema educativo, la pianificazione abita-
tiva e del territorio. L’Olp avrebbe riconosciuto la parte amministrata dalla sub-mu-
nicipalità ebraica come capitale dello Stato ebraico (Yerushalayim). Quest’ultimo
avrebbe riconosciuto la parte amministrata dalla sub-municipalità araba come capi-
tale dello Stato palestinese (Al-Quds). La sovranità sulle restanti sezioni della città –
in pratica la parte orientale – sarebbe stata determinata da un comitato israelo-pale-
stinese da formarsi entro il 5 maggio 1999. Le parti avrebbero riconosciuto la speci-
ficità del ruolo religioso e spirituale di Gerusalemme impegnandosi a garantire li-
bertà di culto e di accesso ai Luoghi Santi e uno speciale status alla Città Vecchia, al-
l’interno della quale due sub-municipalità sarebbero state responsabili per le que-
stioni municipali riguardanti i rispettivi cittadini. Questi due organi avrebbero nomi-
nato un «Joint Parity Committee» per l’amministrazione di tutte le materie relative al-
la preservazione del carattere unico di quest’area. Allo Stato di Palestina sarebbe
stata riconosciuta «sovranità extraterritoriale» sull’Hāram Al-Sharı̄f, la cui ammini-
strazione sarebbe stata affidata al Wāqf di Al-Quds. Sull’Hāram sarebbe stato mante-
nuto lo status quo riguardo al diritto di accesso e di culto. La chiesa del Santo Sepol-
cro sarebbe stata per il momento amministrata dalla sub-municipalità palestinese. Il
controllo dei beni e delle persone sarebbe avvenuto ai punti di uscita della città. Gli
israeliani che fossero rimasti entro le frontiere dello Stato palestinese sarebbero stati
soggetti alla sovranità palestinese. A coloro che avessero avuto il domicilio perma-
nente entro lo Stato palestinese al 5 maggio 1999 sarebbe stata offerta la possibilità
di divenire cittadini palestinesi o rimanere «alien residents» 35.
L’accordo fu completato dopo un anno e mezzo di trattative il 30 ottobre del
’95, pochi giorni prima dell’assassinio di Rabin. Il suo successore Shimon Peres
preferì mantenerlo segreto per ragioni elettorali, visto che già il suo avversario
Benyamin Netanyahu stava incentrando la campagna elettorale sullo slogan «Peres
dividerà Gerusalemme».
Ma presto le indiscrezioni filtrarono e i palestinesi, alla luce della fredda acco-
glienza riservata da Peres all’intesa, la sconfessarono pubblicamente 36. L’ultrade-
stra israeliana cercò di ostacolare la realizzazione del progetto Beilin-Ābu Māzen
35. Cfr. Ha’aretz, 21/9/2000.
36. Ciò non impedì ad Arafat di continuare ad avanzare per Gerusalemme una soluzione analoga a
quella adottata per il Vaticano con il Concordato del ’29: una città aperta a tutte le fedi, indivisa e capi-
108 tale sia dello Stato ebraico che di quello palestinese.
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ISRAELE/PALESTINA, LA TERRA STRETTA

creando dei fatti compiuti favorevoli agli ebrei. Irving Moskovitz, un miliardario
ebreo americano grande finanziatore di Ateret Cohanim, possedeva un terreno e
alcune abitazioni nel villaggio di Ras Al-Amud, esattamente a metà strada tra Abu
Dı¯s e la Spianata delle Moschee. Moskovitz, appoggiato dalla municipalità di Geru-
salemme – ben deciso ad interrompere la continuità territoriale tra la futura capita-
le palestinese (Abu Dı¯s/Al-Quds) e l’Hāram Al-Sharı̄f – ottenne l’autorizzazione
per la costruzione di un complesso di 132 appartamenti, mentre in quelli già esi-
stenti si insediarono alcune famiglie di attivisti del movimento Ateret Cohanim.

Il fallimento del vertice di Camp David


L’11 luglio del 2000 il presidente Clinton convocò un vertice tra israeliani e pa-
lestinesi, nella speranza di concludere il proprio mandato con un accordo di pace
sul Medio Oriente. Le due delegazioni rimasero chiuse nella tenuta presidenziale
di Camp David fino al 25 luglio. Per la prima volta gli israeliani discussero aperta-
mente della divisione di Gerusalemme con i loro partner abbandonando la posi-
zione, tenacemente mantenuta fino a quel momento, di concedere ai palestinesi
un’autonomia amministrativa più o meno estesa sulla parte orientale della città.
Nonostante questo passo avanti, sulla Città Santa si registrarono le divergenze
più gravi, che portarono al fallimento dei negoziati e, alla fine di settembre, allo
scoppio della nuova Intifada.
Durante i colloqui di Camp David i mediatori statunitensi, sempre alla ricerca
di «soluzioni creative», attinsero a piene mani all’accordo Beilin-Ābu Māzen. Mentre
l’approccio degli israeliani prevedeva la ricerca dell’accordo su un particolare per
volta, i palestinesi chiesero di partire dai princìpi generali. Ancor prima di iniziare
a negoziare, secondo Arafat, Barak avrebbe dovuto riconoscere la sovranità pale-
stinese su Gerusalemme Est.
Nei giorni seguenti emersero alcune proposte interessanti per il futuro della
città. Distinguendo fra «sovranità» e «autorità funzionale», gli israeliani proposero di
affidare la gestione autonoma dei quartieri a maggioranza araba di Gerusalemme
Est ai palestinesi e di trasformare Abu Dı̄s/Al-Quds nella tanto agognata capitale.
In cambio i confini municipali della città sarebbero stati allargati secondo il model-
lo della «Greater Jerusalem».
Sull’ambiguità fra autorità e sovranità si giocarono il destino della Città Vec-
chia e della Spianata delle Moschee. Per un attimo sembrò che l’accordo potesse
essere raggiunto: ai palestinesi l’Hāram, il quartiere musulmano e quello cristia-
no, agli israeliani il Muro Occidentale e i quartieri ebraico e armeno della Città
Vecchia 37. Sulla moschea Al-Āqsa e sulla Cupola della Roccia avrebbe potuto
sventolare la bandiera palestinese come «simbolo di sovranità», ma senza sovra-
37. I capi delle comunità cristiane espressero la loro opposizione all’idea di porre il quartiere armeno
sotto la sovranità israeliana, dato che i cristiani della Città Vecchia sarebbero rimasti divisi. Essi reitera-
rono la loro proposta – che ricalcava quella da loro avanzata nel 1994 e da sempre espressa dalla San-
ta Sede – di garantire a quella parte di città uno «statuto internazionalmente garantito» in grado di assi-
curare libertà di accesso e di culto per i credenti delle tre religioni monoteistiche. 109
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GERUSALEMME: UN ACCORDO IMPOSSIBILE?

nità effettiva (carta 4). Il responsabile israeliano per i servizi di sicurezza, Israel
Hasson, arrivò a proporre uno statuto speciale per la Città Vecchia, gestita con-
giuntamente e controllata da un corpo di polizia misto.
Ma alla fine i discorsi di principio sovrastarono la ragionevolezza. «Non accet-
teremo altro che Gerusalemme Est come capitale sottoposta alla nostra sovranità»,
dichiarò Arafat a Clinton. A sua volta Barak replicò che nessun leader israeliano si
era spinto tanto in là nelle concessioni, e che di cessione della sovranità non si sa-
rebbe nemmeno potuto parlare. In extremis Clinton avanzò un’altra proposta per
sciogliere il nodo più difficile dei negoziati: l’Hāram sarebbe rimasto sotto la so-
vranità israeliana, ma la sua gestione sarebbe stata affidata al Consiglio di sicurezza
dell’Onu e al Marocco, presidente in quel momento del Comitato Al-Quds che riu-
nisce i paesi arabi. Anche questa ipotesi venne respinta da Arafat con una lettera a
Clinton datata 25 luglio.
In un’intervista concessa al suo ritorno in patria, Barak confermò di essere di-
sposto a riconoscere in Al-Quds la capitale palestinese, in cambio dell’annessione
nei confini municipali di Gerusalemme di Givat Ze’ev, Ma’ale Edomim e Gush Et-
zion. «Gerusalemme», dichiarò il premier, «non sarà mai stata così grande dai tempi
di re David, e con una maggioranza ebraica così solida. Sarà, unita e sotto la sovra-
nità di Israele, la nostra eterna capitale» 38. I toni erano inconciliabili. Il vertice era
fallito, ma aveva riproposto Gerusalemme come chiave dei negoziati fra i due po-
poli, dando il via a un nuovo filone di proposte 39.
Il 31 agosto il presidente egiziano Hosni Mubarak propose di aspettare 5 o 10
anni per una soluzione definitiva della questione di Gerusalemme. Nel frattempo
israeliani e palestinesi avrebbero convissuto in una città unita, ma con due ammi-
nistrazioni distinte. Avrebbero pregato e svolto funzioni di polizia l’uno accanto al-
l’altro. L’idea venne subito respinta dagli israeliani.
Una nuova proposta sollevata da Egitto e Stati Uniti all’inizio di settembre pre-
vedeva il trasferimento della sovranità sul Monte del Tempio ai membri permanen-
ti del Consiglio di sicurezza. L’idea era sostenuta anche dalla Francia, ma non ot-
tenne l’assenso israeliano.
Per risolvere la questione della Spianata gli americani inventarono anche una
tesi innovativa, che prevedeva la divisione dell’Hāram in quattro sezioni: il piazza-
le, le due moschee, il Muro Occidentale e il sottosuolo, ognuna con diverse grada-
zioni di autorità per ebrei e palestinesi. La sovranità sul Luogo Sacro, suggerirono
americani ed egiziani, non sarebbe stata assegnata a nessuno Stato, ma a Dio stes-
so. Il significato di questa formula era tutt’altro che chiaro. Alcuni pensarono che
l’idea potesse essere associata alla proposta di un’amministrazione congiunta israe-
lo-palestinese, con un coinvolgimento in essa delle varie comunità religiose. Altri
fecero riferimento ad uno statuto in grado di definire, in termini funzionali, le com-
petenze delle varie comunità; una commissione mista sarebbe stata incaricata di ri-
solvere gli eventuali conflitti tra le parti e un comitato inter-religioso sarebbe stato
38. «Jerusalem and Al-Quds will Be Side by Side», Jerusalem Post, 28/9/2000.
39. Un resoconto dettagliato del vertice è in «Israel-Palestine: Camp David, une impossible negocia-
110 tion», Le Monde, 28/12/2000.
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ISRAELE/PALESTINA, LA TERRA STRETTA

Carta 4
Porta di Erode

Porta di Damasco
QUARTIERE
MUSULMANO

Città Spianata
Porta Porta dei Leoni
Nuova Vecchia delle
Moschee

Muro
QUARTIERE occidentale
del Tempio Cupola Porta dorata
CRISTIANO della
(resti nel
sottosuolo) Roccia
Santo
Sepolcro

Porta
di Jaffa Muro Moschea
del Pianto Al-Aqsa

QUARTIERE
QUARTIERE EBRAICO
CISGIORDANIA
ARMENO
Confine di
Porta Gerusalemme
dell’immondizia araba

ISRAELE
Porta
di Sion Città
Vecchia
Israeliani

Palestinesi 100 m

responsabile dei Luoghi Santi. Ziād Abu Ziād, uno dei negoziatori palestinesi, af-
fermò che questa formula si sarebbe tradotta nel controllo militare arabo
dell’Hāram. Il sindaco di Gerusalemme Ehud Olmert ovviamente la interpretò in
modo opposto, ritenendo che essa significasse il mantenimento dello status quo
sul Monte del Tempio.
Si giunse così all’incontro del 25 settembre tra Arafat e Barak, che non produs-
se il minimo risultato. Di fronte ad un processo di pace che non ne voleva sapere
di decollare – come era successo nell’ottobre del 1990 e nel settembre 1996 – i pa-
lestinesi presero spunto da una provocazione legata al Monte del Tempio per dare
sfogo alla loro frustrazione. Il primo tragico bagno di sangue aveva riportato il loro
dramma all’attenzione della comunità internazionale. Così nell’ottobre 1991 – li-
quidata la questione del Golfo – si aprì la conferenza di Madrid, che fu il prologo
della storica Dichiarazione di princìpi del 13 settembre del 1993. Dopo i fatti del
1996, invece, Netanyahu fu costretto sedersi al tavolo delle trattative con Arafat e a 111
093-116/LiMes/Pieraccini-Dusi 27-01-2001 13:38 Pagina 112

GERUSALEMME: UN ACCORDO IMPOSSIBILE?

siglare l’accordo su Hebron. La presente Intifada invece – benché a differenza de-


gli altri due episodi sia uno scontro prolungato dai costi umani e materiali incalco-
labili per ambedue le parti – non ha prodotto per il momento i medesimi risultati.
Ciò è dovuto al fatto che si stanno affrontando i punti più delicati del processo di
pace, di cui Gerusalemme è senza dubbio il più spinoso.
I recenti avvenimenti hanno confermato quanto l’insanabile disputa per il
Monte del Tempio continui a rappresentare il più difficile e pericoloso fattore del
conflitto nazional-religioso tra arabi ed ebrei. Gerusalemme e la sua sacra Spianata
sono viste da ambedue le parti come un potente simbolo di identità nazionale.
Con l’attivismo e l’intransigenza ostentata in questi ultimi anni riguardo al-
l’Harām Al-Sharı̄f, i palestinesi hanno voluto affermare la loro autorità sul luogo
sacro. Sul fronte israeliano, nondimeno, è cresciuto negli ultimi anni il consenso al-
le attività di quei gruppi, come i Fedeli del Monte del Tempio, che combattono per
il riconoscimento della sovranità ebraica sulla Spianata. Alcuni deputati di destra
hanno recentemente chiesto al gran rabbinato di rimuovere il divieto di pregare sul
Monte del Tempio. In questo modo, ha affermato Shaul Yahalom del Partito nazio-
nale religioso «si mostrerebbe a Clinton e agli ebrei di tutto il mondo che il Monte è
davvero il sito più sacro dell’ebraismo e una parte inseparabile dello Stato» 40.
Il problema di Gerusalemme è estremamente complesso. L’inestricabile lega-
me tra religione e politica che lo caratterizza rende infatti difficile una soluzione
che risponda ai tradizionali meccanismi del diritto internazionale.
Sulla base di questi dati di fatto le proposte avanzate dal presidente Clinton a
Washington sembravano raggiungere un buon compromesso, prevedendo la so-
vranità palestinese sulla Spianata delle Moschee, sui quartieri musulmano e cristia-
no della Città Vecchia, sui quartieri a maggioranza araba fuori le mura e sui villaggi
posti ad est, immediatamente fuori dei confini municipali. Agli israeliani sarebbero
rimasti il Muro Occidentale 41, il quartiere ebraico e parte del quartiere armeno
dentro le mura, gli insediamenti costruiti dopo il ’67 all’interno dei confini munici-
pali e quelli situati immediatamente all’esterno, da annettersi alla municipalità al-
largata. Sempre agli israeliani sarebbe stata riconosciuta la sovranità sul sottosuolo
della Spianata, dove dovrebbero trovarsi i resti dell’antico Tempio. Ciò come ga-
ranzia che gli scavi compiuti dal Wāqf non danneggino eventuali vestigia ebrai-
che 42. Da questa proposta si potrebbe ripartire per negoziare con la mediazione
della nuova amministrazione americana. Ma solo quando israeliani e palestinesi si
saranno decisi ad abbandonare le proprie linee di principio e si mostreranno in-
tenzionati a muovere dei passi l’uno nella direzione dell’altro.
40. Cfr. The Jerusalem Post, 8/1/2001.
41. Riguardo al Muro del Pianto rimane da risolvere il problema se si debba affidare a Israele la sola
parte dove da secoli gli ebrei si raccolgono in preghiera o l’intera lunghezza del Muro Occidentale
della Spianata: quest’ultima ipotesi permetterebbe agli ebrei di entrare in possesso anche del tunnel
sotterraneo scavato dagli israeliani a partire dal 1968 e la cui seconda uscita è stata realizzata nel set-
tembre 1996 nel quartiere arabo.
42. Il Santo Sepolcro e la gran parte degli altri luoghi santi cristiani fuori le mura resterebbero affidati ai
palestinesi; questa soluzione, che non sarà gradita a gran parte della comunità cristiana locale e alla
Santa Sede, è comunque in linea con quella adottata a Betlemme, dove l’altro importante santuario del-
112 la cristianità – la basilica della Natività – è amministrato ormai da cinque anni dall’Autorità palestinese.

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