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ONNIPOTENZA E KENOSIS: UNA TEOLOGIA TRINITARIA IMPERIALE

Aspetti della polemica anti-ariana nel "De fide" di Ambrogio


(Milano, 3 aprile 2012)

TESTO PROVVISORIO
Avendo scelto di occuparmi del De fide di Ambrogio (339-397), opera al tempo stesso centrale (per impegno, tema, spessore) e marginale (redatta nel primo periodo del suo episcopato), non intendo qui affrontare n la questione complessa della datazione dellopera (com noto, gli studiosi oscillano nel collocarne la stesura tra il 378-380 il primo blocco prima o dopo il disastro romano di Adrianopoli subito da Valente ad opera dei Goti il 9 agosto 378? ; cf. le tesi divergenti di Palanque, Faller, Barnes, Gottlieb, Vison da una parte e Palanque dallaltra), n quella assai dibattuta penso in particolare alle tesi del mio maestro Simonetti, di Nautin, Cantalamessa, Moreschini, Williams, Barnes, Markschies delleventuale originalit di Ambrogio in ambito trinitario o della doverosa contestualizzazione storica del trattato nella controversia ariana. Precisando che, con prudente consapevolezza dei miei limiti, ho scelto di seguire umilmente e pedissequamente il testo, mi pare che lindubbia originalit teologica di Ambrogio appartenente allalta aristocrazia romana e governatore della provincia dellItalia settentrionale, prima di essere ordinato nel 374 vescovo a furor di popolo, dopo una sua ferma, ma vana resistenza non sia affatto da cercare nellambito dellapprofondimento teologico-speculativo del mistero trinitario, ove davvero non riesco a scorgervi alcun tratto davvero originale e profondamente innovativo: in proposito sufficiente mettere a raffronto il De fide atanasiano (non sempre, eppure troppo spesso dipendente dalle fonti greche di Atanasio, Didimo, Basilio, oltre che da Ilario) con tre capolavori assoluti, straordinari proprio per originalit, innovazione di prospettiva, creativa potenza di assimilazione, quali il De trinitate di Ilario di Poitiers, lAdversus Arium di Mario Vittorino e, ovviamente, il De trinitate di Agostino. Trovo invece straordinario il contributo di Ambrogio, proprio in quanto teologo occidentale e romano, alla definizione della portata teologico-politica del dogma trinitario, cos come alla definizione di una spiritualit e di unetica cristiane specifiche del cristianesimo latino, capaci di condizionare il processo di definizione di una peculiare dottrina della giustificazione, che trover in Agostino il suo punto di approdo, per quanto originalissimo, radicalmente innovativo, per certi aspetti catastrofico (nel senso etimologico del termine) rispetto a questa tradizione che lo sorregge. Il mio titolo, pertanto, intende alludere ambiguamente sia alla dimensione teologico-trinitaria, che alla dimensione eminentemente teologico-politica e teologico-spirituale del De fide. Mi pare, cio, che per il latino Ambrogio il Figlio non sia tanto Logos, quanto Virtus, Potentia, Potestas, atto imperiale di dominio, allinterno del quale si innesta la logica della gratuit, quindi una teologia della kenosis, del sospendersi o del nascondersi misericordioso dellonnipotenza. Nel De fide impressionante e sempre altamente signiticativa la frequenza dei termini virtus (103 volte), potestas (126; anche nel De Trinitate di Ilario, i termini virtus e potentia ricorrono con altissima frequenza), potentia (25), omnipotentia/omnipotens (59), regnum (70), imperium/imperialis/imperator/imperare (55), dominatus/dominatio (18), victor/victoria (12), triumphus/triumphator (8), tropeum (5). Il De fide sarebbe, insomma, un trattato trinitario eminentemente latino, anzi romano e persino imperiale: come se linsistenza antiariana sullonnipotenza del Figlio, sulla sua virtus divina, sulla sua potenza di mediazione, non potesse essere disgiunta dalla retractatio del potere assoluto politico in ambito teologico; come se la corrispondente adorazione del kenotico paradosso cristologico illuminasse il costituirsi ambrosiano di unantropologia profondamente venata dallombra della fragilit e del peccato, quindi di una spiritualit dellumilt e della confessione del peccato (debbo molto in proposito agli studi di Vison), corrispondente allesaltazione della potenza dellatto di mediazione che nel Verbo trinitario si compie, donando la grazia eminentemente teologico-politica della redenzione. A partire dallevidente ambrosiana svalutazione della dimensione logica (e greca!) della ricerca teologica, si tratta insomma di rimettere in questione il paradigma schmittiano-petersoniano (con tutte le sue interne tensioni manifeste e latenti): cercare cio di comprendere se e in quale maniera la nozione neonicena di Trinit cominci a configurarsi come assolutizzazione teologica di un modello politico della potenza assoluta di dominio e di grazia, eppure niente affatto come sacralizzazione del potere imperiale, bens come progressivo svuotamento dellautonomia del potere romano, per subordinazione analogica al nuovo, veramente assoluto potere trinitario (cf. DeFide I,10,62). Cristo, simul onnipotente e kenotico, diviena allora il momento di mediazione e contaminazione tra categorie del potere teologico e categorie del potere politico, ma nella direzione di unirriducibile disdetta o meglio retractatio

di questultimo. In questa prospettiva, non soltanto lindagine trinitaria del De fide che pure esordisce con accenti in apparenza umilissimi, a dettare lassoluta deferenza del vescovo nei confronti dellimperatore finalmente niceno deve essere analizzata con la massima attenzione, proprio perch attestante questo slittamento politico-teologico, che giudico di portata storica davvero epocale. Tornando alle tesi petersoniane sul monoteismo come problema politico e sul peculiare, paradossale, politicamente non analogabile monoteismo trinitario cristiano come dispositivo di svuotamento, disattivazione della sacralit del potere terreno, contro Peterson bisognerebbe riconoscere che, almeno in Ambrogio e nelloccidente latino, anche il dispositivo trinitario niceno determina un meccanismo teologico-politico di analogazione da parte del potere politico terreno, capace di determinare concettualmente il configurarsi ontologico della potenza e della modalit operativa della Potestas o dellImperium trinitari; daltra parte, con Peterson, il potere terreno non viene affatto sacralizzato dalla sua trinitaria assolutizzazione, ma al contrario desacralizzato, paradossalmente secolarizzato dalla sua divina e ingrata proiezione. Unulteriore precisazione: ovviamente, soltanto lindagine dei testi trinitari di Ambrogio consente di comprendere con sistematicit il definirsi della sua pratica teologico-politica, segnata dagli scontri con il potere senatoriale romano relativamente allaltare della Vittoria e con lo stesso potere imperiale relativamente alla convivenza tra culto niceno e culto ariano a Milano o relativamente alla penitenza imposta a Teodosio in seguito al massacro di Tessalonica. In questa prospettiva, il De obitu Theodosii mi pare testo di rilevanza epocale, proprio perch segna il compiersi di una precisa strategia teologico-politica, che pure realizza quello che Ambrogio pensa trinitariamente, indigando la natura di Dio come assoluto e indiviso potere operante. Questo intimo, strutturale legame tra teologia politica pratica e teologia politica trinitaria di Ambrogio assai poco originale a livello teoretico-speculativo, eppure straordinariamente efficace e influente a livello teologico-politico , per quanto di enorme portata storica e culturale, mi pare non sia mai stato, fino ad oggi, indagato. Ancora una premessa, che mi pare coerente con quanto appena affermato: quello che colpisce, nella lettura del De fide, la sua prudente e strategica opzione per unindagine scritturistica, piuttosto che per unindagine dialettico-speculativa; opzione tradizionale e tradizionalistica, dunque specificatamente antiariana in quanto antiinnovativa. Eppure, questo scelta strategica si spiega non soltanto con lindubbia mediocrit di Ambrogio in quanto teologo speculativo (basti, appunto, un raffronto con limpressionante sicurezza dellintuito teologico di Ilario, con le spregiudicate analisi gnosticheggianti di Mario Vittorino o con le abissali speculazioni di Agostino); essa si spiega anche con quello che in una formula definirei come origenismo moderato, eminentemente cattolico, mediatogli da Atanasio e Didimo in ambito greco e da Ilario in ambito latino. Limitandomi alla matrice, Origene, mi permetto di citare un mio recente saggio sullesegesi origeniana del vangelo di Matteo (Commentario mutilo e Series latine), che ho interpretato come riduzione ermeneutica delle differenze scritturistiche, in prospettiva cattolica e sistematicamente antignostica. Attraverso la dialettica ermeneutica che Ambrogio deriva sia da Origene, che da Atanasio e Ilario , le diverse prospettive cristologiche dei testi cristiani primitivi vengono progressivamente compattate in un sistema cristologico a due livelli quello delluomo Ges, quello del Cristo Logos , che diviene una straordinaria macchina di metabolizzazione delle differenze. Ora, il medio del greco Origene era lamore logico tra il Logos e lintelletto di Ges; il medio del latino Ambrogio mi pare divenire la nozione di onnipotenza kenotica, di imperiale assunzione dellumilt nellassoluto e di rivelazione dellassoluto nellatto di grazia. Questa novit mi pare degna della massima considerazione nella storia delle dottrine teologiche. In effetti, la teologia ariana il tentativo ambiguo e logicamente indoddisfacente di rendere ragione di entrambe le due serie (almeno due!) di affermazioni neotestamentarie relative alla natura di Ges; semplificando, quelle paoline-sinottiche, di tipo monarchiano-adozionista, e quelle giovanee, deuteropaoline e dellEpistola agli Ebrei, che esaltano la divinit personale del Figlio, dio presso il Padre, Immagine creativa di Dio, riflesso eterno della sostanza del Padre. Larianesimo proporrebbe insomma una dialettica dellintelletto, che unificando le due serie di affermazioni quelle divine e quelle umane , finisce per non mediarle; si abbassa cio lidentit alta di Ges, con lo scopo di renderla conciliabile con lassunzione ontologicamente degradante di una piena umanit. Larianesimo contaminerebbe la nozione assoluta di divinit con quella di umanit, degradando contraddittoriamente la natura del Figlio divino: Pia mens, quae leguntur, secundum carnem divinitatemque distinguit, sacrilega confundit et ad divinitatis detorquet iniuriam quidquid secundum humilitatem cernis est dictum (V,8,115). La concezione ortodossa, in particolare (neo)nicena, logicamente assai pi convincente, speculativamente razionale, proprio perch mantiene le due serie di affermazioni nella loro radicale differenza, senza che luna determini la svalutazione dellaltra, ma mediandole allinterno di un dinamismo dellonnipotenza. Nella natura personale di Cristo, divino e umano si identificano e si scambiano di propriet, senza che questo significhi diminuzione della perfezione assoluta del Figlio.

Ma passiamo ad una cursoria analisi del De fide. Gi nel Prologus del I libro (I,Prol,1-3), lesaltazione del sanctus imperator Gratianus (lespressione torna in I,18,121; II,15,132; II,16,139), culmina nellaffermazione della dipendenza della grandezza umana e dellimperiale successo in guerra dal carisma di Dio, dalla grazia elettiva dello Spirito, dalla mediazione del sacerdote/Abramo. La logica quella di una divaricazione tra umano e divino, che solo nella mediazione di Cristo e della chiesa pu essere tenuta. La programmatica affermazione di Ambrogio che preferisce cohartandi ad fidem subire officium quam de fide disceptandi, opponendo religiosa confessio ad incauta praesumptio giustifica la sua strategia: de fide pauca disceptare, piuttosto che de testimoniis plura contexere (I,Prol,4), significa prospettare la decisiva superiorit dellautorit potente rispetto ad ogni genere di sediziosa controversia. La fede ortodossa si fonda sullumile accettazione del potere della rivelazione, non sullempia, superba libido disceptandi, la dialectica disputatio (I,5,42), che intende subordinare la natura di Dio allindagine razionale delluomo; pretesa di restituire la nuda evidenza scritturistica ed esaltazione della potenza di Dio vanno di pari passo, connettendosi allencomio del potere imperiale divinamente convertito allortodossia. Cos, i termini di officium e negotium paiono suggerire proprio il compito di altissimo funzionario di Dio, che ad un solo capo deve fare riferimento. Si propone pertanto un sistematico parallelismo tra la potenza politica terrena e la sovraordinata, assoluta potenza teologica; sicch i vescovi che sconfiggono leresia sono pensati nella prospettiva della potenza imperialistica e romana: fidei virtute victores toto orbe subactis perfidis, essi possono esibire il tropeum del trionfo divino (I,Prol,5). Non a caso, nellExpositio fidei che apre il trattato, colpisce linsistenza, anche etimologica, tra la nozione di Deus e quella di dominari, dominatio, sicch Deus est nomen magnificentiae, nomen est potestatis (I,1,7); pertanto, il timor reverenziale al cospetto del potere che questa dominatio ontologica impone: Dominus ergo et Deus vel quod dominetur omnibus vel quod spectet omnia et timeatur a cunctis; ne deriva che se c unus Deus, unum nomen, potestas una est trinitatis (I,6,8; cf. V,1,16-18): lunit integra del potere ci che identifica non soltanto Dio in quanto assoluto, ma la stessa Trinit come potenza: plenitudo divinitatis et unitas potestatis (I,1,10). Per segnalare lassoluta centralit dei termini potestas/potentia/regnum/virtus allinterno della definizione trinitaria ambrosiana, mi limito a rinviare ai paragrafi conclusivi del De Spiritu Sancto (III,22,169-170; ma cf. ad es. II,4: Unitas honoris, unitas potestatis; e II,1,17-2,24, in part. 24: Una virtus, eadem potestas unum regnum) e ai paragrafi conclusivi del De Incarnationis Dominicae Sacramento (10,114-116). Al contrario, Ario e gli ariani vengono accusati di dividere come i pagani, in senso davvero demoniaco: cf. Mc 3,24-26 lunit indissolubile del potere divino: essi credono in plures et dissimiles potestates (I,1,6); contro di lui, Ambrogio afferma, appunto riprendendo Mc 3,24-26, che non divisum est regnum trinitatis; si ergo divisum non est, unum est (I,1,11). Linsistenza sullempiet della logica divisiva ariana ha unevidente tratto teologico-politico: Tale ergo regnum esse cupiunt Trinitatis, quod divisione sui facile destruatur (I,1,11). Con la disgregazione del concetto di Trinit divina si mina la nozione stessa di potestas, quindi di potere politico; affermazione che ad un imperatore doveva suonare immediatamente inaccettabile e sediziosa. Contro di essa, Ambrogio ribadisce la repulsa differentiae (I,3,27), a partire dalla partecipazione assoluta di Padre, Figlio, Spirito Santo (cf. I,4,31) allunit indivisibile del potere: in dominatione divinitas et in divinitate dominatus est (I,3,26). Il potere assoluto naturalmente intatto; non tollera nessuna differenza: Una natura, et maxime Dei, diversistatem non recipit (I,16,102). Luna dominatio (I,3,26), seppure si dispiega in opera diversi, postula loperationis unitas (I,3,25). Impressionante un passaggio del III libro del De fide, ove a partire da 2Pietro 1,10-11, ove si afferma aeternum imperium Dei et Domini nostri conservatoris Iesu Christi Ambrogio afferma, con lunit della Trinit, unum imperium Patris et Filii (III,12,92). La Trinit ununit imperiale, la pienezza ontologica dellassolutezza indivisibile del potere! Il potere che si pone e fonda come natura assoluta! La differentia, violentemente espulsa dalla nozione di natura e potestas divine, diviene al contrario il perno della tradizionale confessione cristologica di Ambrogio: la rivelazione di Cristo si concentra, infatti, nella differentia divinitatis et carnis (I,4,32); la naturalis maiestas (I,4,32) si nasconde nellumile, mortale fragilit della carne; la laudatio potestatis (I,4,33) si garantisce attraverso il confinamento della sottomissione alla componente umana, carnale di Cristo, immunizzando in senso antiariano lindivisibile, incondizionata assolutezza del potere sovrano di Dio. Ma dire potere, significa dire natura, integra perfezione dellessere, assenza di distruttiva differenza: Quid est enim virtus nisi perfecta natura? (I,5,39). Ontoteologicamente, soltanto lindivisibilit del potere rivela la natura, cos come soltanto la natura assoluta pu fondare qualsiasi potere. Torna pertanto la condanna dellariano come empio sedizioso; servendosi della filosofica dialectica disputatio, egli capace soltanto di studium destruendi, e non di adstruendi vis: demolisce e non costruisce, o meglio non in grado di

riconoscere religiosamente il regnum Dei, significativamente onorato da unubbidiente subordinazione, rivelata dalla simplicitas fidei, fondata sulla (postulata, ovviamente) evidenza scritturistica, eversivamente negata dalleretica contentio sermonis (I,5,41). Per questo, corrotti dalla dialettica filosofica, pure ormai messa ovunque a tacere dallimporsi della fede (cf. I,13,84), gli ariani affermano Trinitatem differentis divinitatis et dissimilis potestatis (I,13,85). La logica eretica una logica dellalterazione, della divisione, della differenza, quindi delleversiva decostruzione del proprio, quel proprium, quella proprietas che, in I,17,110, definisce lindivisibile naturalis maiestas di Dio, nellunitas ontologica nella quale il Figlio non differens potestate (I,17,112), perch la potenza di Dio nel possesso della divinit (virtus Dei in divinitatis proprietate); proprietas substantiae indifferentis (I,11,68). Leresia, pure nelle differenti modalit nella quale si esprime disgregando il mistero trinitario, una perfidia, impietate non dissonans, communione discordans, non dissimilis fraude, sed coitione discreta (I,6,44). La concorde propriet dellarianesimo sta, infatti, nella empia pretesa di usurpare, sindacandola, la trascendente assolutezza della potestas divina: Facinus indignum divinae generationis examen sibi adrogent, vindicent potestatem (IV,8,92). In un rapido passaggio di I,16,104, lariano (che finge di onorare Cristo, mentre in realt lo nega, dividendo la natura di Dio) viene significativamente paragonato con termini quasi schmittiani al nemico interno, a chi introduce una guerra civile, alla malattia intestina, da identificare e cacciare dalla casa, dalla res publica come estraneo: Detastabilior enim domesticus hostis quam extraneus. Non a caso, Ario e i suoi dissennati seguaci sono paragonati ad una cancrena da amputare, attivando il sistema immunitario del potere ortodosso: Recide quod putruit, ne serpat contagio; venenum habet, mortem adfert (III,16,132; cf. V,Prol, 4-5). Dividendo ontologicamente Padre e Figlio, affermando un Figlio posterior et recens rispetto al Padre, quindi alienus (I,11,68), gli ariani ipsi se scindunt (I,6,45) in una pluralit di sette (Eunomio, Aezio, Palladio, Demofilo, Aussenzio). La stessa morte ormai tradizionalmente leggendaria di Ario, esemplata su quella altrettanto leggendaria di Giuda, dichiara il suo immondo crepare, il suo spaccarsi, squarciarsi, disperdersi, divenendo resto ed escremento. Essere ortodosso significa, al contrario, sottomettersi senza disputare, accogliere la subordinazione allimmutabile potere assoluto, confinare la logica della differenza nel mistero dellincarnazione, che insegna nellonnipotenza rivelata dalla kenosis il dovere dellumile sottomissione della carne alla gloria, della mortalit alla natura una e indivisibile. Significativamente, se Dio onnipotente, non manca di nulla, quindi non pu patire alcun divenire sostanziale, non pu avere n initium n profectus: Namque omnipotens Deus est et ideo nullo eorum Pater indiget, qui non habet mutationem sui aliquam vel profectum quo nos egemus (I,12,75). La stessa generazione del Figlio, contratta nellidentit onnipotente della natura, non innova Dio, non opera in lui mutatio (cf. I,9,58-60). La potestas inusitata (I,12,76) comunque si compie nella admirabilis generatio ex virgine (I,12,77); ma in questa convergenza tra assolutezza del potere e kenotica innovazione dellincarnazione comandata lassoluta, attonita ubbidienza, in quanto latto di fides atto (eminentemente romano!) di sottomissione teologico-politica: Credere tibi iussum est, non discutere permissum (I,12,78). Non a caso, sottolinea Ambrogio, i padri niceni hanno condannato, negli anatematismi, i sacrilega docmata (I,18,118) di Ario, censorie, con una condanna che non ammette appello n discussione argomentata (expositio), per evitare qualsiasi perversa curiositas nei confronti delle loro dottrina: ut credat (I,18,118; cf. II,15,132). Soltanto la fede, la sottomissione umile al cospetto della onnipotenza del Dominus pu garantire della retta teologia, che confessione della sottomissione alla potenza e alla sua grazia misericordiosa; non a caso il I libro si conclude con una confessione di immunditia, al cospetto della misericordia purificatrice di Dio; la stessa che invocata perch venga a santificare le orecchie dellimperatore Graziano, purificato da ogni alienante eresia (cf. I,20,124) e sobriamente invaso dallebrezza ortodossa del pacificante amore di Dio (perch possa vino tuo crapulatus pacem diligere: I,20,136). Sulla riaffermazione delluna maiestas trinitaria, della sua perfetta concordia si apre (cf. II,Prol,2) il II libro del De fide, che pure riafferma in polemica antiariana: omnipotens est Dei Filius (II,4,34), sottolineando come laffermazione scritturistica dellonnipotenza di Dio, non essendo specificata come propria del Padre soltanto, da estendere allo stesso Figlio (cf. II,5,39, a partire da 1Tim 6,15); ermeneutica del tutto forzata, seppure funzionale alla metabolizzazione della cristologia bassa (sinottico-paolina) a quella alta (giovannea e deuteropaolina). Sicch, non ergo Pater solus potens, sed potens etiam Dei Filius (II,5,39). Comunque, addentrandosi allinterno del mistero cristologico, si ribadisce la dialettica, attiva nel Figlio, tra prearogativa naturae et privilegium potestatis (II,2,20) da una parte e kenotica logica della grazia dallaltra. La logica dellincarnazione , infatti, una logica di grazia, di accondiscendenza da parte dellonnipotenza, non divisa dalla natura, ma soltanto dalla sospensione non certo dallannullamento del suo potere: Ostendit etiam Filius distantiam generationis et gratiae (I,14,90), sicch nel nascere da Maria Dio si piega a divenire uomo sottomesso a

Dio: questi qui pater semper erat, ex illo Deum sibi esse, ex quo de matris ventre iactatus est (I,14,91). Questo consente sulla scia di Origene, Atanasio, Ilario, eredi della tradizione protocattolica di riferire una seria di passi di cristologia bassa (ad es. Atti 2,36 in I,15,95) alluomo Ges, rendendoli compatibili con i passi neotestamentari di cristologia alta. Lariano, che nega la cristologia alta, crocifigge Cristo, mente feralis (I,17,114), la sua unintelligenza omicida; anzi, pretende follemente di uccidere il potere assoluto di Dio, la sua maiestas, piuttosto che la sua carne. In Cristo, invece, onnipotenza e mortalit convivono, ove quella capace di assumere questa, senza esserne minimamente svuotata, dominando quindi la logica della kenosi: Non turbatur ut Virtus, non turbatur eius divinitas, sed turbatur anima, turbatur secundum humanae fragilitatis adsumptionem Caro passa, divinitas autem mortis libera [est] (II,7,56-57); in tal senso, Cristo non quasi in maiestate sua crucifixum putemus (II,7,58); come Ambrogio affermer nel III libro, alia carnis infirmitas, alia divinitatis aeternitas; mors carnis est, inmortalitas potestatis (III,3,21). La logica della potenza, della maest, dellimpero non compatibile con la minorit, riservata allumanit assunta, quindi introdotta in Dio, ma per esservi immunitariamente neutralizzata: Nam quomodo potest minor esse Deus, cum Deus perfectus et plenus sit? Sed minor in natura hominis!... Non minor natus, sed minoratus per susceptionem corporis minoratus (II,8,61-63). Contro gli ariani, la minorit del Figlio non statica, ontologica, ma dinamica, appunto kenotica, pertanto contingente, storica, transeunte. Dio in s non pu che essere lAssoluto Signore dellEssere, quelluna potestas che, rivelandosi come univocamente operante, esclude qualsiasi diversitas in s: Nam quemadmodum eadem operatio diversae est potestatis? (II,8,70). Interessantissima, in proposito, la forzata interpretazione di 1Cor 2,4: Regnum Dei, sicut scriptum est, non in persuasione verbi est, sed in ostensione virtutis. Servemus distinctionis divinitatis et carnis (II,9,77); la potenza rivelativa paolina, la dynamis carismatico-escatologica, diviene in Ambrogio ontologica, assoluta, quindi identificata con il regno, limpero della Trinit. Levento del dono si trasformato in logica della potenza assoluta dellessere, in regno della natura di Dio che costituisce qualsiasi nozione di autorit e di potere. La logica della carne davvero tolta nellonnipotenza: assunta come intima rivelazione del regno, essa finisce per essere risolta in manifestazione paradossale della virtus ontologica del Figlio trinitario. Significativamente, luna potestas, luna voluntas si risolve governativamente in una praeceptio (II,10,86), nel mores docere (II,10,88). In questo senso, la logica kenotica di una potestas assoluta che si sospende induce a voler moraliter (II,11,89) convertire il nemico teologico, leretico, senza volerlo annientare: Non vogliamo vincere, ma sanare, non agiamo insidiosamente, ma ammoniamo religiosamente. Saepe flectit humanitas, quos nec virtus potuerit superare nec ratio (II,11,89). Lhumana benevolenza lunico atto che pare superiore alla manifestazione assoluta della virtus, della potestas, che comunque, in realt, non tarder a fare sentire la sua assoluta sovraordinazione. Non a caso, il mistero cristologico non nega la potestas assoluta di Dio, ma si limita a nasconderla: In cruce pendebat et elementa ei omnia serviebant (II,11,96). Nascosta, la potenza assoluta non pu che mettere alla prova, per poi giudicare. Lariana mancata confessione dellomnipotentia Christi, soltanto nascosta e non soppressa nella croce, si traduce, pertanto, in una certa condanna per perversa insubordinazione: allariano che dice a Cristo, Omnipotentem non arbitror, questi risponde: Non possum ergo tibi tua peccata donare (II,13,108). Il perdono dei peccati dunque possibile soltanto allinterno di una riconosciuta logica dellonnipotenza, della miserircordia del potere assoluto nei confronti delle suddite ragione e volont della creatura. La raccomandazione di bona caritas et mansuetudo (II,15,133) nellumile sottomissione allassoluta potestas della Trinit nellaccettazione di una fides puramente recettiva, non indagata dialetticamente dalla ragione eretica (cf. II,15,132-134), culmina nella celebre, martellante, impressionante invocazione alla guerra santa, alla guerra nicena, alla guerra in nome della potestas trinitaria intrapresa dallimperatore Graziano (cf. II,16,136-143). Romanit e ortodossia nicena sono saldate con un atto di straordinaria audacia teologico-politica, che conferma senza residua ombra di dubbio la natura teologico-politica, assolutamente imperiale della teologia trinitaria di Ambrogio. I barbari, i Goti contro i quali la civilt romano-cristiano-nicena scende in battaglia sono identificati con gli eretici ariani, che devono rassegnarsi dimenticata ogni caritas et benevolentia ad essere annientati dalle stesse armi di Dio.
Ma io non devo, o imperatore, trattenerti pi a lungo, poich tu sei intento alla guerra (bello intentus) e stai meditando come riportare vittoriosi trofei tra i barbari (victricia de barbaris tropaea meditans). Avanza apertamente, protetto dallo scudo della fede, impugnando la spada dello Spirito, avanza verso la vittoria gi promessa nei tempi passati e profetizzata dagli oracoli di Dio. Infatti Ezechiele gi in quei tempi profetizz che avremmo avuto una devastazione e ci sarebbero state guerre contro i Goti (cf. Ezech 39,10-12) Codesto Gog il Goto (Gog iste Gothus est) (II,16,136 e 138).

Lapocalittico Gog che da Ezechiele passa nella battaglia escatologica di ApGv 20,8 identificato con il Goto (per una polemica contro questa etimologia, cf., oltre a Girolamo, Agostino, De civitate Dei XX,11), con il barbaro da sterminare, per di pi ariano, portatore di tantae impietatis nefas (II,16,141); la polemica politica contro la strategia della federazione dei barbari si salda con la polemica antiariana, sicch soltanto lassoluta potestas di Dio pu garantire la civilt della fede, operando tramite limperiale, romano potere di Graziano convertitosi allortodossia. Anzi, i rovesci precedenti contro i barbari riferimento alla disfatta di Valente ad Adrianopoli il 9 agosto del 378? , la violazione sacrilega dellimpero sono collegati direttamente ai cedimenti imperiali alleresia: ut ibi primum fides Romano imperio frangeretur, ubi fracta est Deo (II,16,39); la fides antiariana lunica garanzia della fides s, della fides nel potere assoluto romano, garantito dalla potestas assoluta di Dio soltanto se ortodosso, in quanto coloro che hanno voluto violare fidem, tutos esse non posse(II,16,141). Gli orrendi barbarici motus (II,16,140) disgregavano il potere mondano romano, sottoponendolo ad una sinistra, distruttiva, proprio perch arianamente divisiva, feralis custodia (II,16,140). Il II libro uno dei vertici della teologia imperiale postcostantiniana si conclude pertanto con uninvocazione al Dio degli eserciti, allassoluta potestas teologico-politica, perch affermi il suo governo assoluto sulla chiesa e sul mondo; direttamente nomen et cultus di Cristo dovranno guidare gli eserciti di Graziano, dotato non pi di mens lubrica, sed fides fixa (II,16,142).
Mostra ora chiaramente un segno della tua maest (tuae maiestatis indicium), affinch colui che crede che tu sei vero Signore delle potenze (Salmo 45,8e12) e condottiero della milizia celeste (Giosea 5,14), che tu sei la vera potenza e sapienza di Dio (1Cor 1,24), non certo temporale, n creata, ma eterna, come sta scritto potenza di Dio e divinit (Rom 1,20), confidando nellaiuto della tua maest (tuae maiestatis auxilio) meriti i trofei della sua fede (fidei suae tropaea mereatur) (II,16,143).

Fede ortodossa e potere assoluto sono tuttuno: appunto, una potestas, nel nome di CristoDio! Non a caso il III libro che inaugura la II parte dellopera si apre con la dedica a Graziano, nella quale si ricorda dellincarico attribuito ad Ambrogio, chiamato a divenire teologo in assetto di guerra (quasi in procinctu) (III,1,1); il riferimento slitta nuovamente dalla guerra antibarbarica alla guerra antieretica, ove larianesimo nuovamente (cf. I,6,46-47) identificato con le mitiche Idra e Scilla (cf. III,1,3-4), quindi con le sirene capaci di far naufragare tra le concupiscenze mondane la barca dellimpero niceno. Che la dialettica tra potere imperiale e obbedienza alla sua grazia misericordiosa sia lasse sul quale ruota lintero De fide mi pare provato da un rivelativo excursus in III,4,27-34, dedicato a sottolineare, ancora una volta, il nascondimento della potenza assoluta nella carne mortale. Il passo uno straordinario tentativo di coordinare due serie di affermazioni neotestamentarie del tutto contrastanti, le prime nellaffermare limperare e il donare, le altre nellaffermare il rogare e il mereri (III,4,29); contro gli ariani, che affermano che sempre il Figlio rogat, in quanto non pu imperare come autentico Dio, necessario riconoscere la misteriosa distantia tra il rogare quasi filius hominis e limperare quasi filius Dei (III,4,32; cf. IV,5,53-56 e 6,71), diversamente attestati dalla Scrittura. Bisogna insomma attingere la dialettica di distinti aliud incarnationis aliud potestatis (III,4,33) , che lonnipotenza inalienabile di Dio opera nella sua kenosi rivelativa. Soltanto la Dei virtus, la Dei potestas , pertanto, la via superna (III,7,51) della fede ortodossa; soltanto la comune, imperiale maiestas virtutis di Padre e Figlio quellassoluto principium in grado di giustificare qualsiasi potere, anche quello terreno: Ex illo enim accepit virtus unaquaeque principium (III,7,52). Questo principio gli ariani contraddicono, dividendo regnum et imperium della Trinit, dividendo potestate (III,12,94) Padre e Figlio, che al contrario :
Mi chiedo come possano volere che sia diviso (divisum) il regno (regnum) del Padre da quello del Figlio, dal momento che il Signore ha detto: Ogni regno diviso in se stesso facilmente sar distrutto (Mt 12.25). E per questo motivo, onde eliminare il sacrilegio della stoltezza ariana, anche il santo Pietro asser lunit dellimpero del Padre e del Figlio (unum imperium Patris et Filii) Dicant igitur unum esse regnum Unum rgnum, unum imperium esse Patris et Filii una divinitas plenitudo divinitatis una divinitas (III,12,92-93; 95; 101-102; cf. 99).

Il IV libro si apre con il ribadimento dellopposizione tra una teologia che potremmo definire critica e inevitabilmente scettica, cio incredula, in quanto fondata sulla humana scientia (IV,1,1) e sulla propria opinio (IV,1,2), ed una teologia che potremmo definire dogmatica, in quanto fondata sulla

scripturis oboedientia (IV,1,1) e sulla fides (IV,1,2), sullutilit dellignorare contrapposta allinutilit dello scire (V,17,211). Limperialismo teologico-politico non pu che produrre un imperialismo dogmatico-eccelsiastico. Contro la degradazione ariana di un mediatore alienato dalla pienezza della natura divina proprio perch divenuto partecipe del destino umano della morte, Ambrogio afferma il trionfo vittorioso di Cristo nellatto stesso della sua kenosi; nihil exinanitus amiserat (IV,1,6), colui che trionfa sulla morte. Debuit tamen novo victori novum iter parari; semper enim victor tamquam maior et praecelsior aestimatur (IV,1,7). Nella sua ascensione al cielo, Cristo esaltato come limperatore cosmico che rivela universalmente agli stessi angeli stupefatti e ammirati novam pompam, novam gloriam (IV,1,10). Alla pari del Padre, risorto dalla morte e manifestando la sua potestas divina, Cristo si rivela Dominus virtutum rex gloriae (Ps 23,10). I cieli sono, pertanto, paragonati ad un palazzo imperiale, ad una corte chiusa e protetta: Custoditur aula imperialis (IV,2,14); soltanto chi riconosce la sua onnipotenza, potr umilmente partecipare della sua corte. Quis me admittet, nisi omnipotentem adnuntiem Christum? Clausae sunt portae, non cuicumque aperiuntur, non quicumque vult, nisi qui fideliter credat, ingreditur (IV,2,14). Davvero la fides rivela qui la sua ancipite natura di atto teologico e atto politico, di esperienza carismatica di donazione e di fedelt ubbidiente alla potenza assoluta.
Dunque si innalzeranno le tue porte, se credi che il Figlio di Dio eterno, onnipotente, inestimabile, incomprensibile, capace di conoscere tutto il passato e tutto il futuro. Se invece pensi che abbia una potenza e una scienza limitata (praefinita potestas et scientia) e che sia soggetto (subiectus), non hai accesso, innalzandoti, alle porte eterne. Si innalzino dunque le tue porte, affinch Cristo entri in te, non secondo la concezione ariana, piccolo, debole e soggetto (non Arriano sensu parvulus, non pusillus, non subditus), ma entri nella forma di Dio, entri con il Padre, entri tale quale e, oltrepassando il cielo e tutte le cose, ti mandi lo Spirito Santo Devi onorarlo e, come servo (famulus), non devi togliere nulla al tuo Signore. Non permesso di ignorare: disceso perch appunto tu creda. Se non credi [alla sua onnipotenza divina], per te non ha patito Come proprio dellamore aggiungere, cos proprio dellodio togliere. Chi odia, suscita questioni; chi ama, rende onore (qui odit quaestiones movet, qui amat reverentiam defert) (IV,2,22-23 e 26).

La teologia ariana dellinfirmitas ontologica del Figlio viene trionfalmente vanificata: ad esempio, interessantisima la confutazione del tentativo ariano di extenuare le affermazioni giovannee sullunit tra Padre e Figlio, assimilata alla spirituale unitas devotionis et fidei che lega Dio e uomini (cf. IV,3,33-34). Sottomissione umile alla fede, rifiuto del vano questionare razionale, confessione di Cristo come imperatore assoluto, asservimento a Cristo come Signore che partecipa dellidentica unitas divinitatis et magnitudo potestatis (IV,3,30; cf. 35), dunque riconoscimento dellonnipotenza della Trinit, si tengono insieme. Non , insomma, possibile concepire il dogma trinitario neoniceno, n la spiritualit della fede umile che vive di grazia (Ipse Virtus qui virtutem fortibus largitur: IV,4,42), n il costituirsi del dogma preservato dalle pretese critiche della razionalit umana, senza introiettarvi una teologia imperiale dellonnipotenza. Linfirmitas di Cristo non ontologica, ma eletta dalla sua misericordiosa magnanimit, dunque segno della sua imperiale accondiscendenza: Non ille debilis, qui aliorum debilitates imperiali sermone sanabat (IV,5,53). Linfirmitas di Cristo pertanto soltanto oggetto di indulgentia (V,5,65), persino di misericordiosa e salvifica dissimulazione; egli preferisce presentarsi come inferiore al Padre, per educare i discepoli a non riporre in lui speranze terrene: Sanctus et bonus, qui mallet aliquid dissimulare de iure quam de caritate deponere (V,5,64); Verum ea est in scripturis consuetudo divinis, ut Deus dissimulet se nescire quod novit plusque amat nostram utilitatem instruere, quam suam potentiam demonstrare (V,17,219-18,220). Ma in realt, dotato di un potere niente affatto alieno da quello assoluto del Padre (non aliena potestas: IV,10,121), nel deporre la sua anima Cristo si rivela pienamente dotato della potestas sua et libera voluntas. Daltra parte, lassunzione della carne testimonia della presenza di una straordinaria sensibilitas nel Figlio: neque insensibilis in Filio natura neque debilitas neque imperitia neque servitus potest esse (IV,5,59). In termini evidentemente politico-giuridici, Ambrogio ribadisce che lessere eternamente generato dal Padre del Figlio non testimonia certo inferiorit, dipendenza, servitus, coactae atque servilis operationis obsequium (IV,11,149), ma privilegium dominationis (IV,8,87), ius generationis, munus largitatis (IV,11,146); non ex dono quasi servus, sed ex generatione proprietate quasi Filius (V,2,36). Le scarne analisi delle distinzioni personali e delle relazioni trinitarie allinterno dellunica natura (cf. ad es. IV,7,72-8,91 e V,3,42, ove si afferma: Non est unitas, ubi est diversitas), comunque tendono a concludersi potentemente, autoritativamente, dogmaticamente con laffermazione della subordinazione al mistero, piuttosto che prolungarsi nellindagine razionale, dunque filosofico-dialettica, delle cause: Distinctionem scire, secreta nescire, causa non discutere, sacramenta servare (IV,8,91; cf. IV,9,111,

sulla pretesa ariana di indagare larcano con analogie materiali). Lo stesso progresso nella conoscenza di Cristo, dalla sua umanit umile alla sua divina, assoluta potentia, si compie nellatto teologico-politico del rendere omaggio, honor (V,5,70), riconoscendo la differenza tra la potenza della natura, la plenitudo maiestatis (V,7,91) nella quale il Padre e il Figlio si amano (vivendo di una naturalis et individua caritas: V,7,92), e il dono della grazia, attraverso il quale gli uomini sono chiamati a un progresso di una virtus non ontologica, ma sopravvenuta, quindi a sottomettersi umilmente alla Trinit che li sovrasta come potenza assoluta: Alius igitur naturae amor sempiternus, alius gratiae (V,7,90):
Quod si ille secundum plenitudinem maiestatis suae perfectus est, nos autem perfecti secundum virtutis accedentis profectum, etiam Filius diligitur a Patre secundum semper manentis plenitudinem caritatis, in nobis autem caritatem Dei virtutis emeretur profectus (V,7,91).

La dialettica onnipotenza/kenosis torna, pertanto, cristologicamente identificata nella distinzione (derivata da Atanasio) tra dimensione gloriosa, dominatus del Figlio e servitus del corpus assunto (V,8,103); distinzione di alia, riconciliati nel potentissimo mistero dellincarnazione: Aliud igitur est secundum divinam substantiam, aliud secundum susceptionem carnis Filium nominari (V,8,107). Ma la paolina forma servi, identificata con la plenitudo perfectionis humanae, significativamente identificata con la plenitudo oboedientiae (IV,8,109); come se il dispositivo imperiale trovasse proprio nel kenotico farsi carne morta del Figlio il suo paradossale culmine glorioso. Lerrore ariano sta proprio nel confondere gloria della potenza e servit dellobbedienza (cf. V,8,115), degradando tutto Dio alla miseria delluomo, negando la divinit del mediatore, introducendo unintollerabile differentia divinae potestatis (V,8,116), quindi sovvertendo perversamente la dovuta, assoluta subordinazione della creatura al Creatore. La dialettica cristologica tra onnipotenza e kenosis viene significativamente ad essere verificata sul tema della consegna escatologica del regno al Padre, a partire da 1Cor 15,28, testo di difficilissima normalizzazione nicena, se non sottolineando che al tempo stesso il Figlio depone il suo potere sul regno in quanto uomo e lo conserva pienamente in quanto Dio: cf. la lunghissima trattazione in V,12,148-16,193, che tratta insomma del rapporto teologico-politico tra potere e sottomissione. Il contesto assai interessante perch ancora governato da rapporti di potere politico: sottomissione, servitus, honoreficentia, unitas potestatis vengono simul connesse e distinte, in polemica contro lariana sacrilega discretio (V,12,149). Infatti, in uno regno unitas potestatis est. Nemo igitur divinitatem inter Patrem et Filium secernat (V,12,153); in quanto Padre e Figlio hanno unum Dei nomen et ius (V,13,154). La sottomissione del Figlio quindi universale sottomissione della carne, quindi delluomo Ges e delle creature tutte (cf. V,14,171-182), divenute in lui regnum (Nos sumus regnum: V,12,150) consegnato a Dio-Trinit. Come precisa Ambrogio stesso, lintero De fide si concentra pertanto su questa affermazione: Conclusionem igitur totius absolutionis breviter colligamus. Unitas potestatis opinionem iniuriosae subiectionis excludit (V,15,183); Cristo, pure crocifisso, realizza da triumphator la evacuatio potestatum (Col 2,15) e la victoria sulla morte (V,15,183). Il mistero della redenzione mistero di trionfo imperiale sulle potenze avverse, di gloria e di esaltazione; ma senza che la kenosi e loboedientia che questa comporta diminuiscano il suo immutabile possesso dellassoluta potestas divina. Al punto che Ambrogio arriva ad affermare, con una formula teologica senza dubbio ardita e potente, che nec voluntas ante Filium nec potestas (V,18,224). La lunga invocazione finale (V,19,228-238) al Padre, di cui si confessa lincomprensibilit, pu pertanto concludersi scagliando contro Ario, colpevole di degradare il Figlio guardato soltanto con gli occhi della carne, lapocalittico oracolo di distruzione del principe di Babilonia di Isaia 14 (V,19,238), figura teologico-politica negativa della signoria onnipotente di Dio. Un pensiero imperiale della Trinit capace di sintonizzarsi con la logica della regalit messianica giudeocristiana non pu non concludersi con lannientamento dellingiusto, superbo nemico. Il De obitu Theodosii (395) Per dimostrare quanto strutturale e persistente nel pensiero ambrosiano sia lanalogia tra categorie teologiche e categorie politico-imperiali e quanto coerente la retractatio, il toglimento dialettico di queste in quelle, di straordinario interesse unopera assai pi tarda: il discorso funebre pronunciato da Ambrogio il 25 febbraio del 395 in onore del clementissumus imperator Theodosius (1). Laffermazione iniziale mi pare capitale: con la sua morte, egli regnum non deposuit, sed mutavit (2); iure pietatis, colui che ha regnato in terra, qui subplantavit perfidiam tyrannorum, qui abscondit simulacra gentium (omnes enim cultus idolorum fides eius abscondit) (3), accolto come cittadino dalla Gerusalemme celeste, la civitas Dei (2). Cos, Teodosio trasmette ai suoi figli regnum, potestatem, nomen Augusti, lascia indulgentiarum hereditas, cumulus gratiae,

testamentum..., lex indulgentiae (5). Evidentemente, lidentit cristiana di Teodosio lo spinge a cercare di adeguare lintera sua attivit di governo alle trascendenti perfezioni della civitas Dei, che diviene il suo modello politico, in un complesso movimento circolare di imperializzazione del regno di Dio e di cristianizzazione dellimpero; al punto che Ambrogio pu esaltare Teodosio che cavalca alla testa del suo esercito in battaglia, mettendogli in bocca linvocazione: Ubi est Theodosii Deus?, sottolineando come fosse ormai Christo proximus, pure muovendo guerra, mentre excitavit omnes, exemplo omnes armavi, validus fide (7). In tal senso, la fede cristiana di Teodosio diviene garanzia della potenza dellimpero e della fortuna dei suoi figli: Theodosii ergo fides fuit vestra victoria (8); lhereditas fidei (8), ovviamente quella della fede ortodossa, il pi importante e potente valore lasciato da Teodosio ai propri figli Onorio e Arcadio. Potente, capace anche di far trionfare in guerra, come Ambrogio prova tramite il riferimento scritturistico a 4Re 6,13-20: lexercitum infidelium accecato da Dio; ubi autem fides, ibi exercitus angelorum est (8). Si noti lesaltazione del rapporto virtuoso e cristianamente illuminato tra potestas e gratia, punizione e perdono: Teodosio quellimperator, quem potestas ad ulciscendum inpellit, sed revocat tamen ab ultione miseratio (12). Come si rilevava, evidente, in questa dialettica tra grazia e potere, la circolarit tra logica imperiale e logica cristiana: la prima simul causa ed effetto della seconda; lonnipotenza divina rivela la traccia di una concezione imperiale del potere, che trova nella gratuit della misericordia la sua pi autentica ragione, cristianamente illuminata: Quantum, igitur est deponere terrorem potentiae, praeferre suavitatem gratiae (12). La restituzione del profilo psicologico di Teodosio quindi teologicamente governata: colui che in quanto imperator deteneva supra omnes potestas (13), era pronto allira, ma capace di ritrattarla in misericordioso perdono (cf. 13-14); Vincere enim volebat, non plectere, aequitatis iudex, non poenae arbiter, qui numquam veniam confitenti negaret (13). Allinterno di questa laus clementiae imperialis (14), la logica della religio, quindi della misericordia, prevale su quella del timor (13). Non soltanto per motivi morali, ma soprattutto per motivi politici. Quello che mi piace definire ambrosianesimo politico, capace di pensare un inedito assetto teologico-politico (lo vogliamo definire neo-niceno-costantiniano, sottolineando la relazione tra dottrina trinitaria e dottrina del potere, come la nuova, occidentale restituzione dellautorit imperiale teologicamente garantita, eppure retractata?), dicevo questo ambrosianesimo politico prevede la subordinazione della potestas imperiale alla suprema potestas divina, mediata dal vescovo. I giovani figli di Teodosio devono appoggiarsi alla fede ortodossa, quindi al vescovo che ne linterprete, per ottenere misericordiosamente da Dio maximum praesidium (15); soltanto il teologico-ecclesiastico la garanzia del politico, come Ambrogio ricorda tramite gli esempi non a caso veterotestamentari di Giosia (2Re 22,1-23) e Asa (1Re 15,9-24; 2Cronache 14,1-16,14). Cos, Teodosio, proprio perch ha amato e ha avuto misericordia (cf. 17: Et vere dilexit qui officia diligentis implevit, qui servavit hostes, qui dilexit inimicos, qui his, a quibus est appetitus, ignovit, qui regni adfectatores perire non passus est), viene assunto nella citt celeste, di Colui qui misericordiam defert (21). Ne deriva la subordinazione per retractationem, per katavrghsi del potere imperiale al potere divino; limperatore che vince e trionfa nel mondo deve, per entrare nel regno dei cieli (ma, evidentemente, anche per potere mantenere il suo potere terreno), sottomettersi alla potestas suprema di Colui che concede la vittoria: quam tamen non suis viribus, sed Domini auxilio novit sibi esse donatam. Non enim potuisset vincere, nisi eum qui certantes adiuvant invocasset (23). Abbiamo sopra insistito sulla strutturale connessione tra teologica trinitaria dellonnipotenza e teologica della kenosis, come sul rapporto tra teologia della gratia dellonnipotente e spiritualit dellhumilitas. I paragrafi 24-39 del De obitu Theodosii sono in tal senso impressionanti: soltanto il Domini nomen capace di portare soccorso al miser homo (24), che limperatore! Questi deve pregare, in quanto ille vincit, qui gratiam Dei sperat, non qui de sua virtute praesumit (25); e la misericordia di Dio cinge e vince la sua stessa iustitia Superabundant enim peccata, superabundet ergo misericordia (25); ove la misericordia , comunque, vera giustizia (26), in un saldarsi tra logica della donazione e logica del governo e della legge teologico-politici, che impone lhumilitas come unica, sottomessa relazione allOnnipotente (cf. 27-28). Levento capitale della penitenza imposta da Ambrogio a Teodosio per la strage di Tessalonica torna come prova dellumile sottomissione dellonnipotente terreno allOnnipotente celeste, rappresentato dal vescovo (cf. 27-28, con la connessione Davide-Teodosio, e soprattutto 34): Stravit omne insigne regium, defluit in ecclesia publice peccatum suum (34); ma il vescovo preoccupato per tutte le creature affidategli da Dio, Ambrogio colui che guida, accoglie limperatore, conducendolo sino allingresso nel regno eterno di Dio (cf. 36-37). Grazie ad Ambrogio, strumento di Dio, manet ergo in lumine Theodosius et sanctorum coetibus gloriatur (39); nella Gerusalemme celeste, Teodosio abbraccia Graziano, di cui il vendicatore provvidenziale (39): Illic bonus uterque et pietatis interpres largus misericordiae suae consortio delectantur (39). E

soltanto nella Gerusalemme celeste questa laffermazione veramente impressionante, ove davvero si realizza la katavrghsi del potere imperiale romano Theodosius regnare cognoscit, quando in regno est Domini Iesu et considerat templum eius. Nunc sibi rex est quando Constantino adhaeret (40), ricongiungendosi con larchetipo di quella che , per Ambrogio, lispirata retractatio cristiana del potere imperiale. Costantino, primus imperatorum credidit et post se hereditatem fidei principibus dereliquit (40), definito beatus (41). Lorazione di Ambrogio ospita, allora, un lungo, seppure obliquo encomio dellimperatore Costantino, significativamente celebrato tramite le lodi della madre Elena (cf. 41-51), donna di umilissime origini, stabularia innalzata da Dio de stercore ad regnum (42), quindi ispirata dal suo Spirito, paragonata persino a Maria (cf. 44 e 46), capace di rivoluzionare lidentit dellimpero romano (40; cf. 47-48), mettendolo sotto la protezione di Dio, capace di far trionfare Costantino anche in guerra: Beatus Constantinus tali parente, quae imperanti filio divini muneris quaesivit auxilium quo inter proelia quoque tutus adsisteret et periculum non timeret (41). Con la narrazione del rinvenimento della vera croce da parte di Elena, si esalta la subordinazione della testa dei re alla croce di Cristo (48), al chiodo che diviene simbolico morso del cavallo del potere asservitosi al regno di Dio, ut imperatorum insolentiam refrenaret, comprimeret licentiam tyrannorum (50). Il chiodo della croce diviene cos il nuovo, paradossale scettro dellimpero, passato dalla persecutio alla devotio (47), sicch bonus itaque Romani clavus imperii, qui totum regit orbem ac vestit principum fontem (48). Dunque, la liberalitas di Cristo che concede agli imperatori, con la iusta moderatio, la loro stessa legittimazione (48); da Cristo che il potere dipende, cui regna famulantur, cui servit potestas Ferro pedum eius reges inclinantur Susceperunt frena devotionis et fidei Inde Gratianus et Theodosius (49 e 51). Il trionfo celeste di Teodosio che ascende nel regno di Dio ritratta in s il trionfo imperiale terreno, ombra e tipo del suo archetipo trascendente (56): Nunc illi Theodosius potentior, nunc gloriosor redit, quem angelorum caterva deducit, quem sanctorum turba prosequitur (56). Esemplari, poi, due affermazioni, una dellesordio della celeberrima Epistula 17 a Valentiniano II, la prima dedicata alla questione dellaltare della Vittoria; laltra dallEpistula 2 a Teodosio; in entrambe, soltanto la sottomissione a Dio fonda la virtus e la potenza romano-cristiana:
Cum omnes homines qui sub dicione Romana sunt vobis militent imperatoribus terrarum atque principibus, tum ipsi vos omnipotenti Deo et sacrae fidei militatis (Ep 17,1); Vere Dominus propitius est imperio Romano, quandoquidem talem principem et parentem principum <e>legit, cuius virtus et potestas in tanto imperii triumphalis constituta culmine, tanta sit humilitate subnixa, ut virtute imperatores, humilitate sacerdotes vicerit (Ep 2,6).

Si compie cos quella rivoluzionaria retractatio teologica, in una minorizzazione e (sia detto en passant) secolarizzazione (nel senso della negazione di qualsiasi autonomia sacrale) del dedivinizzato potere assoluto romano; retractatio che comunque si riflette in una romanizzazione della nozione del Dio trinitario. Lambriosanesimo teologico il rapporto di tendenziale subordinazione del potere terreno ad un potere sacro che solo lo legittima mi pare la conseguenza di questa rilettura (gi tertulliana e lattanziana, in particolare) della nozione di Dio come onnipotente, come volont assoluta di ordine, legge, mediazione, donazione, grazia. Lambrosianesimo teologico si compirebbe, pertanto, in questa imperializzazione della nozione di essere, cristologicamente convertita in kenosi, capace di svuotare qualsiasi presunto potere mondano; come se la logica di ogni potere terreno fosse soltanto quella dellessere svuotato/dello svuotarsi. Qualsiasi potestas non retractata, non svuotata di autonomia, non sottomessa fuori gioco, empia, divisiva e distruttiva. Lunica garanzia di legittimit del potere terreno diviene cos lassoluta omnipotentia trinitario-kenotica, ingrata eredit che toglie in s lideologia romana e imperiale di assoluta potenza e di misericordiosa tutela dei sottomessi e degli umili. Gaetano Lettieri Sapienza Universit di Roma

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